"I testamenti raccontano" (serie di 17 cartelloni), elaborato dalla classe 4 B (anno scolastico 2013-2014) del Liceo Scientifico Statale “Bertrand Russell” di Garbagnate (Milano), con la guida del prof. Paolo Ermano - percorso tematico: “Visitare Hospitali, carcerati et aiutare li poveri vergognosi": uno sguardo nella vita di alcuni benefattori del Luogo Pio di Loreto tra il XVII e il XVIII secolo.
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I testamenti raccontano
1. Le fonti d'archivio utilizzate sono i testamenti di quattro benefattori e una benefattrice, vissuti tra il XVII e il XVIII secolo,
che indicano loro erede universale il Luogo Pio di Loreto. Dai documenti sono state individuate alcune tematiche, che la
classe, divisa in gruppi, ha approfondito, utilizzando anche altre fonti e testi reperiti in biblioteca o in rete.
Perché tanta attenzione ai cosiddetti poveri vergognosi? Si deve risalire al milanese sant'Ambrogio. La carità è virtù
teologale e assume più valore se rivolta a persona declassata che, proprio per il passato decoro, non può confondersi col
questuante di professione, il vizioso, altresì detto poltrone, ma va aiutata con la necessaria discrezione. La condizione di
povertà vergognosa, della quale esisteva una specifica iconografia, divenne, però, con l'affermarsi della mentalità che
giudicava l'incapacità di produrre denaro, sinonimo di inettitudine e parassitismo.
Una ricerca ha seguito i gesuiti e la conseguente diffusione del culto lauretano a Milano. Partendo dalla leggenda della
Santa Casa, trasportata dagli angeli da Nazareth fino a Loreto, abbiamo ricostruito alcuni momenti del progressivo affermarsi
dell'ordine in città; col sostegno ricevuto da San Carlo per la direzione del Seminario milanese, ma anche dello scontro
sociale che essi innescarono. L'Ordine divenne infatti un riferimento per i nuovi ceti mercantili, opposti al patriziato che si
riconosceva in Carlo Borromeo. L'analisi degli Statuti della Congregazione ci mostra l'impegno nelle opere di carità verso
vergognosi, carcerati, pubbliche peccatrici, cui va aggiunto il potere dovuto all'ingente valore delle donazioni, che servirono
anche a disinvolte pratiche commerciali (compravendita di case, terreni, acquisto di titoli), giudicate, dalle autorità
ecclesiastiche, poco coerenti con lo spirito gesuitico iniziale, fondato sull'obbligo di povertà.
Un'altra ricerca ha riguardato il testamento nuncupativo, la fonte più utilizzata, e il notaio, la figura professionale che,
seguendo una specifica procedura, lo redigeva. Sono stati approfonditi poi alcuni aspetti, sempre in ambito milanese, delle
altre professioni citate nei testamenti: mercanti, guantai e profumieri, chirurghi e barbieri.
A partire dalle numerose presenze di donne nei testamenti (mogli, parenti, monache, conoscenti, serve) sono stati esaminati
diversi aspetti relativi alla condizione femminile. La benefattrice Margherita Bonicelli, vedova di un commerciante e
usuraio, è un esempio di autonomia e indipendenza. Ella continuò entrambe le attività del marito; il suo secondo matrimonio
fu dovuto alla necessità, per le leggi del tempo, di garantirsi una sorta di prestanome per le proprie attività commerciali.
Interessanti anche le relazioni con le altre donne citate nel testamento, parenti del primo marito e di condizione economica
inferiore.
Le donne sole: nubili, vedove e malmaritate; secondo gli Statuti milanesi godevano di pochi diritti rispetto alla proprietà,
inoltre per le vedove, a parte i beni parafernali, un nuovo matrimonio comportava la perdita dei beni ereditati dal coniuge.
Interessante, per quanto concerne il lavoro femminile, la situazione delle serve, presenti nelle fonti per piccoli lasciti. Il
lavoro servile era spesso finalizzato alla dote e le congregazioni di beneficenza, oltre ai lasciti testamentari, potevano contare
annualmente su cospicue somme da destinarsi a putte povere timorate e meritevoli. La dote era la condizione fondamentale
per accedere al matrimonio ed evitare così forme di mantenimento degradanti e illecite.
L'alternativa dignitosa al matrimonio era il monastero; nei testamenti si ricordano molte monache che ricevono delle
somme per il loro mantenimento. Tale condizione era, nei ceti elevati, la soluzione naturale per le figlie non destinate al
matrimonio; ciò rendeva i monasteri dei luoghi dove la vocazione e la devozione non erano la norma. Il problema delle
monacazioni forzate e della corruzione delle religiose era diffuso, ben presente anche alle gerarchie ecclesiastiche le cui
aspre condanne cedevano di fronte alle strategie patrimoniali delle famiglie, che non ammettevano deroghe.
Nel testamento di Claudio Balli si nomina la Pia Casa di Santa Valeria, alla quale è destinata una somma per il
mantenimento di donna di pubblico scandalo che ravveduta de' suoi trascorsi, voglia ritirarsi in detto Monastero e nel caso di
più concorrenti si deve scegliere la più giovane, e la più avvenente, la quale sia in caso di dar maggior scandalo, e far
peccare il prossimo. Abbiamo quindi ricostruito brevemente l'origine e le finalità del Ritiro di Santa Valeria e, sempre in
merito al fenomeno alla redenzione di donna che per sua disgrazia si sia data in preda al peccato, un'altra istituzione
altrettanto famosa all'epoca: il Deposito di San Zeno. Illustre ospite di Santa Valeria fu Marianna de Leyva y Marino, alias
Suor Virginia Maria, alias Gertrude la Monaca di Monza.
E per finire vi invitiamo a ... fà el gir di sètt ges!
Piazza Cordusio, centro delle attività politiche ed economiche.
Le informazioni sono quasi sempre riferite al contesto milanese.
LICEO SCIENTIFICO RUSSELL
GARBAGNATE M. A.S. 2013 - 2014
D O C E N T E
P A O L O E R M A N O
A L L I E V E e A L L I E V I
C l a r i s s a M a c c h i
D a v i d e B a s i l i c o
N i c o l a s C a r l o n e
M a r c o M a g g i
E d o a r d o M a l e r b a
J a c o p o R i z z i
J a c o p o S t r a d a
M a t t i a A u r i g h i
G a b r i e l e C o n s o n n i
Ema n u e l e L e o n i
M i c h a e l L o v i g l i o
G i a n l u c a M u s a r r a
M a r c o M u s c a
F a b i o S i c o r e l l o
C a r o l i n a B e z z i
L u c i e F e r r e t t i
L a u r a G a z z o l a
I r e n e G i n i
C ami l l a M a r e t t a
S a r a T o n i u t t i
G r e t a V a r a n o
M a r i a c r i s t i n a
V i c a r i o
F e d e r i c a Z a n e l l a
F r a n c e s c o A b b i a t i
I r e n e D ' a l o i a
O t t a v i a L amb e r t i
2. GIUSEPPE ALBERTARIO
Figlio di Ambrogio (+ 12 febbraio 1703)
Test. il 4 febbraio del 1701.
Sposato con Barbara Tacca, ebbe un fratello, Francesco Albertario,
e due sorelle, Margherita, Colomba e Paola, delle quali una gli
diede un nipote, Luca Vertua. In casa viveva una serva, Isabella,
alla quale nel testamento lasciò una somma di denaro. Lavorò
come chirurgo barbiere; possedeva una bottega dove lavorava
anche un giovine al quale lasciò i suoi attrezzi; inoltre esercitava la
professione di chirurgo nelle case.
Al momento della stesura del testamento era già infermo da alcune
settimane.
Documento manoscritto che fotografa un momento
dell’attività di Albertario, 12 febbraio 1703
Ordinazione fatta dalli signori abbati e sindaci
dell’Università de’ barbieri e chirurghi di Milano ad
istanza del signor Giuseppe Albertario con la quale
hanno dichiarato che Francesco Ferri paghi al detto
Albertario filippi cinque di netto oltre tutto ciò che possa
essere stato pagato per l’addietro e ciò per le cure e
visite dal detto Albertario fatte alla moglie di detto Ferri.
Copia autentica estratta dal libro delle ordinazioni del
signor Federico Maggi notaio di Milano e cancelliere di
detta università
FRANCESCO PECCHIO
Conte, figlio del fu Cesare (+ 1773).
Il titolo gli fu conferito dall’imperatore Carlo VI.
La sua fede cattolica appare nel testamento (1717)
come unico vero valore. Gentiluomo, già in vita
molto benevolo, come dichiara nella richiesta del
titolo,viveva delle sue entrate. All'età di
sessantacinque anni, senza moglie (Girolama
Pianni era stata la sua consorte ) né figli, volle
avere un titolo onorifico: conte senza obbligo di
prendere feudo.
CLAUDIO BALLI
Oriundo di Tur (oggi La Tour) del Ducato di Savoia si trasferì a
Milano, dove si sposò con Anna Maria Arletti ed ebbe dei figli. Fu
compossessore della chiesa di San Fedele, attivo e presente in
numerose congregazioni religiose della città. Da più di un
decennio abitò nella città di Milano, ove acquisì la cittadinanza,
che gli permise di svolgere la sua attività di profumiere e
pellettiere. La cittadinanza gli fu concessa il 12 settembre 1691,
così il nome originario, Claude Bailly, fu italianizzato in Claudio
Balli.
Vestrae servus fidelis tamquam quis ultra
decennium habitavit in hac Mediolani civitate...
Carlo Secondo per grazia di Dio re di Spagna e delle
due Sicilie e duca di Milano. Claudio Balli ci ha
inoltrato la seguente supplica (...) servo fedele della
Maestà Vostra, tanto che da più di un decennio ha
abitato nella città di Milano, essere considerato nel
novero dei concittadini della sua città e godere dei loro
privilegi, per la qual ragione si è rivolto umilmente alla
Maestà Vostra, pregando si degni di dichiarare con sue
lettere patenti, provata la detta residenza per oltre un
decennio, che il supplicante ha acquisito il diritto di
cittadinanza in questa città di Milano e quindi possa
stipulare, sciogliere, acquisire, comprare, vendere,
alienare e operare in tutto il resto e commerciare, tanto
per via giudiziaria che senza, in tutto e per tutto come
possono fare i veri cittadini e abitanti e originari della
predetta città….
LOMAZZI GIOVANNI
Lomazzi Giovanni Pietro q. Melchione (1650-1713), sposato con
Maddalena Pusterla nominò erede universale la Congregazione di
Loreto con l’obbligo di erogare annualmente lire 3.600 di
imperiali in doti di lire 300 l’una e il resto dei redditi in sussidi «a
poveri vergognosi conforme il stile et solito di detta veneranda
congregazione e loco pio» (Testamento 1 aprile 1681). Il Lomazzo
fu un ricco mercante che aveva negozio in Milano nella contrada
del Cappello. La sua eredità comprendeva: una casa al Ponte dei
Fabbri in Porta Ticinese del valore di lire 24.000, una casa in Porta
Ticinese, parrocchia di S. Ambrogio in Solariolo, (di lire 24.000),
un'altra in Porta Ticinese (di lire 20.000) e due con botteghe nella
contrada del Cappello del complessivo valore di lire 26.000. Fra i
beni immobili e mobili, il Luogo pio eredita alla morte del
Lomazzo, avvenuta nel 1682, un patrimonio ascendente a lire
209.425, fruttante annualmente lire 7.019,10.
Quietanza 1669 al 31 dicembre
Si è rogato instromento sotto il giorno d’oggi da
Nicolo Magno publico notare di Millano et causidico
collegiato dal quale appare che il signor Pavolo
Regibus ha receputo lire 3.000 in vero et real deposito
et in prestito con obligo di restituirli al signor
Giovanni Pietro Lomazzo ad ogni sua richiesta e tra
tanto sino che segua l’effetiva restituzione delle
suddette lire 3.000. Pagare il cinque per cento.
DUE RITRATTI DEL CONTE PECCHIO
Dardanone Gaetano post 1733: pittura, olio su tela 118,8 cm x 209,4 cm Milano,
Raccolte d'Arte dell'Ospedale Maggiore.
Pittore lombardo, quarto decennio del XVIII secolo.
In entrambe le rappresentazioni il Conte è ritratto vicino ad un tavolo mentre
indica i fogli del testamento.
Nei dipinti sono sottolineati dei tratti tipici della nobiltà: il parruccone, la marsina
svasata e decorata con bottoni fermati in ampie asole e, infine, l'abbondante
camicia.
