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Le fonti d'archivio utilizzate sono i testamenti di quattro benefattori e una benefattrice, vissuti tra il XVII e il XVIII secolo, 
che indicano loro erede universale il Luogo Pio di Loreto. Dai documenti sono state individuate alcune tematiche, che la 
classe, divisa in gruppi, ha approfondito, utilizzando anche altre fonti e testi reperiti in biblioteca o in rete. 
Perché tanta attenzione ai cosiddetti poveri vergognosi? Si deve risalire al milanese sant'Ambrogio. La carità è virtù 
teologale e assume più valore se rivolta a persona declassata che, proprio per il passato decoro, non può confondersi col 
questuante di professione, il vizioso, altresì detto poltrone, ma va aiutata con la necessaria discrezione. La condizione di 
povertà vergognosa, della quale esisteva una specifica iconografia, divenne, però, con l'affermarsi della mentalità che 
giudicava l'incapacità di produrre denaro, sinonimo di inettitudine e parassitismo. 
Una ricerca ha seguito i gesuiti e la conseguente diffusione del culto lauretano a Milano. Partendo dalla leggenda della 
Santa Casa, trasportata dagli angeli da Nazareth fino a Loreto, abbiamo ricostruito alcuni momenti del progressivo affermarsi 
dell'ordine in città; col sostegno ricevuto da San Carlo per la direzione del Seminario milanese, ma anche dello scontro 
sociale che essi innescarono. L'Ordine divenne infatti un riferimento per i nuovi ceti mercantili, opposti al patriziato che si 
riconosceva in Carlo Borromeo. L'analisi degli Statuti della Congregazione ci mostra l'impegno nelle opere di carità verso 
vergognosi, carcerati, pubbliche peccatrici, cui va aggiunto il potere dovuto all'ingente valore delle donazioni, che servirono 
anche a disinvolte pratiche commerciali (compravendita di case, terreni, acquisto di titoli), giudicate, dalle autorità 
ecclesiastiche, poco coerenti con lo spirito gesuitico iniziale, fondato sull'obbligo di povertà. 
Un'altra ricerca ha riguardato il testamento nuncupativo, la fonte più utilizzata, e il notaio, la figura professionale che, 
seguendo una specifica procedura, lo redigeva. Sono stati approfonditi poi alcuni aspetti, sempre in ambito milanese, delle 
altre professioni citate nei testamenti: mercanti, guantai e profumieri, chirurghi e barbieri. 
A partire dalle numerose presenze di donne nei testamenti (mogli, parenti, monache, conoscenti, serve) sono stati esaminati 
diversi aspetti relativi alla condizione femminile. La benefattrice Margherita Bonicelli, vedova di un commerciante e 
usuraio, è un esempio di autonomia e indipendenza. Ella continuò entrambe le attività del marito; il suo secondo matrimonio 
fu dovuto alla necessità, per le leggi del tempo, di garantirsi una sorta di prestanome per le proprie attività commerciali. 
Interessanti anche le relazioni con le altre donne citate nel testamento, parenti del primo marito e di condizione economica 
inferiore. 
Le donne sole: nubili, vedove e malmaritate; secondo gli Statuti milanesi godevano di pochi diritti rispetto alla proprietà, 
inoltre per le vedove, a parte i beni parafernali, un nuovo matrimonio comportava la perdita dei beni ereditati dal coniuge. 
Interessante, per quanto concerne il lavoro femminile, la situazione delle serve, presenti nelle fonti per piccoli lasciti. Il 
lavoro servile era spesso finalizzato alla dote e le congregazioni di beneficenza, oltre ai lasciti testamentari, potevano contare 
annualmente su cospicue somme da destinarsi a putte povere timorate e meritevoli. La dote era la condizione fondamentale 
per accedere al matrimonio ed evitare così forme di mantenimento degradanti e illecite. 
L'alternativa dignitosa al matrimonio era il monastero; nei testamenti si ricordano molte monache che ricevono delle 
somme per il loro mantenimento. Tale condizione era, nei ceti elevati, la soluzione naturale per le figlie non destinate al 
matrimonio; ciò rendeva i monasteri dei luoghi dove la vocazione e la devozione non erano la norma. Il problema delle 
monacazioni forzate e della corruzione delle religiose era diffuso, ben presente anche alle gerarchie ecclesiastiche le cui 
aspre condanne cedevano di fronte alle strategie patrimoniali delle famiglie, che non ammettevano deroghe. 
Nel testamento di Claudio Balli si nomina la Pia Casa di Santa Valeria, alla quale è destinata una somma per il 
mantenimento di donna di pubblico scandalo che ravveduta de' suoi trascorsi, voglia ritirarsi in detto Monastero e nel caso di 
più concorrenti si deve scegliere la più giovane, e la più avvenente, la quale sia in caso di dar maggior scandalo, e far 
peccare il prossimo. Abbiamo quindi ricostruito brevemente l'origine e le finalità del Ritiro di Santa Valeria e, sempre in 
merito al fenomeno alla redenzione di donna che per sua disgrazia si sia data in preda al peccato, un'altra istituzione 
altrettanto famosa all'epoca: il Deposito di San Zeno. Illustre ospite di Santa Valeria fu Marianna de Leyva y Marino, alias 
Suor Virginia Maria, alias Gertrude la Monaca di Monza. 
E per finire vi invitiamo a ... fà el gir di sètt ges! 
Piazza Cordusio, centro delle attività politiche ed economiche. 
Le informazioni sono quasi sempre riferite al contesto milanese. 
LICEO SCIENTIFICO RUSSELL 
GARBAGNATE M. A.S. 2013 - 2014 
D O C E N T E 
P A O L O E R M A N O 
A L L I E V E e A L L I E V I 
C l a r i s s a M a c c h i 
D a v i d e B a s i l i c o 
N i c o l a s C a r l o n e 
M a r c o M a g g i 
E d o a r d o M a l e r b a 
J a c o p o R i z z i 
J a c o p o S t r a d a 
M a t t i a A u r i g h i 
G a b r i e l e C o n s o n n i 
Ema n u e l e L e o n i 
M i c h a e l L o v i g l i o 
G i a n l u c a M u s a r r a 
M a r c o M u s c a 
F a b i o S i c o r e l l o 
C a r o l i n a B e z z i 
L u c i e F e r r e t t i 
L a u r a G a z z o l a 
I r e n e G i n i 
C ami l l a M a r e t t a 
S a r a T o n i u t t i 
G r e t a V a r a n o 
M a r i a c r i s t i n a 
V i c a r i o 
F e d e r i c a Z a n e l l a 
F r a n c e s c o A b b i a t i 
I r e n e D ' a l o i a 
O t t a v i a L amb e r t i
GIUSEPPE ALBERTARIO 
Figlio di Ambrogio (+ 12 febbraio 1703) 
Test. il 4 febbraio del 1701. 
Sposato con Barbara Tacca, ebbe un fratello, Francesco Albertario, 
e due sorelle, Margherita, Colomba e Paola, delle quali una gli 
diede un nipote, Luca Vertua. In casa viveva una serva, Isabella, 
alla quale nel testamento lasciò una somma di denaro. Lavorò 
come chirurgo barbiere; possedeva una bottega dove lavorava 
anche un giovine al quale lasciò i suoi attrezzi; inoltre esercitava la 
professione di chirurgo nelle case. 
Al momento della stesura del testamento era già infermo da alcune 
settimane. 
Documento manoscritto che fotografa un momento 
dell’attività di Albertario, 12 febbraio 1703 
Ordinazione fatta dalli signori abbati e sindaci 
dell’Università de’ barbieri e chirurghi di Milano ad 
istanza del signor Giuseppe Albertario con la quale 
hanno dichiarato che Francesco Ferri paghi al detto 
Albertario filippi cinque di netto oltre tutto ciò che possa 
essere stato pagato per l’addietro e ciò per le cure e 
visite dal detto Albertario fatte alla moglie di detto Ferri. 
Copia autentica estratta dal libro delle ordinazioni del 
signor Federico Maggi notaio di Milano e cancelliere di 
detta università 
FRANCESCO PECCHIO 
Conte, figlio del fu Cesare (+ 1773). 
Il titolo gli fu conferito dall’imperatore Carlo VI. 
La sua fede cattolica appare nel testamento (1717) 
come unico vero valore. Gentiluomo, già in vita 
molto benevolo, come dichiara nella richiesta del 
titolo,viveva delle sue entrate. All'età di 
sessantacinque anni, senza moglie (Girolama 
Pianni era stata la sua consorte ) né figli, volle 
avere un titolo onorifico: conte senza obbligo di 
prendere feudo. 
CLAUDIO BALLI 
Oriundo di Tur (oggi La Tour) del Ducato di Savoia si trasferì a 
Milano, dove si sposò con Anna Maria Arletti ed ebbe dei figli. Fu 
compossessore della chiesa di San Fedele, attivo e presente in 
numerose congregazioni religiose della città. Da più di un 
decennio abitò nella città di Milano, ove acquisì la cittadinanza, 
che gli permise di svolgere la sua attività di profumiere e 
pellettiere. La cittadinanza gli fu concessa il 12 settembre 1691, 
così il nome originario, Claude Bailly, fu italianizzato in Claudio 
Balli. 
Vestrae servus fidelis tamquam quis ultra 
decennium habitavit in hac Mediolani civitate... 
Carlo Secondo per grazia di Dio re di Spagna e delle 
due Sicilie e duca di Milano. Claudio Balli ci ha 
inoltrato la seguente supplica (...) servo fedele della 
Maestà Vostra, tanto che da più di un decennio ha 
abitato nella città di Milano, essere considerato nel 
novero dei concittadini della sua città e godere dei loro 
privilegi, per la qual ragione si è rivolto umilmente alla 
Maestà Vostra, pregando si degni di dichiarare con sue 
lettere patenti, provata la detta residenza per oltre un 
decennio, che il supplicante ha acquisito il diritto di 
cittadinanza in questa città di Milano e quindi possa 
stipulare, sciogliere, acquisire, comprare, vendere, 
alienare e operare in tutto il resto e commerciare, tanto 
per via giudiziaria che senza, in tutto e per tutto come 
possono fare i veri cittadini e abitanti e originari della 
predetta città…. 
LOMAZZI GIOVANNI 
Lomazzi Giovanni Pietro q. Melchione (1650-1713), sposato con 
Maddalena Pusterla nominò erede universale la Congregazione di 
Loreto con l’obbligo di erogare annualmente lire 3.600 di 
imperiali in doti di lire 300 l’una e il resto dei redditi in sussidi «a 
poveri vergognosi conforme il stile et solito di detta veneranda 
congregazione e loco pio» (Testamento 1 aprile 1681). Il Lomazzo 
fu un ricco mercante che aveva negozio in Milano nella contrada 
del Cappello. La sua eredità comprendeva: una casa al Ponte dei 
Fabbri in Porta Ticinese del valore di lire 24.000, una casa in Porta 
Ticinese, parrocchia di S. Ambrogio in Solariolo, (di lire 24.000), 
un'altra in Porta Ticinese (di lire 20.000) e due con botteghe nella 
contrada del Cappello del complessivo valore di lire 26.000. Fra i 
beni immobili e mobili, il Luogo pio eredita alla morte del 
Lomazzo, avvenuta nel 1682, un patrimonio ascendente a lire 
209.425, fruttante annualmente lire 7.019,10. 
Quietanza 1669 al 31 dicembre 
Si è rogato instromento sotto il giorno d’oggi da 
Nicolo Magno publico notare di Millano et causidico 
collegiato dal quale appare che il signor Pavolo 
Regibus ha receputo lire 3.000 in vero et real deposito 
et in prestito con obligo di restituirli al signor 
Giovanni Pietro Lomazzo ad ogni sua richiesta e tra 
tanto sino che segua l’effetiva restituzione delle 
suddette lire 3.000. Pagare il cinque per cento. 
DUE RITRATTI DEL CONTE PECCHIO 
Dardanone Gaetano post 1733: pittura, olio su tela 118,8 cm x 209,4 cm Milano, 
Raccolte d'Arte dell'Ospedale Maggiore. 
Pittore lombardo, quarto decennio del XVIII secolo. 
In entrambe le rappresentazioni il Conte è ritratto vicino ad un tavolo mentre 
indica i fogli del testamento. 
Nei dipinti sono sottolineati dei tratti tipici della nobiltà: il parruccone, la marsina 
svasata e decorata con bottoni fermati in ampie asole e, infine, l'abbondante 
camicia. 
La posizione assunta, un po' civettuola, è molto simile, differente invece la 
postura. Nel dipinto dell'Ospedale, a destra, viene sottolineata la figura: entrambi 
i piedi sono rivolti verso l’osservatore, la schiena è dritta e rigida; nell'altro 
ritratto, probabilmente derivata dalla precedente, ci appare più nelle vesti di 
benefattore che di Conte, si mostra una posizione più inclinata, un piede è 
seminascosto dal tavolo, e indica con più enfasi lo stesso testamento; infine, nel 
viso quasi privo di espressività, appare un lieve sorriso.
VERGOGNA ALTRO NON ESSER 
CHE TIMOR D’INFAMIA 
Da questa definizione di Aristotele è derivato nei secoli cristiani il 
concetto di povero vergognoso. 
ORIGINE CONCEZIONE NEL CRISTIANESIMO 
La prima critica nei confronti dei poveri vergognosi la muove 
Sant’Ambrogio di Milano nel De officiis: 
“Sei colpevole se un fedele vive nel bisogno senza che tu provveda 
[…] è meglio che anche tu aiuti i tuoi, che si vergognano di 
chiedere ad altri”. 
Quando si dà bisogna considerare il pericolo di fraudolenza, l’età , 
la debolezza e talora la vergogna; il fedele dovrà quindi “vedere 
chi non lo vede, cercare chi si vergogna di essere visto”. 
La compassione è il motore che muove a fare l’elemosina ed è 
maggiore verso i nobili e i ricchi che la sventura ha gettato nella 
miseria. 
Pier Damiani, Dottore della Chiesa, dà questa definizione di 
povero vergognoso: 
“Uomini di nobile condizione oppressi dall’indigenza, tormentati 
dalla povertà” [ incapaci di mendicare, e per questo] “la loro 
indigenza deve essere compresa più che vista”. 
SOLIDARIETÀ TRA GLI STESSI CETI 
Dai verbali della Scuola di Martino fondata a Ferrara nel 1491 per 
poveri vergognosi, troviamo un senso di identificazione 
corporativa fra membri diversamente fortunati del ceto dominante 
(dottori, mercanti, notai). Si ritrovavano in una sorta di concetto 
non corporeo di parentela, uniti anche dalla ugual sorte a cui 
potranno andare incontro, come definisce Juan Luis Vives nel 
1525. 
DUE TIPI DI VERGOGNOSI 
C'è un problema che ricorre sempre, ovvero marcare quella linea 
netta che deve differenziare chi merita e da chi se ne approfitta. 
“ Veri vergognosi s’intendono essere li gentiluomini che han 
sempre vissuto civilmente, a cui si darà una elemosina 
conveniente poiché essi si vergognano di domandare”. 
La seconda categoria è quella di coloro a cui “non è molta 
vergogna”. Anche a Firenze nel 1622 i Buonomini disquisiranno 
su cittadini considerati “più vergognosi”, “con la maggior 
vergogna”. 
Il processo si consolida a Bologna nel 1641 con la dichiarazione di 
quali siano i veri vergognosi, ai quali si debba sovvenire e quali 
siano necessitosi ma non vergognosi. Da questa riforma abbiamo 
una definizione ancora più restrittiva di povero vergognoso, in 
quanto considerati: 
“ vergognosi sono i gentiluomini, cittadini, mercanti ricchi, e più 
anche gl’artefici padroni di buoni capitali d’arti onorate e non 
vili, i quali con le loro facoltà sono vissuti 
per il passato sempre bene e onoratamente 
e poi sono caduti in povertà non per causa 
dolosa”. 
LA VITIOSA VERGOGNA 
Annibale Pocaterra , filosofo e poeta del 
1500, discute le alterazioni della vergogna 
nell’opera Due dialogi, in quanto essa 
rende gli uomini “effeminati e stupidi” 
segno di milensa e dissipita bontà. Il 
filosofo prende ispirazione da Plutarco che 
aveva dedicato un intero trattato morale “ 
De vitioso pudore” alla stessa tesi che viene 
però semplificata come rivendicazione del 
proprio ruolo in società, e orgoglio in una 
cultura competitiva e maschilista. Pocaterra 
aggiunge inoltre che “male sta la vergogna 
nel povero e necessitoso”. 
Nel 1600 l’interpretazione del Pocaterra 
verrà condivisa in una commedia di Tirso 
Molina, in cui il giovane protagonista viene 
deriso dalle donne proprio per un senso di 
vergogna eccessivo. 
LE TRUFFE 
I secoli d'oro dei vergognosi sono anche i 
secoli d'oro del sospetto. Che siano proprio 
la segretezza e i privilegi a rendere gli 
inganni appetibili e praticabili? Truffe , 
inganni crescono attorno ai poveri 
vergognosi sin dal Medioevo, ma la 
fioritura piena è della prima Età moderna. 
Il già citato Vives, filosofo del 1500, nella 
sua opera De subventione pauperum, 
suggerisce al Senato la necessità di svelare le identità, così da non 
generare il sospetto; purché non sia “tanto grande la dignità del 
povero da esentarlo da simile vergogna”. 
Gasparo Contarini, vescovo del XVI secolo, ha mostrato il timore: 
“che alcuni sfaccendati, profittanto delle copiose elemosine, si 
diano all'ozio come capita spesso”. 
Analogamente la Società della Carità di Verona ammonisce: 
“dove se procura proveder alle miserie de vergognosi , non si 
nudrisca poltronaria”. 
È evidente quindi il problema di conciliare la segretezza coi 
controlli di merito e col rigore amministrativo. Sembra un 
paradosso, ma, per i vergognosi, esser conosciuti è requisito 
preliminare per poi divenire anonimi; i poveri comuni,al contrario, 
vanno nominati, schedati, obbligati al contrassegno. 
LA SCOMPARSA DEI POVERI VERGOGNOSI 
L'Età napoleonica portò alla soppressione e alla centralizzazione 
delle istituzioni assistenziali. Lo spirito dell'epoca è riassunto dalle 
considerazioni del sacerdote Luigi Morandi contenute nell'Opera 
de' vergognosi, in cui li definisce come : 
“stabilimento aristocratico ordinato a mantenere la differenza dei 
ranghi […] che non uguaglia il sovvenimento al bisogno ma al 
comodo e alle decenze e conduce all'inerzia del vivere senza far 
nulla“. 
Già nell'Illuminismo però vengono criticati dal radicalismo 
mercantilista., tanto che Antonio Genovesi, insegnante di 
economia civile a Napoli, li descrive così: 
“ Non vi è nel mondo persona di niuna condizione che non possa 
onestamente esercitar qualche mestiero […] La sola poltroneria 
mi pare la più vergognosa di tutte le professioni”. 
Cambia la mentalità, vergognoso diventa sinonimo di ozioso. 
Molte opere pie risorgono nel periodo del Risorgimento, ma non 
tutte, e spesso quelle per i vergognosi non vengono ricostituite, 
anzi, se risorgono, lasciano trasparire una riduzione di capacità 
operative e finanziarie. 
Milano in questo, costituirà però un'eccezione: nel 1830 si 
soccorreranno ancora, con 58.000 lire, ben 573 famiglie 
vergognose “a cui non può convenire di presentarsi 
pubblicamente”. 
L'ultimo verbale di patrocinio per iniziative analoghe lo abbiamo 
nel 1881: a Lucca il Conte Cesare Sardi fondò un'opera dei 
vergognosi in quanto essi hanno “diritto di vivere”. 
CONSEGUENZE 
Nella società tendenzialmente borghese dell'Ottocento verranno 
meno le ineguaglianze giuridiche, mentre la rottura delle 
solidarietà di ceto sottoporrà l'individuo all'impersonalità della 
legge economica. Il lavoro troverà la sua piena legittimazione, e il 
denaro s'imporrà come l'unico fattore di stratificazione sociale. 
Lorenzo Lotto, l’elemosina di Sant’Antonino 
Venezia, Chiesa SS. Giovanni e Paolo, 1542 
La parte alta della tela è occupata da Sant’Antonino in trono fra putti e angeli, 
intento a leggere una pergamena; sotto troviamo due diaconi intenti a raccogliere 
le petizioni e distribuire monete ai poveri. Fra questi si notano alcune donne che 
non si sbracciano per ricevere il denaro e consegnare le petizioni, anzi si coprono 
il viso con veli scuri. Queste figure rappresentano i poveri vergognosi. 
Cesare Vecellio 
Vergognosi, In Habiti antichi e moderni, 1598 
Pobero gentiluomo, Padova, Museo civico 
Solo chi sia stato ricco può avere la licenza di vestirsi con il 
caratteristico abito dei Poveri Vergognosi. Questo è un sacco 
“tutto rappezzato” completato da “pianelle (calzature) rotte” 
con un cappuccio, che ha “due fori con i quali vedono e non 
sono veduti”, infine “portano in mano un cartoccio da ricevere 
le elemosine, le quali dimandano più tosto con i gesti che con 
le parole”. 
L’iconografia contribuì a diffondere la credenza che l’idea di 
povertà si connette a quella di vergogna.
PERCHÉ L’ELEMOSINA? 
Definita come atto di carità regolato sulla libera e gratuita 
communicatio honorum , frutto di una relazione libera e 
disinteressata tra le parti, nei confronti di individui considerati 
poveri. 
Questo è e deve essere considerato problema sociale che sollecita 
un comportamento caritatevole. Inoltre l’atto di carità rende 
virtuoso il donatore: infatti ai ceti abbienti piace assai esser più 
generoso che giusto. 
A CHI DESTINARLA? 
In primis: infermi, vedove, orfani, prigionieri, e ... i poveri 
vergognosi, ossia i nobili declassati, privi dei mezzi per ostentare il 
loro status. Si consideri pure il disprezzo umanistico per la povertà: 
Mendicar mi fa vergogna! 
DUE BUONI MOTIVI PER 
ESSERE GENEROSI 
Il primo è la difesa della propria 
casata, di consorterie, e di 
rapporti clientelari. In questo 
modo si avvia un processo di 
razionalizzazione e 
centralizzazione dell’attività 
assistenziale. Il secondo è il, già 
citato, vantaggio spirituale: 
quanto più si fa del bene tanto 
più si diventa virtuosi. 
NASCITA DELLE ISTITUZIONI 
Con la diffusione di questa pratica iniziarono a nascere, anche per 
tutelare l’elemosiniere e garantire la destinazione dei propri 
capitali, Ospedali, Case Pie e Monasteri e naturalmente 
Congregazioni,come il Luogo Pio Loreto di Milano. 
Tutte le pratiche di 
elemosina si trovano 
registrate da Frate Paolo 
Morigi nel Tesoro Precioso 
de’ Milanesi” del 1599. 
Lo stesso Morigi presenta il 
un bizzarro paragone tra 
usura e elemosina. 
5 CATEGORIE DEI POVERI: SECONDI I VERGOGNOSI 
Quanto a chi vada distribuito, non è dubio ch’egli ha di essere a’ 
poveri, ma si ponno ridurre essi di cinque sorti, cioè poveri 
manifesti, vergognosi, di congregationi, pelegrini e forastieri, e 
tristi che fanno l’arte per furfanteria. 
Li primi sono genti per lo più nate, et allevate poveramente, 
alcuni de’ quali sono del tutto impotenti a guadagnarsi da vivere; 
altri hanno bisogno di essere in parte sovenuti et altri ve ne sono 
talmente inetti, ma poltroni che non sanno, o non vogliono 
lavorare anchora che possino; 
li secondi per lo più sono persone già statte di qualche honeste 
qualità, per vani eventi 
fatte povere, et questi 
tali sono tra tutti 
degnissimi di 
compassione et aiutto 
essendo assai men grave 
e tolerabile la povertà 
nel nato povero che non 
è nel fatto povero. 
Li terzi sono poveri 
frati e monache 
convertite rimesse del 
Soccorso, orfani a 
orfane. 
Li quarti sono pelegrini 
che passano di transito, 
o poveri forastieri che 
qui capitano cercando 
tratenimento, et talvolta 
si trovano senza modo, 
né indirizzo; 
gli ultimi sono del tutto 
degni di essere scacciati 
come persone vitiose e 
piene d’ogni 
sceleragini, et che 
sogliono ammorbare la 
città de’ rnali 
contagiosi, nell’anime 
et nei corpi. (Discorso 
di Anonimo officiale circa 
XVI) 
Non sempre lo sguardo verso il vergognoso è caritatevole. Nella 
numerosa compagnia dei ruvinati, nella quale s'entra senza 
memoriali e raccomandationi, di G. M. Mitelli e databile tra a 
cavallo del 1700, la caricatura esprime un severo giudizio sullo 
sprovveduto mercante, primo responsabile della propria miseria. 
