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Il mito del Knowledge Management
                Una definizione operativa del Knowledge Management e del WEB 2.0
                     applicati alla realtà aziendale di matrice culturale italiana



“Il mito è dunque il discorso, la storia che si è narrata sull'esistenza di esseri antropomorfi, spesso
immortali ed onnipotenti, che vissero avventure e compirono azioni fantastiche, interessandosi a
ciò che avveniva tra i mortali e modificando il mondo con il loro intervento.”

Questa definizione è tratta da Wikipedia.

La nostra tesi è che il concetto di “gestione della conoscenza”, che è l’attuale “slogan” con cui
viene identificato il Knowledge Management (KM), appoggiandosi al significato implicito che
siamo soliti attribuire al termine “conoscenza”, sia una sorta di mito. Questo rende l’immagine
del Knowledge Management sostanzialmente “falsa”.

A livello di marketing i vantaggi sono chiari, ma di contro, chi deve applicare il KM né subisce gli
svantaggi. Descrivere il KM come gestione della conoscenza, infatti, è come dire che un certo
servizio (ad esempio una selezione aziendale) abbia come target tutte le aziende (e non segmenti
specifici che hanno determinate caratteristiche: ad esempio il servizio di selezione si rivolge alle
aziende con determinate esigenze rispetto al ruolo, rispetto al numero, rispetto al turn over, ecc.,
non di certo a tutte le aziende).

Definendo il concetto di "conoscenza” un mito, intendiamo dire che questo termine è
sostanzialmente vuoto1, generico, che è portato ad essere associato all’idea di astoricità (la vera
conoscenza resiste al tempo), di onnipotenza e sacralità (la vera conoscenza rende saggi, è
riservata a pochi eletti). In definitiva, a livello emozionale (cioè di libere associazioni mentali), la
parola conoscenza evoca l’idea di certezza, di verità.

Questa connotazione, a mio parere, genera confusione e rende difficile capire le modalità di
applicazione del KM se si continua a parlare di KM tout-court e non si passa alla definizione
puntuale di quale dominio di conoscenza si deve gestire, in quale contesto culturale, per quali
finalità, chi lo deve produrre, chi lo deve fruire.




1
 Roland Barthes afferma che il mito si fonda sull'assenza dell'oggetto (l'essere mitologico non ha un
corrispondente reale, così come il passaggio da personaggio di fama a mito è dato dalla morte).
Ora, dalle nostre esperienze deduciamo che il KM è in alcuni specifici casi gestione della
conoscenza certa, in altri è molto di più gestione della comunicazione (comunicazione orientata a
produrre rappresentazioni sociali condivise finalizzate a rendere efficaci i processi decisionali, le
cosiddette “euristiche decisionali”).
Tenteremo di spiegare come questa visione possa rendere più chiaro e interessante l'approccio al
KM.

Perché la conoscenza è definibile come mito?

La filosofia sotto certi aspetti, la psicologia sotto altri, hanno dimostrato come la parola
conoscenza sia in realtà una parola indefinita, che descrive più la motivazione dell’uomo a
cercare di controllare la realtà (conoscenza come processo), piuttosto che il risultato di tale
operazione (verità e certezze). La filosofia ha rinunciato a descrivere il risultato dell’atto del
conoscere come certezza, mentre la psicologia dimostra più operativamente che il risultato
dell’atto del conoscere è un modello mentale della realtà esterna (vedi la prospettiva
costruttivista). È la stessa differenza che passa tra il modellino di un ponte e un ponte vero. Ora è
evidente che pensare alla conoscenza come qualcosa di certo, ha una funzione rassicurante e
risponde probabilmente al soddisfacimento del nostro bisogno di avere sicurezze (vedi Maslow). Il
nostro quotidiano è ancorato alle nostre certezze. Così era per i nostri antenati, e così sarà in
futuro.
Nessun problema a riguardo, tranne per il fatto che oggi nessuno di noi si farebbe visitare da un
medico dell’800. La stessa cosa in ambito lavorativo: ad esempio il concetto di qualità è cambiato
radicalmente negli ultimi decenni, e nessuno di noi sarebbe più interessato a seguire i contenuti di
un corso datato 1980.
Di contro il teorema di Pitagora non sembra sia stato ancora confutato da nessuno.

Quindi partiremmo dal porci una domanda: le conoscenze sono tutte uguali?

Che tipi di conoscenze possiamo discriminare?

Qualche anno fa abbiamo partecipato ad un meeting con Etienne Wenger, uno dei nomi che gode
di più fama nel mondo delle comunità di pratica online.
Assistendo al suo intervento ci colpì una cosa: parlando di comunità di pratica, nei suoi esempi,
citava esclusivamente ingegneri e informatici. Nei suoi esempi non trovammo nulla che potesse
essere rapportato ad un’azienda che eroga servizi, simile, ad esempio, a un’azienda di consulenza.

La spiegazione che ci siamo dati è che forse le comunità di pratica sono nate all’interno di domini
di conoscenza chiusi2. Se le conoscenze che si scambiano possono essere applicate esattamente
nella stessa maniera in Italia, in Cina, in America, senza subire influenze dall’ambiente o in base al

2
    Cioè un insieme di conoscenze che non dipende dal contesto geografico e culturale in cui è inserito.
soggetto che le applica, queste mantengono intatto il proprio valore nel passaggio dal
"produttore" al "consumatore". Ad esempio, una stringa di programmazione in java che risolve
un determinato problema informatico avrà lo stesso valore, a parità di condizioni hardware e
software, in tutto il mondo, a prescindere da chi la applica. Quindi è comprensibile che ingegneri,
informatici, matematici, medici (anche se con più difficoltà), ecc., trovino la massima efficacia in
un sistema di KM inteso come gestione della conoscenza, perché si tratta di mettere in piedi un
sistema di divulgazione e scambio di “certezze”. L’informazione in imput (emittente) è la
medesima di quella in output (ricevente). In questo caso la conoscenza può essere veramente
oggettivata, cioè resa in gran parte oggetto indipendente dal conoscente.