La posizione assunta, un po' civettuola, è molto simile, differente invece la
postura. Nel dipinto dell'Ospedale, a destra, viene sottolineata la figura: entrambi
i piedi sono rivolti verso l’osservatore, la schiena è dritta e rigida; nell'altro
ritratto, probabilmente derivata dalla precedente, ci appare più nelle vesti di
benefattore che di Conte, si mostra una posizione più inclinata, un piede è
seminascosto dal tavolo, e indica con più enfasi lo stesso testamento; infine, nel
viso quasi privo di espressività, appare un lieve sorriso.
3. VERGOGNA ALTRO NON ESSER
CHE TIMOR D’INFAMIA
Da questa definizione di Aristotele è derivato nei secoli cristiani il
concetto di povero vergognoso.
ORIGINE CONCEZIONE NEL CRISTIANESIMO
La prima critica nei confronti dei poveri vergognosi la muove
Sant’Ambrogio di Milano nel De officiis:
“Sei colpevole se un fedele vive nel bisogno senza che tu provveda
[…] è meglio che anche tu aiuti i tuoi, che si vergognano di
chiedere ad altri”.
Quando si dà bisogna considerare il pericolo di fraudolenza, l’età ,
la debolezza e talora la vergogna; il fedele dovrà quindi “vedere
chi non lo vede, cercare chi si vergogna di essere visto”.
La compassione è il motore che muove a fare l’elemosina ed è
maggiore verso i nobili e i ricchi che la sventura ha gettato nella
miseria.
Pier Damiani, Dottore della Chiesa, dà questa definizione di
povero vergognoso:
“Uomini di nobile condizione oppressi dall’indigenza, tormentati
dalla povertà” [ incapaci di mendicare, e per questo] “la loro
indigenza deve essere compresa più che vista”.
SOLIDARIETÀ TRA GLI STESSI CETI
Dai verbali della Scuola di Martino fondata a Ferrara nel 1491 per
poveri vergognosi, troviamo un senso di identificazione
corporativa fra membri diversamente fortunati del ceto dominante
(dottori, mercanti, notai). Si ritrovavano in una sorta di concetto
non corporeo di parentela, uniti anche dalla ugual sorte a cui
potranno andare incontro, come definisce Juan Luis Vives nel
1525.
DUE TIPI DI VERGOGNOSI
C'è un problema che ricorre sempre, ovvero marcare quella linea
netta che deve differenziare chi merita e da chi se ne approfitta.
“ Veri vergognosi s’intendono essere li gentiluomini che han
sempre vissuto civilmente, a cui si darà una elemosina
conveniente poiché essi si vergognano di domandare”.
La seconda categoria è quella di coloro a cui “non è molta
vergogna”. Anche a Firenze nel 1622 i Buonomini disquisiranno
su cittadini considerati “più vergognosi”, “con la maggior
vergogna”.
Il processo si consolida a Bologna nel 1641 con la dichiarazione di
quali siano i veri vergognosi, ai quali si debba sovvenire e quali
siano necessitosi ma non vergognosi. Da questa riforma abbiamo
una definizione ancora più restrittiva di povero vergognoso, in
quanto considerati:
“ vergognosi sono i gentiluomini, cittadini, mercanti ricchi, e più
anche gl’artefici padroni di buoni capitali d’arti onorate e non
vili, i quali con le loro facoltà sono vissuti
per il passato sempre bene e onoratamente
e poi sono caduti in povertà non per causa
dolosa”.
LA VITIOSA VERGOGNA
Annibale Pocaterra , filosofo e poeta del
1500, discute le alterazioni della vergogna
nell’opera Due dialogi, in quanto essa
rende gli uomini “effeminati e stupidi”
segno di milensa e dissipita bontà. Il
filosofo prende ispirazione da Plutarco che
aveva dedicato un intero trattato morale “
De vitioso pudore” alla stessa tesi che viene
però semplificata come rivendicazione del
proprio ruolo in società, e orgoglio in una
cultura competitiva e maschilista. Pocaterra
aggiunge inoltre che “male sta la vergogna
nel povero e necessitoso”.
Nel 1600 l’interpretazione del Pocaterra
verrà condivisa in una commedia di Tirso
Molina, in cui il giovane protagonista viene
deriso dalle donne proprio per un senso di
vergogna eccessivo.
LE TRUFFE
I secoli d'oro dei vergognosi sono anche i
secoli d'oro del sospetto. Che siano proprio
la segretezza e i privilegi a rendere gli
inganni appetibili e praticabili? Truffe ,
inganni crescono attorno ai poveri
vergognosi sin dal Medioevo, ma la
fioritura piena è della prima Età moderna.
Il già citato Vives, filosofo del 1500, nella
sua opera De subventione pauperum,
suggerisce al Senato la necessità di svelare le identità, così da non
generare il sospetto; purché non sia “tanto grande la dignità del
povero da esentarlo da simile vergogna”.
Gasparo Contarini, vescovo del XVI secolo, ha mostrato il timore:
“che alcuni sfaccendati, profittanto delle copiose elemosine, si
diano all'ozio come capita spesso”.
Analogamente la Società della Carità di Verona ammonisce:
“dove se procura proveder alle miserie de vergognosi , non si
nudrisca poltronaria”.
È evidente quindi il problema di conciliare la segretezza coi
controlli di merito e col rigore amministrativo. Sembra un
paradosso, ma, per i vergognosi, esser conosciuti è requisito
preliminare per poi divenire anonimi; i poveri comuni,al contrario,
vanno nominati, schedati, obbligati al contrassegno.
LA SCOMPARSA DEI POVERI VERGOGNOSI
L'Età napoleonica portò alla soppressione e alla centralizzazione
delle istituzioni assistenziali. Lo spirito dell'epoca è riassunto dalle
considerazioni del sacerdote Luigi Morandi contenute nell'Opera
de' vergognosi, in cui li definisce come :
“stabilimento aristocratico ordinato a mantenere la differenza dei
ranghi […] che non uguaglia il sovvenimento al bisogno ma al
comodo e alle decenze e conduce all'inerzia del vivere senza far
nulla“.
Già nell'Illuminismo però vengono criticati dal radicalismo
mercantilista., tanto che Antonio Genovesi, insegnante di
economia civile a Napoli, li descrive così:
“ Non vi è nel mondo persona di niuna condizione che non possa
onestamente esercitar qualche mestiero […] La sola poltroneria
mi pare la più vergognosa di tutte le professioni”.
Cambia la mentalità, vergognoso diventa sinonimo di ozioso.
Molte opere pie risorgono nel periodo del Risorgimento, ma non
tutte, e spesso quelle per i vergognosi non vengono ricostituite,
anzi, se risorgono, lasciano trasparire una riduzione di capacità
operative e finanziarie.
Milano in questo, costituirà però un'eccezione: nel 1830 si
soccorreranno ancora, con 58.000 lire, ben 573 famiglie
vergognose “a cui non può convenire di presentarsi
pubblicamente”.
L'ultimo verbale di patrocinio per iniziative analoghe lo abbiamo
nel 1881: a Lucca il Conte Cesare Sardi fondò un'opera dei
vergognosi in quanto essi hanno “diritto di vivere”.
CONSEGUENZE
Nella società tendenzialmente borghese dell'Ottocento verranno
meno le ineguaglianze giuridiche, mentre la rottura delle
solidarietà di ceto sottoporrà l'individuo all'impersonalità della
legge economica. Il lavoro troverà la sua piena legittimazione, e il
denaro s'imporrà come l'unico fattore di stratificazione sociale.
Lorenzo Lotto, l’elemosina di Sant’Antonino
Venezia, Chiesa SS. Giovanni e Paolo, 1542
La parte alta della tela è occupata da Sant’Antonino in trono fra putti e angeli,
intento a leggere una pergamena; sotto troviamo due diaconi intenti a raccogliere
le petizioni e distribuire monete ai poveri. Fra questi si notano alcune donne che
non si sbracciano per ricevere il denaro e consegnare le petizioni, anzi si coprono
il viso con veli scuri. Queste figure rappresentano i poveri vergognosi.
Cesare Vecellio
Vergognosi, In Habiti antichi e moderni, 1598
Pobero gentiluomo, Padova, Museo civico
Solo chi sia stato ricco può avere la licenza di vestirsi con il
caratteristico abito dei Poveri Vergognosi. Questo è un sacco
“tutto rappezzato” completato da “pianelle (calzature) rotte”
con un cappuccio, che ha “due fori con i quali vedono e non
sono veduti”, infine “portano in mano un cartoccio da ricevere
le elemosine, le quali dimandano più tosto con i gesti che con
le parole”.
L’iconografia contribuì a diffondere la credenza che l’idea di
povertà si connette a quella di vergogna.
4. PERCHÉ L’ELEMOSINA?
Definita come atto di carità regolato sulla libera e gratuita
communicatio honorum , frutto di una relazione libera e
disinteressata tra le parti, nei confronti di individui considerati
poveri.
Questo è e deve essere considerato problema sociale che sollecita
un comportamento caritatevole. Inoltre l’atto di carità rende
virtuoso il donatore: infatti ai ceti abbienti piace assai esser più
generoso che giusto.
A CHI DESTINARLA?
In primis: infermi, vedove, orfani, prigionieri, e ... i poveri
vergognosi, ossia i nobili declassati, privi dei mezzi per ostentare il
loro status. Si consideri pure il disprezzo umanistico per la povertà:
Mendicar mi fa vergogna!
DUE BUONI MOTIVI PER
ESSERE GENEROSI
Il primo è la difesa della propria
casata, di consorterie, e di
rapporti clientelari. In questo
modo si avvia un processo di
razionalizzazione e
centralizzazione dell’attività
assistenziale. Il secondo è il, già
citato, vantaggio spirituale:
quanto più si fa del bene tanto
più si diventa virtuosi.
NASCITA DELLE ISTITUZIONI
Con la diffusione di questa pratica iniziarono a nascere, anche per
tutelare l’elemosiniere e garantire la destinazione dei propri
capitali, Ospedali, Case Pie e Monasteri e naturalmente
Congregazioni,come il Luogo Pio Loreto di Milano.
Tutte le pratiche di
elemosina si trovano
registrate da Frate Paolo
Morigi nel Tesoro Precioso
de’ Milanesi” del 1599.
Lo stesso Morigi presenta il
un bizzarro paragone tra
usura e elemosina.
5 CATEGORIE DEI POVERI: SECONDI I VERGOGNOSI
Quanto a chi vada distribuito, non è dubio ch’egli ha di essere a’
poveri, ma si ponno ridurre essi di cinque sorti, cioè poveri
manifesti, vergognosi, di congregationi, pelegrini e forastieri, e
tristi che fanno l’arte per furfanteria.
Li primi sono genti per lo più nate, et allevate poveramente,
alcuni de’ quali sono del tutto impotenti a guadagnarsi da vivere;
altri hanno bisogno di essere in parte sovenuti et altri ve ne sono
talmente inetti, ma poltroni che non sanno, o non vogliono
lavorare anchora che possino;
li secondi per lo più sono persone già statte di qualche honeste
qualità, per vani eventi
fatte povere, et questi
tali sono tra tutti
degnissimi di
compassione et aiutto
essendo assai men grave
e tolerabile la povertà
nel nato povero che non
è nel fatto povero.
Li terzi sono poveri
frati e monache
convertite rimesse del
Soccorso, orfani a
orfane.
Li quarti sono pelegrini
che passano di transito,
o poveri forastieri che
qui capitano cercando
tratenimento, et talvolta
si trovano senza modo,
né indirizzo;
gli ultimi sono del tutto
degni di essere scacciati
come persone vitiose e
piene d’ogni
sceleragini, et che
sogliono ammorbare la
città de’ rnali
contagiosi, nell’anime
et nei corpi. (Discorso
di Anonimo officiale circa
XVI)
Non sempre lo sguardo verso il vergognoso è caritatevole. Nella
numerosa compagnia dei ruvinati, nella quale s'entra senza
memoriali e raccomandationi, di G. M. Mitelli e databile tra a
cavallo del 1700, la caricatura esprime un severo giudizio sullo
sprovveduto mercante, primo responsabile della propria miseria.
Dagli Statuti della Venerabile Congregazione di Loreto
il capitolo sui poveri vergognosi
Cavaliere d’Arpino (incerto)
Vergogna Honesta
In Iconologia di C. Ripa, 1613
La donna raffigurata è leggiadra, poiché la vergogna
conferisce “venustà” e “gratia”; tiene gli occhi bassi,
secondo il costume di chi si vergogna.
Il vestito stesso, il cui colore è il rosso, rimanda alla
vergogna, cosi pure suoi simboli sono: l’elefante, di cui si
cinta la testa, e lo stesso falcone che tiene sul braccio.