Dagli Statuti della Venerabile Congregazione di Loreto 
il capitolo sui poveri vergognosi 
Cavaliere d’Arpino (incerto) 
Vergogna Honesta 
In Iconologia di C. Ripa, 1613 
La donna raffigurata è leggiadra, poiché la vergogna 
conferisce “venustà” e “gratia”; tiene gli occhi bassi, 
secondo il costume di chi si vergogna. 
Il vestito stesso, il cui colore è il rosso, rimanda alla 
vergogna, cosi pure suoi simboli sono: l’elefante, di cui si 
cinta la testa, e lo stesso falcone che tiene sul braccio. 
Infine il motto Dysopia procul significa: 
“stia lontana la soverchia e vitiosa vergogna”. 
In particolare il termine soverchia indica coloro che 
prendono la vergogna senza averne il titolo, non essendo 
mai stati ricchi. 
LA LIMOSINA È SIMILE A USURA 
Una interpretazione dell'usura 
in armonia con la religione! 
Si come quello che presta ad usura ha molto a caro, 
che si differisca il pagamento, perché quanto più si 
tarda il debitore a pagare, tanto più egli guadagna. 
Così fa chi è misericordioso, perché con le limosine 
che fa a' poveri, fa usura con Dio, e però deve 
rallegrarsi che ritardi il pagamento, e che lo riservi 
per l'altra vita, nella quale abbondantissimamente 
sarà rimunerato fa Dio. 
TES TATORI C I T A Z I O N I D E I P O V E R I V E R G O G N O S I 
LOMAZZI 
Lasciti in dote a otto figliuole nobili di Milano per il loro matrimonio temporale. 
Tramite invece la Veneranda Congregazione dà l’indicazione di “spendere in tante elemosine a’ poveri 
vergognosi”. 
ALBERTARIO Lasciti in donazioni, sempre tramite la Veneranda Congregazione, ai poveri vergognosi durante le festività di 
Pasqua e Natale. 
PECCHIO Lasciti di una rendita annua ai poveri vergognosi e ai mercanti decaduti (lui stesso appartiene alla corporazione 
mercantile). 
BONICELLI Lasciti in doti per le figlie della Famiglia Nicola, e i restanti soldi alle povere famiglie decadute della sua città. 
BALLI 
Inizialmente non indica esplicitamente dei lasciti per i poveri vergognosi: “Dare li santi esercizi ogni anno 
[…] a individui che non abbino modo di fare la spesa […] ma dovranno esser tenuti segreti“. 
In seguito dispone chiaramente una donazione mensile alle povere famiglie vergognose e ai mercanti decaduti.
IL CULTO LAURETANO 
Sembra che toccò ai 
soldati di Francesco 
Sforza, di ritorno da 
Ancona, 
testimoniare dei 
miracoli della Santa 
Casa e dunque a far 
conoscere il culto 
lauretano a Milano. 
La devozione spinse 
molti milanesi, 
come la duchessa 
Maria, consorte di 
Filippo M. Visconti, 
al pellegrinaggio a 
Loreto, tra questi il 
più celebre fu San Carlo Borromeo, allora cardinale di Milano. 
Questi celebrò una messa a Loreto per la Natività di Maria, festa 
principale della Santa Casa. 
Tornato a Milano, incominciò a diffondere il culto della Vergine 
lauretana in tutta la Lombardia e incaricò il Richini di edificare 
una chiesa che contenesse la ricostruzione della Santa Casa. 
Venne consacrata dal cardinale Federico Borromeo nel 1616 fuori 
Porta Orientale (oggi porta Venezia), oltre il Lazzaretto; con 
annesso un edificio per il clero e il chiostro. 
Al diffondersi del culto lauretano, nacque pure il Luogo Pio di 
Santa Maria di Loreto, in S. Fedele, fondato dal gesuita Martino 
De Funes. Lo scopo era di raccogliere elemosine da distribuire poi 
ai bisognosi, in particolare ai poveri vergognosi, ex benestanti che 
non erano più in grado di mantenere un tenore di vita degno del 
proprio rango sociale. 
Il Padre Funes fu aiutato da Don Francesco Damaje, patrizio 
spagnolo, detto il “Limosiniere”, che aveva un'alta carica presso 
lo stato di Milano. Successivamente, anche con l'aiuto del governo 
e della nobiltà milanese, il Luogo divenne ricco e potente. 
Nacque, con sede in una casa di fronte alla chiesa di S. Fedele, la 
Congregazione della Beata Vergine di Loreto; i suoi obiettivi: 
provvedere a pratiche di pietà e di devozione ed esercitare opere 
di carità, visitando infermi e carcerati e so ccorrendo i poveri. 
PIO LORETO 
La Congregazione della Madonna di Loreto venne fondata l'8 
dicembre 1601, giorno a cui risalgono i suoi statuti, ad opera 
sempre del De Funes. Il suo obiettivo principale, come detto, era 
quello di fornire sostegno ai poveri vergognosi, agli infermi 
assistiti dall'Ospedale Maggiore, ai carcerati ed alle prostitute, 
destinatari di soccorsi in denaro e di assistenza medica. 
Da subito la Congregazione ottenne ampio aiuto dagli abbienti 
cittadini milanesi attraverso sostanziose donazioni e lasciti 
testamentari, sia in capitali che in immobili in città e in campagna, 
che implicava un intensa attività di compravendita di case e 
terreni. 
Questa disponibilità patrimoniale contrastava con lo spirito 
caritatevole dell'ordine e la costrinse a divenire nel 1607 
confraternita, aperta anche ai laici. Il luogo fu una casa (frutto di 
un lascito) più spaziosa, di fronte alla sede degli stessi Gesuiti. Le 
apparenze furono salve! 
Nel 1723 si trasferirà in Porta Nuova, sotto la parrocchia di Santo 
Stefano in un edificio con la facciata rivolta verso la Piazza di San 
Fedele. 
LEGGENDA DELLA SANTA CASA 
LA CASA DI NAZARETH 
La Santa Casa della Madonna di Loreto conserva, secondo 
un'antica tradizione, la casa nazaretana di Maria.Per milleduecento 
anni ci furono pellegrinaggi a Nazareth di personaggi illustri e 
appartenenti a famiglie reali, ad esempio l’imperatrice Elena, 
madre di Costantino e alcuni santi, tra cui S. Paola e S. Girolamo, 
oltre a S. Re Luigi di Francia. 
Dominazione turca e Crociate resero la Palestina un territorio 
insicuro, ma solo dopo molto tempo arrivò l’intervento del Cielo. 
LA SANTA CASA IN 
CROAZIA 
9-10 maggio 1291. Le 
fondamenta si spostarono da 
Nazareth a Tersatto 
(nell'odierna Croazia), 
durante il papato del 
francescano Nicolò IV, 
nativo di Ascoli, per volontà 
del Cielo già prescritta. Fu 
così che la Dalmazia divenne 
subito un'importante meta di 
pellegrinaggio. L’alleanza fra 
Dalmazia e le rive confinanti 
durò solo 3 anni e sette mesi 
… E FINALMENTE A LORETO! 
10 Dicembre 1294. La casa giunse, volando sull'Adriatico, nelle 
Marche, durante la rinuncia al papato di Celestino V e la nomina 
di Bonifacio VIII. Qui subì ben tre spostamenti. Dapprima si posa 
in una selva di una donna, detta Laureta (da qui il nome); poi, per 
la presenza di ladri nella selva che aggredivano i pellegrini, si 
spostò in un campo di due fratelli, che subito si contesero i 
vantaggi e costrinsero la Vergine a spostarla nuovamente; questa 
volta nella pubblica strada, dove si trova ancora oggi. L'Angelo 
annunciò che questa fu anche la casa di Gesù per 30 anni. 
PERCHÉ LA CASA NELLE MARCHE? 
Semplice (?) nessun’altra provincia ha le sue cinque principali 
città che con le iniziali formino il nome di Maria. 
LA POTENZA DELL'ANGELO 
L’Angelo è dotato di una grandissima potenza, grazie alla quale 
ha compiuto diversi miracoli. 
Un’altra abilità dell’Angelo è quella di essere in grado di muovere 
qualsiasi corpo velocemente; non ci sono fulmini o saette che gli 
possono esser comparati per quanto riguarda la celerità. La 
resistenza dell’aria, viene in questo caso superata dalla virtù 
angelica. Perciò le leggi della fisica possono essere oltrepassate 
dai miracoli che compie l’Angelo. Il suo viaggio si svolse lungo 
una linea retta: partì dalla Galilea, poi passando per Cipro approdò 
in Anatolia, in Asia minore; quindi per l’arcipelago di Macedonia 
e lungo tutta l’Albania, la Dalmazia a Tersatto e infine a Loreto, 
in Italia. In totale furono circa 1895 miglia. Esistono anche delle 
prove riguardanti le testimonianze di avi che hanno visto volare la 
Santa Casa di persona. 
I MIRACOLI DELLA VERGINE 
Appena la Casa arrivò in Istria, la Beata Vergine comparve ad 
Alessandro di Tersatto, un infermo in prossimità di morire, e gli 
rivelò che quello era il luogo dove ella nacque e dove il Figlio 
visse per trent'anni. 
I miracoli riguardarono sia i credenti sia i miscredenti, che così si 
convertivano. 
STRUTTURA DELLA SANTA CASA 
Originariamente la Santa Casa, di pianta rettangolare e priva di 
soffitto, era costituita solo da tre pareti, poiché il restante lato, 
dove sorge l'altare, dava sulla bocca della grotta a Nazareth. La 
parte inferiore delle tre pareti, per quasi tre metri, è costituita da 
filari di pietre, principalmente arenarie, presenti a Nazareth. 
Queste pietre sono state rifinite con una tecnica che ricorda quella 
dei Nabatei, diffusa in Galilea ai tempi di Gesù. Su di esse si 
trovano più di sessanta graffiti, riferibili a quelli giudei di epoca 
remota. La parte superiore è invece costituita da mattoni del 
Loretano. Questa parte nel XIV secolo fu coperta da dipinti a 
fresco, mentre le sottostanti sezioni in pietra furono lasciate a 
vista, esposte alla venerazione dei fedeli. 
Esternamente la Santa Casa è stata ricoperta da un rivestimento 
marmoreo, voluto da Giulio II ed ideato da Donato Bramante. Il 
rivestimento è formato da un basamento con ornamentazioni 
geometriche, da cui si alzano colonne striate, con capitelli corinzi. 
La balaustra è stata aggiunta nel 1533-34. 
L ' i n t e r n o d e l l a S a n t a C a s a 
S a n t u a r i o d i L o r e t o 
Bassorilievo della Basilica che rappresenta le varie traslazioni della Santa Casa
CHI SONO I GESUITI 
IL RUOLO FONDAMENTALE A LORETO 
La Compagnia di Gesù, fondata dallo spagnolo Ignazio Lopez di 
Loyola, ha avuto per circa tre secoli un ruolo fondamentale nella 
vita del Santuario di Loreto. 
Nella seconda metà del XVI secolo, l'affluenza continuamente in 
crescita dei pellegrini provenienti da tutta Europa, costrinse il 
governatore di Loreto a richiedere l'aiuto di papa Giulio III, per 
disporre di sacerdoti che conoscessero più lingue e fu il giovane 
Ordine a risultare quello più adatto. 
LA STORIA DEL COLLEGIO ILLIRICO 
Dopo aver tenuto per circa vent’anni un corso minore di teologia 
morale, ai gesuiti lauretani fu affidata la direzione del Collegio, 
voluto da Gregorio XIII, destinato ai giovani dell’Illiria. Il 
curriculum degli studi era impegnativo e comprendeva retorica, 
umanità, fisica, matematica, diritto ecclesiastico, filosofia e 
teologia; al termine degli studi i giovani ottenevano una laurea 
dottorale. 
Nel 1594, con soli dieci allievi, il Collegio Illirico venne 
trasferito a Roma per volontà di Clemente VIII. Passeranno circa 
trent’anni, poi, con la bolla Zelus Domus Dei di Urbano VIII, nel 
1627, ci sarà il ritorno a Loreto del Collegio, sotto la loro 
direzione, contando 36 studenti. 
Con la soppressione dell’Ordine nel 1773 per volontà di 
Clemente XIV, il Collegio visse alcuni anni travagliati sotto i 
Padri Barnabiti e nel 1798 l’invasione dei francesi ne determinò 
la chiusura. La ricostituzione dell’Ordine, grazie a Pio VII, 
avvenne nel 1814, ma i gesuiti tornarono a Loreto solo nel 1834. 
Il Collegio venne definitivamente chiuso nel 1860, dopo 
l’annessione della Marca al Regno d’Italia. 
PENITENZIERIA 
Le origini della penitenzieria risalgono al secolo XII, quando si 
avvertì la necessità di aiutare il Papa nell’esercizio della sua 
giurisdizione; le relative facoltà furono conferite al cardinale 
penitenziere. Nel 1569 Papa Pio V costituì tre Collegi di 
penitenzieri con il compito di assicurare nelle basiliche di San 
Pietro, San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore 
un’adeguata celebrazione del sacramento. Affidò allora quel 
compito, rispettivamente, ai Gesuiti in San Pietro, ai frati minori 
osservanti in San Giovanni in Laterano, ai domenicani in Santa 
Maria Maggiore. 
I GESUITI A MILANO 
L'ASCESA ECONOMICA 
Arrivati a Milano su invito di Carlo Borromeo per le tradizionali 
pratiche pastorali e per l'insegnamento e la direzione del 
Seminario diocesano, i Gesuiti furono una novità per i milanesi, e 
non soltanto per l’aspetto religioso. Un esempio è l’attività nelle 
carceri che, insieme ad arbitrati·e compromessi, li pose, volenti o 
nolenti, a ingerirsi in questioni (quelle relative alle pene 
pecuniarie e ai beni confiscati). Proprio per l'attività nelle carceri, 
nel 1643 fu loro imposto di “non ingerirsi né in protezioni, né in 
altre facende che siano fuori dell'anima”, così la distribuzione dei 
denari frutto delle pene pecuniarie, devolute in molti casi a 
favore dei luoghi pii cittadini, che il Governatore delegò ai 
gesuiti, creò screzi e gelosie. 
Così padre Morales, nella Visita della casa professa di S. 
Fedele·del 1579, scrive allarmato: 
“anche qui il Padre Preposito occupato in un ministerio 
quale mi pare alieno dal nostro instituto et contro la 
regola…, et è che quando il Signor Marchese fa pagare 
alcune pene, et le applica a opere pie, manda a 
consegnare i denari al Padre Preposito, per distribuirle 
a beneplacito di Sua Eccellenza, servendo di 
depositario overo cassiero; et di poi li distribuisce 
secondo che gli viene ordinato da Sua Eccellenza, et 
sempre resta anche buona parte alla casa o alla 
fabbrica…, et questo fa danno alla casa, percioché si 
pensa la gente che tutto quello che si consegna al 
Preposito è per la casa” 
Subito dopo il loro arrivo i gesuiti inoltrarono alle magistrature 
cittadine le richieste per le esenzioni relative a beni di uso 
quotidiano, le esenzioni relative alla macina, il vino e al sale 
furono concesse quasi immediatamente; in seguito le case, i 
collegi e le loro proprietà; infine avrebbero inoltre goduto 
dell’esenzione dalla decima papale e del divieto per qualsiasi 
autorità di imporre gabellas, talias o datia. 
Grazie ai lasciti, i gesuiti intensificarono l’attività di 
compravendita di case e terreni nei dintorni del vecchio San 
Fedele, anche contro la volontà e gli interessi dei legittimi 
proprietari. Questa pratica diede loro la possibilità di far circolare 
ovunque beni e denari. La libera circolazione del capitale liquido 
permetteva loro di aggirare le barriere doganali fra stato e stato, 
quindi beni e dotazioni potevano essere esportati oltre i confini 
del Ducato. 
Con le donazioni, da parte di Leonardo Spinola, di un credito nei 
confronti del Coiro, da parte del senatore Odescalchi e di Giovan 
Tommaso Crivelli dal 1574 i Gesuiti poterono acquistare diverse 
abitazioni e terreni, che tuttavia non rispondevano solamente al 
bisogno di spazi abitabili e all’esigenza di esercitare un controllo 
sull’area adiacente alla chiesa, ma dovevano favorire un ulteriore 
afflusso di denaro sotto forma di affitti, tali operazioni perciò 
evidenziano la varietà di strumenti messi in atto dai Gesuiti per 
cercare di accrescere le proprie finanze. 
L'ASCESA POLITICA 
La definizione degli equilibri di potere tra un patriziato ormai 
formato e il governatore, il 
riconoscimento da parte 
spagnola della coesistenza di 
due poteri (uno esercitato dalle 
supreme magistrature milanesi: 
Senato e Magistrato ordinario) 
influirono favorevolmente sul 
successo della Compagnia a 
Milano anch'essa alla ricerca di 
autonomia rispetto al re 
cattolico. Il patto tra i 
gentiluomini milanesi riuniti 
nella Confraternita di S. Maria 
di Brera e i Gesuiti si 
concretizza con i finanziamenti 
per costruire il collegio: “in 
nome della città di Milano, per 
insegnare et ammestrare i 
giovani … sotto la cura et 
disciplina dei Rev.i Padri del 
Giesù”. 
Inoltre il rigorismo tridentino 
allontanò dal Borromeo una 
nobiltà, per nulla convinta di 
rinunciare alla mondanità del proprio stile di vita, un 
viver non meno cristiano che civile, comprendendo 
accanto agli affari, la serena virtù del divertimento, della 
piacevole socievolezza. 
L'aristocrazia nobiliare e mercantile si spostarono sui 
Gesuiti, sempre più avversi alla politica del cardinale e 
disposti ad accettare pratiche finanziarie da altri 
considerate immorali, riconoscendo alla vita mondana una 
certa autonomia dall'autorità religiosa che, come precisò 
un gesuita davanti all'Inquisizione, non deve occuparsi di: 
erario, esercito,giochi, esercitj cavalliereschi et ogni 
cosa necessaria per il suo (del principe) regno. 
LUOGHI E ISTITUZIONI 
Numerosi sono i luoghi e le istituzioni milanesi in cui i Gesuiti 
erano presenti direttamente o indirettamente nell'esercizio della 
loro opera caritatevole: Comunità di San Fedele, Confraternita 
dell'Immacolata Concezione, Ospedale Maggiore, Istituto di Santa 
Corona, Confraternita della Beata Vergine di Loreto, Luoghi pii di 
Milano, Duomo e Sette Chiese, Parrocchia di Santo Stefano in 
Nosiggia (Porta Nuova), Ricchi e Vecchi in San Giovanni sul 
Muro, Umiltà e Pagnottella, Quattro Marie, Misericordia, Carità 
in Porta Nuova e Divinità, Contrada alle Case Rotte, Contrada 
degli Omenoni, Contrada dei Tre Monasteri. 
LO SPOSTAMENTO DELLA SEDE 
In seguito all'emanazione della bolla papale di Clemente VIII, 
con la quale veniva disposta la sottomissione delle confraternite 
laicali e dei loro beni all'autorità episcopale, la congregazione 
lauretana milanese risultava in contrasto con tale imposizione che 
imponeva l'obbligo di povertà. I padri di San Fedele, per il timore 
della perdita dell'autonomia, abbandonarono la sede originaria in 
San Fedele per trasferirsi in un edificio non religioso posto 
dirimpetto alla chiesa, acquistato grazie ad una donazione di 
Francesco Dannaja. 
IL COLLEGIO ILLIRICO 
Il termine “illirico” fa riferimento alle popolazioni 
conquistate dall’Impero Romano: la provincia degli Illiri 
era costituita da parte delle odierne Albania e Bosnia, e 
da Montenegro, Croazia, Istria e Serbia. 
La Compagnia di Gesù assunse un ruolo di primo 
piano nell’educazione dei giovani in Europa: essa gestì 
numerosissimi collegi e celebri università in tutte le 
nazioni cattoliche europee e nelle colonie. In generale, si 
può dire che l’Ordine diventò il principale punto di 
riferimento per la produzione culturale della prima età 
moderna. Tra i più significativi collegi ci fu senz’altro il 
Collegio Illirico lauretano. 
A Loreto nel 1574 i gesuiti fondarono il collegio 
Illirico (Collegio degli Schiavoni) per volere di Papa 
Gregorio XIII. Assieme al suo omologo di Fermo, questo 
era destinato ai giovani chierici illirici (slavi ed albanesi) 
che risiedevano a Loreto. Era stato istituito per 
contrastare l’islamizzazione dei Balcani e per educare i 
giovani alla predicazione. 
P e r c h é P i a z z a l e L o r e t o ? 
L’origine del toponimo si ricollega a San Carlo Borromeo, che 
quattro volte fu pellegrino alla Santa Casa. 
Il santo, nell’ultimo ventennio del secolo XVI, pensò ad un tempio 
lauretano a Milano con la riproduzione della Santa Casa; fu però 
Federico Borromeo, il 30 agosto 1609, a benedire la prima pietra. 
La chiesa sorse in belle forme su disegno del Richini, arricchita da 
una pregevole statua lignea della Vergine Lauretana con il 
Bambino, dell’intagliatore Del Conte. L’attuale Corso Buenos 
Aires, a quel tempo ornato di pioppi, che arrivava davanti alla 
Chiesa, veniva detto Stradone di Loreto. 
Alla fine del secolo XIX l’artistica chiesa, che aveva riscosso nei 
secoli viva devozione mariana da parte del popolo milanese, fu 
drasticamente abbattuta per allargare il piazzale che da essa prese il 
nome di Loreto. Fu sostituita da una seconda chiesa lauretana 
presso san Vittore.
Da i t e s t ame n t i 
LA CONGREGAZIONE EREDE UNICA 
Lomazzi 
”… la metà spetterà alli miei eredi, e così al detto 
Pio luogo della Madonna di Loreto (…) e altre sei al 
detto Pio luogo della Madonna di Loreto ogn’anno 
sempre, & in perpetuo, perché così &c.” 
Albertario 
“… o sia proprietà da acquistarsi col prezzo dei 
mobili, che venga distribuito dalla detta Ven. 
Congregazione di Loreto mia erede a poveri 
vergognosi. (…) Per la bontà, integrità e affetto 
dell’infrascritti SS, prefetto, e deputati della Vener. 
Congregazione di nostra signora di Loreto da me 
istituita erede.” 
Pecchio 
“… dichiaro aver somministrato alla Ven. 
Congregazione della Beatissima Vergine Maria di 
Loreto presso S. Fedele di quella città la somma di 
lire 25mille. (…) In tutti poi gli altri miei beni (…) 
ed ogni altra cosa che hò (…) istituisco mia erede 
universale (…) e nomino la Ven. Congregazione, o 
sia luogo pio di nostra signora di Loreto di questa 
città.” 
Bonicelli 
“… ed istituisco mia erede universale, nominandolo 
con la mia propria bocca, come l’ho nominato, e 
nomino il venerando luogo Pio di Santa Maria di 
Loreto sit. in Porta Nuova, in fronte alla chiesa di 
S. Fedele in questa città di Milano.” 
Balli 
“… ho istituito ed istituisco mia erede universale la 
veneranda Congregazione di nostra Signora di 
Loreto eretta presso la chiesa di S. Fedele 
predetto.” 
GLI STATUTI DELLA 
CONGREGAZIONE DI LORETO 
STRUTTURA DEGLI STATUTI 
Gli Statuti sono costituiti da 28 
capitoli. Nei primi quattro si 
introduce la Congregazione e si 
tratta dei suo scopi. Fino al 
capitolo 23 si tratta degli 
Officiali della Congregazione: un 
Prefetto, 4 Consiglieri, 2 Sindaci, 
un Tesoriere, un Segretario, un 
Provveditore, 24 Visitatori, 2 
Maestri dei Novizi, 2 Infermieri, 
2 Sagrestani. Gli ultimi capitoli 
indicano quali siano i poveri 
vergognosi e di come provvedere 
per aiutarli (il modo con cui 
vengono procurate le elemosine). 
LA PRATICA DELLE ELEMOSINE 
Sono effettuate due volte l'anno, all'inizio dell'Avvento e della 
Quaresima. In quelle occasioni verranno inviati due visitatori ai 
predicatori delle chiese principali per esortare il popolo alla 
raccolta delle offerte. Il ricavato verrà consegnato al tesoriere o 
direttamente alla Congregazione. Inoltre viene richiesto l'aiuto 
dell'arcivescovo per quanto riguarda l'elemosina nelle cassette 
delle Sette Chiese. 
I POVERI VERGOGNOSI 
Per poveri vergognosi si intendono coloro che, generalmente di 
buona condizione e nascita, non hanno di cui sostentarsi e 
nessuno che voglia o possa aiutarli a provvedere ai loro bisogni, 
spesso non di sussistenza, ma di decoro. Il principale obiettivo 
della Congregazione è di esercitare le opere della pietà verso i 
poveri vergognosi, aiutandoli con ogni sollecitudine, procurando 
loro con carità cristiana la salute dell’anima. Essi sono aiutati dai 
Visitatori perché vengano a miglior fortuna o perché non abbiano 
più bisogno di fare l’elemosina. 