Ma come cambia la questione con i domini di conoscenza aperti? Ad esempio, quanto sono
indipendenti da fattori esterni al dominio, ambiti di conoscenza quali “gestione RU”, “politiche del
lavoro”, “qualità”, “psicologia”, “poesia”, “arte”, ecc.?
La psicologia ha illustrato come i processi di categorizzazione forzata (per citare una delle variabili
in gioco) intervengano sia nella codifica delle informazioni, sia nella decodifica. Vale a dire che i
processi interpretativi modificano la natura delle informazioni (vedi il principio di
indeterminazione di Heisemberg).

Possiamo, quindi, fare una prima distinzione:
      informazioni relative a domini di conoscenza chiusi3: informazioni tecniche, procedure,
       norme, informazioni acquisite attraverso il metodo scientifico, leggi scientifiche,
       matematica, fisica, ecc.;
      informazioni relative a domini di conoscenza aperti4: linee guida, esperienze individuali,
       opinioni, critiche, confronti, storie, casi, stereotipi, ecc.

Vi facciamo una domanda.
Guardando i due campi di conoscenza, istintivamente, per quale dominio provate più interesse?
Ok... a quelli che hanno risposto a favore del dominio di conoscenza chiuso, poniamo altre
domande: se doveste scegliere un locale in cui andare a cenare a quale dominio ricorrereste?
Quanti corsi di formazione avete seguito in cui vi hanno farcito di nozioni proposte come
conoscenza del primo tipo, di cui invece non ne avete poi fatto nulla? Se doveste comprare una
moto, vi interesserebbe sapere di più le caratteristiche oggettive di un certo modello oppure che
cosa ne pensa Velentino Rossi?




3
    In sostanza domini in cui le categorie descrittive non variano al variare delle condizioni ambientali.
4
     Ossia domini in cui le categorie descrittive risentono dei cambiamenti del contesto.
In sostanza le questioni che vi poniamo sono:
       a quale dominio di conoscenza ricorriamo più frequentemente nella nostra vita quotidiana
        aziendale?
       perché le persone, a livello manageriale, vengono pagate diversamente a parità di ruolo?
       perché pur avendo studiato sui manuali americani… come si gestiscono i collaboratori,
        come essere un buon leader… come si fa una riunione… la maggior parte delle volte si va "a
        braccio"?
       perché se abbiamo bisogno di un consiglio lo chiediamo ad un collega di cui ci fidiamo
        piuttosto che leggere un libro?



Di quali informazioni abbiamo più bisogno nella nostra vita quotidiana?

I sistemi viventi hanno la caratteristica di essere “autopoietici”, cioè di auto-organizzarsi e di
mantenere la propria struttura interna inalterata (il cuore, anche se cambia forma crescendo,
svolge sempre la stessa funzione ed è nella stessa relazione con gli altri organi per tutta la vita;
quando un elemento cessa la sua funzione lo stato del sistema cambia).
Ora, alla base dell'autopoiesi c'è la capacità del sistema di stabilire una differenza tra un
“dentro” e un “fuori” e di mantenerla. Quindi c'è la capacità di stabilire "differenze". A occhio e
croce… diremmo che questa caratteristica è alla base del concetto di "identità". Ad esempio,
pensiamo che la necessità di porre differenze sia talmente vitale che gli esperimenti della Gestalt
dimostrano come, quando le differenze non ci sono, il nostro organismo sia strutturato per crearle
artificialmente.




Così funziona per le forme, così funziona per i pregiudizi. Quando mancano le informazioni, noi le
produciamo. Questo è quello che capita quando conosciamo per la prima volta una persona, e ci
facciamo subito un'idea di chi sia, dei perché e dei per come si comporti in una certa maniera.
Allora, nel caso dell'immagine sopra esposta, i nostri sensi hanno già scelto per noi. A noi non
interessa molto conoscere la verità. E la conoscenza della verità, cioè che non c'è nessun quadrato
in questa immagine, non cambia la nostra percezione. A noi interessa stabilire delle differenze,
cioè decidere. E le informazioni di cui abbiamo più bisogno istintivamente non sono quelle più
dettagliate e più vere, ma quelle che ci fanno decidere più in fretta e meglio per noi.
Nella figura suddetta ci vedi un quadrato tu? Si?
Anch'io. Allora per noi è un quadrato. Questo, nel brevissimo termine, ci basta per decidere cos’è.

Processi decisionali e euristiche

Decidere è la cosa più importante per le persone e per i gruppi, organizzati o spontanei.
Di seguito ci riallacciamo ad alcuni argomenti trattati dalla psicologia: la specializzazione degli
emisferi cerebrali (il c.d. cervello doppio), le euristiche decisionali, le rappresentazioni sociali.

A cosa servono gli affetti?

Tralasciamo le migliaia di risposte possibili, più o meno romantiche… per concentrarci sulla
funzione di euristica decisionale degli affetti, che descriviamo come capacità umana di
sperimentare connotazioni emotive rispetto agli stimoli che riceve dall'esterno o dall'interno.
Tutte le informazioni in entrata al nostro sistema nervoso centrale, vengono da noi categorizzate
secondo un doppio codice: codice simbolico-emozionale e codice linguistico. Il substrato
neurologico di queste funzioni può essere ricondotto alla specializzazione degli emisferi cerebrali.
Non per niente il tronco encefalico e il sistema limbico sono la parte più arcaica del nostro
cervello, quelle che producono in maniera più specifica i sentimenti e le emozioni, e quelle cui
arrivano per primi gli stimoli esterni. Altresì, vari autori della comunità degli psicologi identificano
l'inconscio con le emozioni (le nostre reazioni emotive sono automatiche e spesso inconsapevoli,
nel senso che noi non le possiamo certo guidare, tutt'al più le possiamo comprendere).
La codifica simbolico-emozionale è molto semplice: buono-cattivo, bello-brutto, piacevole-
sgradevole, amico-nemico, ecc. (e questo è il motivo per cui il metodo del "differenziale
semantico"5 torna utile per descrivere le opinioni delle persone).