Infine il motto Dysopia procul significa:
“stia lontana la soverchia e vitiosa vergogna”.
In particolare il termine soverchia indica coloro che
prendono la vergogna senza averne il titolo, non essendo
mai stati ricchi.
LA LIMOSINA È SIMILE A USURA
Una interpretazione dell'usura
in armonia con la religione!
Si come quello che presta ad usura ha molto a caro,
che si differisca il pagamento, perché quanto più si
tarda il debitore a pagare, tanto più egli guadagna.
Così fa chi è misericordioso, perché con le limosine
che fa a' poveri, fa usura con Dio, e però deve
rallegrarsi che ritardi il pagamento, e che lo riservi
per l'altra vita, nella quale abbondantissimamente
sarà rimunerato fa Dio.
TES TATORI C I T A Z I O N I D E I P O V E R I V E R G O G N O S I
LOMAZZI
Lasciti in dote a otto figliuole nobili di Milano per il loro matrimonio temporale.
Tramite invece la Veneranda Congregazione dà l’indicazione di “spendere in tante elemosine a’ poveri
vergognosi”.
ALBERTARIO Lasciti in donazioni, sempre tramite la Veneranda Congregazione, ai poveri vergognosi durante le festività di
Pasqua e Natale.
PECCHIO Lasciti di una rendita annua ai poveri vergognosi e ai mercanti decaduti (lui stesso appartiene alla corporazione
mercantile).
BONICELLI Lasciti in doti per le figlie della Famiglia Nicola, e i restanti soldi alle povere famiglie decadute della sua città.
BALLI
Inizialmente non indica esplicitamente dei lasciti per i poveri vergognosi: “Dare li santi esercizi ogni anno
[…] a individui che non abbino modo di fare la spesa […] ma dovranno esser tenuti segreti“.
In seguito dispone chiaramente una donazione mensile alle povere famiglie vergognose e ai mercanti decaduti.
5. IL CULTO LAURETANO
Sembra che toccò ai
soldati di Francesco
Sforza, di ritorno da
Ancona,
testimoniare dei
miracoli della Santa
Casa e dunque a far
conoscere il culto
lauretano a Milano.
La devozione spinse
molti milanesi,
come la duchessa
Maria, consorte di
Filippo M. Visconti,
al pellegrinaggio a
Loreto, tra questi il
più celebre fu San Carlo Borromeo, allora cardinale di Milano.
Questi celebrò una messa a Loreto per la Natività di Maria, festa
principale della Santa Casa.
Tornato a Milano, incominciò a diffondere il culto della Vergine
lauretana in tutta la Lombardia e incaricò il Richini di edificare
una chiesa che contenesse la ricostruzione della Santa Casa.
Venne consacrata dal cardinale Federico Borromeo nel 1616 fuori
Porta Orientale (oggi porta Venezia), oltre il Lazzaretto; con
annesso un edificio per il clero e il chiostro.
Al diffondersi del culto lauretano, nacque pure il Luogo Pio di
Santa Maria di Loreto, in S. Fedele, fondato dal gesuita Martino
De Funes. Lo scopo era di raccogliere elemosine da distribuire poi
ai bisognosi, in particolare ai poveri vergognosi, ex benestanti che
non erano più in grado di mantenere un tenore di vita degno del
proprio rango sociale.
Il Padre Funes fu aiutato da Don Francesco Damaje, patrizio
spagnolo, detto il “Limosiniere”, che aveva un'alta carica presso
lo stato di Milano. Successivamente, anche con l'aiuto del governo
e della nobiltà milanese, il Luogo divenne ricco e potente.
Nacque, con sede in una casa di fronte alla chiesa di S. Fedele, la
Congregazione della Beata Vergine di Loreto; i suoi obiettivi:
provvedere a pratiche di pietà e di devozione ed esercitare opere
di carità, visitando infermi e carcerati e so ccorrendo i poveri.
PIO LORETO
La Congregazione della Madonna di Loreto venne fondata l'8
dicembre 1601, giorno a cui risalgono i suoi statuti, ad opera
sempre del De Funes. Il suo obiettivo principale, come detto, era
quello di fornire sostegno ai poveri vergognosi, agli infermi
assistiti dall'Ospedale Maggiore, ai carcerati ed alle prostitute,
destinatari di soccorsi in denaro e di assistenza medica.
Da subito la Congregazione ottenne ampio aiuto dagli abbienti
cittadini milanesi attraverso sostanziose donazioni e lasciti
testamentari, sia in capitali che in immobili in città e in campagna,
che implicava un intensa attività di compravendita di case e
terreni.
Questa disponibilità patrimoniale contrastava con lo spirito
caritatevole dell'ordine e la costrinse a divenire nel 1607
confraternita, aperta anche ai laici. Il luogo fu una casa (frutto di
un lascito) più spaziosa, di fronte alla sede degli stessi Gesuiti. Le
apparenze furono salve!
Nel 1723 si trasferirà in Porta Nuova, sotto la parrocchia di Santo
Stefano in un edificio con la facciata rivolta verso la Piazza di San
Fedele.
LEGGENDA DELLA SANTA CASA
LA CASA DI NAZARETH
La Santa Casa della Madonna di Loreto conserva, secondo
un'antica tradizione, la casa nazaretana di Maria.Per milleduecento
anni ci furono pellegrinaggi a Nazareth di personaggi illustri e
appartenenti a famiglie reali, ad esempio l’imperatrice Elena,
madre di Costantino e alcuni santi, tra cui S. Paola e S. Girolamo,
oltre a S. Re Luigi di Francia.
Dominazione turca e Crociate resero la Palestina un territorio
insicuro, ma solo dopo molto tempo arrivò l’intervento del Cielo.
LA SANTA CASA IN
CROAZIA
9-10 maggio 1291. Le
fondamenta si spostarono da
Nazareth a Tersatto
(nell'odierna Croazia),
durante il papato del
francescano Nicolò IV,
nativo di Ascoli, per volontà
del Cielo già prescritta. Fu
così che la Dalmazia divenne
subito un'importante meta di
pellegrinaggio. L’alleanza fra
Dalmazia e le rive confinanti
durò solo 3 anni e sette mesi
… E FINALMENTE A LORETO!
10 Dicembre 1294. La casa giunse, volando sull'Adriatico, nelle
Marche, durante la rinuncia al papato di Celestino V e la nomina
di Bonifacio VIII. Qui subì ben tre spostamenti. Dapprima si posa
in una selva di una donna, detta Laureta (da qui il nome); poi, per
la presenza di ladri nella selva che aggredivano i pellegrini, si
spostò in un campo di due fratelli, che subito si contesero i
vantaggi e costrinsero la Vergine a spostarla nuovamente; questa
volta nella pubblica strada, dove si trova ancora oggi. L'Angelo
annunciò che questa fu anche la casa di Gesù per 30 anni.
PERCHÉ LA CASA NELLE MARCHE?
Semplice (?) nessun’altra provincia ha le sue cinque principali
città che con le iniziali formino il nome di Maria.
LA POTENZA DELL'ANGELO
L’Angelo è dotato di una grandissima potenza, grazie alla quale
ha compiuto diversi miracoli.
Un’altra abilità dell’Angelo è quella di essere in grado di muovere
qualsiasi corpo velocemente; non ci sono fulmini o saette che gli
possono esser comparati per quanto riguarda la celerità. La
resistenza dell’aria, viene in questo caso superata dalla virtù
angelica. Perciò le leggi della fisica possono essere oltrepassate
dai miracoli che compie l’Angelo. Il suo viaggio si svolse lungo
una linea retta: partì dalla Galilea, poi passando per Cipro approdò
in Anatolia, in Asia minore; quindi per l’arcipelago di Macedonia
e lungo tutta l’Albania, la Dalmazia a Tersatto e infine a Loreto,
in Italia. In totale furono circa 1895 miglia. Esistono anche delle
prove riguardanti le testimonianze di avi che hanno visto volare la
Santa Casa di persona.
I MIRACOLI DELLA VERGINE
Appena la Casa arrivò in Istria, la Beata Vergine comparve ad
Alessandro di Tersatto, un infermo in prossimità di morire, e gli
rivelò che quello era il luogo dove ella nacque e dove il Figlio
visse per trent'anni.
I miracoli riguardarono sia i credenti sia i miscredenti, che così si
convertivano.
STRUTTURA DELLA SANTA CASA
Originariamente la Santa Casa, di pianta rettangolare e priva di
soffitto, era costituita solo da tre pareti, poiché il restante lato,
dove sorge l'altare, dava sulla bocca della grotta a Nazareth. La
parte inferiore delle tre pareti, per quasi tre metri, è costituita da
filari di pietre, principalmente arenarie, presenti a Nazareth.
Queste pietre sono state rifinite con una tecnica che ricorda quella
dei Nabatei, diffusa in Galilea ai tempi di Gesù. Su di esse si
trovano più di sessanta graffiti, riferibili a quelli giudei di epoca
remota. La parte superiore è invece costituita da mattoni del
Loretano. Questa parte nel XIV secolo fu coperta da dipinti a
fresco, mentre le sottostanti sezioni in pietra furono lasciate a
vista, esposte alla venerazione dei fedeli.
Esternamente la Santa Casa è stata ricoperta da un rivestimento
marmoreo, voluto da Giulio II ed ideato da Donato Bramante. Il
rivestimento è formato da un basamento con ornamentazioni
geometriche, da cui si alzano colonne striate, con capitelli corinzi.
La balaustra è stata aggiunta nel 1533-34.
L ' i n t e r n o d e l l a S a n t a C a s a
S a n t u a r i o d i L o r e t o
Bassorilievo della Basilica che rappresenta le varie traslazioni della Santa Casa
6. CHI SONO I GESUITI
IL RUOLO FONDAMENTALE A LORETO
La Compagnia di Gesù, fondata dallo spagnolo Ignazio Lopez di
Loyola, ha avuto per circa tre secoli un ruolo fondamentale nella
vita del Santuario di Loreto.
Nella seconda metà del XVI secolo, l'affluenza continuamente in
crescita dei pellegrini provenienti da tutta Europa, costrinse il
governatore di Loreto a richiedere l'aiuto di papa Giulio III, per
disporre di sacerdoti che conoscessero più lingue e fu il giovane
Ordine a risultare quello più adatto.
LA STORIA DEL COLLEGIO ILLIRICO
Dopo aver tenuto per circa vent’anni un corso minore di teologia
morale, ai gesuiti lauretani fu affidata la direzione del Collegio,
voluto da Gregorio XIII, destinato ai giovani dell’Illiria. Il
curriculum degli studi era impegnativo e comprendeva retorica,
umanità, fisica, matematica, diritto ecclesiastico, filosofia e
teologia; al termine degli studi i giovani ottenevano una laurea
dottorale.
Nel 1594, con soli dieci allievi, il Collegio Illirico venne
trasferito a Roma per volontà di Clemente VIII. Passeranno circa
trent’anni, poi, con la bolla Zelus Domus Dei di Urbano VIII, nel
1627, ci sarà il ritorno a Loreto del Collegio, sotto la loro
direzione, contando 36 studenti.
Con la soppressione dell’Ordine nel 1773 per volontà di
Clemente XIV, il Collegio visse alcuni anni travagliati sotto i
Padri Barnabiti e nel 1798 l’invasione dei francesi ne determinò
la chiusura. La ricostituzione dell’Ordine, grazie a Pio VII,
avvenne nel 1814, ma i gesuiti tornarono a Loreto solo nel 1834.
Il Collegio venne definitivamente chiuso nel 1860, dopo
l’annessione della Marca al Regno d’Italia.
PENITENZIERIA
Le origini della penitenzieria risalgono al secolo XII, quando si
avvertì la necessità di aiutare il Papa nell’esercizio della sua
giurisdizione; le relative facoltà furono conferite al cardinale
penitenziere. Nel 1569 Papa Pio V costituì tre Collegi di
penitenzieri con il compito di assicurare nelle basiliche di San
Pietro, San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore
un’adeguata celebrazione del sacramento. Affidò allora quel
compito, rispettivamente, ai Gesuiti in San Pietro, ai frati minori
osservanti in San Giovanni in Laterano, ai domenicani in Santa
Maria Maggiore.
I GESUITI A MILANO
L'ASCESA ECONOMICA
Arrivati a Milano su invito di Carlo Borromeo per le tradizionali
pratiche pastorali e per l'insegnamento e la direzione del
Seminario diocesano, i Gesuiti furono una novità per i milanesi, e
non soltanto per l’aspetto religioso. Un esempio è l’attività nelle
carceri che, insieme ad arbitrati·e compromessi, li pose, volenti o
nolenti, a ingerirsi in questioni (quelle relative alle pene
pecuniarie e ai beni confiscati). Proprio per l'attività nelle carceri,
nel 1643 fu loro imposto di “non ingerirsi né in protezioni, né in
altre facende che siano fuori dell'anima”, così la distribuzione dei
denari frutto delle pene pecuniarie, devolute in molti casi a
favore dei luoghi pii cittadini, che il Governatore delegò ai
gesuiti, creò screzi e gelosie.