I 24 visitatori, 4 per porta, svolgevano un ruolo delicato, 
nell'individuare i soggetti che potevano usufruire, per la loro 
povertà, degli aiuti della Congregazione 
LA TRAGICA VITA DI MARTIN DE FUNES 
(Valladolid, 1560 - Colle di Val d'Elsa, 1611) 
Religioso spagnolo, fondatore della “scuola gesuita” di 
Santa Fe. 
Fu un personaggio scomodo, radicale nel difendere la 
causa delle reducciones (villaggi del Paraguay in cui gli 
Indios erano avviati al lavoro dei campi, all’uso del 
denaro ed alla religione cattolica) e nel far contrastare la 
schiavitù. 
Il memoriale, scritto da Funes e inviato a Papa Paolo V 
nel 1608, andava a toccare i legami esistenti tra i religiosi 
regolari e la corona di Spagna, parlava delle gelosie tra i 
vari ordini religiosi che, timorosi di perdere i loro 
privilegi, erano ostili verso i religiosi secolari e la loro 
partecipazione alle missioni. 
Il memoriale, scritto senza il consenso dei suoi superiori 
irritò il Padre generale della Compagnia, Claudio 
Acquaviva, che non ne aveva peraltro neppure gradito il 
contenuto. 
Per questo motivo al Funes fu ordinato di lasciare Roma 
e di trasferirsi in una Casa della Compagnia in Spagna; 
egli però si rifugiò nello Stato di Milano, presso il 
Governatore Fuentes, e venne espulso dall’ordine come 
ribelle. 
Il Funes, proveniente e forse in fuga da Como e diretto a 
Roma dal Papa per perorare la sua causa, fece tappa a 
Colle Val d'Elsa. Qui fu ospitato, nel suo palazzo, da 
Usimbardo Usimbardi. Sembra che costui sia stato 
invitato dai Medici a bloccarne la partenza per Roma. 
Martin de Funes fu colto da malore e morì nella notte tra il 
23 ed il 24 febbraio. Cause naturali o esecuzione? 
Il gettone di rame che i poveri 
ricevevano dal L. P. 
Elemosiniero di S. M. Loreto 
per prelevare vitto e sussidi
MESTIERI E PROFESSIONI 
A MILANO 
LE TRE TIPOLOGIE 
Le organizzazioni corporative delle professioni dotte o 
letterarie; le scienze nobili comprendevano tre facoltà: 
dottori, teologi-giurisperiti, medici. 
Le arti liberali o civili si trovano al di sotto delle scienze nobili 
e sono le più numerose (banchieri, chirurghi, notai). 
Subito dopo le arti liberali ci sono le arti meccaniche, i paratici 
o corporazioni di mestiere. 
LA STRUTTURA DI UNA CORPORAZIONE 
Una universitas o corporazione si suddivideva in tre ruoli o 
ranghi: un Collegio ristretto, una Facoltà di maestri o dottori 
approvati dal Collegio e una matricola di apprendisti. Il 
Collegio ristretto era incaricato degli esami per i gradi e delle 
approvazioni all'esercizio. 
Le arti liberali, classificate come civili, si trovano appunto tra le 
facoltà nobili e le arti meccaniche e per quanto riguarda il 
sapere richiesto per queste arti era scarso, infatti, non erano 
richieste né una laurea e né un' istruzione. Queste arti si sono 
modellate sui collegi nobili, che comprendono un collegio di 
esaminatori a vita che possiede il monopolio delle 
approvazioni. 
Infine le arti meccaniche, come il commerciante, richiedono un 
sapere ridotto, cioè conoscere la scrittura mercantile e 
cancelleresca, sapere come utilizzare la partita doppia, 
conoscere le basi dell'aritmetica. 
GUANTAI E PROFUMIERI 
L'ORIGINE 
Vi sono tracce dell'esistenza di corporazioni di guantai e 
profumieri già a partire dal Medioevo, ma il vero sviluppo di 
queste corporazioni così strettamente legate avvenne solamente 
nel Rinascimento. Firenze vantava già nel XIV secolo una 
lunga tradizione nell'arte di creare profumi; i profumieri 
appartenevano all'arte dei Medici e Speziali. 
Le prime acque profumate si ottenevano per mezzo di un 
apparecchio chiamato bottiglia fiorentina. Per la realizzazione 
delle fragranze erano molto famosi il laboratorio di fiorentino 
del 1200 fondato dai Domenicani a Santa Maria Novella e 
quello cinquecentesco di Venezia dei Carmelitani scalzi. Si 
distillavano in particolare queste essenze profumate: l’iris 
fiorentino, la violetta e i fiori d’arancio a Firenze, il muschio e 
l’ambra a Venezia. 
IL PRIMATO FRANCESE 
L’industria profumiera in Francia, benché successiva rispetto a 
quella italiana, riuscì in poco tempo a toglierle il primato. 
La cittadina di Grasse era famosa per la concia delle pelli fin 
dal medioevo, ma quando arrivò la moda rinascimentale di 
profumare i guanti, le cinture e le scarpe, iniziò a coltivare e 
distillare le piante e i fiori; da lì alla produzione di fragranze, il 
passo fu breve. 
Fu Caterina de' Medici a portare l’arte profumiera in Francia; 
ella aveva fatto preparare dai monaci domenicani fiorentini una 
fragranza fresca e avvolgente con il nome di Acqua della 
Regina la quale era composta da essenze di agrumi e 
bergamotto. 
Il XVII secolo fu l’età dell’oro per la profumeria francese. A 
Parigi 250 artigiani profumieri e maestri guantai lavoravano su 
licenza esclusiva direttamente concessa da Re Luigi XIV: 
creavano e vendevano profumi, unguenti per capelli, prodotti di 
trucco e guanti in pelle profumati. I negozi disponevano di 
ambienti lussuosi dove i clienti attendevano che il maestro 
profumiere preparasse la fragranza ordinata. 
PERCHÉ GUANTAI E PROFUMIERI UNITI? 
I maestri artigiani guantai di Grasse producevano dei guanti in 
cuoio destinati all'alta società francese ed europea; per 
mascherare l'odore dei tannini all'olfatto delle signore eleganti, 
profumavano i guanti. Fu così che la corporazione dei guantai, 
creata nel 1614 a Grasse, divenne nel 1714 quella dei guantai-profumieri 
e poi nel 1759 quella dei maestri profumieri. 
Grazie al loro dinamismo e all'abbondanza delle locali materie 
prime come la rosa, il gelsomino, la tuberosa e la lavanda, 
l'industria di profumeria ha fatto di Grasse la capitale 
internazionale del profumo. 
Jean de Galimard, il fondatore della Corporazione dei guantai-profumieri, 
procurava alla Corte del Re oli d’oliva, unguenti e 
profumi di sua invenzione. 
All'inizio del XVIII secolo, a poco a poco i guantai-profumieri 
cominciarono a distinguersi dai conciatori e ,nel 1729, 
ottennero presso il Parlement de Provence, uno statuto 
autonomo. 
L'ACQUA DELLA REGINA DI UNGHERIA 
Molto usata in epoca barocca, vera e propria antenata della più 
famosa Acqua di Colonia, fece la sua comparsa verso il 1360. 
Si facevano macerare alcune sostanze aromatiche, salvia, 
maggiorana e rosmarino nell'acquavite, la soluzione veniva poi 
esposta ai raggi del sole per una settimana. 
In seguito questo profumo venne ribattezzato Eau ardente, 
perché con la scoperta dell'alcol etilico, fuoco e acqua si 
univano. Ampio il suo potere curativo ad esempio emicranie, 
vista, ronzio d'orecchi, gotta. 
La posizione centrale dei Profumieri a Milano 
Guantaio - profumiere in Italia: la testimonianza del Balli 
Il testamento del Balli e il suo inventario di guanti e profumi dimostrano che la professione di guantaio-profumiere 
fosse diffusa e redditizia anche in Italia. Nell'inventario della sua bottega troviamo ad esempio: 
- Importo di 6 guanti di volpe comprati a L.15 
- Profilo di Lupo Cerviero previsto in due partite L. 98 
- Importo di 20 agnellini della Romagna L. 167 
- Guanti di volpe e di orso L. 3 
- Guantini di penna provvisti dal Scorzoli L.11 
- Importo di 7 boccie d'acqua della Regina L. 6 
STATUTI DEI MERCANTI SEC. XV
CHIRURGHI E BARBIERI 
Secondo Vesalio (1500), 
il medico non era un 
chirurgo, ma un letterato 
che teneva in scarso 
conto la pratica, 
delegandola a barbieri 
ignorantissimi, 
riservandosi alla sola 
dottrina. Egli paragona i 
lettori di anatomia alle 
cornacchie che recitano 
a memoria dai libri 
degli altri; e reputa i 
barbieri dei macellai, 
poiché presentano agli 
spettatori meno cose di 
quelle che presenta un 
macellaio al mercato. 
In Francia, intorno alla 
metà del XIII secolo i 
chirurghi si riunirono in corporazione e fondarono una 
confraternita posta sotto il patronato dei SS. Cosma e Damiano. 
Dalla prima metà del XVI secolo, i fisici ripresero il nobile 
titolo di medici e si riunirono anch’essi in comunità. A metà 
Seicento i medici, per deprimere i chirurghi che stavano 
assumendo sempre più importanza nella società, ottennero nel 
1656 che la medesima patente dei chirurghi fosse data ai 
barbieri. Durante il Cinquecento, dottori marginali esercitavano 
nei villaggi e nelle città la loro professione con l’aiuto dei 
chirurghi rurali, la loro clientela era soprattutto i poveri. Nel 
Settecento, in Italia, l’istituto della condotta medica era già 
stabilito in Lombardia, Piemonte e Toscana. Questo istituto era 
un’organizzazione civica o politica delle arti sanitarie e dei loro 
addetti (medici, chirurghi, barbieri, levatrici, speziali). A 
Milano, un’ordinanza capitolare del 1551 stabiliva che i medici, 
uno per ciascuna delle sei porte della città, dovevano fermarsi 
ogni giorno nella propria casa fino al suonare del campanone 
del Duomo, restando a disposizione degli eventuali pazienti 
poveri. 
IL NOTAIO 
COME SI DIVENTAVA NOTAIO 
Per diventare notaio vi erano dei criteri di selezione molto 
precisi: curriculum vitae e età minima di 25 anni, cittadinanza 
milanese o all'interno del ducato, reddito annuo di almeno 100 
scudi, senza nobiltà negativa (il padre o un avo con un passato 
di attività meccaniche o considerate socialmente non 
convenienti), 5 anni di esperienza professionale presso un 
notaio collegiato, un esame pubblico (una redazione di uno 
strumento notarile suddivisa in quindici atti). 
I Collegi notarili, che si collocavano sotto quello dei nobili 
giureconsulti, si dividevano in collegi dei Notari e dei 
Causidici. Nella gerarchia delle professioni settecentesche, i 
causidici godevano di maggior prestigio rispetto ai semplici 
notari. 
Nello Stato di Milano, esistevano due diversi gradi 
dell’esercizio del notariato: il notaio ad omnia laudatus, il 
livello più alto della professione e il pronotaio. 
Il mestiere notarile aveva acquisito maggior prestigio nell’età 
dei comuni, con funzioni diplomatiche, la redazione delle 
delibere consiliari e degli statuti cittadini e agivano nelle 
cancellerie delle magistrature maggiori e minori. 
Durante il XV secolo il ruolo politico e sociale del notaio 
diminuì rispetto all’impiego svolto in ambito privato. 
Nel 1786 la riforma giuseppina stabilì che i candidati al 
Collegio notarile dovessero avere i requisiti già esposti e 
superare una prova basata sulla redazione di un atto estratto a 
sorte. 
FARE IL NOTAIO CONVENIVA? 
Un’altra caratteristica fu l’ereditarietà professionale del 
mestiere che coinvolgeva molte famiglie; alla base della 
decisione di intraprendere questa carriera potevano esservi due 
percorsi di mobilità sociale, discendente e ascendente. I 
Rampolli di alcune famiglie milanesi che nel XVIII secolo 
avevano conosciuto il dissesto economico, trovarono rifugio nel 
notariato, mestiere decoroso tra le arti nobili e le professioni 
infamanti. Le famiglie in ascesa, invece, che avevano 
abbandonato attività ritenute indegne, non ancora così ricche da 
vivere soltanto con le rendite terriere, individuavano nel 
notariato un'interessante professione; come si diceva allora: 
l'arte notarile non rende nobili ma neppure deroga alla nobiltà. 
Vi erano tre motivi per dedicarsi all'attività notarile: 
 la qualifica di notaio facilitava l'assunzione a incarichi di 
diversa natura; 
 poteva dedicarsi ad altro impiego più remunerativo, 
finendo col sostituire del tutto le due attività; 
 la professione permetteva di ottenere prestigio sociale e 
disponibilità economiche. 
MERCANTE O NOTAIO? 
Le famiglie nel XVI secolo avevano precise strategie per 
garantire il proprio futuro, avviando il primogenito, che doveva 
appunto assicurare la sopravvivenza biologica della famiglia 
all'attività mercantile e il secondogenito all'attività notarile, 
ritenuta meno prestigiosa; invece, nel XVIII il primogenito 
svolgeva l'attività notarile ed era l'unico a sposarsi, rispetto ai 
fratelli indirizzati alla vita ecclesiastica. 
E PER SPOSARSI SERVE UN NOTAIO 
Nel settecento i matrimoni erano regolati tramite dei contratti 
matrimoniali che prevedevano accordi economici. Soprattutto 
in Lombardia era usanza stendere la promessa di matrimonio e 
compito del notaio era di trovare una soluzione equa che 
comprendeva l’importo, la composizione, i tempi di 
corresponsione della dote e gli obblighi del marito. Una volta 
raggiunto l’accordo, il notaio redigeva l’imbreviatura. Era 
molto raro che le parti sciogliessero reciprocamente l’impegno 
assunto, recandosi dal notaio per registrare la rinuncia. In 
questo caso la dote, considerata cardine dei rapporti 
patrimoniali tra coniugi, andava restituita a chi l’aveva 
costituita o ai suoi eredi. Dopo il matrimonio, gli sposi si 
recavano dal notaio per la redazione dell’atto. 
UN NOTAIO RACCOMANDATO 
Nel suo testamento il Conte Pecchio definisce il Signor Notaio 
Giovanni Maria Valera come: amorevole assistente. È quindi 
tra le sue ultime volontà il desiderio di compensare e gratificare 
il Notaio per gli anni di servizio. Il testatore richiede come 
prima istanza che il notaio, designato come suo Erede, il quale 
da molti anni è stato curante dei suoi interessi, sia eletto, dal 
signor Prefetto Sig. Dottor Gentil e dai Deputati, Sindaco e 
Cancelliere della Ven. Congregazione di S. Maria di Loreto. 
Nel caso in cui però questa istanza non potrà essere accolta o 
per mancanza della nomina da parte del Venerando Collegio de 
Signori Causidici di Milano o per altro difetto, allora comanda, 
che al notaio suo Erede, siano destinare ottocento lire Imperiali 
annue vita natural durante solo dopo la morte del Sig. Dottor 
Gentile. Inoltre lascia a lui, da dare subito dopo la propria 
morte, quattrocento lire Imperiali. Queste sono le ultime 
volontà del Conte il quale confida nel buon utilizzo pubblico 
del denaro lasciato al suo Erede Sig. Notaio Valera. 
Il salasso. Una pratica tipica 
del barbiere chirurgo 
“Inventario de mobili, danari, scritture, stabili et altro ritrovati 
nell’heredità del fu signor Giuseppe Albertario fatto dalla signora 
Barbara Taccha di lui moglie per in strumento rogato il giorno, 
mese et anno sodetti”, 23 febbraio 1703. (...) 
Prima si trova l’inventario “delli mobili, danari, argenti, 
scritture che si sono ritrovate nell’heredità del fu signor 
Giuseppe Albertario. Nella camera sopra la bottegha” 
Dal documento si risale ad alcuni ferri del mestiere 
Inventario dei mobili di casa del Signor Albertario “fatto di sua mano”, 
1 novembre 1675 
ATTREZZATURA VARIA BARBI ERE CHIRURGO CAVADENT I 
Un bilancino che serve per pesare le monete con 
suoi pesi tanto per l’oro quanto per l’argento 
con sua cassettina di legno 
Un trepiedi di ferro per la foghera 
Tre cadreghe armate di bulgaro 
Cinque scagni di bulgaro 
Numero quattro perucche di poco valore 
Numero 12 panni di stuffa 
Numero 24 canevezoli per sugare il volto 
Una forbice grande con due ferri che servano per 
sigillar lettere di secreta via, li quali tre pezzi 
restano a parte in una cassettina 
Due cadreghe armate di bulgaro per la 
barba 
Numero tre code per rasori, fra quali 
due immanichate 
Numero 23 rasori usati spagnuoli 
Numero 4 detti nuovi 
Numero undici detti di Spagna, Roma e 
Zenevra usati 
Numero otto altri rasori diversi 
Numero 44 altri rasori 
Un stucchio grande per riponere rasori 
Una tasca di barbiere per riponere in 
saccoccia con dentro ferri numero 
nove 
Numero dieci panni di barba detti 
rocchetti tra buoni e inferiori 
Un cadino per far la barba pesa 
Numero quattro forbici per barbisi 
Un vestirolino nel muro con due ante, e suoi vetri e ramata dentro vi 
è diversi medicamenti 
Una reseghetta per resegare ossi 
Due ferri per levare le creature 
Un trapanno per trapanar il craneo con diversi ferri per tal effetto in 
un scatolino 
Due trinchetti con mazzola per aprire li corpi humani 
Una moglietta per levare la carne cattiva 
Numero quattro tenaini per l'ungie incarnate 
Un stucchio con sei lanzette per salassi 
Numero tredici altre lanzette 
Una cote piccolina con qualche poco d'argento, che serve per codare 
le lanzette 
Due ordigni per mettere cauterii 
Due ferri per levare le creature 
Un cavaballe 
Tre ferri per le fistole 
Un becco di grua 
Numero 13 traversi per metter al collo 
Due ferri detti specula matrice 
Numero quattro tenaini per cavar 
denti 
Numero due pellicani per parimente 
a cavar denti 
Numero uno cava radice numero tre 
altri ferri che servono per li denti 
Due bassa lingue 
Altro bassa lingue naturale
IL TESTAMENTO 
GLI ATTI MORTIS CAUSA. IL TESTAMENTO. 
La donatio mortis causa consisteva in quella disposizione che 
comportava l'attribuzione senza corrispettivo di un bene, 
destinata ad avere effetto dopo la morte del donante purchè il 
donatario gli fosse sopravvissuto. I testamenti sono, strumenti 
capaci di controllare e trasformare i rapporti fra i membri della 
famiglia ed i modi della circolazione dei beni entro le maglie 
della parentela, costituiscono un fondamentale punto di 
osservazione della prassi notarile settecentesca, una base di 
partenza per cogliere i molteplici riflessi che il mondo del 
diritto, così come emerge dalle fonti notarili, era in grado di 
proiettare nella società contemporanea. 
TIPOLOGIE, STRUTTURE E CONTENUTI DEL 
TESTAMENTO DEL 1700 
I testamenti rogati tra gli anni Quaranta e gli anni Novanta del 
XVIII secolo sono nuncupativi senza scritti, ossia testamenti 
nuncupativi espliciti, benchè non manchino alcuni casi di 
nuncupazione implicita. Quelli rogati alla vigilia dell'avvento 
napoleonico si presentano,infatti, formalmente pressochè 
identici ai testamenti risalenti agli anni Quaranta e Cinquanta. 
Intervengono , tuttavia, alcuni cambiamenti nel costume dei 
milanesi, che inevitabilmente si riflettono negli atti di ultima 
volontà. Le riflessioni sui contenuti devono poi avere come 
presupposto il contesto storico cui appartengono che fu un 
momento di relativa tranquillità per Milano. Fino al 1796 non si 
verificarono quindi particolari mutamenti sociali in grado di 
incidere sulle normali modalità dell'atto. 
Tra le tipologie testamentarie cui si poteva ricorrere nel XVIII 
secolo, accanto al testamento solenne o in scritto, vi era, ben più 
utilizzato nella prassi corrente, il testamento "nuncupativo" che 
poteva essere esplicito o implicito. Il testamento solenne 
esigeva il rispetto di una serie di rigide formalità che ne 
rendevano poco allettante l'impiego. La quasi totalità dei 
testamenti del settecento rinvenuti tra le carte d'archivio sono 
nuncupativi. Nel testamento nuncupativo esplicito l'erede 
veniva nominato a "viva voce" dal testatore alla presenza di 
sette testimoni e del notaio che provvedeva a stendere l'atto 
testamentario. In quello implicito il testatore consegnava al 
notaio una busta sigillata contenente le proprie disposizioni 
mortis causa, che veniva poi riaperta in un secondo atto che il 
notaio redigeva soltanto dopo la morte del testatore. 
LA FISIONOMIA DEL TESTAMENTO 
NUNCUPATIVO SENZA SCRITTI 
La tipologia più importante è il testamento nuncupativo senza 
scritti, di cui una parte interessante è rappresentata dalle 
arenghe, brevi 
introduzioni che 
sembrano ricordare la 
certezza della morte e 
l’incertezza del momento 
in cui colpirà. Infatti tale 
opposizione spinge 
l’uomo anziano o malato 
a recarsi dal notaio per 
dettare le sue ultime 
volontà e dare quindi una 
sistemazione futura alle 
proprie cose. 
Dopo le arenghe il notaio, 
attraverso una formula, 
dichiara che quello è 
l’unico testamento da 
ritenere valido e revoca 
quelli stipulati 
eventualmente in 
precedenza. 
Un altro elemento 
fondamentale del 
testamento nuncupativo 
esplicito è la 
raccomandazione 
dell’anima a Dio, alla 
Beata Vergine e a tutta la 
Corte Celeste (carattere 
religioso dell’atto 
testamentario), che è 
sempre seguita da indicazioni che il testatore fornisce riguardo 
alle modalità di sepoltura, descritta solitamente in modo 
dettagliato. 
Non meno dettagliate sono le informazioni che il testatore 
fornisce nel dichiarare i legati e nel descrivere i beni oggetto del 
lascito; avviene invece con una formula semplice la nomina 
dell’erede. Inoltre, dopo la predisposizione dei legati e 
l’istituzione di erede, si incontra la nomina dell’esecutore 
testamentario: si trattava di parenti ed 
amici o, a volte, di un notaio conoscente 
del testatore. 
L’atto del testamento termina con la 
formula dell’actum, cioè l’indicazione 
del luogo del rogito, le attestazioni dei 
due pronotai, dei cinque testimoni 
presenti alla stesura e la sottoscrizione 
del notaio rogante, il quale attraverso il 
proprio segno di tabellionato sulla 
imbreviatura garantisce ulteriormente 
l’autenticità dell’atto. 
LE ULTIME VOLONTÀ 
Nel Settecento il testamento era una pratica diffusa che non 
coinvolgeva soltanto le classi benestanti: molte 
persone, raggiungendo una certa età e iniziando 
a pensare alla morte, si recavano da un notaio 
per sottoscrivere questo atto. Bisogna però 
ricordare che l’atto testamentario riguardava 
principalmente l’uomo, solo raramente questa 
pratica era utilizzata dalle donne; ciò accadeva 
perché era costui a preoccuparsi di conservare 
l’unità del patrimonio familiare. 
Quando il testatore era un uomo l’eredità 
veniva trasmessa per lo più al primogenito o ad 
un altro componente maschile della famiglia, 
mentre nei testamenti rilasciati dalle donne 
spesso l’erede era una persona esterna al nucleo 
familiare. Bisogna ricordare che l’atto 
testamentario di donne era assai diffuso tra le 
vedove. 
In un testamento nuncupativo, oltre all’erede, 
era data molta importanza alla figura del legato, 
o più spesso dei legati. Il legato, a differenza 
dell’erede, veniva sempre scelto liberamente 
dal testatore per esprimere riconoscenza: in 
questo modo venivano gratificati tutti i membri 
del nucleo familiare, compresi i domestici e i 
conoscenti di famiglia; spesso tra i legati 
emergevano anche medici e notai. Inoltre in 
quasi ogni testamento i legati riguardano anche 
enti ecclesiastici e luoghi pii ed è stata 
riscontrata la pratica diffusa tra i testatori di 
lasciare una parte del proprio patrimonio ad 
una persona, di solito all’erede, con l’obbligo 
di far celebrare un determinato, ma non esiguo, numero di messe 
in suffragio della propria anima. 
In caso di rinuncia dell'erede designato, il testatore provvedeva 
anche a indicare il suo eventuale sostituto. 