Questo sistema ha il pregio di tornare utile nella vita quotidiana, cioè tutte le volte che dobbiamo
prendere decisioni (cioè sempre), decidere come comportarci rispetto alle nostre esigenze, quelle
del gruppo, quelle di lavoro, ecc.

In sostanza gli affetti con cui categorizziamo le cose del mondo, hanno la funzione di euristica
decisionale6. Cioè ci semplificano la vita, evitando di dover analizzare sempre tutte le
informazioni.


5
   Il differenziale semantico è il metodo descrittivo che usa gli assi cartesiani per formare quattro
quadranti, la cui qualità è data dall'incrocio di quattro variabili antitetiche fra loro.
6
  Grasso M., Salvatore S., "Pensiero e decisionalità. Contributo alla critica della prospettiva individualista
in psicologia.", Franco-Angeli, Milano, 1997
Questo è il motivo per cui siamo esseri profondamente irrazionali, ma anche decisamente
efficienti nel prendere decisioni. Decisioni spesso dettate dall’emozionalità, a volte poco efficaci,
ma certamente efficienti (ci mettiamo poco tempo per decidere). Se un giocatore di scacchi
dovesse analizzare una per una le milioni di combinazioni possibili in un partita e attribuire un
valore a ciascuna di esse, ci metterebbe molto. Invece agisce quasi d’istinto, in base alla sua
visione del gioco, alla sua esperienza, a ciò che anche “la pancia” (affetti/emozioni) dice essere le
mosse più giuste. Un computer no. Analizza e attribuisce a ciascuna mossa possibile un valore.

Questo è il motivo per cui per cercare certezze ci dobbiamo dotare di un metodo così complicato
come la scienza, che attraverso strumenti e metodologie severe e difficili da applicare, cerca in
tutti i modi di scindere la soggettività dall'atto di conoscenza. Ma la scienza è un caso particolare
della vita, non lo standard. Tutto il resto è vita.

E diremmo che questo è il motivo per cui la narrazione, e quindi anche il giornalismo, sono così
importanti nella vita delle persone e dei gruppi. Noi non leggiamo il giornale per sapere i fatti, ma
per orientarci emozionalmente tra i fatti. E questo è il motivo per cui i giornalisti preferiscono
scrivere un titolo come "Maestra taglia la lingua ad un bambino", piuttosto che "Insegnante ferisce
lievemente la lingua di un alunno con un paio di forbici".
E questo è anche il motivo per cui il passaparola è più efficace degli spot e dei libri (vedi il
fenomeno del viral marketing).

Come vengono diffuse le euristiche decisionali?

Mi ricollego all'argomento "rappresentazioni sociali" secondo la prima elaborazione del concetto
da parte di Moscovici.
Ricapitoliamo brevemente cosa sono e che funzione hanno.
Cosa sono?
Le rappresentazioni sociali sono categorizzazioni collettive, concetti condivisi socialmente con cui
descriviamo la realtà (ad esempio "la matematica", "la psicologia", "la conoscenza", "l'Italia",
ecc.; la loro struttura si capisce meglio facendo riferimento a concetti astratti).
Come nascono?
All'interno degli scambi conversazionali si creano e si elaborano attraverso due meccanismi
fondamentali: l'ancoraggio e l'oggettivazione.
L'ancoraggio è il processo attraverso il quale qualcosa di estraneo viene incorporato all'interno di
categorie mentali familiari. Ad esempio noi siamo portati a descrivere come “matti” i vagabondi.
L'oggettivazione è il processo attraverso il quale si satura di realtà ciò che si è assimilato. Le idee,
cioè, vengono trasformate sul piano della vita sociale condivisa, in realtà viventi. Le figure astratte
assumono prima una dimensione iconica, diventano cioè immagini, e successivamente viene
attribuita loro una valenza di concretezza materiale. Per esempio il concetto di “atomo” è passato
da modello astratto esplicativo di tipo scientifico, a significare una piccolissima parte degli oggetti.
Qual è lo scopo delle rappresentazioni sociali?
Secondo Moscovici "lo scopo di tutte le rappresentazioni sociali è quello di rendere qualcosa di
inconsueto, o l'ignoto stesso, familiare" (Moscovici, 1984).

Ora, ciò che è interessante nel pensiero di Moscovici è che egli, attraverso i suoi studi, postula una
corrispondenza tra le forme di organizzazione e di comunicazione sociale e le modalità di
rappresentazione sociale. Come dire che la forma di organizzazione della comunicazione,
influenza i processi di costruzione e di diffusione delle rappresentazioni sociali.

Ricapitolando, fin qui abbiamo cercato di dire:
      che alle persone interessano più le opinioni e le esperienze raccontate dalle altre persone
       (domini di conoscenza aperti), che una serie di dati scientifici tra i quali districarsi (domini
       di conoscenza chiusi);
      che le opinioni e le esperienze altrui ci servono a prendere decisioni nel nostro quotidiano;
      che i sistemi di comunicazione influenzano il modo in cui le rappresentazioni sociali si
       costruiscono e si diffondono.

Come è possibile stabilire il valore delle euristiche sociali?

E’ stato detto che compito del KM è trasformare la conoscenza tacita in esplicita.
Anche qui proponiamo un approfondimento. Basta parlare di conoscenza tacita ed esplicita,
oppure a noi interessa anche sapere da chi proviene quella conoscenza? Un consiglio dato da una
persona che stimiamo ed è stimata dagli altri è diverso dal consiglio dato da un'altra persona, che
magari gode della disistima degli altri. I nodi di una rete sociale non sono tutti uguali. Alcuni
godono di più prestigio, altri di meno. La stessa informazione, pur vera, ha un diverso valore se ci
arriva da una persona che stimiamo poco.