Così padre Morales, nella Visita della casa professa di S.
Fedele·del 1579, scrive allarmato:
“anche qui il Padre Preposito occupato in un ministerio
quale mi pare alieno dal nostro instituto et contro la
regola…, et è che quando il Signor Marchese fa pagare
alcune pene, et le applica a opere pie, manda a
consegnare i denari al Padre Preposito, per distribuirle
a beneplacito di Sua Eccellenza, servendo di
depositario overo cassiero; et di poi li distribuisce
secondo che gli viene ordinato da Sua Eccellenza, et
sempre resta anche buona parte alla casa o alla
fabbrica…, et questo fa danno alla casa, percioché si
pensa la gente che tutto quello che si consegna al
Preposito è per la casa”
Subito dopo il loro arrivo i gesuiti inoltrarono alle magistrature
cittadine le richieste per le esenzioni relative a beni di uso
quotidiano, le esenzioni relative alla macina, il vino e al sale
furono concesse quasi immediatamente; in seguito le case, i
collegi e le loro proprietà; infine avrebbero inoltre goduto
dell’esenzione dalla decima papale e del divieto per qualsiasi
autorità di imporre gabellas, talias o datia.
Grazie ai lasciti, i gesuiti intensificarono l’attività di
compravendita di case e terreni nei dintorni del vecchio San
Fedele, anche contro la volontà e gli interessi dei legittimi
proprietari. Questa pratica diede loro la possibilità di far circolare
ovunque beni e denari. La libera circolazione del capitale liquido
permetteva loro di aggirare le barriere doganali fra stato e stato,
quindi beni e dotazioni potevano essere esportati oltre i confini
del Ducato.
Con le donazioni, da parte di Leonardo Spinola, di un credito nei
confronti del Coiro, da parte del senatore Odescalchi e di Giovan
Tommaso Crivelli dal 1574 i Gesuiti poterono acquistare diverse
abitazioni e terreni, che tuttavia non rispondevano solamente al
bisogno di spazi abitabili e all’esigenza di esercitare un controllo
sull’area adiacente alla chiesa, ma dovevano favorire un ulteriore
afflusso di denaro sotto forma di affitti, tali operazioni perciò
evidenziano la varietà di strumenti messi in atto dai Gesuiti per
cercare di accrescere le proprie finanze.
L'ASCESA POLITICA
La definizione degli equilibri di potere tra un patriziato ormai
formato e il governatore, il
riconoscimento da parte
spagnola della coesistenza di
due poteri (uno esercitato dalle
supreme magistrature milanesi:
Senato e Magistrato ordinario)
influirono favorevolmente sul
successo della Compagnia a
Milano anch'essa alla ricerca di
autonomia rispetto al re
cattolico. Il patto tra i
gentiluomini milanesi riuniti
nella Confraternita di S. Maria
di Brera e i Gesuiti si
concretizza con i finanziamenti
per costruire il collegio: “in
nome della città di Milano, per
insegnare et ammestrare i
giovani … sotto la cura et
disciplina dei Rev.i Padri del
Giesù”.
Inoltre il rigorismo tridentino
allontanò dal Borromeo una
nobiltà, per nulla convinta di
rinunciare alla mondanità del proprio stile di vita, un
viver non meno cristiano che civile, comprendendo
accanto agli affari, la serena virtù del divertimento, della
piacevole socievolezza.
L'aristocrazia nobiliare e mercantile si spostarono sui
Gesuiti, sempre più avversi alla politica del cardinale e
disposti ad accettare pratiche finanziarie da altri
considerate immorali, riconoscendo alla vita mondana una
certa autonomia dall'autorità religiosa che, come precisò
un gesuita davanti all'Inquisizione, non deve occuparsi di:
erario, esercito,giochi, esercitj cavalliereschi et ogni
cosa necessaria per il suo (del principe) regno.
LUOGHI E ISTITUZIONI
Numerosi sono i luoghi e le istituzioni milanesi in cui i Gesuiti
erano presenti direttamente o indirettamente nell'esercizio della
loro opera caritatevole: Comunità di San Fedele, Confraternita
dell'Immacolata Concezione, Ospedale Maggiore, Istituto di Santa
Corona, Confraternita della Beata Vergine di Loreto, Luoghi pii di
Milano, Duomo e Sette Chiese, Parrocchia di Santo Stefano in
Nosiggia (Porta Nuova), Ricchi e Vecchi in San Giovanni sul
Muro, Umiltà e Pagnottella, Quattro Marie, Misericordia, Carità
in Porta Nuova e Divinità, Contrada alle Case Rotte, Contrada
degli Omenoni, Contrada dei Tre Monasteri.
LO SPOSTAMENTO DELLA SEDE
In seguito all'emanazione della bolla papale di Clemente VIII,
con la quale veniva disposta la sottomissione delle confraternite
laicali e dei loro beni all'autorità episcopale, la congregazione
lauretana milanese risultava in contrasto con tale imposizione che
imponeva l'obbligo di povertà. I padri di San Fedele, per il timore
della perdita dell'autonomia, abbandonarono la sede originaria in
San Fedele per trasferirsi in un edificio non religioso posto
dirimpetto alla chiesa, acquistato grazie ad una donazione di
Francesco Dannaja.
IL COLLEGIO ILLIRICO
Il termine “illirico” fa riferimento alle popolazioni
conquistate dall’Impero Romano: la provincia degli Illiri
era costituita da parte delle odierne Albania e Bosnia, e
da Montenegro, Croazia, Istria e Serbia.
La Compagnia di Gesù assunse un ruolo di primo
piano nell’educazione dei giovani in Europa: essa gestì
numerosissimi collegi e celebri università in tutte le
nazioni cattoliche europee e nelle colonie. In generale, si
può dire che l’Ordine diventò il principale punto di
riferimento per la produzione culturale della prima età
moderna. Tra i più significativi collegi ci fu senz’altro il
Collegio Illirico lauretano.
A Loreto nel 1574 i gesuiti fondarono il collegio
Illirico (Collegio degli Schiavoni) per volere di Papa
Gregorio XIII. Assieme al suo omologo di Fermo, questo
era destinato ai giovani chierici illirici (slavi ed albanesi)
che risiedevano a Loreto. Era stato istituito per
contrastare l’islamizzazione dei Balcani e per educare i
giovani alla predicazione.
P e r c h é P i a z z a l e L o r e t o ?
L’origine del toponimo si ricollega a San Carlo Borromeo, che
quattro volte fu pellegrino alla Santa Casa.
Il santo, nell’ultimo ventennio del secolo XVI, pensò ad un tempio
lauretano a Milano con la riproduzione della Santa Casa; fu però
Federico Borromeo, il 30 agosto 1609, a benedire la prima pietra.
La chiesa sorse in belle forme su disegno del Richini, arricchita da
una pregevole statua lignea della Vergine Lauretana con il
Bambino, dell’intagliatore Del Conte. L’attuale Corso Buenos
Aires, a quel tempo ornato di pioppi, che arrivava davanti alla
Chiesa, veniva detto Stradone di Loreto.
Alla fine del secolo XIX l’artistica chiesa, che aveva riscosso nei
secoli viva devozione mariana da parte del popolo milanese, fu
drasticamente abbattuta per allargare il piazzale che da essa prese il
nome di Loreto. Fu sostituita da una seconda chiesa lauretana
presso san Vittore.
7. Da i t e s t ame n t i
LA CONGREGAZIONE EREDE UNICA
Lomazzi
”… la metà spetterà alli miei eredi, e così al detto
Pio luogo della Madonna di Loreto (…) e altre sei al
detto Pio luogo della Madonna di Loreto ogn’anno
sempre, & in perpetuo, perché così &c.”
Albertario
“… o sia proprietà da acquistarsi col prezzo dei
mobili, che venga distribuito dalla detta Ven.
Congregazione di Loreto mia erede a poveri
vergognosi. (…) Per la bontà, integrità e affetto
dell’infrascritti SS, prefetto, e deputati della Vener.
Congregazione di nostra signora di Loreto da me
istituita erede.”
Pecchio
“… dichiaro aver somministrato alla Ven.
Congregazione della Beatissima Vergine Maria di
Loreto presso S. Fedele di quella città la somma di
lire 25mille. (…) In tutti poi gli altri miei beni (…)
ed ogni altra cosa che hò (…) istituisco mia erede
universale (…) e nomino la Ven. Congregazione, o
sia luogo pio di nostra signora di Loreto di questa
città.”
Bonicelli
“… ed istituisco mia erede universale, nominandolo
con la mia propria bocca, come l’ho nominato, e
nomino il venerando luogo Pio di Santa Maria di
Loreto sit. in Porta Nuova, in fronte alla chiesa di
S. Fedele in questa città di Milano.”
Balli
“… ho istituito ed istituisco mia erede universale la
veneranda Congregazione di nostra Signora di
Loreto eretta presso la chiesa di S. Fedele
predetto.”
GLI STATUTI DELLA
CONGREGAZIONE DI LORETO
STRUTTURA DEGLI STATUTI
Gli Statuti sono costituiti da 28
capitoli. Nei primi quattro si
introduce la Congregazione e si
tratta dei suo scopi. Fino al
capitolo 23 si tratta degli
Officiali della Congregazione: un
Prefetto, 4 Consiglieri, 2 Sindaci,
un Tesoriere, un Segretario, un
Provveditore, 24 Visitatori, 2
Maestri dei Novizi, 2 Infermieri,
2 Sagrestani. Gli ultimi capitoli
indicano quali siano i poveri
vergognosi e di come provvedere
per aiutarli (il modo con cui
vengono procurate le elemosine).
LA PRATICA DELLE ELEMOSINE
Sono effettuate due volte l'anno, all'inizio dell'Avvento e della
Quaresima. In quelle occasioni verranno inviati due visitatori ai
predicatori delle chiese principali per esortare il popolo alla
raccolta delle offerte. Il ricavato verrà consegnato al tesoriere o
direttamente alla Congregazione. Inoltre viene richiesto l'aiuto
dell'arcivescovo per quanto riguarda l'elemosina nelle cassette
delle Sette Chiese.
I POVERI VERGOGNOSI
Per poveri vergognosi si intendono coloro che, generalmente di
buona condizione e nascita, non hanno di cui sostentarsi e
nessuno che voglia o possa aiutarli a provvedere ai loro bisogni,
spesso non di sussistenza, ma di decoro. Il principale obiettivo
della Congregazione è di esercitare le opere della pietà verso i
poveri vergognosi, aiutandoli con ogni sollecitudine, procurando
loro con carità cristiana la salute dell’anima. Essi sono aiutati dai
Visitatori perché vengano a miglior fortuna o perché non abbiano
più bisogno di fare l’elemosina.
I 24 visitatori, 4 per porta, svolgevano un ruolo delicato,
nell'individuare i soggetti che potevano usufruire, per la loro
povertà, degli aiuti della Congregazione
LA TRAGICA VITA DI MARTIN DE FUNES
(Valladolid, 1560 - Colle di Val d'Elsa, 1611)
Religioso spagnolo, fondatore della “scuola gesuita” di
Santa Fe.
Fu un personaggio scomodo, radicale nel difendere la
causa delle reducciones (villaggi del Paraguay in cui gli
Indios erano avviati al lavoro dei campi, all’uso del
denaro ed alla religione cattolica) e nel far contrastare la
schiavitù.
Il memoriale, scritto da Funes e inviato a Papa Paolo V
nel 1608, andava a toccare i legami esistenti tra i religiosi
regolari e la corona di Spagna, parlava delle gelosie tra i
vari ordini religiosi che, timorosi di perdere i loro
privilegi, erano ostili verso i religiosi secolari e la loro
partecipazione alle missioni.
Il memoriale, scritto senza il consenso dei suoi superiori
irritò il Padre generale della Compagnia, Claudio
Acquaviva, che non ne aveva peraltro neppure gradito il
contenuto.
Per questo motivo al Funes fu ordinato di lasciare Roma
e di trasferirsi in una Casa della Compagnia in Spagna;
egli però si rifugiò nello Stato di Milano, presso il
Governatore Fuentes, e venne espulso dall’ordine come
ribelle.