Testamento Bonicelli 
Testamento Albertario 
Testamento Balli 
Testamento Lomazzo 
Tra i lasciti curiosi e stravaganti, nel 
testamento del 1793 del marchese Prati 
Andreani, al confessore viene destinata... 
della cioccolata!
BIOGRAFIA 
Morì il 7 Aprile 1725 nella sua casa milanese, in contrada S. 
Margherita in Porta Nuova nella parrocchia di S. Damiano. Era 
figlia del defunto Sig. Bartolomeo Bonicelli e vedova di Carlo 
Nicora di Porta Nuova. Il loro matrimonio era stato contratto nel 
1697 ed ella aveva istituito a lui la sua prima dote. 
Il suo lavoro consisteva nella vendita di stoffe su pegno, per cui il 
guadagno maggiore le perveniva non dalla vendita ma bensì dagli 
interessi maturati sul prestito che per legge se non restituito dava 
diritto al prestatore di sequestrare i beni mobili ed immobili del 
debitore; in questa attività fu sempre aiutata da suo marito dal 
punto di vista legale fino al punto di morte. 
Si era poi risposata con il signor Bernardo Serravalle di Tortona. 
Nel 1724 si presentò a casa dell'amico notaio milanese Elia 
Mascarone a cui dettò il suo testamento definitivo. 
TESTAMENTO 
Redatto il 18 Luglio 1724 presso l'abitazione del notaio Elia 
Mascarone, il testamento è diviso in sei parti. 
Nella prima parte Margherita raccomanda che gli eredi non lascino 
debiti da lei in vita contratti poiché ciò potrebbe compromettere la 
sua salvezza eterna. 
Nella seconda emergono punti collegati alla sua personale fede e 
devozione. La donna si rivolge a Dio, alla Vergine e ad altri santi, 
riflettendo su quanto convenga il far preventivamente le 
deposizioni delle cose terrene e temporali e non differirle fino agli 
ultimi momenti della vita. 
Nella terza parte espone le disposizioni per la sepoltura della sua 
salma: ordina, nel caso in cui morisse a Milano, che il suo corpo 
venga portato nella chiesa di S. Maria del Giardino con 
l'accompagnamento di dodici sacerdoti laici e dodici regolari, nel 
caso in cui la sua morte non avvenisse a Milano ordina che il suo 
corpo venga portato nella chiesa parrocchiale accompagnato da 
ventiquattro Sacerdoti. 
Nella quarta lascia le disposizioni per la sua anima: ordina che si 
debbano celebrare mille messe nei tre mesi successivi alla sua 
morte nelle chiese che l'erede riterrà migliori. 
Nella quinta parte si sofferma ad indicare tutti i suoi eredi e i beni 
che dovranno ricevere. 
Nella sesta e conclusiva parte si ha il lascito alla Veneranda 
Congregazione della Madonna Pia di Loreto presso la chiesa di San 
Fedele a Milano per la protezione delle nobili famiglie decadute. 
COMMERCIANTE DI TELE 
E USURAIA 
La donna nobile nel 700, al contrario di come si potrebbe pensare, 
non era esclusa, ma anzi era attiva nell'attività commerciale e aveva 
influenza nelle decisioni familiari. Ella poteva decidere di tutti i 
suoi beni senza il controllo da parte del marito, che invece doveva 
accompagnarla in tutte le altre decisioni per stipulare accordi, per le 
compravendite e per qualsiasi atto notarile. Margherita infatti era 
indipendente dal marito nel suo lavoro, del quale conosceva le 
rendite e gli interessi che questo le portava: aveva infatti un suo 
conto personale, alcuni titoli, al Banco di Sant'Ambrogio a Milano. 
PRESENZA DI UNA LAVORATRICE 
A DOMICILIO 
Un prestito tra donne 
Oltre al suo lavoro di venditrice di stoffe, da un documento privato 
di ricomposizione di lite, redatto il 17 marzo del 1708, sappiamo 
anche che prestava denaro ad interesse: grazie a questo documento 
si viene infatti a conoscenza dell'attività economica regolarmente 
condotta dalla testatrice coadiuvata, da un punto di vista legale, dal 
marito Carlo Nicora. Dal documento si evince che Margherita 
aveva a suo tempo venduto a credito un certo quantitativo di tela 
sbiancata a Francesca, moglie di Giuseppe Guascone, forse una 
artigiana, per la somma di centoventi lire e quindici soldi imperiali. 
Trascorso il termine pattuito per la restituzione, il debito non era 
ancora stato estinto dai coniugi Guascone ed era perciò insorta una 
lite con la creditrice. Così Margherita, rappresentata legalmente dal 
marito, si era rivolta al giudice del “Segno del Cavallo” di Milano 
che le aveva però consigliato di giungere a una composizione 
amichevole della lite, onde evitare l’onere delle spese processuali. 
Le due parti si accordarono infine nel seguente modo: Giuseppe 
Guascone, agendo a nome della moglie Francesca, aveva già 
saldato parte del conto, pagando a Carlo Nicora, procuratore di 
Margherita, un filippo d’oro equivalente a 109 lire e 15 soldi 
imperiali. Ora doveva evidentemente pagare gli interessi maturati 
sulla somma, cioè 102 lire e 15 soldi, che egli si impegnò a 
restituire dando a Margherita tre lire al mese a partire dall'aprile 
successivo fino a estinzione della somma. I due quadri appartenenti 
ai coniugi Guascone che la Bonicelli teneva in pegno, sarebbero 
stati invece restituiti ai legittimi proprietari soltanto al definitivo 
saldo del conto. 
Riflettendo su questo documento si può intuire che la Bonicelli non 
otteneva il guadagno maggiore dalla vendita in sé bensì dagli 
interessi maturati sul prestito, che per legge, se non restituito, dava 
diritto al prestatore di sequestrare i beni mobili e immobili del 
debitore. Margherita quindi non era soltanto una comune 
commerciante di stoffe, ma altresì svolgeva il mestiere di 
finanziera-usuraia. 
Il signor Carlo Nicora fungeva da procuratore della moglie 
Margherita, per legge sottoposta alla patria potestà, garantendo per 
lei in sede giudiziaria nel caso di mancata riscossione dei crediti. 
(v. fasc. 1 – Crediti, doc. 1708 marzo 17). 
Siamo in grado quindi, grazie a questo documento, di sostenere 
ancora di più la sua indipendenza e la sua autonomia economica, 
ostacolata soltanto dalle leggi di quel tempo che le imponevano di 
avere il consenso del marito per la stipulazione di contratti. È forse 
proprio per questo infatti che ella ha contratto il secondo 
matrimonio, dopo la morte del primo marito Carlo Nicora. 
Margherita inoltre sosteneva non solo la sua autonomia, ma anche 
quella delle altre donne della sua famiglia, la prima suocera e la 
prima cognata, alle quali lascia parte della sua eredità. 
IL LIBRICINO DEI CREDITI 
Prezioso documento è il Libricino dei crediti di Margherita 
Bonicelli, anno 1724 che documenta l'attività commerciale. 
Nello stesso documento è registrato un credito con le monache di 
Santa Valeria. In questo, come in altri monasteri, era frequente 
che le ricoverate svolgessereo dei lavori tessili per i mercanti 
milanesi.
DIRITTI E PROPRIETÀ 
NUBILI 
Erano soggetti non autonomi, in ogni 
città gli Statuti stabilivano che nessuna 
donna potesse compiere alcun atto 
della vita civile senza autorizzazione. 
Dovevano sempre sottostare al padre, 
se vivente, o a chi lo sostituiva 
nell'esercizio della tutela. A Milano, in 
assenza del padre, le non sposate 
venivano assistite da un mondualdo 
(figura giuridica di origine longobarda) 
o in ordine: da uno o più parenti,in 
mancanza di essi, dai vicini, in ultimo 
da un giudice. 
L'esercizio di queste potestà familiari 
comportava doveri di protezione e di controllo che si esprimevano 
non solo nella possibilità di impedire la realizzazione di scelte 
autonome, ma anche di interventi di carattere disciplinare nei casi 
di trasgressione. 
L'unica forma di emancipazione dall'autorità paterna restava il 
matrimonio. 
SEPARATE E DIVORZIATE 
Lo scioglimento dei matrimoni era dovuto solo alla morte o 
all'entrata in monastero di uno dei due coniugi. 
L'annullamento divortium quoad vinculum restituiva ai coniugi lo 
stesso status giuridico prima delle nozze. 
In caso di separazione cessava l'obbligo della convivenza e anche 
quello della cura, ma il matrimonio restava valido: questo rendeva 
sempre possibile la riconciliazione e non consentiva nuove nozze. 
Nella sentenza, se la moglie era colpevole, perdeva la dote, il diritto 
agli alimenti e tutto quanto donatole dal marito, se la colpa era 
invece del marito, questi doveva pagarle gli alimenti o 
salvaguardare il valore della dote. 
La condizone dei separati di fatto, ovvero uomini e donne che, 
nonostante il vincolo matrimoniale non vivevano insieme per la 
fuga di uno dei due o per decisone comune, era illegittima e non 
sospendeva i diritti e i doveri coniugali. 
Si crearono istituzioni assistenziali per accogliere le cosiddette 
malmaritate, ossia donne sposate che non erano sicure nella loro 
casa, certamente per timore dei mariti. 
VEDOVE 
Rimanevano escluse dall'esercizio della patria potestà. 
Mantenendo lo stato vedovile potevano essere designate tutrici dei 
figli minori o dei nipoti (cura della persona e amministrazione del 
patrimonio da essi ereditato). La madre, non potendo ereditare 
nulla dai figli, era l'unico soggetto "non interessato", portatore di 
amore puro. 
La tutela poteva comportare anche l'usufrutto sui beni amministrati: 
tale prerogativa era assegnata alle vedove solo per volontà espressa 
dal marito nel testamento. I tutori, inoltre, dovevano presentare un 
inventario iniziale dei beni del minore, un rendiconto annuale e uno 
finale della gestione economica. 
Il limite più forte all'esercizio della tutela riguardava proprio le 
madri, esse decadevano da questa funzione in caso di nuovo 
matrimonio. Questo evento le inseriva in una nuova 
famiglia sottomettendole all'autorità maritale di un 
estraneo, rispetto alla linea di discendenza familiare cui 
erano considerati appartenenti i figli, cioè quella paterna. 
Se il defunto marito non aveva figli tutto il suo patrimonio 
spettava alla vedova. 
In presenza dei figli, invece, la vedova riceveva tutto ciò 
che era di proprietà del marito, eccetto la veste nuziale, i 
preziosi e il letto nuziale, che rientravano nell'eredità. 
Nel caso in cui il defunto avesse avuto figli da un altro 
matrimonio, la vedova riceveva due delle tre parti 
dell'eredità (veste nuziale, preziosi e letto nuziale) in 
modo tale che la somma delle due parti ricevute 
equivalesse alla sua dote. 
La vedova riceveva le vesti da lutto del defunto, da 
restituire però agli eredi del marito nel caso si risposasse. 
Gli eredi dovevano restituire la dote alla vedova dopo la 
morte del coniuge. 
Il loro sostentamento 
Se la vedova non aveva la disponibilità economica 
sufficiente, gli eredi del marito si dovevano impegnare a 
pagarle gli alimenti. 
Qualunque erede era tenuto a pagare gli alimenti; in caso 
di nuove nozze, ovviamente questo pagamento veniva 
sospeso in modo definitivo. 
L'unica eccezione: se nel testamento il marito defunto 
stabiliva che venissero pagati gli alimenti alla moglie, 
anche se questa si risposava, la vedova non perdeva il 
diritto di usufruirne. 
SUL LAVORO FEMMINILE 
ARTIGIANE E OPERAIE 
Nella manifattura tessile la bottega artigiana fu progressivamente 
soppiantata da masse di operai non specializzati, ciò comportò un 
aumento del peso della manodopera femminile. 
Le donne prestavano il loro lavoro soprattutto per contribuire al 
reddito familiare o per coprire le spese della propria sussistenza. 
Il tessile, l'abbigliamento e la vendita di generi alimentari vedevano 
impiegate le rappresentanti delle classi più umili, mentre le mogli 
dei maestri artigiani assistevano i mariti nella conduzione della 
bottega e nella direzione del personale. 
Fra il popolo minuto la capacità lavorativa della donna era di vitale 
importanza e diveniva parte integrante della dote al momento del 
matrimonio. 
Le donne, oltre che nelle tradizionali mansioni della filatura e 
dell'incannatura, trovarono sempre più spazio anche nella tessitura 
e progressivamente sostituirono quasi completamente la 
manodopera maschile. Nonostante l'enorme importanza del lavoro 
femminile nella società d'ancien régime, nei censimenti la donna 
venne classificata soprattutto per il suo stato civile, contrariamente 
a ciò che accadeva per l'uomo. 
Dal testamento risulta che Margherita Bonicelli ha delle 
cartelle, dei titoli, presso il Banco di Sant’Ambrogio e ne 
conosce molto bene il rendimento. 
L'esempio della peste del 1576 
In coincidenza con la peste scoppiata in quell'anno a Milano, alcuni 
parroci avvertirono l'esigenza di segnalare lo status professionale di 
tutte le donne delle loro circoscrizioni. In una situazione di crisi, 
quando erano inevitabili per le masse di lavoratrici urbane la 
disoccupazione e la miseria, era importante definire con precisione 
la situazione lavorativa delle singole famiglie, le loro risorse e 
l'opportunità di un'eventuale assistenza. 
Proprio nei mesi del contagio epidemico, nell'autunno del 1576, 
risalgono due stati d'anime che ben si prestano a darci un quadro 
del lavoro femminile. Ben 422 donne, delle 1350 residenti nelle 
parrocchie si S. Michele alla Chiusa e S. Eufemia, svolgono 
un'attività professionale; ne risulta che la quasi totalità delle donne 
del popolo minuto fra i 12 e i 60 anni partecipava all'economia 
familiare. Di queste 422 donne 258 trovavano impiego nel settore 
tessile. 
Erano tra le 10/15.000 le milanesi che partecipavano alla 
produzione delle manifatture urbane e i monasteri femminili erano 
fra i principali prestatori d'opera nell'industria tessile urbana; la loro 
attività è spesso documentata nei libri dei conti mercantili. Nel 
1611, il mercante serico Cesare Somaglia annota fra i creditori le 
monache del Gesù e di S. Caterina per l'orditura della seta, e quelle 
del Bocchetto e di S. Vincenzo per l'incannatura. Gerolamo Oldoni 
si affida invece per la lavorazione dei suoi drappi auroserici alle 
monache di S. Caterina e di S. Orsola. Le stessa relazione, come 
abbiamo indicato, riguardò la Bonicelli e la Pia casa di Santa 
Valeria. 
LA CAPOFAMIGLIA 
E LE CONVIVENZE TRA DONNE 
Negli anni senza crisi, la quasi totalità dei miserabili è composta da 
donne sole o con figli piccoli, in genere vedove; fin dal 1400 nelle 
città la presenza di nuclei a conduzione femminile era rilevante. A 
Milano, ad esempio, nel 1610 erano 1912 su un campione di 9335, 
ovvero più di 1 su 5. Il nubilato inoltre era molto diffuso nei ceti 
popolari per la questione della dote, in quelli elevati per l'integrità 
del patrimonio, oltre alta più alta mortalità maschile. 
Per la maggior parte delle donne rimaste sole l’assoluta mancanza di 
un supporto esterno veniva in parte sanata grazie ad una mutua 
assistenza e all’instaurazione di forti vincoli di solidarietà. Solo 
raramente, infatti, le strutture familiari fungevano da valido 
appoggio. Fra i nuclei femminili sono in maggioranza le famiglie 
composte dalla madre, perlopiù vedova e con figli in tenera età; è 
questo in genere il caso più gravoso per la capofamiglia che talvolta 
accoglie nel nucleo una «compagna» esterna disposta, per fuggire la 
solitudine, a condividere gli oneri quotidiani. Altre volte la madre 
vedova si riunisce con una o più figlie rimaste a loro volta vedove e 
senza risorse. Tuttavia la disgregazione familiare, sempre 
incombente nei nuclei più poveri, portava alla formazione di ampi 
strati di solitarie. 
Più interessanti, anche se meno numerosi, sono però i casi di 
convivenze di più donne, spesso senza alcun legame di parentela. Si 
tratta di un fenomeno, assai diffuso nelle città europee dell’età 
moderna, e consiste nel raggruppamento di donne che dividono 
spese di vitto e alloggio, organizzano il lavoro in comune e si 
prestano assistenza reciproca in caso di bisogno. Pur riunendo 
talvolta anche quattro o cinque persone, queste convivenze 
riguardano, perlopiù, due o tre vedove o abbandonate dal marito, 
quasi sempre in misere condizioni: esemplare è il nucleo di quattro 
donne che troviamo al Borghetto in San Babila, formato da una 
vedova, una mendicante e due donne dell’Hospitale. 
Queste coabitazioni femminili sono particolarmente diffuse nei 
quartieri periferici e più poveri; se infatti la presenza di nuclei 
guidati da donne è in tutte le circoscrizioni urbane fra il 12 e il 30%, 
aumentano vistosamente nelle aree popolari. (fonte D. Zardin, La 
città e i poveri). 
LE SERVE 
Molte donne sole, specialmente quelle provenienti dalle campagne, 
trovavano rifugio nel lavoro domestico. L'entrata a servizio a 
partire dai 12-14 anni, che era effettuata tramite la stipulazione di 
atti notarili, gli accordia ancillae, che assicuravano mantenimento e 
inserimento in una nuova famiglia. 
La condizione servile durava circa 10 anni e consentiva alle giovani 
di contare su vitto, alloggio, vestiario e una somma di denaro di 
circa 10 lire annue, a seconda del rango del datore di lavoro. Ciò 
serviva loro per accumulare una modesta dote, infatti nel contratto 
erano previste delle clausole che permettevano alla serva, in caso di 
nozze, di rompere gli impegni di lavoro prima della scadenza. 
I rapporti di vicinato erano molto importanti per la circolazione 
della servitù fra le mura urbane, infatti al momento di cambiare 
padrone le serve si spostavano nell'ambito delle famiglie del 
quartiere dove erano cresciute, grazie anche alle referenze dei 
precedenti datori di lavoro. Fu questo il caso di Margherita Notari, 
giunta dodicenne a Milano nel 1580, fu assunta dal filatore Agosto 
Curti che lasciò dopo due anni per spostarsi sol di pochi metri, 
entrando a servizio del vicino di casa Alberto Borsa. 
Ne l l e font i e saminat e s i r i t rova 
que s ta impor tant e c at e gor ia di 
lavor at r i c i 
Pe c chio fa un las c i to pe r una 
Gove rnat r i c e e pe r una Donna de l la 
sua c asa 
Albe r tar io la s c ia al la s e r va I sabe l la 
Riva 100 l i re impe r ia l i , a pat to che 
s ia anc or a al suo s e r vi z io.
FIGLIE E FIGLI 
Negli stati preunitari le nubili non avevano alcun diritto 
patrimoniale, le donne, anche vedove, che si sposavano avevano 
diritto soltanto alla dote. 
Fino a metà del XVI secolo i figli partecipavano equamente alla 
spartizione dell'eredità, mentre le figlie erano mantenute dalla 
propria famiglia e ricevevano solo la dote per sposarsi. 
Nell'epoca successiva restava la preminenza dei maschi: i 
primogeniti ottenevano il patrimonio paterno o una sua parte molto 
consistente mentre ai cadetti spettava una rendita. 
Le figlie, al momento della costituzione della dote, di solito 
rinunciavano formalmente non solo all'eredità sul patrimonio 
paterno, dal quale era prelevata la devoluzione matrimoniale, ma 
anche a quella sui beni materni; si evitava così che potesse 
pervenire nelle loro mani una parte dei beni della famiglia. 
La trasmissione dei patrimoni materni, normalmente di entità 
assai più ridotta, non era regolata in modo omogeneo; ad esempio a 
Firenze e Bologna essa escludeva, come quella paterna, le figlie, 
mentre a Venezia si trasmetteva con perfetta bilateralità, fra maschi 
e femmine, a meno che non venisse su di essa prelevata la dote. 
IL CELIBATO SALVAGUARDIA DEL PATRIMONIO 
Il mantenimento del patrimonio portava le figlie a rinunciare a 
entrambi i lasciti così, al momento della formazione della dote, le 
donne rinunciavano all'eredità, se però mancavano eredi maschi 
potevano ottenere i beni della famiglia. 
L'affermarsi di norme successorie che tendevano a preservare 
l'integrità del patrimonio familiare aveva favorito nei ceti 
aristocratici una larga diffusione del celibato sia maschile sia 
femminile. 
NUBILATO 
Il diffondersi di quello maschile riduceva, per le nubili 
appartenenti lo stesso ceto sociale, la possibilità di trovare sul 
mercato matrimoniale una soluzione adeguata, e impediva alle 
famiglie quel gioco di compensazioni fra le doti in uscita (cedute 
alle figlie sposate) e quelle in entrata (apportate dalle nuore). 
Assai meno numerosi, almeno fino a XVIII secolo inoltrato, 
furono i casi di nubilato domestico, cioè vissuto all'interno della 
casa dei genitori o di un fratello sposato. 
In tali situazioni, la posizione e il ruolo delle non coniugate 
rimaneva marginale non solo nei confronti dei maschi della 
famiglia, ma anche rispetto alle altre donne della famiglia ossia 
madri o cognate. 
MONACAZIONE E DOTE 
Un numero consistente di figlie dell'aristocrazia di solito era 
destinata alla monacazione, per la quale pure era richiesta una dote, 
ma di valore considerevolmente più basso. 
Spesso i genitori mettevano in convento le figlie prima della 
pubertà, perché venissero educate e preservate da pericoli di 
seduzione. 
Quando esse raggiungevano l'età adeguata si decideva, con o 
senza il loro consenso, se destinarle al matrimonio o alla 
monacazione. 
LE GIOVANI POVERE 
Nei ceti inferiori l'impossibilità di disporre di una dote familiare 
impediva alle giovani di sposarsi. Il loro lavoro, per esempio quello 
di serve domestiche, era finalizzato proprio a costituirla. 
Le appartenenti alle famiglie più povere facevano ricorso spesso 
anche alle attività assistenziali delle confraternite, delle opere pie e 
delle corporazioni di mestiere (per le orfane dei soci): infatti, nel 
bilancio annuale di queste istituzioni, era prevista la devoluzione di 
doti per fanciulle povere o appartenenti a famiglie di altri ceti 
sociali in difficoltà. 
Particolari condizioni di crisi potevano così determinare, in ogni 
ceto, l'impossibilità di costruire una dote sufficiente a concludere 
un matrimonio adeguato al proprio status e comportare quindi la 
rinuncia alle nozze. 
LA GESTIONE DELLA DOTE 
Durante il matrimonio, la dote veniva amministrata dal marito, 
che ne godeva anche i frutti. Alla sua morte, gli eredi avevano 
l'obbligo di restituirla alla moglie oppure, in caso di norme o 
clausole differenti, a coloro che l'avevano costituita. Se a morire era 
la moglie, gli statuti o gli accordi fra le parti prevedevano talvolta i 
lucri dotali: una parte dei beni o dei valori (di solito un terzo o la 
metà) era del marito. 
La dote dunque era il patrimonio che di solito la legge metteva a 
disposizione delle vedove. La sua restituzione fu spesso causa di 
conflitti fra le donne e gli eredi del marito. 
Quando si trattava di un valore consistente, inoltre, la volontà di 
controllo creava tensione fra famiglia originaria e famiglia 
acquisita. L'eventualità di vivere in modo indipendente rimaneva 
così, per le vedove dei ceti proprietari, e in particolare per quelli 
aristocratici, assai limitata. 
La loro formazione non derivava da un diritto ereditario 
individuale, bensì da contingenze particolari (come l'assenza di 
eredi maschi) o atti discrezionali come una donazione o 
l'espressione di una volontà testamentaria (del padre, del marito, di 
chiunque altro). Ovviamente tali condizioni rendevano i patrimoni 
delle donne molto meno numerosi e di solito assai meno consistenti 
di quelli degli uomini. 
Le norme sull'eredità e sulla dote tendevano a mantenere separati, 
in assenza di figli, i beni del marito da quelli della moglie. Ciò 
consentiva di farli tornare, allo scioglimento del matrimonio, nella 
linea di successione della famiglia di provenienza. 
L'USUFRUTTO 
La forma proprietaria più adeguata a impedire confusioni era 
quella usufruttuaria: permetteva di percepire temporaneamente i 
frutti di un patrimonio, senza concedere la piena disponibilità di 
esso, per salvaguardarne una diversa destinazione, così il marito 
lasciava alla vedova la disponibilità della dote e dei beni se non si 
risposava. Solo l'eredità materna era sicura senza la vedovanza, 
quella dei figli solo fino alla maggiore età. 