Bene, il meccanismo è proprio questo: le euristiche (racconti, opinioni, esperienze) dei leader
hanno più valore di quelle degli altri.

Ma come si diventa leader di opinione all'interno di una rete?

La caratteristica peculiare del Web 2.0

Come mai è così interessante il Web 2.0? Perché tutto questo fermento? In fin dei conti, i media
c'erano anche prima e la circolazione delle informazioni non è certo una novità.
Alcuni dicono che la novità sia il fatto che gli utenti possono generare i propri contenuti (User
Generated Content) e diffonderli. Beh, se fosse solo questo il web 2.0 esisterebbe con la nascita
del World Wide Web. Anche con il WWW gli utenti generavano contenuti propri, li mettevano sui
siti web creati da loro.
Forse allora la vera novità è il fatto che questi contenuti possono essere generati in pochi clic e con
meno fatica, con aggiornamenti più semplici?

Non crediamo. La vera novità, la vera proprietà emergente del web 2.0 è che i feedback all'interno
del sistema sono diventati più puntuali, più precisi, più diffusi.

La caratteristica peculiare secondo noi è la possibilità per gli utenti di restituire feedback che
danno valore alle informazioni prodotte dagli altri. E' il concetto di prestigio. Il sistema di feedback
funziona come quello che nella teoria dei sistemi viene chiamato osservatore di secondo livello (un
metalivello che gestisce la qualità dei contributi). Feedback di vario tipo: rispondere ad un post,
parlare nel proprio blog dei contenuti pubblicati da altri blog o dai mass media, controllare i log,
fare una network analysis, ecc.
L’altra novità, a nostro parere, è che al contrario dei sistemi di comunicazione di massa, ma anche
dell'organizzazione classica, il feedback è distribuito. Tutti possono dire la loro sugli altri. E' un
sistema in cui l'osservatore di secondo livello è distribuito fra tutti paritariamente. E' quindi un
sistema che permette di far emergere e valorizzare i leader di opinione e di competenza. E
questo è molto importante per le euristiche decisionali di coloro che condividono il sistema.

Come dire, tutti noi abbiamo una nostra opinione personale sulle cose, ma questa assume più
valore se è condivisa con gli altri, ancor più valore se è condivisa da una persona che
identifichiamo come leader, ma ancor di più se è condivisa da una persona che anche i nostri
simili identificano come leader. E questo è un sistema di feedback positivo, quello per cui Beppe
Grillo è al top delle visite.

Riprendendo il caso della riunione, io sono interessato a sapere come si fa una riunione? Oppure
sono interessato a saperlo dal sig. X che gode di un certo prestigio nel settore?
Oppure sono interessato a sapere cosa pensa il mio capo perché la sua opinione conta di più? Se
così fosse, non saremmo più all’interno di un sistema di feedback distribuito, ma ci troveremmo in
presenza di un nodo di rete (il capo) che distorce il meccanismo esercitando un potere dovuto al
ruolo che ricopre (gerarchia), non alla competenza.

Conclusioni

L'obiettivo, quindi, nel caso di organizzazioni che si occupano di temi che stanno nell’ambito dei
domini di conoscenza aperti (quindi di conoscenze che subiscono l’influenza di esperienze,
opinioni, mutevoli nel tempo) non è far circolare le conoscenze intese come verità separate da chi
le produce, quanto di mettere i soggetti all'interno di un sistema di comunicazione fra nodi in
grado di fornire feedback negativi e positivi.
Un sistema aperto deve fare del feedback il suo strumento primario per l'adattamento
all'ambiente.
Ossia, all’interno di domini aperti se io NON posso esprimere il mio feedback la comunicazione è
menomata e tutti quanti faremmo “come se” stessimo trattando di Knowledge Management,
mentre agiamo all’interno di un sistema comunicativo distorto, teso solo a tenere in piedi
determinati assetti di potere (e questo penalizza soprattutto le aziende con una cultura
burocratica che faticano ad adattarsi al nuovo, siano esse nuove tecnologie, sia esso un nuovo
contesto di mercato).

Possiamo dire che questa è gestione della conoscenza?

I sistemi per adattarsi gli uni agli altri e al proprio mutevole ambiente, devono poter inviare e
ricevere feedback liberamente (o al massimo grado in cui ciò è possibile), e per poter interpretare
il feedback occorre che si dotino di osservatori di secondo livello (un metalivello è ad esempio
quello per cui stiamo cercando in questo momento delle chiavi di lettura del fenomeno KM in
questo articolo).

Finché continueremo a trattare il KM nei termini di gestione della conoscenza, cioè di un oggetto
che esiste al di là dei rapporti che ci sono all'interno delle organizzazioni, non faremo altro che
replicare degli archivi morti in partenza, perché sono sistemi chiusi, ossia immuni al feedback.

L'intervento di KM, nell’ambito dei servizi, è invece un intervento di sensibilizzazione
sull'importanza dei feedback, sulle relazioni e sulle regole di comunicazione all'interno
dell'azienda. Quindi possiamo descriverlo come un intervento di change management. E' in
sostanza un intervento sulla rete sociale.

Ora, applicare in toto un sistema comunicativo completamente aperto al feedback sarebbe
attualmente impensabile all'interno di molte aziende italiane, perché ridurrebbe molto la portata
delle gerarchie, “si dice” necessarie a mantenere certi processi produttivi. E lo sarebbe anche per i
dipendenti, i quali sarebbero sorpresi di porsi in relazione agli altri secondo criteri di competenza,
piuttosto che di amicalità e familismo. Il valore nominale dei collaboratori diverrebbe reale, e il
management verrebbe ridotto a potere decisionale.

Quindi, questo sistema di nuove relazioni entra in conflitto con il potere?