Il Funes, proveniente e forse in fuga da Como e diretto a
Roma dal Papa per perorare la sua causa, fece tappa a
Colle Val d'Elsa. Qui fu ospitato, nel suo palazzo, da
Usimbardo Usimbardi. Sembra che costui sia stato
invitato dai Medici a bloccarne la partenza per Roma.
Martin de Funes fu colto da malore e morì nella notte tra il
23 ed il 24 febbraio. Cause naturali o esecuzione?
Il gettone di rame che i poveri
ricevevano dal L. P.
Elemosiniero di S. M. Loreto
per prelevare vitto e sussidi
8. MESTIERI E PROFESSIONI
A MILANO
LE TRE TIPOLOGIE
Le organizzazioni corporative delle professioni dotte o
letterarie; le scienze nobili comprendevano tre facoltà:
dottori, teologi-giurisperiti, medici.
Le arti liberali o civili si trovano al di sotto delle scienze nobili
e sono le più numerose (banchieri, chirurghi, notai).
Subito dopo le arti liberali ci sono le arti meccaniche, i paratici
o corporazioni di mestiere.
LA STRUTTURA DI UNA CORPORAZIONE
Una universitas o corporazione si suddivideva in tre ruoli o
ranghi: un Collegio ristretto, una Facoltà di maestri o dottori
approvati dal Collegio e una matricola di apprendisti. Il
Collegio ristretto era incaricato degli esami per i gradi e delle
approvazioni all'esercizio.
Le arti liberali, classificate come civili, si trovano appunto tra le
facoltà nobili e le arti meccaniche e per quanto riguarda il
sapere richiesto per queste arti era scarso, infatti, non erano
richieste né una laurea e né un' istruzione. Queste arti si sono
modellate sui collegi nobili, che comprendono un collegio di
esaminatori a vita che possiede il monopolio delle
approvazioni.
Infine le arti meccaniche, come il commerciante, richiedono un
sapere ridotto, cioè conoscere la scrittura mercantile e
cancelleresca, sapere come utilizzare la partita doppia,
conoscere le basi dell'aritmetica.
GUANTAI E PROFUMIERI
L'ORIGINE
Vi sono tracce dell'esistenza di corporazioni di guantai e
profumieri già a partire dal Medioevo, ma il vero sviluppo di
queste corporazioni così strettamente legate avvenne solamente
nel Rinascimento. Firenze vantava già nel XIV secolo una
lunga tradizione nell'arte di creare profumi; i profumieri
appartenevano all'arte dei Medici e Speziali.
Le prime acque profumate si ottenevano per mezzo di un
apparecchio chiamato bottiglia fiorentina. Per la realizzazione
delle fragranze erano molto famosi il laboratorio di fiorentino
del 1200 fondato dai Domenicani a Santa Maria Novella e
quello cinquecentesco di Venezia dei Carmelitani scalzi. Si
distillavano in particolare queste essenze profumate: l’iris
fiorentino, la violetta e i fiori d’arancio a Firenze, il muschio e
l’ambra a Venezia.
IL PRIMATO FRANCESE
L’industria profumiera in Francia, benché successiva rispetto a
quella italiana, riuscì in poco tempo a toglierle il primato.
La cittadina di Grasse era famosa per la concia delle pelli fin
dal medioevo, ma quando arrivò la moda rinascimentale di
profumare i guanti, le cinture e le scarpe, iniziò a coltivare e
distillare le piante e i fiori; da lì alla produzione di fragranze, il
passo fu breve.
Fu Caterina de' Medici a portare l’arte profumiera in Francia;
ella aveva fatto preparare dai monaci domenicani fiorentini una
fragranza fresca e avvolgente con il nome di Acqua della
Regina la quale era composta da essenze di agrumi e
bergamotto.
Il XVII secolo fu l’età dell’oro per la profumeria francese. A
Parigi 250 artigiani profumieri e maestri guantai lavoravano su
licenza esclusiva direttamente concessa da Re Luigi XIV:
creavano e vendevano profumi, unguenti per capelli, prodotti di
trucco e guanti in pelle profumati. I negozi disponevano di
ambienti lussuosi dove i clienti attendevano che il maestro
profumiere preparasse la fragranza ordinata.
PERCHÉ GUANTAI E PROFUMIERI UNITI?
I maestri artigiani guantai di Grasse producevano dei guanti in
cuoio destinati all'alta società francese ed europea; per
mascherare l'odore dei tannini all'olfatto delle signore eleganti,
profumavano i guanti. Fu così che la corporazione dei guantai,
creata nel 1614 a Grasse, divenne nel 1714 quella dei guantai-profumieri
e poi nel 1759 quella dei maestri profumieri.
Grazie al loro dinamismo e all'abbondanza delle locali materie
prime come la rosa, il gelsomino, la tuberosa e la lavanda,
l'industria di profumeria ha fatto di Grasse la capitale
internazionale del profumo.
Jean de Galimard, il fondatore della Corporazione dei guantai-profumieri,
procurava alla Corte del Re oli d’oliva, unguenti e
profumi di sua invenzione.
All'inizio del XVIII secolo, a poco a poco i guantai-profumieri
cominciarono a distinguersi dai conciatori e ,nel 1729,
ottennero presso il Parlement de Provence, uno statuto
autonomo.
L'ACQUA DELLA REGINA DI UNGHERIA
Molto usata in epoca barocca, vera e propria antenata della più
famosa Acqua di Colonia, fece la sua comparsa verso il 1360.
Si facevano macerare alcune sostanze aromatiche, salvia,
maggiorana e rosmarino nell'acquavite, la soluzione veniva poi
esposta ai raggi del sole per una settimana.
In seguito questo profumo venne ribattezzato Eau ardente,
perché con la scoperta dell'alcol etilico, fuoco e acqua si
univano. Ampio il suo potere curativo ad esempio emicranie,
vista, ronzio d'orecchi, gotta.
La posizione centrale dei Profumieri a Milano
Guantaio - profumiere in Italia: la testimonianza del Balli
Il testamento del Balli e il suo inventario di guanti e profumi dimostrano che la professione di guantaio-profumiere
fosse diffusa e redditizia anche in Italia. Nell'inventario della sua bottega troviamo ad esempio:
- Importo di 6 guanti di volpe comprati a L.15
- Profilo di Lupo Cerviero previsto in due partite L. 98
- Importo di 20 agnellini della Romagna L. 167
- Guanti di volpe e di orso L. 3
- Guantini di penna provvisti dal Scorzoli L.11
- Importo di 7 boccie d'acqua della Regina L. 6
STATUTI DEI MERCANTI SEC. XV
9. CHIRURGHI E BARBIERI
Secondo Vesalio (1500),
il medico non era un
chirurgo, ma un letterato
che teneva in scarso
conto la pratica,
delegandola a barbieri
ignorantissimi,
riservandosi alla sola
dottrina. Egli paragona i
lettori di anatomia alle
cornacchie che recitano
a memoria dai libri
degli altri; e reputa i
barbieri dei macellai,
poiché presentano agli
spettatori meno cose di
quelle che presenta un
macellaio al mercato.
In Francia, intorno alla
metà del XIII secolo i
chirurghi si riunirono in corporazione e fondarono una
confraternita posta sotto il patronato dei SS. Cosma e Damiano.
Dalla prima metà del XVI secolo, i fisici ripresero il nobile
titolo di medici e si riunirono anch’essi in comunità. A metà
Seicento i medici, per deprimere i chirurghi che stavano
assumendo sempre più importanza nella società, ottennero nel
1656 che la medesima patente dei chirurghi fosse data ai
barbieri. Durante il Cinquecento, dottori marginali esercitavano
nei villaggi e nelle città la loro professione con l’aiuto dei
chirurghi rurali, la loro clientela era soprattutto i poveri. Nel
Settecento, in Italia, l’istituto della condotta medica era già
stabilito in Lombardia, Piemonte e Toscana. Questo istituto era
un’organizzazione civica o politica delle arti sanitarie e dei loro
addetti (medici, chirurghi, barbieri, levatrici, speziali). A
Milano, un’ordinanza capitolare del 1551 stabiliva che i medici,
uno per ciascuna delle sei porte della città, dovevano fermarsi
ogni giorno nella propria casa fino al suonare del campanone
del Duomo, restando a disposizione degli eventuali pazienti
poveri.
IL NOTAIO
COME SI DIVENTAVA NOTAIO
Per diventare notaio vi erano dei criteri di selezione molto
precisi: curriculum vitae e età minima di 25 anni, cittadinanza
milanese o all'interno del ducato, reddito annuo di almeno 100
scudi, senza nobiltà negativa (il padre o un avo con un passato
di attività meccaniche o considerate socialmente non
convenienti), 5 anni di esperienza professionale presso un
notaio collegiato, un esame pubblico (una redazione di uno
strumento notarile suddivisa in quindici atti).
I Collegi notarili, che si collocavano sotto quello dei nobili
giureconsulti, si dividevano in collegi dei Notari e dei
Causidici. Nella gerarchia delle professioni settecentesche, i
causidici godevano di maggior prestigio rispetto ai semplici
notari.
Nello Stato di Milano, esistevano due diversi gradi
dell’esercizio del notariato: il notaio ad omnia laudatus, il
livello più alto della professione e il pronotaio.
Il mestiere notarile aveva acquisito maggior prestigio nell’età
dei comuni, con funzioni diplomatiche, la redazione delle
delibere consiliari e degli statuti cittadini e agivano nelle
cancellerie delle magistrature maggiori e minori.
Durante il XV secolo il ruolo politico e sociale del notaio
diminuì rispetto all’impiego svolto in ambito privato.
Nel 1786 la riforma giuseppina stabilì che i candidati al
Collegio notarile dovessero avere i requisiti già esposti e
superare una prova basata sulla redazione di un atto estratto a
sorte.
FARE IL NOTAIO CONVENIVA?
Un’altra caratteristica fu l’ereditarietà professionale del
mestiere che coinvolgeva molte famiglie; alla base della
decisione di intraprendere questa carriera potevano esservi due
percorsi di mobilità sociale, discendente e ascendente. I
Rampolli di alcune famiglie milanesi che nel XVIII secolo
avevano conosciuto il dissesto economico, trovarono rifugio nel
notariato, mestiere decoroso tra le arti nobili e le professioni
infamanti. Le famiglie in ascesa, invece, che avevano
abbandonato attività ritenute indegne, non ancora così ricche da
vivere soltanto con le rendite terriere, individuavano nel
notariato un'interessante professione; come si diceva allora:
l'arte notarile non rende nobili ma neppure deroga alla nobiltà.
Vi erano tre motivi per dedicarsi all'attività notarile:
la qualifica di notaio facilitava l'assunzione a incarichi di
diversa natura;
poteva dedicarsi ad altro impiego più remunerativo,
finendo col sostituire del tutto le due attività;
la professione permetteva di ottenere prestigio sociale e
disponibilità economiche.
MERCANTE O NOTAIO?
Le famiglie nel XVI secolo avevano precise strategie per
garantire il proprio futuro, avviando il primogenito, che doveva
appunto assicurare la sopravvivenza biologica della famiglia
all'attività mercantile e il secondogenito all'attività notarile,
ritenuta meno prestigiosa; invece, nel XVIII il primogenito
svolgeva l'attività notarile ed era l'unico a sposarsi, rispetto ai
fratelli indirizzati alla vita ecclesiastica.
E PER SPOSARSI SERVE UN NOTAIO
Nel settecento i matrimoni erano regolati tramite dei contratti
matrimoniali che prevedevano accordi economici. Soprattutto
in Lombardia era usanza stendere la promessa di matrimonio e
compito del notaio era di trovare una soluzione equa che
comprendeva l’importo, la composizione, i tempi di
corresponsione della dote e gli obblighi del marito. Una volta
raggiunto l’accordo, il notaio redigeva l’imbreviatura. Era
molto raro che le parti sciogliessero reciprocamente l’impegno
assunto, recandosi dal notaio per registrare la rinuncia. In
questo caso la dote, considerata cardine dei rapporti
patrimoniali tra coniugi, andava restituita a chi l’aveva
costituita o ai suoi eredi. Dopo il matrimonio, gli sposi si
recavano dal notaio per la redazione dell’atto.
UN NOTAIO RACCOMANDATO
Nel suo testamento il Conte Pecchio definisce il Signor Notaio
Giovanni Maria Valera come: amorevole assistente. È quindi
tra le sue ultime volontà il desiderio di compensare e gratificare
il Notaio per gli anni di servizio. Il testatore richiede come
prima istanza che il notaio, designato come suo Erede, il quale
da molti anni è stato curante dei suoi interessi, sia eletto, dal
signor Prefetto Sig. Dottor Gentil e dai Deputati, Sindaco e
Cancelliere della Ven. Congregazione di S. Maria di Loreto.