BENI PARAFERNALI 
Unica eccezione i beni parafernali, dall’origine greca para juxta 
(appresso) e pherne (dote). Erano così definiti i beni attinenti o 
accessori alla dote, detti anche a Milano scherpa. Questi 
godevano del privilegio di non poter essere utilizzati per saldare i 
creditori, né pignorati. 
La donna in caso di morte del marito o di divorzio, ritornava in 
possesso di questi beni, anche se nel primo caso, a meno che 
avesse dei figli. In questo caso era costretta ad aspettare dieci 
anni, dal giorno del matrimonio, per utilizzarli, unica eccezione 
per la beneficenza (300). 
Un'altra restrizione era prevista per il padre verso il figlio 
emancipato. 
TESTATORI CONIUGE PARENTI ALTRE BENEFICIARIE 
LOMAZZI 
Maddalena Pusterla: mobilia, suppellettili, biancheria 
di Casa, usufrutto della parte di Casa che serviva per 
uso di Lomazzi, un Appartamento, 1200 lire l’anno, 
solamente se rimarrà in abito viduile 
Alla sorella Teresa Sinistra e alla nipote: lire 30 annue 
Alla sorella Lucrezia: lire 600 per l'atto del matrimonio 
Alle nipoti Maddalena e Angela Maria 1000 lire ciascuna 
Dopo la morte del nipote e della moglie la loro eredità dovrà essere 
convertita in dodici doti 
ALBERTARIO 
Barbara Tacca: quarta parte dei suoi beni con l'interesse 
del 5%, gli effetti della sua eredità, usufruttuaria 
generale 
--- Lascia alla Rev. Candida Fortunata Monaca 50 lire imperiali; 
Alla serva Isabella Riva 100 lire imperiali 
PECCHIO Girolama Pianni: 16000 lire in totale, compreso il 
credito per residuo della dote 
Alla Signora Antonia Pecchia, figlia del fù Sig. Giacomo 
maritata nel Sig. Spirito Rossignolo di Borgomanero lire 
seicento Imperiali per una volta tanto 
Governatrice Maria Tornesa Bergamasca, Angiola Bogiana Genovese 
donna della sua residenza 
BONICELLI Un richiamo alle parenti, suocera e cognata, del primo 
marito defunto. Nessun riferimento al nuovo coniuge 
Signora Margarita Borsana, suocera 
Maddalena Nicora, cognata 
Signora Angiola, moglie di suo cognato Battista Nicora 
Figlie della famiglia Nicora 
Signora Clara, moglie del Sig. Giuseppe Galbiati 
BALLI 
Anna Maria Arletti: le lascia 4000 lire annue (mille lire 
ogni tre mesi), ma revoca il legato della sua casa da 
Nobile, Giardino, e Mobili di Cernuschio, e anche 
quello delle tre brente di Vino, e due mogge di 
Formento, che dovevano esserle date in occasione della 
sua villeggiatura a Cernuschio, e comanda che passino 
liberi al suo erede principale 
Lascia un aiuto al Sig. Carlo Federico Cabiati suo 
cognato, e alla Signora Lucia Arletti di lui moglie, e 
sorella di sua moglie 
A Suor Marianna Fortis sua cugina Monaca: dodici cerini 
A sua cognata Suor Maria Giuseppa Arletti cognata 
Monaca: 15 lire annue; 
A Suor Colomba Benedetta e Suor Laura Maria sue 
cugine: 30 lire annue 
1600 lire annue in aiuto di una giovane prostituta che voglia ritirarsi nel 
monastero di Santa Valeria 
50 lire per ciascuna giovane donna che lavorava nella sua Bottega 
Al monastero delle RR.MM. di S. Maria degli Angioli in Porta 
Comasina: soldi per far celebrare 33 messe (22 soldi per ciascuna), 
moggia di formento, moggia di riso bianco e brenta di vino rosso a 
patto che le RR.MM. suffraghino la sua anima 
Al monastero delle RR.MM. di Santa Maria delle Grazie in Vailate: 135 
lire annue a patto che le RR.MM. suffraghino la sua anima 
Dal testamento del Balli un elenco di beni di vario genere 
compresi argenti, una carrozza e due cavalli dati alla moglie. 
Tutti i beni erano godibili in usufrutto e non diventavano mai 
di proprietà della vedova, che anzi dovrà restituirli cessando 
detto usufrutto: 
o per il passaggio di detta mia Moglie alle seconde Nozze, o 
passando la medesima da quella a miglior vita.
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I testamenti raccontano

  • 1. Le fonti d'archivio utilizzate sono i testamenti di quattro benefattori e una benefattrice, vissuti tra il XVII e il XVIII secolo, che indicano loro erede universale il Luogo Pio di Loreto. Dai documenti sono state individuate alcune tematiche, che la classe, divisa in gruppi, ha approfondito, utilizzando anche altre fonti e testi reperiti in biblioteca o in rete. Perché tanta attenzione ai cosiddetti poveri vergognosi? Si deve risalire al milanese sant'Ambrogio. La carità è virtù teologale e assume più valore se rivolta a persona declassata che, proprio per il passato decoro, non può confondersi col questuante di professione, il vizioso, altresì detto poltrone, ma va aiutata con la necessaria discrezione. La condizione di povertà vergognosa, della quale esisteva una specifica iconografia, divenne, però, con l'affermarsi della mentalità che giudicava l'incapacità di produrre denaro, sinonimo di inettitudine e parassitismo. Una ricerca ha seguito i gesuiti e la conseguente diffusione del culto lauretano a Milano. Partendo dalla leggenda della Santa Casa, trasportata dagli angeli da Nazareth fino a Loreto, abbiamo ricostruito alcuni momenti del progressivo affermarsi dell'ordine in città; col sostegno ricevuto da San Carlo per la direzione del Seminario milanese, ma anche dello scontro sociale che essi innescarono. L'Ordine divenne infatti un riferimento per i nuovi ceti mercantili, opposti al patriziato che si riconosceva in Carlo Borromeo. L'analisi degli Statuti della Congregazione ci mostra l'impegno nelle opere di carità verso vergognosi, carcerati, pubbliche peccatrici, cui va aggiunto il potere dovuto all'ingente valore delle donazioni, che servirono anche a disinvolte pratiche commerciali (compravendita di case, terreni, acquisto di titoli), giudicate, dalle autorità ecclesiastiche, poco coerenti con lo spirito gesuitico iniziale, fondato sull'obbligo di povertà. Un'altra ricerca ha riguardato il testamento nuncupativo, la fonte più utilizzata, e il notaio, la figura professionale che, seguendo una specifica procedura, lo redigeva. Sono stati approfonditi poi alcuni aspetti, sempre in ambito milanese, delle altre professioni citate nei testamenti: mercanti, guantai e profumieri, chirurghi e barbieri. A partire dalle numerose presenze di donne nei testamenti (mogli, parenti, monache, conoscenti, serve) sono stati esaminati diversi aspetti relativi alla condizione femminile. La benefattrice Margherita Bonicelli, vedova di un commerciante e usuraio, è un esempio di autonomia e indipendenza. Ella continuò entrambe le attività del marito; il suo secondo matrimonio fu dovuto alla necessità, per le leggi del tempo, di garantirsi una sorta di prestanome per le proprie attività commerciali. Interessanti anche le relazioni con le altre donne citate nel testamento, parenti del primo marito e di condizione economica inferiore. Le donne sole: nubili, vedove e malmaritate; secondo gli Statuti milanesi godevano di pochi diritti rispetto alla proprietà, inoltre per le vedove, a parte i beni parafernali, un nuovo matrimonio comportava la perdita dei beni ereditati dal coniuge. Interessante, per quanto concerne il lavoro femminile, la situazione delle serve, presenti nelle fonti per piccoli lasciti. Il lavoro servile era spesso finalizzato alla dote e le congregazioni di beneficenza, oltre ai lasciti testamentari, potevano contare annualmente su cospicue somme da destinarsi a putte povere timorate e meritevoli. La dote era la condizione fondamentale per accedere al matrimonio ed evitare così forme di mantenimento degradanti e illecite. L'alternativa dignitosa al matrimonio era il monastero; nei testamenti si ricordano molte monache che ricevono delle somme per il loro mantenimento. Tale condizione era, nei ceti elevati, la soluzione naturale per le figlie non destinate al matrimonio; ciò rendeva i monasteri dei luoghi dove la vocazione e la devozione non erano la norma. Il problema delle monacazioni forzate e della corruzione delle religiose era diffuso, ben presente anche alle gerarchie ecclesiastiche le cui aspre condanne cedevano di fronte alle strategie patrimoniali delle famiglie, che non ammettevano deroghe. Nel testamento di Claudio Balli si nomina la Pia Casa di Santa Valeria, alla quale è destinata una somma per il mantenimento di donna di pubblico scandalo che ravveduta de' suoi trascorsi, voglia ritirarsi in detto Monastero e nel caso di più concorrenti si deve scegliere la più giovane, e la più avvenente, la quale sia in caso di dar maggior scandalo, e far peccare il prossimo. Abbiamo quindi ricostruito brevemente l'origine e le finalità del Ritiro di Santa Valeria e, sempre in merito al fenomeno alla redenzione di donna che per sua disgrazia si sia data in preda al peccato, un'altra istituzione altrettanto famosa all'epoca: il Deposito di San Zeno. Illustre ospite di Santa Valeria fu Marianna de Leyva y Marino, alias Suor Virginia Maria, alias Gertrude la Monaca di Monza. E per finire vi invitiamo a ... fà el gir di sètt ges! Piazza Cordusio, centro delle attività politiche ed economiche. Le informazioni sono quasi sempre riferite al contesto milanese. LICEO SCIENTIFICO RUSSELL GARBAGNATE M. A.S. 2013 - 2014 D O C E N T E P A O L O E R M A N O A L L I E V E e A L L I E V I C l a r i s s a M a c c h i D a v i d e B a s i l i c o N i c o l a s C a r l o n e M a r c o M a g g i E d o a r d o M a l e r b a J a c o p o R i z z i J a c o p o S t r a d a M a t t i a A u r i g h i G a b r i e l e C o n s o n n i Ema n u e l e L e o n i M i c h a e l L o v i g l i o G i a n l u c a M u s a r r a M a r c o M u s c a F a b i o S i c o r e l l o C a r o l i n a B e z z i L u c i e F e r r e t t i L a u r a G a z z o l a I r e n e G i n i C ami l l a M a r e t t a S a r a T o n i u t t i G r e t a V a r a n o M a r i a c r i s t i n a V i c a r i o F e d e r i c a Z a n e l l a F r a n c e s c o A b b i a t i I r e n e D ' a l o i a O t t a v i a L amb e r t i
  • 2. GIUSEPPE ALBERTARIO Figlio di Ambrogio (+ 12 febbraio 1703) Test. il 4 febbraio del 1701. Sposato con Barbara Tacca, ebbe un fratello, Francesco Albertario, e due sorelle, Margherita, Colomba e Paola, delle quali una gli diede un nipote, Luca Vertua. In casa viveva una serva, Isabella, alla quale nel testamento lasciò una somma di denaro. Lavorò come chirurgo barbiere; possedeva una bottega dove lavorava anche un giovine al quale lasciò i suoi attrezzi; inoltre esercitava la professione di chirurgo nelle case. Al momento della stesura del testamento era già infermo da alcune settimane. Documento manoscritto che fotografa un momento dell’attività di Albertario, 12 febbraio 1703 Ordinazione fatta dalli signori abbati e sindaci dell’Università de’ barbieri e chirurghi di Milano ad istanza del signor Giuseppe Albertario con la quale hanno dichiarato che Francesco Ferri paghi al detto Albertario filippi cinque di netto oltre tutto ciò che possa essere stato pagato per l’addietro e ciò per le cure e visite dal detto Albertario fatte alla moglie di detto Ferri. Copia autentica estratta dal libro delle ordinazioni del signor Federico Maggi notaio di Milano e cancelliere di detta università FRANCESCO PECCHIO Conte, figlio del fu Cesare (+ 1773). Il titolo gli fu conferito dall’imperatore Carlo VI. La sua fede cattolica appare nel testamento (1717) come unico vero valore. Gentiluomo, già in vita molto benevolo, come dichiara nella richiesta del titolo,viveva delle sue entrate. All'età di sessantacinque anni, senza moglie (Girolama Pianni era stata la sua consorte ) né figli, volle avere un titolo onorifico: conte senza obbligo di prendere feudo. CLAUDIO BALLI Oriundo di Tur (oggi La Tour) del Ducato di Savoia si trasferì a Milano, dove si sposò con Anna Maria Arletti ed ebbe dei figli. Fu compossessore della chiesa di San Fedele, attivo e presente in numerose congregazioni religiose della città. Da più di un decennio abitò nella città di Milano, ove acquisì la cittadinanza, che gli permise di svolgere la sua attività di profumiere e pellettiere. La cittadinanza gli fu concessa il 12 settembre 1691, così il nome originario, Claude Bailly, fu italianizzato in Claudio Balli. Vestrae servus fidelis tamquam quis ultra decennium habitavit in hac Mediolani civitate... Carlo Secondo per grazia di Dio re di Spagna e delle due Sicilie e duca di Milano. Claudio Balli ci ha inoltrato la seguente supplica (...) servo fedele della Maestà Vostra, tanto che da più di un decennio ha abitato nella città di Milano, essere considerato nel novero dei concittadini della sua città e godere dei loro privilegi, per la qual ragione si è rivolto umilmente alla Maestà Vostra, pregando si degni di dichiarare con sue lettere patenti, provata la detta residenza per oltre un decennio, che il supplicante ha acquisito il diritto di cittadinanza in questa città di Milano e quindi possa stipulare, sciogliere, acquisire, comprare, vendere, alienare e operare in tutto il resto e commerciare, tanto per via giudiziaria che senza, in tutto e per tutto come possono fare i veri cittadini e abitanti e originari della predetta città…. LOMAZZI GIOVANNI Lomazzi Giovanni Pietro q. Melchione (1650-1713), sposato con Maddalena Pusterla nominò erede universale la Congregazione di Loreto con l’obbligo di erogare annualmente lire 3.600 di imperiali in doti di lire 300 l’una e il resto dei redditi in sussidi «a poveri vergognosi conforme il stile et solito di detta veneranda congregazione e loco pio» (Testamento 1 aprile 1681). Il Lomazzo fu un ricco mercante che aveva negozio in Milano nella contrada del Cappello. La sua eredità comprendeva: una casa al Ponte dei Fabbri in Porta Ticinese del valore di lire 24.000, una casa in Porta Ticinese, parrocchia di S. Ambrogio in Solariolo, (di lire 24.000), un'altra in Porta Ticinese (di lire 20.000) e due con botteghe nella contrada del Cappello del complessivo valore di lire 26.000. Fra i beni immobili e mobili, il Luogo pio eredita alla morte del Lomazzo, avvenuta nel 1682, un patrimonio ascendente a lire 209.425, fruttante annualmente lire 7.019,10. Quietanza 1669 al 31 dicembre Si è rogato instromento sotto il giorno d’oggi da Nicolo Magno publico notare di Millano et causidico collegiato dal quale appare che il signor Pavolo Regibus ha receputo lire 3.000 in vero et real deposito et in prestito con obligo di restituirli al signor Giovanni Pietro Lomazzo ad ogni sua richiesta e tra tanto sino che segua l’effetiva restituzione delle suddette lire 3.000. Pagare il cinque per cento. DUE RITRATTI DEL CONTE PECCHIO Dardanone Gaetano post 1733: pittura, olio su tela 118,8 cm x 209,4 cm Milano, Raccolte d'Arte dell'Ospedale Maggiore. Pittore lombardo, quarto decennio del XVIII secolo. In entrambe le rappresentazioni il Conte è ritratto vicino ad un tavolo mentre indica i fogli del testamento. Nei dipinti sono sottolineati dei tratti tipici della nobiltà: il parruccone, la marsina svasata e decorata con bottoni fermati in ampie asole e, infine, l'abbondante camicia. La posizione assunta, un po' civettuola, è molto simile, differente invece la postura. Nel dipinto dell'Ospedale, a destra, viene sottolineata la figura: entrambi i piedi sono rivolti verso l’osservatore, la schiena è dritta e rigida; nell'altro ritratto, probabilmente derivata dalla precedente, ci appare più nelle vesti di benefattore che di Conte, si mostra una posizione più inclinata, un piede è seminascosto dal tavolo, e indica con più enfasi lo stesso testamento; infine, nel viso quasi privo di espressività, appare un lieve sorriso.
  • 3. VERGOGNA ALTRO NON ESSER CHE TIMOR D’INFAMIA Da questa definizione di Aristotele è derivato nei secoli cristiani il concetto di povero vergognoso. ORIGINE CONCEZIONE NEL CRISTIANESIMO La prima critica nei confronti dei poveri vergognosi la muove Sant’Ambrogio di Milano nel De officiis: “Sei colpevole se un fedele vive nel bisogno senza che tu provveda […] è meglio che anche tu aiuti i tuoi, che si vergognano di chiedere ad altri”. Quando si dà bisogna considerare il pericolo di fraudolenza, l’età , la debolezza e talora la vergogna; il fedele dovrà quindi “vedere chi non lo vede, cercare chi si vergogna di essere visto”. La compassione è il motore che muove a fare l’elemosina ed è maggiore verso i nobili e i ricchi che la sventura ha gettato nella miseria. Pier Damiani, Dottore della Chiesa, dà questa definizione di povero vergognoso: “Uomini di nobile condizione oppressi dall’indigenza, tormentati dalla povertà” [ incapaci di mendicare, e per questo] “la loro indigenza deve essere compresa più che vista”. SOLIDARIETÀ TRA GLI STESSI CETI Dai verbali della Scuola di Martino fondata a Ferrara nel 1491 per poveri vergognosi, troviamo un senso di identificazione corporativa fra membri diversamente fortunati del ceto dominante (dottori, mercanti, notai). Si ritrovavano in una sorta di concetto non corporeo di parentela, uniti anche dalla ugual sorte a cui potranno andare incontro, come definisce Juan Luis Vives nel 1525. DUE TIPI DI VERGOGNOSI C'è un problema che ricorre sempre, ovvero marcare quella linea netta che deve differenziare chi merita e da chi se ne approfitta. “ Veri vergognosi s’intendono essere li gentiluomini che han sempre vissuto civilmente, a cui si darà una elemosina conveniente poiché essi si vergognano di domandare”. La seconda categoria è quella di coloro a cui “non è molta vergogna”. Anche a Firenze nel 1622 i Buonomini disquisiranno su cittadini considerati “più vergognosi”, “con la maggior vergogna”. Il processo si consolida a Bologna nel 1641 con la dichiarazione di quali siano i veri vergognosi, ai quali si debba sovvenire e quali siano necessitosi ma non vergognosi. Da questa riforma abbiamo una definizione ancora più restrittiva di povero vergognoso, in quanto considerati: “ vergognosi sono i gentiluomini, cittadini, mercanti ricchi, e più anche gl’artefici padroni di buoni capitali d’arti onorate e non vili, i quali con le loro facoltà sono vissuti per il passato sempre bene e onoratamente e poi sono caduti in povertà non per causa dolosa”. LA VITIOSA VERGOGNA Annibale Pocaterra , filosofo e poeta del 1500, discute le alterazioni della vergogna nell’opera Due dialogi, in quanto essa rende gli uomini “effeminati e stupidi” segno di milensa e dissipita bontà. Il filosofo prende ispirazione da Plutarco che aveva dedicato un intero trattato morale “ De vitioso pudore” alla stessa tesi che viene però semplificata come rivendicazione del proprio ruolo in società, e orgoglio in una cultura competitiva e maschilista. Pocaterra aggiunge inoltre che “male sta la vergogna nel povero e necessitoso”. Nel 1600 l’interpretazione del Pocaterra verrà condivisa in una commedia di Tirso Molina, in cui il giovane protagonista viene deriso dalle donne proprio per un senso di vergogna eccessivo. LE TRUFFE I secoli d'oro dei vergognosi sono anche i secoli d'oro del sospetto. Che siano proprio la segretezza e i privilegi a rendere gli inganni appetibili e praticabili? Truffe , inganni crescono attorno ai poveri vergognosi sin dal Medioevo, ma la fioritura piena è della prima Età moderna. Il già citato Vives, filosofo del 1500, nella sua opera De subventione pauperum, suggerisce al Senato la necessità di svelare le identità, così da non generare il sospetto; purché non sia “tanto grande la dignità del povero da esentarlo da simile vergogna”. Gasparo Contarini, vescovo del XVI secolo, ha mostrato il timore: “che alcuni sfaccendati, profittanto delle copiose elemosine, si diano all'ozio come capita spesso”. Analogamente la Società della Carità di Verona ammonisce: “dove se procura proveder alle miserie de vergognosi , non si nudrisca poltronaria”. È evidente quindi il problema di conciliare la segretezza coi controlli di merito e col rigore amministrativo. Sembra un paradosso, ma, per i vergognosi, esser conosciuti è requisito preliminare per poi divenire anonimi; i poveri comuni,al contrario, vanno nominati, schedati, obbligati al contrassegno. LA SCOMPARSA DEI POVERI VERGOGNOSI L'Età napoleonica portò alla soppressione e alla centralizzazione delle istituzioni assistenziali. Lo spirito dell'epoca è riassunto dalle considerazioni del sacerdote Luigi Morandi contenute nell'Opera de' vergognosi, in cui li definisce come : “stabilimento aristocratico ordinato a mantenere la differenza dei ranghi […] che non uguaglia il sovvenimento al bisogno ma al comodo e alle decenze e conduce all'inerzia del vivere senza far nulla“. Già nell'Illuminismo però vengono criticati dal radicalismo mercantilista., tanto che Antonio Genovesi, insegnante di economia civile a Napoli, li descrive così: “ Non vi è nel mondo persona di niuna condizione che non possa onestamente esercitar qualche mestiero […] La sola poltroneria mi pare la più vergognosa di tutte le professioni”. Cambia la mentalità, vergognoso diventa sinonimo di ozioso. Molte opere pie risorgono nel periodo del Risorgimento, ma non tutte, e spesso quelle per i vergognosi non vengono ricostituite, anzi, se risorgono, lasciano trasparire una riduzione di capacità operative e finanziarie. Milano in questo, costituirà però un'eccezione: nel 1830 si soccorreranno ancora, con 58.000 lire, ben 573 famiglie vergognose “a cui non può convenire di presentarsi pubblicamente”. L'ultimo verbale di patrocinio per iniziative analoghe lo abbiamo nel 1881: a Lucca il Conte Cesare Sardi fondò un'opera dei vergognosi in quanto essi hanno “diritto di vivere”. CONSEGUENZE Nella società tendenzialmente borghese dell'Ottocento verranno meno le ineguaglianze giuridiche, mentre la rottura delle solidarietà di ceto sottoporrà l'individuo all'impersonalità della legge economica. Il lavoro troverà la sua piena legittimazione, e il denaro s'imporrà come l'unico fattore di stratificazione sociale. Lorenzo Lotto, l’elemosina di Sant’Antonino Venezia, Chiesa SS. Giovanni e Paolo, 1542 La parte alta della tela è occupata da Sant’Antonino in trono fra putti e angeli, intento a leggere una pergamena; sotto troviamo due diaconi intenti a raccogliere le petizioni e distribuire monete ai poveri. Fra questi si notano alcune donne che non si sbracciano per ricevere il denaro e consegnare le petizioni, anzi si coprono il viso con veli scuri. Queste figure rappresentano i poveri vergognosi. Cesare Vecellio Vergognosi, In Habiti antichi e moderni, 1598 Pobero gentiluomo, Padova, Museo civico Solo chi sia stato ricco può avere la licenza di vestirsi con il caratteristico abito dei Poveri Vergognosi. Questo è un sacco “tutto rappezzato” completato da “pianelle (calzature) rotte” con un cappuccio, che ha “due fori con i quali vedono e non sono veduti”, infine “portano in mano un cartoccio da ricevere le elemosine, le quali dimandano più tosto con i gesti che con le parole”. L’iconografia contribuì a diffondere la credenza che l’idea di povertà si connette a quella di vergogna.