No, se identifichiamo il management come lo staff che ha il potere e la responsabilità di prendere
decisioni. Un po' come avviene in giurisprudenza: c'è un sottosistema di accusa e difesa che si
prodica per raccogliere e strutturare tutte le informazioni del caso, ma che non può decidere in
merito alla sentenza. Quella spetta al giudice, ed avviene secondo criteri che si riferiscono ad un
sistema più ampio.
La rete dei collaboratori, dunque, ha la responsabilità di produrre una comunicazione orientata al
problem solving, mentre il management ha la responsabilità di prendere decisioni anche in base
ai feedback che riceve.

E questo pensiamo l'abbiano già capito le aziende cui il panorama italiano è solito guardare come
fossero marziane: Google e Sun Microsystem, ad esempio.

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Il mito del knowledge management

  • 1. Il mito del Knowledge Management Una definizione operativa del Knowledge Management e del WEB 2.0 applicati alla realtà aziendale di matrice culturale italiana “Il mito è dunque il discorso, la storia che si è narrata sull'esistenza di esseri antropomorfi, spesso immortali ed onnipotenti, che vissero avventure e compirono azioni fantastiche, interessandosi a ciò che avveniva tra i mortali e modificando il mondo con il loro intervento.” Questa definizione è tratta da Wikipedia. La nostra tesi è che il concetto di “gestione della conoscenza”, che è l’attuale “slogan” con cui viene identificato il Knowledge Management (KM), appoggiandosi al significato implicito che siamo soliti attribuire al termine “conoscenza”, sia una sorta di mito. Questo rende l’immagine del Knowledge Management sostanzialmente “falsa”. A livello di marketing i vantaggi sono chiari, ma di contro, chi deve applicare il KM né subisce gli svantaggi. Descrivere il KM come gestione della conoscenza, infatti, è come dire che un certo servizio (ad esempio una selezione aziendale) abbia come target tutte le aziende (e non segmenti specifici che hanno determinate caratteristiche: ad esempio il servizio di selezione si rivolge alle aziende con determinate esigenze rispetto al ruolo, rispetto al numero, rispetto al turn over, ecc., non di certo a tutte le aziende). Definendo il concetto di "conoscenza” un mito, intendiamo dire che questo termine è sostanzialmente vuoto1, generico, che è portato ad essere associato all’idea di astoricità (la vera conoscenza resiste al tempo), di onnipotenza e sacralità (la vera conoscenza rende saggi, è riservata a pochi eletti). In definitiva, a livello emozionale (cioè di libere associazioni mentali), la parola conoscenza evoca l’idea di certezza, di verità. Questa connotazione, a mio parere, genera confusione e rende difficile capire le modalità di applicazione del KM se si continua a parlare di KM tout-court e non si passa alla definizione puntuale di quale dominio di conoscenza si deve gestire, in quale contesto culturale, per quali finalità, chi lo deve produrre, chi lo deve fruire. 1 Roland Barthes afferma che il mito si fonda sull'assenza dell'oggetto (l'essere mitologico non ha un corrispondente reale, così come il passaggio da personaggio di fama a mito è dato dalla morte).
  • 2. Ora, dalle nostre esperienze deduciamo che il KM è in alcuni specifici casi gestione della conoscenza certa, in altri è molto di più gestione della comunicazione (comunicazione orientata a produrre rappresentazioni sociali condivise finalizzate a rendere efficaci i processi decisionali, le cosiddette “euristiche decisionali”). Tenteremo di spiegare come questa visione possa rendere più chiaro e interessante l'approccio al KM. Perché la conoscenza è definibile come mito? La filosofia sotto certi aspetti, la psicologia sotto altri, hanno dimostrato come la parola conoscenza sia in realtà una parola indefinita, che descrive più la motivazione dell’uomo a cercare di controllare la realtà (conoscenza come processo), piuttosto che il risultato di tale operazione (verità e certezze). La filosofia ha rinunciato a descrivere il risultato dell’atto del conoscere come certezza, mentre la psicologia dimostra più operativamente che il risultato dell’atto del conoscere è un modello mentale della realtà esterna (vedi la prospettiva costruttivista). È la stessa differenza che passa tra il modellino di un ponte e un ponte vero. Ora è evidente che pensare alla conoscenza come qualcosa di certo, ha una funzione rassicurante e risponde probabilmente al soddisfacimento del nostro bisogno di avere sicurezze (vedi Maslow). Il nostro quotidiano è ancorato alle nostre certezze. Così era per i nostri antenati, e così sarà in futuro. Nessun problema a riguardo, tranne per il fatto che oggi nessuno di noi si farebbe visitare da un medico dell’800. La stessa cosa in ambito lavorativo: ad esempio il concetto di qualità è cambiato radicalmente negli ultimi decenni, e nessuno di noi sarebbe più interessato a seguire i contenuti di un corso datato 1980. Di contro il teorema di Pitagora non sembra sia stato ancora confutato da nessuno. Quindi partiremmo dal porci una domanda: le conoscenze sono tutte uguali? Che tipi di conoscenze possiamo discriminare? Qualche anno fa abbiamo partecipato ad un meeting con Etienne Wenger, uno dei nomi che gode di più fama nel mondo delle comunità di pratica online. Assistendo al suo intervento ci colpì una cosa: parlando di comunità di pratica, nei suoi esempi, citava esclusivamente ingegneri e informatici. Nei suoi esempi non trovammo nulla che potesse essere rapportato ad un’azienda che eroga servizi, simile, ad esempio, a un’azienda di consulenza. La spiegazione che ci siamo dati è che forse le comunità di pratica sono nate all’interno di domini di conoscenza chiusi2. Se le conoscenze che si scambiano possono essere applicate esattamente nella stessa maniera in Italia, in Cina, in America, senza subire influenze dall’ambiente o in base al 2 Cioè un insieme di conoscenze che non dipende dal contesto geografico e culturale in cui è inserito.