Nel caso in cui però questa istanza non potrà essere accolta o
per mancanza della nomina da parte del Venerando Collegio de
Signori Causidici di Milano o per altro difetto, allora comanda,
che al notaio suo Erede, siano destinare ottocento lire Imperiali
annue vita natural durante solo dopo la morte del Sig. Dottor
Gentile. Inoltre lascia a lui, da dare subito dopo la propria
morte, quattrocento lire Imperiali. Queste sono le ultime
volontà del Conte il quale confida nel buon utilizzo pubblico
del denaro lasciato al suo Erede Sig. Notaio Valera.
Il salasso. Una pratica tipica
del barbiere chirurgo
“Inventario de mobili, danari, scritture, stabili et altro ritrovati
nell’heredità del fu signor Giuseppe Albertario fatto dalla signora
Barbara Taccha di lui moglie per in strumento rogato il giorno,
mese et anno sodetti”, 23 febbraio 1703. (...)
Prima si trova l’inventario “delli mobili, danari, argenti,
scritture che si sono ritrovate nell’heredità del fu signor
Giuseppe Albertario. Nella camera sopra la bottegha”
Dal documento si risale ad alcuni ferri del mestiere
Inventario dei mobili di casa del Signor Albertario “fatto di sua mano”,
1 novembre 1675
ATTREZZATURA VARIA BARBI ERE CHIRURGO CAVADENT I
Un bilancino che serve per pesare le monete con
suoi pesi tanto per l’oro quanto per l’argento
con sua cassettina di legno
Un trepiedi di ferro per la foghera
Tre cadreghe armate di bulgaro
Cinque scagni di bulgaro
Numero quattro perucche di poco valore
Numero 12 panni di stuffa
Numero 24 canevezoli per sugare il volto
Una forbice grande con due ferri che servano per
sigillar lettere di secreta via, li quali tre pezzi
restano a parte in una cassettina
Due cadreghe armate di bulgaro per la
barba
Numero tre code per rasori, fra quali
due immanichate
Numero 23 rasori usati spagnuoli
Numero 4 detti nuovi
Numero undici detti di Spagna, Roma e
Zenevra usati
Numero otto altri rasori diversi
Numero 44 altri rasori
Un stucchio grande per riponere rasori
Una tasca di barbiere per riponere in
saccoccia con dentro ferri numero
nove
Numero dieci panni di barba detti
rocchetti tra buoni e inferiori
Un cadino per far la barba pesa
Numero quattro forbici per barbisi
Un vestirolino nel muro con due ante, e suoi vetri e ramata dentro vi
è diversi medicamenti
Una reseghetta per resegare ossi
Due ferri per levare le creature
Un trapanno per trapanar il craneo con diversi ferri per tal effetto in
un scatolino
Due trinchetti con mazzola per aprire li corpi humani
Una moglietta per levare la carne cattiva
Numero quattro tenaini per l'ungie incarnate
Un stucchio con sei lanzette per salassi
Numero tredici altre lanzette
Una cote piccolina con qualche poco d'argento, che serve per codare
le lanzette
Due ordigni per mettere cauterii
Due ferri per levare le creature
Un cavaballe
Tre ferri per le fistole
Un becco di grua
Numero 13 traversi per metter al collo
Due ferri detti specula matrice
Numero quattro tenaini per cavar
denti
Numero due pellicani per parimente
a cavar denti
Numero uno cava radice numero tre
altri ferri che servono per li denti
Due bassa lingue
Altro bassa lingue naturale
10. IL TESTAMENTO
GLI ATTI MORTIS CAUSA. IL TESTAMENTO.
La donatio mortis causa consisteva in quella disposizione che
comportava l'attribuzione senza corrispettivo di un bene,
destinata ad avere effetto dopo la morte del donante purchè il
donatario gli fosse sopravvissuto. I testamenti sono, strumenti
capaci di controllare e trasformare i rapporti fra i membri della
famiglia ed i modi della circolazione dei beni entro le maglie
della parentela, costituiscono un fondamentale punto di
osservazione della prassi notarile settecentesca, una base di
partenza per cogliere i molteplici riflessi che il mondo del
diritto, così come emerge dalle fonti notarili, era in grado di
proiettare nella società contemporanea.
TIPOLOGIE, STRUTTURE E CONTENUTI DEL
TESTAMENTO DEL 1700
I testamenti rogati tra gli anni Quaranta e gli anni Novanta del
XVIII secolo sono nuncupativi senza scritti, ossia testamenti
nuncupativi espliciti, benchè non manchino alcuni casi di
nuncupazione implicita. Quelli rogati alla vigilia dell'avvento
napoleonico si presentano,infatti, formalmente pressochè
identici ai testamenti risalenti agli anni Quaranta e Cinquanta.
Intervengono , tuttavia, alcuni cambiamenti nel costume dei
milanesi, che inevitabilmente si riflettono negli atti di ultima
volontà. Le riflessioni sui contenuti devono poi avere come
presupposto il contesto storico cui appartengono che fu un
momento di relativa tranquillità per Milano. Fino al 1796 non si
verificarono quindi particolari mutamenti sociali in grado di
incidere sulle normali modalità dell'atto.
Tra le tipologie testamentarie cui si poteva ricorrere nel XVIII
secolo, accanto al testamento solenne o in scritto, vi era, ben più
utilizzato nella prassi corrente, il testamento "nuncupativo" che
poteva essere esplicito o implicito. Il testamento solenne
esigeva il rispetto di una serie di rigide formalità che ne
rendevano poco allettante l'impiego. La quasi totalità dei
testamenti del settecento rinvenuti tra le carte d'archivio sono
nuncupativi. Nel testamento nuncupativo esplicito l'erede
veniva nominato a "viva voce" dal testatore alla presenza di
sette testimoni e del notaio che provvedeva a stendere l'atto
testamentario. In quello implicito il testatore consegnava al
notaio una busta sigillata contenente le proprie disposizioni
mortis causa, che veniva poi riaperta in un secondo atto che il
notaio redigeva soltanto dopo la morte del testatore.
LA FISIONOMIA DEL TESTAMENTO
NUNCUPATIVO SENZA SCRITTI
La tipologia più importante è il testamento nuncupativo senza
scritti, di cui una parte interessante è rappresentata dalle
arenghe, brevi
introduzioni che
sembrano ricordare la
certezza della morte e
l’incertezza del momento
in cui colpirà. Infatti tale
opposizione spinge
l’uomo anziano o malato
a recarsi dal notaio per
dettare le sue ultime
volontà e dare quindi una
sistemazione futura alle
proprie cose.
Dopo le arenghe il notaio,
attraverso una formula,
dichiara che quello è
l’unico testamento da
ritenere valido e revoca
quelli stipulati
eventualmente in
precedenza.
Un altro elemento
fondamentale del
testamento nuncupativo
esplicito è la
raccomandazione
dell’anima a Dio, alla
Beata Vergine e a tutta la
Corte Celeste (carattere
religioso dell’atto
testamentario), che è
sempre seguita da indicazioni che il testatore fornisce riguardo
alle modalità di sepoltura, descritta solitamente in modo
dettagliato.
Non meno dettagliate sono le informazioni che il testatore
fornisce nel dichiarare i legati e nel descrivere i beni oggetto del
lascito; avviene invece con una formula semplice la nomina
dell’erede. Inoltre, dopo la predisposizione dei legati e
l’istituzione di erede, si incontra la nomina dell’esecutore
testamentario: si trattava di parenti ed
amici o, a volte, di un notaio conoscente
del testatore.
L’atto del testamento termina con la
formula dell’actum, cioè l’indicazione
del luogo del rogito, le attestazioni dei
due pronotai, dei cinque testimoni
presenti alla stesura e la sottoscrizione
del notaio rogante, il quale attraverso il
proprio segno di tabellionato sulla
imbreviatura garantisce ulteriormente
l’autenticità dell’atto.
LE ULTIME VOLONTÀ
Nel Settecento il testamento era una pratica diffusa che non
coinvolgeva soltanto le classi benestanti: molte
persone, raggiungendo una certa età e iniziando
a pensare alla morte, si recavano da un notaio
per sottoscrivere questo atto. Bisogna però
ricordare che l’atto testamentario riguardava
principalmente l’uomo, solo raramente questa
pratica era utilizzata dalle donne; ciò accadeva
perché era costui a preoccuparsi di conservare
l’unità del patrimonio familiare.
Quando il testatore era un uomo l’eredità
veniva trasmessa per lo più al primogenito o ad
un altro componente maschile della famiglia,
mentre nei testamenti rilasciati dalle donne
spesso l’erede era una persona esterna al nucleo
familiare. Bisogna ricordare che l’atto
testamentario di donne era assai diffuso tra le
vedove.
In un testamento nuncupativo, oltre all’erede,
era data molta importanza alla figura del legato,
o più spesso dei legati. Il legato, a differenza
dell’erede, veniva sempre scelto liberamente
dal testatore per esprimere riconoscenza: in
questo modo venivano gratificati tutti i membri
del nucleo familiare, compresi i domestici e i
conoscenti di famiglia; spesso tra i legati
emergevano anche medici e notai. Inoltre in
quasi ogni testamento i legati riguardano anche
enti ecclesiastici e luoghi pii ed è stata
riscontrata la pratica diffusa tra i testatori di
lasciare una parte del proprio patrimonio ad
una persona, di solito all’erede, con l’obbligo
di far celebrare un determinato, ma non esiguo, numero di messe
in suffragio della propria anima.
In caso di rinuncia dell'erede designato, il testatore provvedeva
anche a indicare il suo eventuale sostituto.
Testamento Bonicelli
Testamento Albertario
Testamento Balli
Testamento Lomazzo
Tra i lasciti curiosi e stravaganti, nel
testamento del 1793 del marchese Prati
Andreani, al confessore viene destinata...
della cioccolata!
11. BIOGRAFIA
Morì il 7 Aprile 1725 nella sua casa milanese, in contrada S.
Margherita in Porta Nuova nella parrocchia di S. Damiano. Era
figlia del defunto Sig. Bartolomeo Bonicelli e vedova di Carlo
Nicora di Porta Nuova. Il loro matrimonio era stato contratto nel
1697 ed ella aveva istituito a lui la sua prima dote.
Il suo lavoro consisteva nella vendita di stoffe su pegno, per cui il
guadagno maggiore le perveniva non dalla vendita ma bensì dagli
interessi maturati sul prestito che per legge se non restituito dava
diritto al prestatore di sequestrare i beni mobili ed immobili del
debitore; in questa attività fu sempre aiutata da suo marito dal
punto di vista legale fino al punto di morte.
Si era poi risposata con il signor Bernardo Serravalle di Tortona.
Nel 1724 si presentò a casa dell'amico notaio milanese Elia
Mascarone a cui dettò il suo testamento definitivo.
TESTAMENTO
Redatto il 18 Luglio 1724 presso l'abitazione del notaio Elia
Mascarone, il testamento è diviso in sei parti.
Nella prima parte Margherita raccomanda che gli eredi non lascino
debiti da lei in vita contratti poiché ciò potrebbe compromettere la
sua salvezza eterna.
Nella seconda emergono punti collegati alla sua personale fede e
devozione. La donna si rivolge a Dio, alla Vergine e ad altri santi,
riflettendo su quanto convenga il far preventivamente le
deposizioni delle cose terrene e temporali e non differirle fino agli
ultimi momenti della vita.
Nella terza parte espone le disposizioni per la sepoltura della sua
salma: ordina, nel caso in cui morisse a Milano, che il suo corpo
venga portato nella chiesa di S. Maria del Giardino con
l'accompagnamento di dodici sacerdoti laici e dodici regolari, nel
caso in cui la sua morte non avvenisse a Milano ordina che il suo
corpo venga portato nella chiesa parrocchiale accompagnato da
ventiquattro Sacerdoti.
Nella quarta lascia le disposizioni per la sua anima: ordina che si
debbano celebrare mille messe nei tre mesi successivi alla sua
morte nelle chiese che l'erede riterrà migliori.
Nella quinta parte si sofferma ad indicare tutti i suoi eredi e i beni
che dovranno ricevere.
Nella sesta e conclusiva parte si ha il lascito alla Veneranda
Congregazione della Madonna Pia di Loreto presso la chiesa di San
Fedele a Milano per la protezione delle nobili famiglie decadute.