  • 4. PERCHÉ L’ELEMOSINA? Definita come atto di carità regolato sulla libera e gratuita communicatio honorum , frutto di una relazione libera e disinteressata tra le parti, nei confronti di individui considerati poveri. Questo è e deve essere considerato problema sociale che sollecita un comportamento caritatevole. Inoltre l’atto di carità rende virtuoso il donatore: infatti ai ceti abbienti piace assai esser più generoso che giusto. A CHI DESTINARLA? In primis: infermi, vedove, orfani, prigionieri, e ... i poveri vergognosi, ossia i nobili declassati, privi dei mezzi per ostentare il loro status. Si consideri pure il disprezzo umanistico per la povertà: Mendicar mi fa vergogna! DUE BUONI MOTIVI PER ESSERE GENEROSI Il primo è la difesa della propria casata, di consorterie, e di rapporti clientelari. In questo modo si avvia un processo di razionalizzazione e centralizzazione dell’attività assistenziale. Il secondo è il, già citato, vantaggio spirituale: quanto più si fa del bene tanto più si diventa virtuosi. NASCITA DELLE ISTITUZIONI Con la diffusione di questa pratica iniziarono a nascere, anche per tutelare l’elemosiniere e garantire la destinazione dei propri capitali, Ospedali, Case Pie e Monasteri e naturalmente Congregazioni,come il Luogo Pio Loreto di Milano. Tutte le pratiche di elemosina si trovano registrate da Frate Paolo Morigi nel Tesoro Precioso de’ Milanesi” del 1599. Lo stesso Morigi presenta il un bizzarro paragone tra usura e elemosina. 5 CATEGORIE DEI POVERI: SECONDI I VERGOGNOSI Quanto a chi vada distribuito, non è dubio ch’egli ha di essere a’ poveri, ma si ponno ridurre essi di cinque sorti, cioè poveri manifesti, vergognosi, di congregationi, pelegrini e forastieri, e tristi che fanno l’arte per furfanteria. Li primi sono genti per lo più nate, et allevate poveramente, alcuni de’ quali sono del tutto impotenti a guadagnarsi da vivere; altri hanno bisogno di essere in parte sovenuti et altri ve ne sono talmente inetti, ma poltroni che non sanno, o non vogliono lavorare anchora che possino; li secondi per lo più sono persone già statte di qualche honeste qualità, per vani eventi fatte povere, et questi tali sono tra tutti degnissimi di compassione et aiutto essendo assai men grave e tolerabile la povertà nel nato povero che non è nel fatto povero. Li terzi sono poveri frati e monache convertite rimesse del Soccorso, orfani a orfane. Li quarti sono pelegrini che passano di transito, o poveri forastieri che qui capitano cercando tratenimento, et talvolta si trovano senza modo, né indirizzo; gli ultimi sono del tutto degni di essere scacciati come persone vitiose e piene d’ogni sceleragini, et che sogliono ammorbare la città de’ rnali contagiosi, nell’anime et nei corpi. (Discorso di Anonimo officiale circa XVI) Non sempre lo sguardo verso il vergognoso è caritatevole. Nella numerosa compagnia dei ruvinati, nella quale s'entra senza memoriali e raccomandationi, di G. M. Mitelli e databile tra a cavallo del 1700, la caricatura esprime un severo giudizio sullo sprovveduto mercante, primo responsabile della propria miseria. Dagli Statuti della Venerabile Congregazione di Loreto il capitolo sui poveri vergognosi Cavaliere d’Arpino (incerto) Vergogna Honesta In Iconologia di C. Ripa, 1613 La donna raffigurata è leggiadra, poiché la vergogna conferisce “venustà” e “gratia”; tiene gli occhi bassi, secondo il costume di chi si vergogna. Il vestito stesso, il cui colore è il rosso, rimanda alla vergogna, cosi pure suoi simboli sono: l’elefante, di cui si cinta la testa, e lo stesso falcone che tiene sul braccio. Infine il motto Dysopia procul significa: “stia lontana la soverchia e vitiosa vergogna”. In particolare il termine soverchia indica coloro che prendono la vergogna senza averne il titolo, non essendo mai stati ricchi. LA LIMOSINA È SIMILE A USURA Una interpretazione dell'usura in armonia con la religione! Si come quello che presta ad usura ha molto a caro, che si differisca il pagamento, perché quanto più si tarda il debitore a pagare, tanto più egli guadagna. Così fa chi è misericordioso, perché con le limosine che fa a' poveri, fa usura con Dio, e però deve rallegrarsi che ritardi il pagamento, e che lo riservi per l'altra vita, nella quale abbondantissimamente sarà rimunerato fa Dio. TES TATORI C I T A Z I O N I D E I P O V E R I V E R G O G N O S I LOMAZZI Lasciti in dote a otto figliuole nobili di Milano per il loro matrimonio temporale. Tramite invece la Veneranda Congregazione dà l’indicazione di “spendere in tante elemosine a’ poveri vergognosi”. ALBERTARIO Lasciti in donazioni, sempre tramite la Veneranda Congregazione, ai poveri vergognosi durante le festività di Pasqua e Natale. PECCHIO Lasciti di una rendita annua ai poveri vergognosi e ai mercanti decaduti (lui stesso appartiene alla corporazione mercantile). BONICELLI Lasciti in doti per le figlie della Famiglia Nicola, e i restanti soldi alle povere famiglie decadute della sua città. BALLI Inizialmente non indica esplicitamente dei lasciti per i poveri vergognosi: “Dare li santi esercizi ogni anno […] a individui che non abbino modo di fare la spesa […] ma dovranno esser tenuti segreti“. In seguito dispone chiaramente una donazione mensile alle povere famiglie vergognose e ai mercanti decaduti.
  • 5. IL CULTO LAURETANO Sembra che toccò ai soldati di Francesco Sforza, di ritorno da Ancona, testimoniare dei miracoli della Santa Casa e dunque a far conoscere il culto lauretano a Milano. La devozione spinse molti milanesi, come la duchessa Maria, consorte di Filippo M. Visconti, al pellegrinaggio a Loreto, tra questi il più celebre fu San Carlo Borromeo, allora cardinale di Milano. Questi celebrò una messa a Loreto per la Natività di Maria, festa principale della Santa Casa. Tornato a Milano, incominciò a diffondere il culto della Vergine lauretana in tutta la Lombardia e incaricò il Richini di edificare una chiesa che contenesse la ricostruzione della Santa Casa. Venne consacrata dal cardinale Federico Borromeo nel 1616 fuori Porta Orientale (oggi porta Venezia), oltre il Lazzaretto; con annesso un edificio per il clero e il chiostro. Al diffondersi del culto lauretano, nacque pure il Luogo Pio di Santa Maria di Loreto, in S. Fedele, fondato dal gesuita Martino De Funes. Lo scopo era di raccogliere elemosine da distribuire poi ai bisognosi, in particolare ai poveri vergognosi, ex benestanti che non erano più in grado di mantenere un tenore di vita degno del proprio rango sociale. Il Padre Funes fu aiutato da Don Francesco Damaje, patrizio spagnolo, detto il “Limosiniere”, che aveva un'alta carica presso lo stato di Milano. Successivamente, anche con l'aiuto del governo e della nobiltà milanese, il Luogo divenne ricco e potente. Nacque, con sede in una casa di fronte alla chiesa di S. Fedele, la Congregazione della Beata Vergine di Loreto; i suoi obiettivi: provvedere a pratiche di pietà e di devozione ed esercitare opere di carità, visitando infermi e carcerati e so ccorrendo i poveri. PIO LORETO La Congregazione della Madonna di Loreto venne fondata l'8 dicembre 1601, giorno a cui risalgono i suoi statuti, ad opera sempre del De Funes. Il suo obiettivo principale, come detto, era quello di fornire sostegno ai poveri vergognosi, agli infermi assistiti dall'Ospedale Maggiore, ai carcerati ed alle prostitute, destinatari di soccorsi in denaro e di assistenza medica. Da subito la Congregazione ottenne ampio aiuto dagli abbienti cittadini milanesi attraverso sostanziose donazioni e lasciti testamentari, sia in capitali che in immobili in città e in campagna, che implicava un intensa attività di compravendita di case e terreni. Questa disponibilità patrimoniale contrastava con lo spirito caritatevole dell'ordine e la costrinse a divenire nel 1607 confraternita, aperta anche ai laici. Il luogo fu una casa (frutto di un lascito) più spaziosa, di fronte alla sede degli stessi Gesuiti. Le apparenze furono salve! Nel 1723 si trasferirà in Porta Nuova, sotto la parrocchia di Santo Stefano in un edificio con la facciata rivolta verso la Piazza di San Fedele. LEGGENDA DELLA SANTA CASA LA CASA DI NAZARETH La Santa Casa della Madonna di Loreto conserva, secondo un'antica tradizione, la casa nazaretana di Maria.Per milleduecento anni ci furono pellegrinaggi a Nazareth di personaggi illustri e appartenenti a famiglie reali, ad esempio l’imperatrice Elena, madre di Costantino e alcuni santi, tra cui S. Paola e S. Girolamo, oltre a S. Re Luigi di Francia. Dominazione turca e Crociate resero la Palestina un territorio insicuro, ma solo dopo molto tempo arrivò l’intervento del Cielo. LA SANTA CASA IN CROAZIA 9-10 maggio 1291. Le fondamenta si spostarono da Nazareth a Tersatto (nell'odierna Croazia), durante il papato del francescano Nicolò IV, nativo di Ascoli, per volontà del Cielo già prescritta. Fu così che la Dalmazia divenne subito un'importante meta di pellegrinaggio. L’alleanza fra Dalmazia e le rive confinanti durò solo 3 anni e sette mesi … E FINALMENTE A LORETO! 10 Dicembre 1294. La casa giunse, volando sull'Adriatico, nelle Marche, durante la rinuncia al papato di Celestino V e la nomina di Bonifacio VIII. Qui subì ben tre spostamenti. Dapprima si posa in una selva di una donna, detta Laureta (da qui il nome); poi, per la presenza di ladri nella selva che aggredivano i pellegrini, si spostò in un campo di due fratelli, che subito si contesero i vantaggi e costrinsero la Vergine a spostarla nuovamente; questa volta nella pubblica strada, dove si trova ancora oggi. L'Angelo annunciò che questa fu anche la casa di Gesù per 30 anni. PERCHÉ LA CASA NELLE MARCHE? Semplice (?) nessun’altra provincia ha le sue cinque principali città che con le iniziali formino il nome di Maria. LA POTENZA DELL'ANGELO L’Angelo è dotato di una grandissima potenza, grazie alla quale ha compiuto diversi miracoli. Un’altra abilità dell’Angelo è quella di essere in grado di muovere qualsiasi corpo velocemente; non ci sono fulmini o saette che gli possono esser comparati per quanto riguarda la celerità. La resistenza dell’aria, viene in questo caso superata dalla virtù angelica. Perciò le leggi della fisica possono essere oltrepassate dai miracoli che compie l’Angelo. Il suo viaggio si svolse lungo una linea retta: partì dalla Galilea, poi passando per Cipro approdò in Anatolia, in Asia minore; quindi per l’arcipelago di Macedonia e lungo tutta l’Albania, la Dalmazia a Tersatto e infine a Loreto, in Italia. In totale furono circa 1895 miglia. Esistono anche delle prove riguardanti le testimonianze di avi che hanno visto volare la Santa Casa di persona. I MIRACOLI DELLA VERGINE Appena la Casa arrivò in Istria, la Beata Vergine comparve ad Alessandro di Tersatto, un infermo in prossimità di morire, e gli rivelò che quello era il luogo dove ella nacque e dove il Figlio visse per trent'anni. I miracoli riguardarono sia i credenti sia i miscredenti, che così si convertivano. STRUTTURA DELLA SANTA CASA Originariamente la Santa Casa, di pianta rettangolare e priva di soffitto, era costituita solo da tre pareti, poiché il restante lato, dove sorge l'altare, dava sulla bocca della grotta a Nazareth. La parte inferiore delle tre pareti, per quasi tre metri, è costituita da filari di pietre, principalmente arenarie, presenti a Nazareth. Queste pietre sono state rifinite con una tecnica che ricorda quella dei Nabatei, diffusa in Galilea ai tempi di Gesù. Su di esse si trovano più di sessanta graffiti, riferibili a quelli giudei di epoca remota. La parte superiore è invece costituita da mattoni del Loretano. Questa parte nel XIV secolo fu coperta da dipinti a fresco, mentre le sottostanti sezioni in pietra furono lasciate a vista, esposte alla venerazione dei fedeli. Esternamente la Santa Casa è stata ricoperta da un rivestimento marmoreo, voluto da Giulio II ed ideato da Donato Bramante. Il rivestimento è formato da un basamento con ornamentazioni geometriche, da cui si alzano colonne striate, con capitelli corinzi. La balaustra è stata aggiunta nel 1533-34. L ' i n t e r n o d e l l a S a n t a C a s a S a n t u a r i o d i L o r e t o Bassorilievo della Basilica che rappresenta le varie traslazioni della Santa Casa
  • 6. CHI SONO I GESUITI IL RUOLO FONDAMENTALE A LORETO La Compagnia di Gesù, fondata dallo spagnolo Ignazio Lopez di Loyola, ha avuto per circa tre secoli un ruolo fondamentale nella vita del Santuario di Loreto. Nella seconda metà del XVI secolo, l'affluenza continuamente in crescita dei pellegrini provenienti da tutta Europa, costrinse il governatore di Loreto a richiedere l'aiuto di papa Giulio III, per disporre di sacerdoti che conoscessero più lingue e fu il giovane Ordine a risultare quello più adatto. LA STORIA DEL COLLEGIO ILLIRICO Dopo aver tenuto per circa vent’anni un corso minore di teologia morale, ai gesuiti lauretani fu affidata la direzione del Collegio, voluto da Gregorio XIII, destinato ai giovani dell’Illiria. Il curriculum degli studi era impegnativo e comprendeva retorica, umanità, fisica, matematica, diritto ecclesiastico, filosofia e teologia; al termine degli studi i giovani ottenevano una laurea dottorale. Nel 1594, con soli dieci allievi, il Collegio Illirico venne trasferito a Roma per volontà di Clemente VIII. Passeranno circa trent’anni, poi, con la bolla Zelus Domus Dei di Urbano VIII, nel 1627, ci sarà il ritorno a Loreto del Collegio, sotto la loro direzione, contando 36 studenti. Con la soppressione dell’Ordine nel 1773 per volontà di Clemente XIV, il Collegio visse alcuni anni travagliati sotto i Padri Barnabiti e nel 1798 l’invasione dei francesi ne determinò la chiusura. La ricostituzione dell’Ordine, grazie a Pio VII, avvenne nel 1814, ma i gesuiti tornarono a Loreto solo nel 1834. Il Collegio venne definitivamente chiuso nel 1860, dopo l’annessione della Marca al Regno d’Italia. PENITENZIERIA Le origini della penitenzieria risalgono al secolo XII, quando si avvertì la necessità di aiutare il Papa nell’esercizio della sua giurisdizione; le relative facoltà furono conferite al cardinale penitenziere. Nel 1569 Papa Pio V costituì tre Collegi di penitenzieri con il compito di assicurare nelle basiliche di San Pietro, San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore un’adeguata celebrazione del sacramento. Affidò allora quel compito, rispettivamente, ai Gesuiti in San Pietro, ai frati minori osservanti in San Giovanni in Laterano, ai domenicani in Santa Maria Maggiore. I GESUITI A MILANO L'ASCESA ECONOMICA Arrivati a Milano su invito di Carlo Borromeo per le tradizionali pratiche pastorali e per l'insegnamento e la direzione del Seminario diocesano, i Gesuiti furono una novità per i milanesi, e non soltanto per l’aspetto religioso. Un esempio è l’attività nelle carceri che, insieme ad arbitrati·e compromessi, li pose, volenti o nolenti, a ingerirsi in questioni (quelle relative alle pene pecuniarie e ai beni confiscati). Proprio per l'attività nelle carceri, nel 1643 fu loro imposto di “non ingerirsi né in protezioni, né in altre facende che siano fuori dell'anima”, così la distribuzione dei denari frutto delle pene pecuniarie, devolute in molti casi a favore dei luoghi pii cittadini, che il Governatore delegò ai gesuiti, creò screzi e gelosie. Così padre Morales, nella Visita della casa professa di S. Fedele·del 1579, scrive allarmato: “anche qui il Padre Preposito occupato in un ministerio quale mi pare alieno dal nostro instituto et contro la regola…, et è che quando il Signor Marchese fa pagare alcune pene, et le applica a opere pie, manda a consegnare i denari al Padre Preposito, per distribuirle a beneplacito di Sua Eccellenza, servendo di depositario overo cassiero; et di poi li distribuisce secondo che gli viene ordinato da Sua Eccellenza, et sempre resta anche buona parte alla casa o alla fabbrica…, et questo fa danno alla casa, percioché si pensa la gente che tutto quello che si consegna al Preposito è per la casa” Subito dopo il loro arrivo i gesuiti inoltrarono alle magistrature cittadine le richieste per le esenzioni relative a beni di uso quotidiano, le esenzioni relative alla macina, il vino e al sale furono concesse quasi immediatamente; in seguito le case, i collegi e le loro proprietà; infine avrebbero inoltre goduto dell’esenzione dalla decima papale e del divieto per qualsiasi autorità di imporre gabellas, talias o datia. Grazie ai lasciti, i gesuiti intensificarono l’attività di compravendita di case e terreni nei dintorni del vecchio San Fedele, anche contro la volontà e gli interessi dei legittimi proprietari. Questa pratica diede loro la possibilità di far circolare ovunque beni e denari. La libera circolazione del capitale liquido permetteva loro di aggirare le barriere doganali fra stato e stato, quindi beni e dotazioni potevano essere esportati oltre i confini del Ducato. Con le donazioni, da parte di Leonardo Spinola, di un credito nei confronti del Coiro, da parte del senatore Odescalchi e di Giovan Tommaso Crivelli dal 1574 i Gesuiti poterono acquistare diverse abitazioni e terreni, che tuttavia non rispondevano solamente al bisogno di spazi abitabili e all’esigenza di esercitare un controllo sull’area adiacente alla chiesa, ma dovevano favorire un ulteriore afflusso di denaro sotto forma di affitti, tali operazioni perciò evidenziano la varietà di strumenti messi in atto dai Gesuiti per cercare di accrescere le proprie finanze. L'ASCESA POLITICA La definizione degli equilibri di potere tra un patriziato ormai formato e il governatore, il riconoscimento da parte spagnola della coesistenza di due poteri (uno esercitato dalle supreme magistrature milanesi: Senato e Magistrato ordinario) influirono favorevolmente sul successo della Compagnia a Milano anch'essa alla ricerca di autonomia rispetto al re cattolico. Il patto tra i gentiluomini milanesi riuniti nella Confraternita di S. Maria di Brera e i Gesuiti si concretizza con i finanziamenti per costruire il collegio: “in nome della città di Milano, per insegnare et ammestrare i giovani … sotto la cura et disciplina dei Rev.i Padri del Giesù”. Inoltre il rigorismo tridentino allontanò dal Borromeo una nobiltà, per nulla convinta di rinunciare alla mondanità del proprio stile di vita, un viver non meno cristiano che civile, comprendendo accanto agli affari, la serena virtù del divertimento, della piacevole socievolezza. L'aristocrazia nobiliare e mercantile si spostarono sui Gesuiti, sempre più avversi alla politica del cardinale e disposti ad accettare pratiche finanziarie da altri considerate immorali, riconoscendo alla vita mondana una certa autonomia dall'autorità religiosa che, come precisò un gesuita davanti all'Inquisizione, non deve occuparsi di: erario, esercito,giochi, esercitj cavalliereschi et ogni cosa necessaria per il suo (del principe) regno. LUOGHI E ISTITUZIONI Numerosi sono i luoghi e le istituzioni milanesi in cui i Gesuiti erano presenti direttamente o indirettamente nell'esercizio della loro opera caritatevole: Comunità di San Fedele, Confraternita dell'Immacolata Concezione, Ospedale Maggiore, Istituto di Santa Corona, Confraternita della Beata Vergine di Loreto, Luoghi pii di Milano, Duomo e Sette Chiese, Parrocchia di Santo Stefano in Nosiggia (Porta Nuova), Ricchi e Vecchi in San Giovanni sul Muro, Umiltà e Pagnottella, Quattro Marie, Misericordia, Carità in Porta Nuova e Divinità, Contrada alle Case Rotte, Contrada degli Omenoni, Contrada dei Tre Monasteri. LO SPOSTAMENTO DELLA SEDE In seguito all'emanazione della bolla papale di Clemente VIII, con la quale veniva disposta la sottomissione delle confraternite laicali e dei loro beni all'autorità episcopale, la congregazione lauretana milanese risultava in contrasto con tale imposizione che imponeva l'obbligo di povertà. I padri di San Fedele, per il timore della perdita dell'autonomia, abbandonarono la sede originaria in San Fedele per trasferirsi in un edificio non religioso posto dirimpetto alla chiesa, acquistato grazie ad una donazione di Francesco Dannaja. IL COLLEGIO ILLIRICO Il termine “illirico” fa riferimento alle popolazioni conquistate dall’Impero Romano: la provincia degli Illiri era costituita da parte delle odierne Albania e Bosnia, e da Montenegro, Croazia, Istria e Serbia. La Compagnia di Gesù assunse un ruolo di primo piano nell’educazione dei giovani in Europa: essa gestì numerosissimi collegi e celebri università in tutte le nazioni cattoliche europee e nelle colonie. In generale, si può dire che l’Ordine diventò il principale punto di riferimento per la produzione culturale della prima età moderna. Tra i più significativi collegi ci fu senz’altro il Collegio Illirico lauretano. A Loreto nel 1574 i gesuiti fondarono il collegio Illirico (Collegio degli Schiavoni) per volere di Papa Gregorio XIII. Assieme al suo omologo di Fermo, questo era destinato ai giovani chierici illirici (slavi ed albanesi) che risiedevano a Loreto. Era stato istituito per contrastare l’islamizzazione dei Balcani e per educare i giovani alla predicazione. P e r c h é P i a z z a l e L o r e t o ? L’origine del toponimo si ricollega a San Carlo Borromeo, che quattro volte fu pellegrino alla Santa Casa. Il santo, nell’ultimo ventennio del secolo XVI, pensò ad un tempio lauretano a Milano con la riproduzione della Santa Casa; fu però Federico Borromeo, il 30 agosto 1609, a benedire la prima pietra. La chiesa sorse in belle forme su disegno del Richini, arricchita da una pregevole statua lignea della Vergine Lauretana con il Bambino, dell’intagliatore Del Conte. L’attuale Corso Buenos Aires, a quel tempo ornato di pioppi, che arrivava davanti alla Chiesa, veniva detto Stradone di Loreto. Alla fine del secolo XIX l’artistica chiesa, che aveva riscosso nei secoli viva devozione mariana da parte del popolo milanese, fu drasticamente abbattuta per allargare il piazzale che da essa prese il nome di Loreto. Fu sostituita da una seconda chiesa lauretana presso san Vittore.