  • 3. soggetto che le applica, queste mantengono intatto il proprio valore nel passaggio dal "produttore" al "consumatore". Ad esempio, una stringa di programmazione in java che risolve un determinato problema informatico avrà lo stesso valore, a parità di condizioni hardware e software, in tutto il mondo, a prescindere da chi la applica. Quindi è comprensibile che ingegneri, informatici, matematici, medici (anche se con più difficoltà), ecc., trovino la massima efficacia in un sistema di KM inteso come gestione della conoscenza, perché si tratta di mettere in piedi un sistema di divulgazione e scambio di “certezze”. L’informazione in imput (emittente) è la medesima di quella in output (ricevente). In questo caso la conoscenza può essere veramente oggettivata, cioè resa in gran parte oggetto indipendente dal conoscente. Ma come cambia la questione con i domini di conoscenza aperti? Ad esempio, quanto sono indipendenti da fattori esterni al dominio, ambiti di conoscenza quali “gestione RU”, “politiche del lavoro”, “qualità”, “psicologia”, “poesia”, “arte”, ecc.? La psicologia ha illustrato come i processi di categorizzazione forzata (per citare una delle variabili in gioco) intervengano sia nella codifica delle informazioni, sia nella decodifica. Vale a dire che i processi interpretativi modificano la natura delle informazioni (vedi il principio di indeterminazione di Heisemberg). Possiamo, quindi, fare una prima distinzione:  informazioni relative a domini di conoscenza chiusi3: informazioni tecniche, procedure, norme, informazioni acquisite attraverso il metodo scientifico, leggi scientifiche, matematica, fisica, ecc.;  informazioni relative a domini di conoscenza aperti4: linee guida, esperienze individuali, opinioni, critiche, confronti, storie, casi, stereotipi, ecc. Vi facciamo una domanda. Guardando i due campi di conoscenza, istintivamente, per quale dominio provate più interesse? Ok... a quelli che hanno risposto a favore del dominio di conoscenza chiuso, poniamo altre domande: se doveste scegliere un locale in cui andare a cenare a quale dominio ricorrereste? Quanti corsi di formazione avete seguito in cui vi hanno farcito di nozioni proposte come conoscenza del primo tipo, di cui invece non ne avete poi fatto nulla? Se doveste comprare una moto, vi interesserebbe sapere di più le caratteristiche oggettive di un certo modello oppure che cosa ne pensa Velentino Rossi? 3 In sostanza domini in cui le categorie descrittive non variano al variare delle condizioni ambientali. 4 Ossia domini in cui le categorie descrittive risentono dei cambiamenti del contesto.
  • 4. In sostanza le questioni che vi poniamo sono:  a quale dominio di conoscenza ricorriamo più frequentemente nella nostra vita quotidiana aziendale?  perché le persone, a livello manageriale, vengono pagate diversamente a parità di ruolo?  perché pur avendo studiato sui manuali americani… come si gestiscono i collaboratori, come essere un buon leader… come si fa una riunione… la maggior parte delle volte si va "a braccio"?  perché se abbiamo bisogno di un consiglio lo chiediamo ad un collega di cui ci fidiamo piuttosto che leggere un libro? Di quali informazioni abbiamo più bisogno nella nostra vita quotidiana? I sistemi viventi hanno la caratteristica di essere “autopoietici”, cioè di auto-organizzarsi e di mantenere la propria struttura interna inalterata (il cuore, anche se cambia forma crescendo, svolge sempre la stessa funzione ed è nella stessa relazione con gli altri organi per tutta la vita; quando un elemento cessa la sua funzione lo stato del sistema cambia). Ora, alla base dell'autopoiesi c'è la capacità del sistema di stabilire una differenza tra un “dentro” e un “fuori” e di mantenerla. Quindi c'è la capacità di stabilire "differenze". A occhio e croce… diremmo che questa caratteristica è alla base del concetto di "identità". Ad esempio, pensiamo che la necessità di porre differenze sia talmente vitale che gli esperimenti della Gestalt dimostrano come, quando le differenze non ci sono, il nostro organismo sia strutturato per crearle artificialmente. Così funziona per le forme, così funziona per i pregiudizi. Quando mancano le informazioni, noi le produciamo. Questo è quello che capita quando conosciamo per la prima volta una persona, e ci facciamo subito un'idea di chi sia, dei perché e dei per come si comporti in una certa maniera. Allora, nel caso dell'immagine sopra esposta, i nostri sensi hanno già scelto per noi. A noi non interessa molto conoscere la verità. E la conoscenza della verità, cioè che non c'è nessun quadrato
  • 5. in questa immagine, non cambia la nostra percezione. A noi interessa stabilire delle differenze, cioè decidere. E le informazioni di cui abbiamo più bisogno istintivamente non sono quelle più dettagliate e più vere, ma quelle che ci fanno decidere più in fretta e meglio per noi. Nella figura suddetta ci vedi un quadrato tu? Si? Anch'io. Allora per noi è un quadrato. Questo, nel brevissimo termine, ci basta per decidere cos’è. Processi decisionali e euristiche Decidere è la cosa più importante per le persone e per i gruppi, organizzati o spontanei. Di seguito ci riallacciamo ad alcuni argomenti trattati dalla psicologia: la specializzazione degli emisferi cerebrali (il c.d. cervello doppio), le euristiche decisionali, le rappresentazioni sociali. A cosa servono gli affetti? Tralasciamo le migliaia di risposte possibili, più o meno romantiche… per concentrarci sulla funzione di euristica decisionale degli affetti, che descriviamo come capacità umana di sperimentare connotazioni emotive rispetto agli stimoli che riceve dall'esterno o dall'interno. Tutte le informazioni in entrata al nostro sistema nervoso centrale, vengono da noi categorizzate secondo un doppio codice: codice simbolico-emozionale e codice linguistico. Il substrato neurologico di queste funzioni può essere ricondotto alla specializzazione degli emisferi cerebrali. Non per niente il tronco encefalico e il sistema limbico sono la parte più arcaica del nostro cervello, quelle che producono in maniera più specifica i sentimenti e le emozioni, e quelle