COMMERCIANTE DI TELE
E USURAIA
La donna nobile nel 700, al contrario di come si potrebbe pensare,
non era esclusa, ma anzi era attiva nell'attività commerciale e aveva
influenza nelle decisioni familiari. Ella poteva decidere di tutti i
suoi beni senza il controllo da parte del marito, che invece doveva
accompagnarla in tutte le altre decisioni per stipulare accordi, per le
compravendite e per qualsiasi atto notarile. Margherita infatti era
indipendente dal marito nel suo lavoro, del quale conosceva le
rendite e gli interessi che questo le portava: aveva infatti un suo
conto personale, alcuni titoli, al Banco di Sant'Ambrogio a Milano.
PRESENZA DI UNA LAVORATRICE
A DOMICILIO
Un prestito tra donne
Oltre al suo lavoro di venditrice di stoffe, da un documento privato
di ricomposizione di lite, redatto il 17 marzo del 1708, sappiamo
anche che prestava denaro ad interesse: grazie a questo documento
si viene infatti a conoscenza dell'attività economica regolarmente
condotta dalla testatrice coadiuvata, da un punto di vista legale, dal
marito Carlo Nicora. Dal documento si evince che Margherita
aveva a suo tempo venduto a credito un certo quantitativo di tela
sbiancata a Francesca, moglie di Giuseppe Guascone, forse una
artigiana, per la somma di centoventi lire e quindici soldi imperiali.
Trascorso il termine pattuito per la restituzione, il debito non era
ancora stato estinto dai coniugi Guascone ed era perciò insorta una
lite con la creditrice. Così Margherita, rappresentata legalmente dal
marito, si era rivolta al giudice del “Segno del Cavallo” di Milano
che le aveva però consigliato di giungere a una composizione
amichevole della lite, onde evitare l’onere delle spese processuali.
Le due parti si accordarono infine nel seguente modo: Giuseppe
Guascone, agendo a nome della moglie Francesca, aveva già
saldato parte del conto, pagando a Carlo Nicora, procuratore di
Margherita, un filippo d’oro equivalente a 109 lire e 15 soldi
imperiali. Ora doveva evidentemente pagare gli interessi maturati
sulla somma, cioè 102 lire e 15 soldi, che egli si impegnò a
restituire dando a Margherita tre lire al mese a partire dall'aprile
successivo fino a estinzione della somma. I due quadri appartenenti
ai coniugi Guascone che la Bonicelli teneva in pegno, sarebbero
stati invece restituiti ai legittimi proprietari soltanto al definitivo
saldo del conto.
Riflettendo su questo documento si può intuire che la Bonicelli non
otteneva il guadagno maggiore dalla vendita in sé bensì dagli
interessi maturati sul prestito, che per legge, se non restituito, dava
diritto al prestatore di sequestrare i beni mobili e immobili del
debitore. Margherita quindi non era soltanto una comune
commerciante di stoffe, ma altresì svolgeva il mestiere di
finanziera-usuraia.
Il signor Carlo Nicora fungeva da procuratore della moglie
Margherita, per legge sottoposta alla patria potestà, garantendo per
lei in sede giudiziaria nel caso di mancata riscossione dei crediti.
(v. fasc. 1 – Crediti, doc. 1708 marzo 17).
Siamo in grado quindi, grazie a questo documento, di sostenere
ancora di più la sua indipendenza e la sua autonomia economica,
ostacolata soltanto dalle leggi di quel tempo che le imponevano di
avere il consenso del marito per la stipulazione di contratti. È forse
proprio per questo infatti che ella ha contratto il secondo
matrimonio, dopo la morte del primo marito Carlo Nicora.
Margherita inoltre sosteneva non solo la sua autonomia, ma anche
quella delle altre donne della sua famiglia, la prima suocera e la
prima cognata, alle quali lascia parte della sua eredità.
IL LIBRICINO DEI CREDITI
Prezioso documento è il Libricino dei crediti di Margherita
Bonicelli, anno 1724 che documenta l'attività commerciale.
Nello stesso documento è registrato un credito con le monache di
Santa Valeria. In questo, come in altri monasteri, era frequente
che le ricoverate svolgessereo dei lavori tessili per i mercanti
milanesi.
12. DIRITTI E PROPRIETÀ
NUBILI
Erano soggetti non autonomi, in ogni
città gli Statuti stabilivano che nessuna
donna potesse compiere alcun atto
della vita civile senza autorizzazione.
Dovevano sempre sottostare al padre,
se vivente, o a chi lo sostituiva
nell'esercizio della tutela. A Milano, in
assenza del padre, le non sposate
venivano assistite da un mondualdo
(figura giuridica di origine longobarda)
o in ordine: da uno o più parenti,in
mancanza di essi, dai vicini, in ultimo
da un giudice.
L'esercizio di queste potestà familiari
comportava doveri di protezione e di controllo che si esprimevano
non solo nella possibilità di impedire la realizzazione di scelte
autonome, ma anche di interventi di carattere disciplinare nei casi
di trasgressione.
L'unica forma di emancipazione dall'autorità paterna restava il
matrimonio.
SEPARATE E DIVORZIATE
Lo scioglimento dei matrimoni era dovuto solo alla morte o
all'entrata in monastero di uno dei due coniugi.
L'annullamento divortium quoad vinculum restituiva ai coniugi lo
stesso status giuridico prima delle nozze.
In caso di separazione cessava l'obbligo della convivenza e anche
quello della cura, ma il matrimonio restava valido: questo rendeva
sempre possibile la riconciliazione e non consentiva nuove nozze.
Nella sentenza, se la moglie era colpevole, perdeva la dote, il diritto
agli alimenti e tutto quanto donatole dal marito, se la colpa era
invece del marito, questi doveva pagarle gli alimenti o
salvaguardare il valore della dote.
La condizone dei separati di fatto, ovvero uomini e donne che,
nonostante il vincolo matrimoniale non vivevano insieme per la
fuga di uno dei due o per decisone comune, era illegittima e non
sospendeva i diritti e i doveri coniugali.
Si crearono istituzioni assistenziali per accogliere le cosiddette
malmaritate, ossia donne sposate che non erano sicure nella loro
casa, certamente per timore dei mariti.
VEDOVE
Rimanevano escluse dall'esercizio della patria potestà.
Mantenendo lo stato vedovile potevano essere designate tutrici dei
figli minori o dei nipoti (cura della persona e amministrazione del
patrimonio da essi ereditato). La madre, non potendo ereditare
nulla dai figli, era l'unico soggetto "non interessato", portatore di
amore puro.
La tutela poteva comportare anche l'usufrutto sui beni amministrati:
tale prerogativa era assegnata alle vedove solo per volontà espressa
dal marito nel testamento. I tutori, inoltre, dovevano presentare un
inventario iniziale dei beni del minore, un rendiconto annuale e uno
finale della gestione economica.
Il limite più forte all'esercizio della tutela riguardava proprio le
madri, esse decadevano da questa funzione in caso di nuovo
matrimonio. Questo evento le inseriva in una nuova
famiglia sottomettendole all'autorità maritale di un
estraneo, rispetto alla linea di discendenza familiare cui
erano considerati appartenenti i figli, cioè quella paterna.
Se il defunto marito non aveva figli tutto il suo patrimonio
spettava alla vedova.
In presenza dei figli, invece, la vedova riceveva tutto ciò
che era di proprietà del marito, eccetto la veste nuziale, i
preziosi e il letto nuziale, che rientravano nell'eredità.
Nel caso in cui il defunto avesse avuto figli da un altro
matrimonio, la vedova riceveva due delle tre parti
dell'eredità (veste nuziale, preziosi e letto nuziale) in
modo tale che la somma delle due parti ricevute
equivalesse alla sua dote.
La vedova riceveva le vesti da lutto del defunto, da
restituire però agli eredi del marito nel caso si risposasse.
Gli eredi dovevano restituire la dote alla vedova dopo la
morte del coniuge.
Il loro sostentamento
Se la vedova non aveva la disponibilità economica
sufficiente, gli eredi del marito si dovevano impegnare a
pagarle gli alimenti.
Qualunque erede era tenuto a pagare gli alimenti; in caso
di nuove nozze, ovviamente questo pagamento veniva
sospeso in modo definitivo.
L'unica eccezione: se nel testamento il marito defunto
stabiliva che venissero pagati gli alimenti alla moglie,
anche se questa si risposava, la vedova non perdeva il
diritto di usufruirne.
SUL LAVORO FEMMINILE
ARTIGIANE E OPERAIE
Nella manifattura tessile la bottega artigiana fu progressivamente
soppiantata da masse di operai non specializzati, ciò comportò un
aumento del peso della manodopera femminile.
Le donne prestavano il loro lavoro soprattutto per contribuire al
reddito familiare o per coprire le spese della propria sussistenza.
Il tessile, l'abbigliamento e la vendita di generi alimentari vedevano
impiegate le rappresentanti delle classi più umili, mentre le mogli
dei maestri artigiani assistevano i mariti nella conduzione della
bottega e nella direzione del personale.
Fra il popolo minuto la capacità lavorativa della donna era di vitale
importanza e diveniva parte integrante della dote al momento del
matrimonio.
Le donne, oltre che nelle tradizionali mansioni della filatura e
dell'incannatura, trovarono sempre più spazio anche nella tessitura
e progressivamente sostituirono quasi completamente la
manodopera maschile. Nonostante l'enorme importanza del lavoro
femminile nella società d'ancien régime, nei censimenti la donna
venne classificata soprattutto per il suo stato civile, contrariamente
a ciò che accadeva per l'uomo.
Dal testamento risulta che Margherita Bonicelli ha delle
cartelle, dei titoli, presso il Banco di Sant’Ambrogio e ne
conosce molto bene il rendimento.
L'esempio della peste del 1576
In coincidenza con la peste scoppiata in quell'anno a Milano, alcuni
parroci avvertirono l'esigenza di segnalare lo status professionale di
tutte le donne delle loro circoscrizioni. In una situazione di crisi,
quando erano inevitabili per le masse di lavoratrici urbane la
disoccupazione e la miseria, era importante definire con precisione
la situazione lavorativa delle singole famiglie, le loro risorse e
l'opportunità di un'eventuale assistenza.
Proprio nei mesi del contagio epidemico, nell'autunno del 1576,
risalgono due stati d'anime che ben si prestano a darci un quadro
del lavoro femminile. Ben 422 donne, delle 1350 residenti nelle
parrocchie si S. Michele alla Chiusa e S. Eufemia, svolgono
un'attività professionale; ne risulta che la quasi totalità delle donne
del popolo minuto fra i 12 e i 60 anni partecipava all'economia
familiare. Di queste 422 donne 258 trovavano impiego nel settore
tessile.
Erano tra le 10/15.000 le milanesi che partecipavano alla
produzione delle manifatture urbane e i monasteri femminili erano
fra i principali prestatori d'opera nell'industria tessile urbana; la loro
attività è spesso documentata nei libri dei conti mercantili. Nel
1611, il mercante serico Cesare Somaglia annota fra i creditori le
monache del Gesù e di S. Caterina per l'orditura della seta, e quelle
del Bocchetto e di S. Vincenzo per l'incannatura. Gerolamo Oldoni
si affida invece per la lavorazione dei suoi drappi auroserici alle
monache di S. Caterina e di S. Orsola. Le stessa relazione, come
abbiamo indicato, riguardò la Bonicelli e la Pia casa di Santa
Valeria.
LA CAPOFAMIGLIA
E LE CONVIVENZE TRA DONNE
Negli anni senza crisi, la quasi totalità dei miserabili è composta da
donne sole o con figli piccoli, in genere vedove; fin dal 1400 nelle
città la presenza di nuclei a conduzione femminile era rilevante. A
Milano, ad esempio, nel 1610 erano 1912 su un campione di 9335,
ovvero più di 1 su 5. Il nubilato inoltre era molto diffuso nei ceti
popolari per la questione della dote, in quelli elevati per l'integrità
del patrimonio, oltre alta più alta mortalità maschile.
Per la maggior parte delle donne rimaste sole l’assoluta mancanza di
un supporto esterno veniva in parte sanata grazie ad una mutua
assistenza e all’instaurazione di forti vincoli di solidarietà. Solo
raramente, infatti, le strutture familiari fungevano da valido
appoggio. Fra i nuclei femminili sono in maggioranza le famiglie
composte dalla madre, perlopiù vedova e con figli in tenera età; è
questo in genere il caso più gravoso per la capofamiglia che talvolta
accoglie nel nucleo una «compagna» esterna disposta, per fuggire la
solitudine, a condividere gli oneri quotidiani. Altre volte la madre
vedova si riunisce con una o più figlie rimaste a loro volta vedove e
senza risorse. Tuttavia la disgregazione familiare, sempre
incombente nei nuclei più poveri, portava alla formazione di ampi
strati di solitarie.