  • 7. Da i t e s t ame n t i LA CONGREGAZIONE EREDE UNICA Lomazzi ”… la metà spetterà alli miei eredi, e così al detto Pio luogo della Madonna di Loreto (…) e altre sei al detto Pio luogo della Madonna di Loreto ogn’anno sempre, & in perpetuo, perché così &c.” Albertario “… o sia proprietà da acquistarsi col prezzo dei mobili, che venga distribuito dalla detta Ven. Congregazione di Loreto mia erede a poveri vergognosi. (…) Per la bontà, integrità e affetto dell’infrascritti SS, prefetto, e deputati della Vener. Congregazione di nostra signora di Loreto da me istituita erede.” Pecchio “… dichiaro aver somministrato alla Ven. Congregazione della Beatissima Vergine Maria di Loreto presso S. Fedele di quella città la somma di lire 25mille. (…) In tutti poi gli altri miei beni (…) ed ogni altra cosa che hò (…) istituisco mia erede universale (…) e nomino la Ven. Congregazione, o sia luogo pio di nostra signora di Loreto di questa città.” Bonicelli “… ed istituisco mia erede universale, nominandolo con la mia propria bocca, come l’ho nominato, e nomino il venerando luogo Pio di Santa Maria di Loreto sit. in Porta Nuova, in fronte alla chiesa di S. Fedele in questa città di Milano.” Balli “… ho istituito ed istituisco mia erede universale la veneranda Congregazione di nostra Signora di Loreto eretta presso la chiesa di S. Fedele predetto.” GLI STATUTI DELLA CONGREGAZIONE DI LORETO STRUTTURA DEGLI STATUTI Gli Statuti sono costituiti da 28 capitoli. Nei primi quattro si introduce la Congregazione e si tratta dei suo scopi. Fino al capitolo 23 si tratta degli Officiali della Congregazione: un Prefetto, 4 Consiglieri, 2 Sindaci, un Tesoriere, un Segretario, un Provveditore, 24 Visitatori, 2 Maestri dei Novizi, 2 Infermieri, 2 Sagrestani. Gli ultimi capitoli indicano quali siano i poveri vergognosi e di come provvedere per aiutarli (il modo con cui vengono procurate le elemosine). LA PRATICA DELLE ELEMOSINE Sono effettuate due volte l'anno, all'inizio dell'Avvento e della Quaresima. In quelle occasioni verranno inviati due visitatori ai predicatori delle chiese principali per esortare il popolo alla raccolta delle offerte. Il ricavato verrà consegnato al tesoriere o direttamente alla Congregazione. Inoltre viene richiesto l'aiuto dell'arcivescovo per quanto riguarda l'elemosina nelle cassette delle Sette Chiese. I POVERI VERGOGNOSI Per poveri vergognosi si intendono coloro che, generalmente di buona condizione e nascita, non hanno di cui sostentarsi e nessuno che voglia o possa aiutarli a provvedere ai loro bisogni, spesso non di sussistenza, ma di decoro. Il principale obiettivo della Congregazione è di esercitare le opere della pietà verso i poveri vergognosi, aiutandoli con ogni sollecitudine, procurando loro con carità cristiana la salute dell’anima. Essi sono aiutati dai Visitatori perché vengano a miglior fortuna o perché non abbiano più bisogno di fare l’elemosina. I 24 visitatori, 4 per porta, svolgevano un ruolo delicato, nell'individuare i soggetti che potevano usufruire, per la loro povertà, degli aiuti della Congregazione LA TRAGICA VITA DI MARTIN DE FUNES (Valladolid, 1560 - Colle di Val d'Elsa, 1611) Religioso spagnolo, fondatore della “scuola gesuita” di Santa Fe. Fu un personaggio scomodo, radicale nel difendere la causa delle reducciones (villaggi del Paraguay in cui gli Indios erano avviati al lavoro dei campi, all’uso del denaro ed alla religione cattolica) e nel far contrastare la schiavitù. Il memoriale, scritto da Funes e inviato a Papa Paolo V nel 1608, andava a toccare i legami esistenti tra i religiosi regolari e la corona di Spagna, parlava delle gelosie tra i vari ordini religiosi che, timorosi di perdere i loro privilegi, erano ostili verso i religiosi secolari e la loro partecipazione alle missioni. Il memoriale, scritto senza il consenso dei suoi superiori irritò il Padre generale della Compagnia, Claudio Acquaviva, che non ne aveva peraltro neppure gradito il contenuto. Per questo motivo al Funes fu ordinato di lasciare Roma e di trasferirsi in una Casa della Compagnia in Spagna; egli però si rifugiò nello Stato di Milano, presso il Governatore Fuentes, e venne espulso dall’ordine come ribelle. Il Funes, proveniente e forse in fuga da Como e diretto a Roma dal Papa per perorare la sua causa, fece tappa a Colle Val d'Elsa. Qui fu ospitato, nel suo palazzo, da Usimbardo Usimbardi. Sembra che costui sia stato invitato dai Medici a bloccarne la partenza per Roma. Martin de Funes fu colto da malore e morì nella notte tra il 23 ed il 24 febbraio. Cause naturali o esecuzione? Il gettone di rame che i poveri ricevevano dal L. P. Elemosiniero di S. M. Loreto per prelevare vitto e sussidi
  • 8. MESTIERI E PROFESSIONI A MILANO LE TRE TIPOLOGIE Le organizzazioni corporative delle professioni dotte o letterarie; le scienze nobili comprendevano tre facoltà: dottori, teologi-giurisperiti, medici. Le arti liberali o civili si trovano al di sotto delle scienze nobili e sono le più numerose (banchieri, chirurghi, notai). Subito dopo le arti liberali ci sono le arti meccaniche, i paratici o corporazioni di mestiere. LA STRUTTURA DI UNA CORPORAZIONE Una universitas o corporazione si suddivideva in tre ruoli o ranghi: un Collegio ristretto, una Facoltà di maestri o dottori approvati dal Collegio e una matricola di apprendisti. Il Collegio ristretto era incaricato degli esami per i gradi e delle approvazioni all'esercizio. Le arti liberali, classificate come civili, si trovano appunto tra le facoltà nobili e le arti meccaniche e per quanto riguarda il sapere richiesto per queste arti era scarso, infatti, non erano richieste né una laurea e né un' istruzione. Queste arti si sono modellate sui collegi nobili, che comprendono un collegio di esaminatori a vita che possiede il monopolio delle approvazioni. Infine le arti meccaniche, come il commerciante, richiedono un sapere ridotto, cioè conoscere la scrittura mercantile e cancelleresca, sapere come utilizzare la partita doppia, conoscere le basi dell'aritmetica. GUANTAI E PROFUMIERI L'ORIGINE Vi sono tracce dell'esistenza di corporazioni di guantai e profumieri già a partire dal Medioevo, ma il vero sviluppo di queste corporazioni così strettamente legate avvenne solamente nel Rinascimento. Firenze vantava già nel XIV secolo una lunga tradizione nell'arte di creare profumi; i profumieri appartenevano all'arte dei Medici e Speziali. Le prime acque profumate si ottenevano per mezzo di un apparecchio chiamato bottiglia fiorentina. Per la realizzazione delle fragranze erano molto famosi il laboratorio di fiorentino del 1200 fondato dai Domenicani a Santa Maria Novella e quello cinquecentesco di Venezia dei Carmelitani scalzi. Si distillavano in particolare queste essenze profumate: l’iris fiorentino, la violetta e i fiori d’arancio a Firenze, il muschio e l’ambra a Venezia. IL PRIMATO FRANCESE L’industria profumiera in Francia, benché successiva rispetto a quella italiana, riuscì in poco tempo a toglierle il primato. La cittadina di Grasse era famosa per la concia delle pelli fin dal medioevo, ma quando arrivò la moda rinascimentale di profumare i guanti, le cinture e le scarpe, iniziò a coltivare e distillare le piante e i fiori; da lì alla produzione di fragranze, il passo fu breve. Fu Caterina de' Medici a portare l’arte profumiera in Francia; ella aveva fatto preparare dai monaci domenicani fiorentini una fragranza fresca e avvolgente con il nome di Acqua della Regina la quale era composta da essenze di agrumi e bergamotto. Il XVII secolo fu l’età dell’oro per la profumeria francese. A Parigi 250 artigiani profumieri e maestri guantai lavoravano su licenza esclusiva direttamente concessa da Re Luigi XIV: creavano e vendevano profumi, unguenti per capelli, prodotti di trucco e guanti in pelle profumati. I negozi disponevano di ambienti lussuosi dove i clienti attendevano che il maestro profumiere preparasse la fragranza ordinata. PERCHÉ GUANTAI E PROFUMIERI UNITI? I maestri artigiani guantai di Grasse producevano dei guanti in cuoio destinati all'alta società francese ed europea; per mascherare l'odore dei tannini all'olfatto delle signore eleganti, profumavano i guanti. Fu così che la corporazione dei guantai, creata nel 1614 a Grasse, divenne nel 1714 quella dei guantai-profumieri e poi nel 1759 quella dei maestri profumieri. Grazie al loro dinamismo e all'abbondanza delle locali materie prime come la rosa, il gelsomino, la tuberosa e la lavanda, l'industria di profumeria ha fatto di Grasse la capitale internazionale del profumo. Jean de Galimard, il fondatore della Corporazione dei guantai-profumieri, procurava alla Corte del Re oli d’oliva, unguenti e profumi di sua invenzione. All'inizio del XVIII secolo, a poco a poco i guantai-profumieri cominciarono a distinguersi dai conciatori e ,nel 1729, ottennero presso il Parlement de Provence, uno statuto autonomo. L'ACQUA DELLA REGINA DI UNGHERIA Molto usata in epoca barocca, vera e propria antenata della più famosa Acqua di Colonia, fece la sua comparsa verso il 1360. Si facevano macerare alcune sostanze aromatiche, salvia, maggiorana e rosmarino nell'acquavite, la soluzione veniva poi esposta ai raggi del sole per una settimana. In seguito questo profumo venne ribattezzato Eau ardente, perché con la scoperta dell'alcol etilico, fuoco e acqua si univano. Ampio il suo potere curativo ad esempio emicranie, vista, ronzio d'orecchi, gotta. La posizione centrale dei Profumieri a Milano Guantaio - profumiere in Italia: la testimonianza del Balli Il testamento del Balli e il suo inventario di guanti e profumi dimostrano che la professione di guantaio-profumiere fosse diffusa e redditizia anche in Italia. Nell'inventario della sua bottega troviamo ad esempio: - Importo di 6 guanti di volpe comprati a L.15 - Profilo di Lupo Cerviero previsto in due partite L. 98 - Importo di 20 agnellini della Romagna L. 167 - Guanti di volpe e di orso L. 3 - Guantini di penna provvisti dal Scorzoli L.11 - Importo di 7 boccie d'acqua della Regina L. 6 STATUTI DEI MERCANTI SEC. XV
  • 9. CHIRURGHI E BARBIERI Secondo Vesalio (1500), il medico non era un chirurgo, ma un letterato che teneva in scarso conto la pratica, delegandola a barbieri ignorantissimi, riservandosi alla sola dottrina. Egli paragona i lettori di anatomia alle cornacchie che recitano a memoria dai libri degli altri; e reputa i barbieri dei macellai, poiché presentano agli spettatori meno cose di quelle che presenta un macellaio al mercato. In Francia, intorno alla metà del XIII secolo i chirurghi si riunirono in corporazione e fondarono una confraternita posta sotto il patronato dei SS. Cosma e Damiano. Dalla prima metà del XVI secolo, i fisici ripresero il nobile titolo di medici e si riunirono anch’essi in comunità. A metà Seicento i medici, per deprimere i chirurghi che stavano assumendo sempre più importanza nella società, ottennero nel 1656 che la medesima patente dei chirurghi fosse data ai barbieri. Durante il Cinquecento, dottori marginali esercitavano nei villaggi e nelle città la loro professione con l’aiuto dei chirurghi rurali, la loro clientela era soprattutto i poveri. Nel Settecento, in Italia, l’istituto della condotta medica era già stabilito in Lombardia, Piemonte e Toscana. Questo istituto era un’organizzazione civica o politica delle arti sanitarie e dei loro addetti (medici, chirurghi, barbieri, levatrici, speziali). A Milano, un’ordinanza capitolare del 1551 stabiliva che i medici, uno per ciascuna delle sei porte della città, dovevano fermarsi ogni giorno nella propria casa fino al suonare del campanone del Duomo, restando a disposizione degli eventuali pazienti poveri. IL NOTAIO COME SI DIVENTAVA NOTAIO Per diventare notaio vi erano dei criteri di selezione molto precisi: curriculum vitae e età minima di 25 anni, cittadinanza milanese o all'interno del ducato, reddito annuo di almeno 100 scudi, senza nobiltà negativa (il padre o un avo con un passato di attività meccaniche o considerate socialmente non convenienti), 5 anni di esperienza professionale presso un notaio collegiato, un esame pubblico (una redazione di uno strumento notarile suddivisa in quindici atti). I Collegi notarili, che si collocavano sotto quello dei nobili giureconsulti, si dividevano in collegi dei Notari e dei Causidici. Nella gerarchia delle professioni settecentesche, i causidici godevano di maggior prestigio rispetto ai semplici notari. Nello Stato di Milano, esistevano due diversi gradi dell’esercizio del notariato: il notaio ad omnia laudatus, il livello più alto della professione e il pronotaio. Il mestiere notarile aveva acquisito maggior prestigio nell’età dei comuni, con funzioni diplomatiche, la redazione delle delibere consiliari e degli statuti cittadini e agivano nelle cancellerie delle magistrature maggiori e minori. Durante il XV secolo il ruolo politico e sociale del notaio diminuì rispetto all’impiego svolto in ambito privato. Nel 1786 la riforma giuseppina stabilì che i candidati al Collegio notarile dovessero avere i requisiti già esposti e superare una prova basata sulla redazione di un atto estratto a sorte. FARE IL NOTAIO CONVENIVA? Un’altra caratteristica fu l’ereditarietà professionale del mestiere che coinvolgeva molte famiglie; alla base della decisione di intraprendere questa carriera potevano esservi due percorsi di mobilità sociale, discendente e ascendente. I Rampolli di alcune famiglie milanesi che nel XVIII secolo avevano conosciuto il dissesto economico, trovarono rifugio nel notariato, mestiere decoroso tra le arti nobili e le professioni infamanti. Le famiglie in ascesa, invece, che avevano abbandonato attività ritenute indegne, non ancora così ricche da vivere soltanto con le rendite terriere, individuavano nel notariato un'interessante professione; come si diceva allora: l'arte notarile non rende nobili ma neppure deroga alla nobiltà. Vi erano tre motivi per dedicarsi all'attività notarile:  la qualifica di notaio facilitava l'assunzione a incarichi di diversa natura;  poteva dedicarsi ad altro impiego più remunerativo, finendo col sostituire del tutto le due attività;  la professione permetteva di ottenere prestigio sociale e disponibilità economiche. MERCANTE O NOTAIO? Le famiglie nel XVI secolo avevano precise strategie per garantire il proprio futuro, avviando il primogenito, che doveva appunto assicurare la sopravvivenza biologica della famiglia all'attività mercantile e il secondogenito all'attività notarile, ritenuta meno prestigiosa; invece, nel XVIII il primogenito svolgeva l'attività notarile ed era l'unico a sposarsi, rispetto ai fratelli indirizzati alla vita ecclesiastica. E PER SPOSARSI SERVE UN NOTAIO Nel settecento i matrimoni erano regolati tramite dei contratti matrimoniali che prevedevano accordi economici. Soprattutto in Lombardia era usanza stendere la promessa di matrimonio e compito del notaio era di trovare una soluzione equa che comprendeva l’importo, la composizione, i tempi di corresponsione della dote e gli obblighi del marito. Una volta raggiunto l’accordo, il notaio redigeva l’imbreviatura. Era molto raro che le parti sciogliessero reciprocamente l’impegno assunto, recandosi dal notaio per registrare la rinuncia. In questo caso la dote, considerata cardine dei rapporti patrimoniali tra coniugi, andava restituita a chi l’aveva costituita o ai suoi eredi. Dopo il matrimonio, gli sposi si recavano dal notaio per la redazione dell’atto. UN NOTAIO RACCOMANDATO Nel suo testamento il Conte Pecchio definisce il Signor Notaio Giovanni Maria Valera come: amorevole assistente. È quindi tra le sue ultime volontà il desiderio di compensare e gratificare il Notaio per gli anni di servizio. Il testatore richiede come prima istanza che il notaio, designato come suo Erede, il quale da molti anni è stato curante dei suoi interessi, sia eletto, dal signor Prefetto Sig. Dottor Gentil e dai Deputati, Sindaco e Cancelliere della Ven. Congregazione di S. Maria di Loreto. Nel caso in cui però questa istanza non potrà essere accolta o per mancanza della nomina da parte del Venerando Collegio de Signori Causidici di Milano o per altro difetto, allora comanda, che al notaio suo Erede, siano destinare ottocento lire Imperiali annue vita natural durante solo dopo la morte del Sig. Dottor Gentile. Inoltre lascia a lui, da dare subito dopo la propria morte, quattrocento lire Imperiali. Queste sono le ultime volontà del Conte il quale confida nel buon utilizzo pubblico del denaro lasciato al suo Erede Sig. Notaio Valera. Il salasso. Una pratica tipica del barbiere chirurgo “Inventario de mobili, danari, scritture, stabili et altro ritrovati nell’heredità del fu signor Giuseppe Albertario fatto dalla signora Barbara Taccha di lui moglie per in strumento rogato il giorno, mese et anno sodetti”, 23 febbraio 1703. (...) Prima si trova l’inventario “delli mobili, danari, argenti, scritture che si sono ritrovate nell’heredità del fu signor Giuseppe Albertario. Nella camera sopra la bottegha” Dal documento si risale ad alcuni ferri del mestiere Inventario dei mobili di casa del Signor Albertario “fatto di sua mano”, 1 novembre 1675 ATTREZZATURA VARIA BARBI ERE CHIRURGO CAVADENT I Un bilancino che serve per pesare le monete con suoi pesi tanto per l’oro quanto per l’argento con sua cassettina di legno Un trepiedi di ferro per la foghera Tre cadreghe armate di bulgaro Cinque scagni di bulgaro Numero quattro perucche di poco valore Numero 12 panni di stuffa Numero 24 canevezoli per sugare il volto Una forbice grande con due ferri che servano per sigillar lettere di secreta via, li quali tre pezzi restano a parte in una cassettina Due cadreghe armate di bulgaro per la barba Numero tre code per rasori, fra quali due immanichate Numero 23 rasori usati spagnuoli Numero 4 detti nuovi Numero undici detti di Spagna, Roma e Zenevra usati Numero otto altri rasori diversi Numero 44 altri rasori Un stucchio grande per riponere rasori Una tasca di barbiere per riponere in saccoccia con dentro ferri numero nove Numero dieci panni di barba detti rocchetti tra buoni e inferiori Un cadino per far la barba pesa Numero quattro forbici per barbisi Un vestirolino nel muro con due ante, e suoi vetri e ramata dentro vi è diversi medicamenti Una reseghetta per resegare ossi Due ferri per levare le creature Un trapanno per trapanar il craneo con diversi ferri per tal effetto in un scatolino Due trinchetti con mazzola per aprire li corpi humani Una moglietta per levare la carne cattiva Numero quattro tenaini per l'ungie incarnate Un stucchio con sei lanzette per salassi Numero tredici altre lanzette Una cote piccolina con qualche poco d'argento, che serve per codare le lanzette Due ordigni per mettere cauterii Due ferri per levare le creature Un cavaballe Tre ferri per le fistole Un becco di grua Numero 13 traversi per metter al collo Due ferri detti specula matrice Numero quattro tenaini per cavar denti Numero due pellicani per parimente a cavar denti Numero uno cava radice numero tre altri ferri che servono per li denti Due bassa lingue Altro bassa lingue naturale
  • 10. IL TESTAMENTO GLI ATTI MORTIS CAUSA. IL TESTAMENTO. La donatio mortis causa consisteva in quella disposizione che comportava l'attribuzione senza corrispettivo di un bene, destinata ad avere effetto dopo la morte del donante purchè il donatario gli fosse sopravvissuto. I testamenti sono, strumenti capaci di controllare e trasformare i rapporti fra i membri della famiglia ed i modi della circolazione dei beni entro le maglie della parentela, costituiscono un fondamentale punto di osservazione della prassi notarile settecentesca, una base di partenza per cogliere i molteplici riflessi che il mondo del diritto, così come emerge dalle fonti notarili, era in grado di proiettare nella società contemporanea. TIPOLOGIE, STRUTTURE E CONTENUTI DEL TESTAMENTO DEL 1700 I testamenti rogati tra gli anni Quaranta e gli anni Novanta del XVIII secolo sono nuncupativi senza scritti, ossia testamenti nuncupativi espliciti, benchè non manchino alcuni casi di nuncupazione implicita. Quelli rogati alla vigilia dell'avvento napoleonico si presentano,infatti, formalmente pressochè identici ai testamenti risalenti agli anni Quaranta e Cinquanta. Intervengono , tuttavia, alcuni cambiamenti nel costume dei milanesi, che inevitabilmente si riflettono negli atti di ultima volontà. Le riflessioni sui contenuti devono poi avere come presupposto il contesto storico cui appartengono che fu un momento di relativa tranquillità per Milano. Fino al 1796 non si verificarono quindi particolari mutamenti sociali in grado di incidere sulle normali modalità dell'atto. Tra le tipologie testamentarie cui si poteva ricorrere nel XVIII secolo, accanto al testamento solenne o in scritto, vi era, ben più utilizzato nella prassi corrente, il testamento "nuncupativo" che poteva essere esplicito o implicito. Il testamento solenne esigeva il rispetto di una serie di rigide formalità che ne rendevano poco allettante l'impiego. La quasi totalità dei testamenti del settecento rinvenuti tra le carte d'archivio sono nuncupativi. Nel testamento nuncupativo esplicito l'erede veniva nominato a "viva voce" dal testatore alla presenza di sette testimoni e del notaio che provvedeva a stendere l'atto testamentario. In quello implicito il testatore consegnava al notaio una busta sigillata contenente le proprie disposizioni mortis causa, che veniva poi riaperta in un secondo atto che il notaio redigeva soltanto dopo la morte del testatore. LA FISIONOMIA DEL TESTAMENTO NUNCUPATIVO SENZA SCRITTI La tipologia più importante è il testamento nuncupativo senza scritti, di cui una parte interessante è rappresentata dalle arenghe, brevi introduzioni che sembrano ricordare la certezza della morte e l’incertezza del momento in cui colpirà. Infatti tale opposizione spinge l’uomo anziano o malato a recarsi dal notaio per dettare le sue ultime volontà e dare quindi una sistemazione futura alle proprie cose. Dopo le arenghe il notaio, attraverso una formula, dichiara che quello è l’unico testamento da ritenere valido e revoca quelli stipulati eventualmente in precedenza. Un altro elemento fondamentale del testamento nuncupativo esplicito è la raccomandazione dell’anima a Dio, alla Beata Vergine e a tutta la Corte Celeste (carattere religioso dell’atto testamentario), che è sempre seguita da indicazioni che il testatore fornisce riguardo alle modalità di sepoltura, descritta solitamente in modo dettagliato. Non meno dettagliate sono le informazioni che il testatore fornisce nel dichiarare i legati e nel descrivere i beni oggetto del lascito; avviene invece con una formula semplice la nomina dell’erede. Inoltre, dopo la predisposizione dei legati e l’istituzione di erede, si incontra la nomina dell’esecutore testamentario: si trattava di parenti ed amici o, a volte, di un notaio conoscente del testatore. L’atto del testamento termina con la formula dell’actum, cioè l’indicazione del luogo del rogito, le attestazioni dei due pronotai, dei cinque testimoni presenti alla stesura e la sottoscrizione del notaio rogante, il quale attraverso il proprio segno di tabellionato sulla imbreviatura garantisce ulteriormente l’autenticità dell’atto. LE ULTIME VOLONTÀ Nel Settecento il testamento era una pratica diffusa che non coinvolgeva soltanto le classi benestanti: molte persone, raggiungendo una certa età e iniziando a pensare alla morte, si recavano da un notaio per sottoscrivere questo atto. Bisogna però ricordare che l’atto testamentario riguardava principalmente l’uomo, solo raramente questa pratica era utilizzata dalle donne; ciò accadeva perché era costui a preoccuparsi di conservare l’unità del patrimonio familiare. Quando il testatore era un uomo l’eredità veniva trasmessa per lo più al primogenito o ad un altro componente maschile della famiglia, mentre nei testamenti rilasciati dalle donne spesso l’erede era una persona esterna al nucleo familiare. Bisogna ricordare che l’atto testamentario di donne era assai diffuso tra le vedove. In un testamento nuncupativo, oltre all’erede, era data molta importanza alla figura del legato, o più spesso dei legati. Il legato, a differenza dell’erede, veniva sempre scelto liberamente dal testatore per esprimere riconoscenza: in questo modo venivano gratificati tutti i membri del nucleo familiare, compresi i domestici e i conoscenti di famiglia; spesso tra i legati emergevano anche medici e notai. Inoltre in quasi ogni testamento i legati riguardano anche enti ecclesiastici e luoghi pii ed è stata riscontrata la pratica diffusa tra i testatori di lasciare una parte del proprio patrimonio ad una persona, di solito all’erede, con l’obbligo di far celebrare un determinato, ma non esiguo, numero di messe in suffragio della propria anima. In caso di rinuncia dell'erede designato, il testatore provvedeva anche a indicare il suo eventuale sostituto. Testamento Bonicelli Testamento Albertario Testamento Balli Testamento Lomazzo Tra i lasciti curiosi e stravaganti, nel testamento del 1793 del marchese Prati Andreani, al confessore viene destinata... della cioccolata!