cui arrivano per primi gli stimoli esterni. Altresì, vari autori della comunità degli psicologi identificano l'inconscio con le emozioni (le nostre reazioni emotive sono automatiche e spesso inconsapevoli, nel senso che noi non le possiamo certo guidare, tutt'al più le possiamo comprendere). La codifica simbolico-emozionale è molto semplice: buono-cattivo, bello-brutto, piacevole- sgradevole, amico-nemico, ecc. (e questo è il motivo per cui il metodo del "differenziale semantico"5 torna utile per descrivere le opinioni delle persone). Questo sistema ha il pregio di tornare utile nella vita quotidiana, cioè tutte le volte che dobbiamo prendere decisioni (cioè sempre), decidere come comportarci rispetto alle nostre esigenze, quelle del gruppo, quelle di lavoro, ecc. In sostanza gli affetti con cui categorizziamo le cose del mondo, hanno la funzione di euristica decisionale6. Cioè ci semplificano la vita, evitando di dover analizzare sempre tutte le informazioni. 5 Il differenziale semantico è il metodo descrittivo che usa gli assi cartesiani per formare quattro quadranti, la cui qualità è data dall'incrocio di quattro variabili antitetiche fra loro. 6 Grasso M., Salvatore S., "Pensiero e decisionalità. Contributo alla critica della prospettiva individualista in psicologia.", Franco-Angeli, Milano, 1997
  • 6. Questo è il motivo per cui siamo esseri profondamente irrazionali, ma anche decisamente efficienti nel prendere decisioni. Decisioni spesso dettate dall’emozionalità, a volte poco efficaci, ma certamente efficienti (ci mettiamo poco tempo per decidere). Se un giocatore di scacchi dovesse analizzare una per una le milioni di combinazioni possibili in un partita e attribuire un valore a ciascuna di esse, ci metterebbe molto. Invece agisce quasi d’istinto, in base alla sua visione del gioco, alla sua esperienza, a ciò che anche “la pancia” (affetti/emozioni) dice essere le mosse più giuste. Un computer no. Analizza e attribuisce a ciascuna mossa possibile un valore. Questo è il motivo per cui per cercare certezze ci dobbiamo dotare di un metodo così complicato come la scienza, che attraverso strumenti e metodologie severe e difficili da applicare, cerca in tutti i modi di scindere la soggettività dall'atto di conoscenza. Ma la scienza è un caso particolare della vita, non lo standard. Tutto il resto è vita. E diremmo che questo è il motivo per cui la narrazione, e quindi anche il giornalismo, sono così importanti nella vita delle persone e dei gruppi. Noi non leggiamo il giornale per sapere i fatti, ma per orientarci emozionalmente tra i fatti. E questo è il motivo per cui i giornalisti preferiscono scrivere un titolo come "Maestra taglia la lingua ad un bambino", piuttosto che "Insegnante ferisce lievemente la lingua di un alunno con un paio di forbici". E questo è anche il motivo per cui il passaparola è più efficace degli spot e dei libri (vedi il fenomeno del viral marketing). Come vengono diffuse le euristiche decisionali? Mi ricollego all'argomento "rappresentazioni sociali" secondo la prima elaborazione del concetto da parte di Moscovici. Ricapitoliamo brevemente cosa sono e che funzione hanno. Cosa sono? Le rappresentazioni sociali sono categorizzazioni collettive, concetti condivisi socialmente con cui descriviamo la realtà (ad esempio "la matematica", "la psicologia", "la conoscenza", "l'Italia", ecc.; la loro struttura si capisce meglio facendo riferimento a concetti astratti). Come nascono? All'interno degli scambi conversazionali si creano e si elaborano attraverso due meccanismi fondamentali: l'ancoraggio e l'oggettivazione. L'ancoraggio è il processo attraverso il quale qualcosa di estraneo viene incorporato all'interno di categorie mentali familiari. Ad esempio noi siamo portati a descrivere come “matti” i vagabondi. L'oggettivazione è il processo attraverso il quale si satura di realtà ciò che si è assimilato. Le idee, cioè, vengono trasformate sul piano della vita sociale condivisa, in realtà viventi. Le figure astratte assumono prima una dimensione iconica, diventano cioè immagini, e successivamente viene attribuita loro una valenza di concretezza materiale. Per esempio il concetto di “atomo” è passato da modello astratto esplicativo di tipo scientifico, a significare una piccolissima parte degli oggetti.
  • 7. Qual è lo scopo delle rappresentazioni sociali? Secondo Moscovici "lo scopo di tutte le rappresentazioni sociali è quello di rendere qualcosa di inconsueto, o l'ignoto stesso, familiare" (Moscovici, 1984). Ora, ciò che è interessante nel pensiero di Moscovici è che egli, attraverso i suoi studi, postula una corrispondenza tra le forme di organizzazione e di comunicazione sociale e le modalità di rappresentazione sociale. Come dire che la forma di organizzazione della comunicazione, influenza i processi di costruzione e di diffusione delle rappresentazioni sociali. Ricapitolando, fin qui abbiamo cercato di dire:  che alle persone interessano più le opinioni e le esperienze raccontate dalle altre persone (domini di conoscenza aperti), che una serie di dati scientifici tra i quali districarsi (domini di conoscenza chiusi);  che le opinioni e le esperienze altrui ci servono a prendere decisioni nel nostro quotidiano;  che i sistemi di comunicazione influenzano il modo in cui le rappresentazioni sociali si costruiscono e si diffondono. Come è possibile stabilire il valore delle euristiche sociali? E’ stato detto che compito del KM è trasformare la conoscenza tacita in esplicita. Anche qui proponiamo un approfondimento. Basta parlare di conoscenza tacita ed esplicita, oppure a noi interessa anche sapere da chi proviene quella conoscenza? Un consiglio dato da una persona che stimiamo ed è stimata dagli altri è diverso dal consiglio dato da un'altra persona, che magari gode della disistima degli altri. I nodi di una rete sociale non sono tutti uguali. Alcuni godono di più prestigio, altri di meno. La stessa informazione, pur vera, ha un diverso valore se ci arriva da una persona che stimiamo poco. Bene, il meccanismo è proprio questo: le euristiche (racconti, opinioni, esperienze) dei leader hanno più valore di quelle degli altri. Ma come si diventa leader di opinione all'interno di una rete? La caratteristica peculiare del Web 2.0 Come mai è così interessante il Web 2.0? Perché tutto questo fermento? In fin dei conti, i media c'erano anche prima e la circolazione delle informazioni non è certo una novità. Alcuni dicono che la novità sia il fatto che gli utenti possono generare i propri contenuti (User Generated Content) e diffonderli. Beh, se fosse solo questo il web 2.0 esisterebbe con la nascita del World Wide Web. Anche con il WWW gli utenti generavano contenuti propri, li mettevano sui siti web creati da loro.