Più interessanti, anche se meno numerosi, sono però i casi di
convivenze di più donne, spesso senza alcun legame di parentela. Si
tratta di un fenomeno, assai diffuso nelle città europee dell’età
moderna, e consiste nel raggruppamento di donne che dividono
spese di vitto e alloggio, organizzano il lavoro in comune e si
prestano assistenza reciproca in caso di bisogno. Pur riunendo
talvolta anche quattro o cinque persone, queste convivenze
riguardano, perlopiù, due o tre vedove o abbandonate dal marito,
quasi sempre in misere condizioni: esemplare è il nucleo di quattro
donne che troviamo al Borghetto in San Babila, formato da una
vedova, una mendicante e due donne dell’Hospitale.
Queste coabitazioni femminili sono particolarmente diffuse nei
quartieri periferici e più poveri; se infatti la presenza di nuclei
guidati da donne è in tutte le circoscrizioni urbane fra il 12 e il 30%,
aumentano vistosamente nelle aree popolari. (fonte D. Zardin, La
città e i poveri).
LE SERVE
Molte donne sole, specialmente quelle provenienti dalle campagne,
trovavano rifugio nel lavoro domestico. L'entrata a servizio a
partire dai 12-14 anni, che era effettuata tramite la stipulazione di
atti notarili, gli accordia ancillae, che assicuravano mantenimento e
inserimento in una nuova famiglia.
La condizione servile durava circa 10 anni e consentiva alle giovani
di contare su vitto, alloggio, vestiario e una somma di denaro di
circa 10 lire annue, a seconda del rango del datore di lavoro. Ciò
serviva loro per accumulare una modesta dote, infatti nel contratto
erano previste delle clausole che permettevano alla serva, in caso di
nozze, di rompere gli impegni di lavoro prima della scadenza.
I rapporti di vicinato erano molto importanti per la circolazione
della servitù fra le mura urbane, infatti al momento di cambiare
padrone le serve si spostavano nell'ambito delle famiglie del
quartiere dove erano cresciute, grazie anche alle referenze dei
precedenti datori di lavoro. Fu questo il caso di Margherita Notari,
giunta dodicenne a Milano nel 1580, fu assunta dal filatore Agosto
Curti che lasciò dopo due anni per spostarsi sol di pochi metri,
entrando a servizio del vicino di casa Alberto Borsa.
Ne l l e font i e saminat e s i r i t rova
que s ta impor tant e c at e gor ia di
lavor at r i c i
Pe c chio fa un las c i to pe r una
Gove rnat r i c e e pe r una Donna de l la
sua c asa
Albe r tar io la s c ia al la s e r va I sabe l la
Riva 100 l i re impe r ia l i , a pat to che
s ia anc or a al suo s e r vi z io.
13. FIGLIE E FIGLI
Negli stati preunitari le nubili non avevano alcun diritto
patrimoniale, le donne, anche vedove, che si sposavano avevano
diritto soltanto alla dote.
Fino a metà del XVI secolo i figli partecipavano equamente alla
spartizione dell'eredità, mentre le figlie erano mantenute dalla
propria famiglia e ricevevano solo la dote per sposarsi.
Nell'epoca successiva restava la preminenza dei maschi: i
primogeniti ottenevano il patrimonio paterno o una sua parte molto
consistente mentre ai cadetti spettava una rendita.
Le figlie, al momento della costituzione della dote, di solito
rinunciavano formalmente non solo all'eredità sul patrimonio
paterno, dal quale era prelevata la devoluzione matrimoniale, ma
anche a quella sui beni materni; si evitava così che potesse
pervenire nelle loro mani una parte dei beni della famiglia.
La trasmissione dei patrimoni materni, normalmente di entità
assai più ridotta, non era regolata in modo omogeneo; ad esempio a
Firenze e Bologna essa escludeva, come quella paterna, le figlie,
mentre a Venezia si trasmetteva con perfetta bilateralità, fra maschi
e femmine, a meno che non venisse su di essa prelevata la dote.
IL CELIBATO SALVAGUARDIA DEL PATRIMONIO
Il mantenimento del patrimonio portava le figlie a rinunciare a
entrambi i lasciti così, al momento della formazione della dote, le
donne rinunciavano all'eredità, se però mancavano eredi maschi
potevano ottenere i beni della famiglia.
L'affermarsi di norme successorie che tendevano a preservare
l'integrità del patrimonio familiare aveva favorito nei ceti
aristocratici una larga diffusione del celibato sia maschile sia
femminile.
NUBILATO
Il diffondersi di quello maschile riduceva, per le nubili
appartenenti lo stesso ceto sociale, la possibilità di trovare sul
mercato matrimoniale una soluzione adeguata, e impediva alle
famiglie quel gioco di compensazioni fra le doti in uscita (cedute
alle figlie sposate) e quelle in entrata (apportate dalle nuore).
Assai meno numerosi, almeno fino a XVIII secolo inoltrato,
furono i casi di nubilato domestico, cioè vissuto all'interno della
casa dei genitori o di un fratello sposato.
In tali situazioni, la posizione e il ruolo delle non coniugate
rimaneva marginale non solo nei confronti dei maschi della
famiglia, ma anche rispetto alle altre donne della famiglia ossia
madri o cognate.
MONACAZIONE E DOTE
Un numero consistente di figlie dell'aristocrazia di solito era
destinata alla monacazione, per la quale pure era richiesta una dote,
ma di valore considerevolmente più basso.
Spesso i genitori mettevano in convento le figlie prima della
pubertà, perché venissero educate e preservate da pericoli di
seduzione.
Quando esse raggiungevano l'età adeguata si decideva, con o
senza il loro consenso, se destinarle al matrimonio o alla
monacazione.
LE GIOVANI POVERE
Nei ceti inferiori l'impossibilità di disporre di una dote familiare
impediva alle giovani di sposarsi. Il loro lavoro, per esempio quello
di serve domestiche, era finalizzato proprio a costituirla.
Le appartenenti alle famiglie più povere facevano ricorso spesso
anche alle attività assistenziali delle confraternite, delle opere pie e
delle corporazioni di mestiere (per le orfane dei soci): infatti, nel
bilancio annuale di queste istituzioni, era prevista la devoluzione di
doti per fanciulle povere o appartenenti a famiglie di altri ceti
sociali in difficoltà.
Particolari condizioni di crisi potevano così determinare, in ogni
ceto, l'impossibilità di costruire una dote sufficiente a concludere
un matrimonio adeguato al proprio status e comportare quindi la
rinuncia alle nozze.
LA GESTIONE DELLA DOTE
Durante il matrimonio, la dote veniva amministrata dal marito,
che ne godeva anche i frutti. Alla sua morte, gli eredi avevano
l'obbligo di restituirla alla moglie oppure, in caso di norme o
clausole differenti, a coloro che l'avevano costituita. Se a morire era
la moglie, gli statuti o gli accordi fra le parti prevedevano talvolta i
lucri dotali: una parte dei beni o dei valori (di solito un terzo o la
metà) era del marito.
La dote dunque era il patrimonio che di solito la legge metteva a
disposizione delle vedove. La sua restituzione fu spesso causa di
conflitti fra le donne e gli eredi del marito.
Quando si trattava di un valore consistente, inoltre, la volontà di
controllo creava tensione fra famiglia originaria e famiglia
acquisita. L'eventualità di vivere in modo indipendente rimaneva
così, per le vedove dei ceti proprietari, e in particolare per quelli
aristocratici, assai limitata.
La loro formazione non derivava da un diritto ereditario
individuale, bensì da contingenze particolari (come l'assenza di
eredi maschi) o atti discrezionali come una donazione o
l'espressione di una volontà testamentaria (del padre, del marito, di
chiunque altro). Ovviamente tali condizioni rendevano i patrimoni
delle donne molto meno numerosi e di solito assai meno consistenti
di quelli degli uomini.
Le norme sull'eredità e sulla dote tendevano a mantenere separati,
in assenza di figli, i beni del marito da quelli della moglie. Ciò
consentiva di farli tornare, allo scioglimento del matrimonio, nella
linea di successione della famiglia di provenienza.
L'USUFRUTTO
La forma proprietaria più adeguata a impedire confusioni era
quella usufruttuaria: permetteva di percepire temporaneamente i
frutti di un patrimonio, senza concedere la piena disponibilità di
esso, per salvaguardarne una diversa destinazione, così il marito
lasciava alla vedova la disponibilità della dote e dei beni se non si
risposava. Solo l'eredità materna era sicura senza la vedovanza,
quella dei figli solo fino alla maggiore età.
BENI PARAFERNALI
Unica eccezione i beni parafernali, dall’origine greca para juxta
(appresso) e pherne (dote). Erano così definiti i beni attinenti o
accessori alla dote, detti anche a Milano scherpa. Questi
godevano del privilegio di non poter essere utilizzati per saldare i
creditori, né pignorati.
La donna in caso di morte del marito o di divorzio, ritornava in
possesso di questi beni, anche se nel primo caso, a meno che
avesse dei figli. In questo caso era costretta ad aspettare dieci
anni, dal giorno del matrimonio, per utilizzarli, unica eccezione
per la beneficenza (300).
Un'altra restrizione era prevista per il padre verso il figlio
emancipato.
TESTATORI CONIUGE PARENTI ALTRE BENEFICIARIE
LOMAZZI
Maddalena Pusterla: mobilia, suppellettili, biancheria
di Casa, usufrutto della parte di Casa che serviva per
uso di Lomazzi, un Appartamento, 1200 lire l’anno,
solamente se rimarrà in abito viduile
Alla sorella Teresa Sinistra e alla nipote: lire 30 annue
Alla sorella Lucrezia: lire 600 per l'atto del matrimonio
Alle nipoti Maddalena e Angela Maria 1000 lire ciascuna
Dopo la morte del nipote e della moglie la loro eredità dovrà essere
convertita in dodici doti
ALBERTARIO
Barbara Tacca: quarta parte dei suoi beni con l'interesse
del 5%, gli effetti della sua eredità, usufruttuaria
generale
--- Lascia alla Rev. Candida Fortunata Monaca 50 lire imperiali;
Alla serva Isabella Riva 100 lire imperiali
PECCHIO Girolama Pianni: 16000 lire in totale, compreso il
credito per residuo della dote
Alla Signora Antonia Pecchia, figlia del fù Sig. Giacomo
maritata nel Sig. Spirito Rossignolo di Borgomanero lire
seicento Imperiali per una volta tanto
Governatrice Maria Tornesa Bergamasca, Angiola Bogiana Genovese
donna della sua residenza
BONICELLI Un richiamo alle parenti, suocera e cognata, del primo
marito defunto. Nessun riferimento al nuovo coniuge
Signora Margarita Borsana, suocera
Maddalena Nicora, cognata
Signora Angiola, moglie di suo cognato Battista Nicora
Figlie della famiglia Nicora
Signora Clara, moglie del Sig. Giuseppe Galbiati
BALLI
Anna Maria Arletti: le lascia 4000 lire annue (mille lire
ogni tre mesi), ma revoca il legato della sua casa da
Nobile, Giardino, e Mobili di Cernuschio, e anche
quello delle tre brente di Vino, e due mogge di
Formento, che dovevano esserle date in occasione della
sua villeggiatura a Cernuschio, e comanda che passino
liberi al suo erede principale
Lascia un aiuto al Sig. Carlo Federico Cabiati suo
cognato, e alla Signora Lucia Arletti di lui moglie, e
sorella di sua moglie
A Suor Marianna Fortis sua cugina Monaca: dodici cerini
A sua cognata Suor Maria Giuseppa Arletti cognata
Monaca: 15 lire annue;
A Suor Colomba Benedetta e Suor Laura Maria sue
cugine: 30 lire annue
1600 lire annue in aiuto di una giovane prostituta che voglia ritirarsi nel
monastero di Santa Valeria
50 lire per ciascuna giovane donna che lavorava nella sua Bottega
Al monastero delle RR.MM. di S. Maria degli Angioli in Porta
Comasina: soldi per far celebrare 33 messe (22 soldi per ciascuna),
moggia di formento, moggia di riso bianco e brenta di vino rosso a
patto che le RR.MM. suffraghino la sua anima
Al monastero delle RR.MM. di Santa Maria delle Grazie in Vailate: 135
lire annue a patto che le RR.MM. suffraghino la sua anima
Dal testamento del Balli un elenco di beni di vario genere
compresi argenti, una carrozza e due cavalli dati alla moglie.
Tutti i beni erano godibili in usufrutto e non diventavano mai
di proprietà della vedova, che anzi dovrà restituirli cessando
detto usufrutto:
o per il passaggio di detta mia Moglie alle seconde Nozze, o
passando la medesima da quella a miglior vita.