  • 11. BIOGRAFIA Morì il 7 Aprile 1725 nella sua casa milanese, in contrada S. Margherita in Porta Nuova nella parrocchia di S. Damiano. Era figlia del defunto Sig. Bartolomeo Bonicelli e vedova di Carlo Nicora di Porta Nuova. Il loro matrimonio era stato contratto nel 1697 ed ella aveva istituito a lui la sua prima dote. Il suo lavoro consisteva nella vendita di stoffe su pegno, per cui il guadagno maggiore le perveniva non dalla vendita ma bensì dagli interessi maturati sul prestito che per legge se non restituito dava diritto al prestatore di sequestrare i beni mobili ed immobili del debitore; in questa attività fu sempre aiutata da suo marito dal punto di vista legale fino al punto di morte. Si era poi risposata con il signor Bernardo Serravalle di Tortona. Nel 1724 si presentò a casa dell'amico notaio milanese Elia Mascarone a cui dettò il suo testamento definitivo. TESTAMENTO Redatto il 18 Luglio 1724 presso l'abitazione del notaio Elia Mascarone, il testamento è diviso in sei parti. Nella prima parte Margherita raccomanda che gli eredi non lascino debiti da lei in vita contratti poiché ciò potrebbe compromettere la sua salvezza eterna. Nella seconda emergono punti collegati alla sua personale fede e devozione. La donna si rivolge a Dio, alla Vergine e ad altri santi, riflettendo su quanto convenga il far preventivamente le deposizioni delle cose terrene e temporali e non differirle fino agli ultimi momenti della vita. Nella terza parte espone le disposizioni per la sepoltura della sua salma: ordina, nel caso in cui morisse a Milano, che il suo corpo venga portato nella chiesa di S. Maria del Giardino con l'accompagnamento di dodici sacerdoti laici e dodici regolari, nel caso in cui la sua morte non avvenisse a Milano ordina che il suo corpo venga portato nella chiesa parrocchiale accompagnato da ventiquattro Sacerdoti. Nella quarta lascia le disposizioni per la sua anima: ordina che si debbano celebrare mille messe nei tre mesi successivi alla sua morte nelle chiese che l'erede riterrà migliori. Nella quinta parte si sofferma ad indicare tutti i suoi eredi e i beni che dovranno ricevere. Nella sesta e conclusiva parte si ha il lascito alla Veneranda Congregazione della Madonna Pia di Loreto presso la chiesa di San Fedele a Milano per la protezione delle nobili famiglie decadute. COMMERCIANTE DI TELE E USURAIA La donna nobile nel 700, al contrario di come si potrebbe pensare, non era esclusa, ma anzi era attiva nell'attività commerciale e aveva influenza nelle decisioni familiari. Ella poteva decidere di tutti i suoi beni senza il controllo da parte del marito, che invece doveva accompagnarla in tutte le altre decisioni per stipulare accordi, per le compravendite e per qualsiasi atto notarile. Margherita infatti era indipendente dal marito nel suo lavoro, del quale conosceva le rendite e gli interessi che questo le portava: aveva infatti un suo conto personale, alcuni titoli, al Banco di Sant'Ambrogio a Milano. PRESENZA DI UNA LAVORATRICE A DOMICILIO Un prestito tra donne Oltre al suo lavoro di venditrice di stoffe, da un documento privato di ricomposizione di lite, redatto il 17 marzo del 1708, sappiamo anche che prestava denaro ad interesse: grazie a questo documento si viene infatti a conoscenza dell'attività economica regolarmente condotta dalla testatrice coadiuvata, da un punto di vista legale, dal marito Carlo Nicora. Dal documento si evince che Margherita aveva a suo tempo venduto a credito un certo quantitativo di tela sbiancata a Francesca, moglie di Giuseppe Guascone, forse una artigiana, per la somma di centoventi lire e quindici soldi imperiali. Trascorso il termine pattuito per la restituzione, il debito non era ancora stato estinto dai coniugi Guascone ed era perciò insorta una lite con la creditrice. Così Margherita, rappresentata legalmente dal marito, si era rivolta al giudice del “Segno del Cavallo” di Milano che le aveva però consigliato di giungere a una composizione amichevole della lite, onde evitare l’onere delle spese processuali. Le due parti si accordarono infine nel seguente modo: Giuseppe Guascone, agendo a nome della moglie Francesca, aveva già saldato parte del conto, pagando a Carlo Nicora, procuratore di Margherita, un filippo d’oro equivalente a 109 lire e 15 soldi imperiali. Ora doveva evidentemente pagare gli interessi maturati sulla somma, cioè 102 lire e 15 soldi, che egli si impegnò a restituire dando a Margherita tre lire al mese a partire dall'aprile successivo fino a estinzione della somma. I due quadri appartenenti ai coniugi Guascone che la Bonicelli teneva in pegno, sarebbero stati invece restituiti ai legittimi proprietari soltanto al definitivo saldo del conto. Riflettendo su questo documento si può intuire che la Bonicelli non otteneva il guadagno maggiore dalla vendita in sé bensì dagli interessi maturati sul prestito, che per legge, se non restituito, dava diritto al prestatore di sequestrare i beni mobili e immobili del debitore. Margherita quindi non era soltanto una comune commerciante di stoffe, ma altresì svolgeva il mestiere di finanziera-usuraia. Il signor Carlo Nicora fungeva da procuratore della moglie Margherita, per legge sottoposta alla patria potestà, garantendo per lei in sede giudiziaria nel caso di mancata riscossione dei crediti. (v. fasc. 1 – Crediti, doc. 1708 marzo 17). Siamo in grado quindi, grazie a questo documento, di sostenere ancora di più la sua indipendenza e la sua autonomia economica, ostacolata soltanto dalle leggi di quel tempo che le imponevano di avere il consenso del marito per la stipulazione di contratti. È forse proprio per questo infatti che ella ha contratto il secondo matrimonio, dopo la morte del primo marito Carlo Nicora. Margherita inoltre sosteneva non solo la sua autonomia, ma anche quella delle altre donne della sua famiglia, la prima suocera e la prima cognata, alle quali lascia parte della sua eredità. IL LIBRICINO DEI CREDITI Prezioso documento è il Libricino dei crediti di Margherita Bonicelli, anno 1724 che documenta l'attività commerciale. Nello stesso documento è registrato un credito con le monache di Santa Valeria. In questo, come in altri monasteri, era frequente che le ricoverate svolgessereo dei lavori tessili per i mercanti milanesi.
  • 12. DIRITTI E PROPRIETÀ NUBILI Erano soggetti non autonomi, in ogni città gli Statuti stabilivano che nessuna donna potesse compiere alcun atto della vita civile senza autorizzazione. Dovevano sempre sottostare al padre, se vivente, o a chi lo sostituiva nell'esercizio della tutela. A Milano, in assenza del padre, le non sposate venivano assistite da un mondualdo (figura giuridica di origine longobarda) o in ordine: da uno o più parenti,in mancanza di essi, dai vicini, in ultimo da un giudice. L'esercizio di queste potestà familiari comportava doveri di protezione e di controllo che si esprimevano non solo nella possibilità di impedire la realizzazione di scelte autonome, ma anche di interventi di carattere disciplinare nei casi di trasgressione. L'unica forma di emancipazione dall'autorità paterna restava il matrimonio. SEPARATE E DIVORZIATE Lo scioglimento dei matrimoni era dovuto solo alla morte o all'entrata in monastero di uno dei due coniugi. L'annullamento divortium quoad vinculum restituiva ai coniugi lo stesso status giuridico prima delle nozze. In caso di separazione cessava l'obbligo della convivenza e anche quello della cura, ma il matrimonio restava valido: questo rendeva sempre possibile la riconciliazione e non consentiva nuove nozze. Nella sentenza, se la moglie era colpevole, perdeva la dote, il diritto agli alimenti e tutto quanto donatole dal marito, se la colpa era invece del marito, questi doveva pagarle gli alimenti o salvaguardare il valore della dote. La condizone dei separati di fatto, ovvero uomini e donne che, nonostante il vincolo matrimoniale non vivevano insieme per la fuga di uno dei due o per decisone comune, era illegittima e non sospendeva i diritti e i doveri coniugali. Si crearono istituzioni assistenziali per accogliere le cosiddette malmaritate, ossia donne sposate che non erano sicure nella loro casa, certamente per timore dei mariti. VEDOVE Rimanevano escluse dall'esercizio della patria potestà. Mantenendo lo stato vedovile potevano essere designate tutrici dei figli minori o dei nipoti (cura della persona e amministrazione del patrimonio da essi ereditato). La madre, non potendo ereditare nulla dai figli, era l'unico soggetto "non interessato", portatore di amore puro. La tutela poteva comportare anche l'usufrutto sui beni amministrati: tale prerogativa era assegnata alle vedove solo per volontà espressa dal marito nel testamento. I tutori, inoltre, dovevano presentare un inventario iniziale dei beni del minore, un rendiconto annuale e uno finale della gestione economica. Il limite più forte all'esercizio della tutela riguardava proprio le madri, esse decadevano da questa funzione in caso di nuovo matrimonio. Questo evento le inseriva in una nuova famiglia sottomettendole all'autorità maritale di un estraneo, rispetto alla linea di discendenza familiare cui erano considerati appartenenti i figli, cioè quella paterna. Se il defunto marito non aveva figli tutto il suo patrimonio spettava alla vedova. In presenza dei figli, invece, la vedova riceveva tutto ciò che era di proprietà del marito, eccetto la veste nuziale, i preziosi e il letto nuziale, che rientravano nell'eredità. Nel caso in cui il defunto avesse avuto figli da un altro matrimonio, la vedova riceveva due delle tre parti dell'eredità (veste nuziale, preziosi e letto nuziale) in modo tale che la somma delle due parti ricevute equivalesse alla sua dote. La vedova riceveva le vesti da lutto del defunto, da restituire però agli eredi del marito nel caso si risposasse. Gli eredi dovevano restituire la dote alla vedova dopo la morte del coniuge. Il loro sostentamento Se la vedova non aveva la disponibilità economica sufficiente, gli eredi del marito si dovevano impegnare a pagarle gli alimenti. Qualunque erede era tenuto a pagare gli alimenti; in caso di nuove nozze, ovviamente questo pagamento veniva sospeso in modo definitivo. L'unica eccezione: se nel testamento il marito defunto stabiliva che venissero pagati gli alimenti alla moglie, anche se questa si risposava, la vedova non perdeva il diritto di usufruirne. SUL LAVORO FEMMINILE ARTIGIANE E OPERAIE Nella manifattura tessile la bottega artigiana fu progressivamente soppiantata da masse di operai non specializzati, ciò comportò un aumento del peso della manodopera femminile. Le donne prestavano il loro lavoro soprattutto per contribuire al reddito familiare o per coprire le spese della propria sussistenza. Il tessile, l'abbigliamento e la vendita di generi alimentari vedevano impiegate le rappresentanti delle classi più umili, mentre le mogli dei maestri artigiani assistevano i mariti nella conduzione della bottega e nella direzione del personale. Fra il popolo minuto la capacità lavorativa della donna era di vitale importanza e diveniva parte integrante della dote al momento del matrimonio. Le donne, oltre che nelle tradizionali mansioni della filatura e dell'incannatura, trovarono sempre più spazio anche nella tessitura e progressivamente sostituirono quasi completamente la manodopera maschile. Nonostante l'enorme importanza del lavoro femminile nella società d'ancien régime, nei censimenti la donna venne classificata soprattutto per il suo stato civile, contrariamente a ciò che accadeva per l'uomo. Dal testamento risulta che Margherita Bonicelli ha delle cartelle, dei titoli, presso il Banco di Sant’Ambrogio e ne conosce molto bene il rendimento. L'esempio della peste del 1576 In coincidenza con la peste scoppiata in quell'anno a Milano, alcuni parroci avvertirono l'esigenza di segnalare lo status professionale di tutte le donne delle loro circoscrizioni. In una situazione di crisi, quando erano inevitabili per le masse di lavoratrici urbane la disoccupazione e la miseria, era importante definire con precisione la situazione lavorativa delle singole famiglie, le loro risorse e l'opportunità di un'eventuale assistenza. Proprio nei mesi del contagio epidemico, nell'autunno del 1576, risalgono due stati d'anime che ben si prestano a darci un quadro del lavoro femminile. Ben 422 donne, delle 1350 residenti nelle parrocchie si S. Michele alla Chiusa e S. Eufemia, svolgono un'attività professionale; ne risulta che la quasi totalità delle donne del popolo minuto fra i 12 e i 60 anni partecipava all'economia familiare. Di queste 422 donne 258 trovavano impiego nel settore tessile. Erano tra le 10/15.000 le milanesi che partecipavano alla produzione delle manifatture urbane e i monasteri femminili erano fra i principali prestatori d'opera nell'industria tessile urbana; la loro attività è spesso documentata nei libri dei conti mercantili. Nel 1611, il mercante serico Cesare Somaglia annota fra i creditori le monache del Gesù e di S. Caterina per l'orditura della seta, e quelle del Bocchetto e di S. Vincenzo per l'incannatura. Gerolamo Oldoni si affida invece per la lavorazione dei suoi drappi auroserici alle monache di S. Caterina e di S. Orsola. Le stessa relazione, come abbiamo indicato, riguardò la Bonicelli e la Pia casa di Santa Valeria. LA CAPOFAMIGLIA E LE CONVIVENZE TRA DONNE Negli anni senza crisi, la quasi totalità dei miserabili è composta da donne sole o con figli piccoli, in genere vedove; fin dal 1400 nelle città la presenza di nuclei a conduzione femminile era rilevante. A Milano, ad esempio, nel 1610 erano 1912 su un campione di 9335, ovvero più di 1 su 5. Il nubilato inoltre era molto diffuso nei ceti popolari per la questione della dote, in quelli elevati per l'integrità del patrimonio, oltre alta più alta mortalità maschile. Per la maggior parte delle donne rimaste sole l’assoluta mancanza di un supporto esterno veniva in parte sanata grazie ad una mutua assistenza e all’instaurazione di forti vincoli di solidarietà. Solo raramente, infatti, le strutture familiari fungevano da valido appoggio. Fra i nuclei femminili sono in maggioranza le famiglie composte dalla madre, perlopiù vedova e con figli in tenera età; è questo in genere il caso più gravoso per la capofamiglia che talvolta accoglie nel nucleo una «compagna» esterna disposta, per fuggire la solitudine, a condividere gli oneri quotidiani. Altre volte la madre vedova si riunisce con una o più figlie rimaste a loro volta vedove e senza risorse. Tuttavia la disgregazione familiare, sempre incombente nei nuclei più poveri, portava alla formazione di ampi strati di solitarie. Più interessanti, anche se meno numerosi, sono però i casi di convivenze di più donne, spesso senza alcun legame di parentela. Si tratta di un fenomeno, assai diffuso nelle città europee dell’età moderna, e consiste nel raggruppamento di donne che dividono spese di vitto e alloggio, organizzano il lavoro in comune e si prestano assistenza reciproca in caso di bisogno. Pur riunendo talvolta anche quattro o cinque persone, queste convivenze riguardano, perlopiù, due o tre vedove o abbandonate dal marito, quasi sempre in misere condizioni: esemplare è il nucleo di quattro donne che troviamo al Borghetto in San Babila, formato da una vedova, una mendicante e due donne dell’Hospitale. Queste coabitazioni femminili sono particolarmente diffuse nei quartieri periferici e più poveri; se infatti la presenza di nuclei guidati da donne è in tutte le circoscrizioni urbane fra il 12 e il 30%, aumentano vistosamente nelle aree popolari. (fonte D. Zardin, La città e i poveri). LE SERVE Molte donne sole, specialmente quelle provenienti dalle campagne, trovavano rifugio nel lavoro domestico. L'entrata a servizio a partire dai 12-14 anni, che era effettuata tramite la stipulazione di atti notarili, gli accordia ancillae, che assicuravano mantenimento e inserimento in una nuova famiglia. La condizione servile durava circa 10 anni e consentiva alle giovani di contare su vitto, alloggio, vestiario e una somma di denaro di circa 10 lire annue, a seconda del rango del datore di lavoro. Ciò serviva loro per accumulare una modesta dote, infatti nel contratto erano previste delle clausole che permettevano alla serva, in caso di nozze, di rompere gli impegni di lavoro prima della scadenza. I rapporti di vicinato erano molto importanti per la circolazione della servitù fra le mura urbane, infatti al momento di cambiare padrone le serve si spostavano nell'ambito delle famiglie del quartiere dove erano cresciute, grazie anche alle referenze dei precedenti datori di lavoro. Fu questo il caso di Margherita Notari, giunta dodicenne a Milano nel 1580, fu assunta dal filatore Agosto Curti che lasciò dopo due anni per spostarsi sol di pochi metri, entrando a servizio del vicino di casa Alberto Borsa. Ne l l e font i e saminat e s i r i t rova que s ta impor tant e c at e gor ia di lavor at r i c i Pe c chio fa un las c i to pe r una Gove rnat r i c e e pe r una Donna de l la sua c asa Albe r tar io la s c ia al la s e r va I sabe l la Riva 100 l i re impe r ia l i , a pat to che s ia anc or a al suo s e r vi z io.
  • 13. FIGLIE E FIGLI Negli stati preunitari le nubili non avevano alcun diritto patrimoniale, le donne, anche vedove, che si sposavano avevano diritto soltanto alla dote. Fino a metà del XVI secolo i figli partecipavano equamente alla spartizione dell'eredità, mentre le figlie erano mantenute dalla propria famiglia e ricevevano solo la dote per sposarsi. Nell'epoca successiva restava la preminenza dei maschi: i primogeniti ottenevano il patrimonio paterno o una sua parte molto consistente mentre ai cadetti spettava una rendita. Le figlie, al momento della costituzione della dote, di solito rinunciavano formalmente non solo all'eredità sul patrimonio paterno, dal quale era prelevata la devoluzione matrimoniale, ma anche a quella sui beni materni; si evitava così che potesse pervenire nelle loro mani una parte dei beni della famiglia. La trasmissione dei patrimoni materni, normalmente di entità assai più ridotta, non era regolata in modo omogeneo; ad esempio a Firenze e Bologna essa escludeva, come quella paterna, le figlie, mentre a Venezia si trasmetteva con perfetta bilateralità, fra maschi e femmine, a meno che non venisse su di essa prelevata la dote. IL CELIBATO SALVAGUARDIA DEL PATRIMONIO Il mantenimento del patrimonio portava le figlie a rinunciare a entrambi i lasciti così, al momento della formazione della dote, le donne rinunciavano all'eredità, se però mancavano eredi maschi potevano ottenere i beni della famiglia. L'affermarsi di norme successorie che tendevano a preservare l'integrità del patrimonio familiare aveva favorito nei ceti aristocratici una larga diffusione del celibato sia maschile sia femminile. NUBILATO Il diffondersi di quello maschile riduceva, per le nubili appartenenti lo stesso ceto sociale, la possibilità di trovare sul mercato matrimoniale una soluzione adeguata, e impediva alle famiglie quel gioco di compensazioni fra le doti in uscita (cedute alle figlie sposate) e quelle in entrata (apportate dalle nuore). Assai meno numerosi, almeno fino a XVIII secolo inoltrato, furono i casi di nubilato domestico, cioè vissuto all'interno della casa dei genitori o di un fratello sposato. In tali situazioni, la posizione e il ruolo delle non coniugate rimaneva marginale non solo nei confronti dei maschi della famiglia, ma anche rispetto alle altre donne della famiglia ossia madri o cognate. MONACAZIONE E DOTE Un numero consistente di figlie dell'aristocrazia di solito era destinata alla monacazione, per la quale pure era richiesta una dote, ma di valore considerevolmente più basso. Spesso i genitori mettevano in convento le figlie prima della pubertà, perché venissero educate e preservate da pericoli di seduzione. Quando esse raggiungevano l'età adeguata si decideva, con o senza il loro consenso, se destinarle al matrimonio o alla monacazione. LE GIOVANI POVERE Nei ceti inferiori l'impossibilità di disporre di una dote familiare impediva alle giovani di sposarsi. Il loro lavoro, per esempio quello di serve domestiche, era finalizzato proprio a costituirla. Le appartenenti alle famiglie più povere facevano ricorso spesso anche alle attività assistenziali delle confraternite, delle opere pie e delle corporazioni di mestiere (per le orfane dei soci): infatti, nel bilancio annuale di queste istituzioni, era prevista la devoluzione di doti per fanciulle povere o appartenenti a famiglie di altri ceti sociali in difficoltà. Particolari condizioni di crisi potevano così determinare, in ogni ceto, l'impossibilità di costruire una dote sufficiente a concludere un matrimonio adeguato al proprio status e comportare quindi la rinuncia alle nozze. LA GESTIONE DELLA DOTE Durante il matrimonio, la dote veniva amministrata dal marito, che ne godeva anche i frutti. Alla sua morte, gli eredi avevano l'obbligo di restituirla alla moglie oppure, in caso di norme o clausole differenti, a coloro che l'avevano costituita. Se a morire era la moglie, gli statuti o gli accordi fra le parti prevedevano talvolta i lucri dotali: una parte dei beni o dei valori (di solito un terzo o la metà) era del marito. La dote dunque era il patrimonio che di solito la legge metteva a disposizione delle vedove. La sua restituzione fu spesso causa di conflitti fra le donne e gli eredi del marito. Quando si trattava di un valore consistente, inoltre, la volontà di controllo creava tensione fra famiglia originaria e famiglia acquisita. L'eventualità di vivere in modo indipendente rimaneva così, per le vedove dei ceti proprietari, e in particolare per quelli aristocratici, assai limitata. La loro formazione non derivava da un diritto ereditario individuale, bensì da contingenze particolari (come l'assenza di eredi maschi) o atti discrezionali come una donazione o l'espressione di una volontà testamentaria (del padre, del marito, di chiunque altro). Ovviamente tali condizioni rendevano i patrimoni delle donne molto meno numerosi e di solito assai meno consistenti di quelli degli uomini. Le norme sull'eredità e sulla dote tendevano a mantenere separati, in assenza di figli, i beni del marito da quelli della moglie. Ciò consentiva di farli tornare, allo scioglimento del matrimonio, nella linea di successione della famiglia di provenienza. L'USUFRUTTO La forma proprietaria più adeguata a impedire confusioni era quella usufruttuaria: permetteva di percepire temporaneamente i frutti di un patrimonio, senza concedere la piena disponibilità di esso, per salvaguardarne una diversa destinazione, così il marito lasciava alla vedova la disponibilità della dote e dei beni se non si risposava. Solo l'eredità materna era sicura senza la vedovanza, quella dei figli solo fino alla maggiore età. BENI PARAFERNALI Unica eccezione i beni parafernali, dall’origine greca para juxta (appresso) e pherne (dote). Erano così definiti i beni attinenti o accessori alla dote, detti anche a Milano scherpa. Questi godevano del privilegio di non poter essere utilizzati per saldare i creditori, né pignorati. La donna in caso di morte del marito o di divorzio, ritornava in possesso di questi beni, anche se nel primo caso, a meno che avesse dei figli. In questo caso era costretta ad aspettare dieci anni, dal giorno del matrimonio, per utilizzarli, unica eccezione per la beneficenza (300). Un'altra restrizione era prevista per il padre verso il figlio emancipato. TESTATORI CONIUGE PARENTI ALTRE BENEFICIARIE LOMAZZI Maddalena Pusterla: mobilia, suppellettili, biancheria di Casa, usufrutto della parte di Casa che serviva per uso di Lomazzi, un Appartamento, 1200 lire l’anno, solamente se rimarrà in abito viduile Alla sorella Teresa Sinistra e alla nipote: lire 30 annue Alla sorella Lucrezia: lire 600 per l'atto del matrimonio Alle nipoti Maddalena e Angela Maria 1000 lire ciascuna Dopo la morte del nipote e della moglie la loro eredità dovrà essere convertita in dodici doti ALBERTARIO Barbara Tacca: quarta parte dei suoi beni con l'interesse del 5%, gli effetti della sua eredità, usufruttuaria generale --- Lascia alla Rev. Candida Fortunata Monaca 50 lire imperiali; Alla serva Isabella Riva 100 lire imperiali PECCHIO Girolama Pianni: 16000 lire in totale, compreso il credito per residuo della dote Alla Signora Antonia Pecchia, figlia del fù Sig. Giacomo maritata nel Sig. Spirito Rossignolo di Borgomanero lire seicento Imperiali per una volta tanto Governatrice Maria Tornesa Bergamasca, Angiola Bogiana Genovese donna della sua residenza BONICELLI Un richiamo alle parenti, suocera e cognata, del primo marito defunto. Nessun riferimento al nuovo coniuge Signora Margarita Borsana, suocera Maddalena Nicora, cognata Signora Angiola, moglie di suo cognato Battista Nicora Figlie della famiglia Nicora Signora Clara, moglie del Sig. Giuseppe Galbiati BALLI Anna Maria Arletti: le lascia 4000 lire annue (mille lire ogni tre mesi), ma revoca il legato della sua casa da Nobile, Giardino, e Mobili di Cernuschio, e anche quello delle tre brente di Vino, e due mogge di Formento, che dovevano esserle date in occasione della sua villeggiatura a Cernuschio, e comanda che passino liberi al suo erede principale Lascia un aiuto al Sig. Carlo Federico Cabiati suo cognato, e alla Signora Lucia Arletti di lui moglie, e sorella di sua moglie A Suor Marianna Fortis sua cugina Monaca: dodici cerini A sua cognata Suor Maria Giuseppa Arletti cognata Monaca: 15 lire annue; A Suor Colomba Benedetta e Suor Laura Maria sue cugine: 30 lire annue 1600 lire annue in aiuto di una giovane prostituta che voglia ritirarsi nel monastero di Santa Valeria 50 lire per ciascuna giovane donna che lavorava nella sua Bottega Al monastero delle RR.MM. di S. Maria degli Angioli in Porta Comasina: soldi per far celebrare 33 messe (22 soldi per ciascuna), moggia di formento, moggia di riso bianco e brenta di vino rosso a patto che le RR.MM. suffraghino la sua anima Al monastero delle RR.MM. di Santa Maria delle Grazie in Vailate: 135 lire annue a patto che le RR.MM. suffraghino la sua anima Dal testamento del Balli un elenco di beni di vario genere compresi argenti, una carrozza e due cavalli dati alla moglie. Tutti i beni erano godibili in usufrutto e non diventavano mai di proprietà della vedova, che anzi dovrà restituirli cessando detto usufrutto: o per il passaggio di detta mia Moglie alle seconde Nozze, o passando la medesima da quella a miglior vita.