  • 8. Forse allora la vera novità è il fatto che questi contenuti possono essere generati in pochi clic e con meno fatica, con aggiornamenti più semplici? Non crediamo. La vera novità, la vera proprietà emergente del web 2.0 è che i feedback all'interno del sistema sono diventati più puntuali, più precisi, più diffusi. La caratteristica peculiare secondo noi è la possibilità per gli utenti di restituire feedback che danno valore alle informazioni prodotte dagli altri. E' il concetto di prestigio. Il sistema di feedback funziona come quello che nella teoria dei sistemi viene chiamato osservatore di secondo livello (un metalivello che gestisce la qualità dei contributi). Feedback di vario tipo: rispondere ad un post, parlare nel proprio blog dei contenuti pubblicati da altri blog o dai mass media, controllare i log, fare una network analysis, ecc. L’altra novità, a nostro parere, è che al contrario dei sistemi di comunicazione di massa, ma anche dell'organizzazione classica, il feedback è distribuito. Tutti possono dire la loro sugli altri. E' un sistema in cui l'osservatore di secondo livello è distribuito fra tutti paritariamente. E' quindi un sistema che permette di far emergere e valorizzare i leader di opinione e di competenza. E questo è molto importante per le euristiche decisionali di coloro che condividono il sistema. Come dire, tutti noi abbiamo una nostra opinione personale sulle cose, ma questa assume più valore se è condivisa con gli altri, ancor più valore se è condivisa da una persona che identifichiamo come leader, ma ancor di più se è condivisa da una persona che anche i nostri simili identificano come leader. E questo è un sistema di feedback positivo, quello per cui Beppe Grillo è al top delle visite. Riprendendo il caso della riunione, io sono interessato a sapere come si fa una riunione? Oppure sono interessato a saperlo dal sig. X che gode di un certo prestigio nel settore? Oppure sono interessato a sapere cosa pensa il mio capo perché la sua opinione conta di più? Se così fosse, non saremmo più all’interno di un sistema di feedback distribuito, ma ci troveremmo in presenza di un nodo di rete (il capo) che distorce il meccanismo esercitando un potere dovuto al ruolo che ricopre (gerarchia), non alla competenza. Conclusioni L'obiettivo, quindi, nel caso di organizzazioni che si occupano di temi che stanno nell’ambito dei domini di conoscenza aperti (quindi di conoscenze che subiscono l’influenza di esperienze, opinioni, mutevoli nel tempo) non è far circolare le conoscenze intese come verità separate da chi le produce, quanto di mettere i soggetti all'interno di un sistema di comunicazione fra nodi in grado di fornire feedback negativi e positivi. Un sistema aperto deve fare del feedback il suo strumento primario per l'adattamento all'ambiente.
  • 9. Ossia, all’interno di domini aperti se io NON posso esprimere il mio feedback la comunicazione è menomata e tutti quanti faremmo “come se” stessimo trattando di Knowledge Management, mentre agiamo all’interno di un sistema comunicativo distorto, teso solo a tenere in piedi determinati assetti di potere (e questo penalizza soprattutto le aziende con una cultura burocratica che faticano ad adattarsi al nuovo, siano esse nuove tecnologie, sia esso un nuovo contesto di mercato). Possiamo dire che questa è gestione della conoscenza? I sistemi per adattarsi gli uni agli altri e al proprio mutevole ambiente, devono poter inviare e ricevere feedback liberamente (o al massimo grado in cui ciò è possibile), e per poter interpretare il feedback occorre che si dotino di osservatori di secondo livello (un metalivello è ad esempio quello per cui stiamo cercando in questo momento delle chiavi di lettura del fenomeno KM in questo articolo). Finché continueremo a trattare il KM nei termini di gestione della conoscenza, cioè di un oggetto che esiste al di là dei rapporti che ci sono all'interno delle organizzazioni, non faremo altro che replicare degli archivi morti in partenza, perché sono sistemi chiusi, ossia immuni al feedback. L'intervento di KM, nell’ambito dei servizi, è invece un intervento di sensibilizzazione sull'importanza dei feedback, sulle relazioni e sulle regole di comunicazione all'interno dell'azienda. Quindi possiamo descriverlo come un intervento di change management. E' in sostanza un intervento sulla rete sociale. Ora, applicare in toto un sistema comunicativo completamente aperto al feedback sarebbe attualmente impensabile all'interno di molte aziende italiane, perché ridurrebbe molto la portata delle gerarchie, “si dice” necessarie a mantenere certi processi produttivi. E lo sarebbe anche per i dipendenti, i quali sarebbero sorpresi di porsi in relazione agli altri secondo criteri di competenza, piuttosto che di amicalità e familismo. Il valore nominale dei collaboratori diverrebbe reale, e il management verrebbe ridotto a potere decisionale. Quindi, questo sistema di nuove relazioni entra in conflitto con il potere? No, se identifichiamo il management come lo staff che ha il potere e la responsabilità di prendere decisioni. Un po' come avviene in giurisprudenza: c'è un sottosistema di accusa e difesa che si prodica per raccogliere e strutturare tutte le informazioni del caso, ma che non può decidere in merito alla sentenza. Quella spetta al giudice, ed avviene secondo criteri che si riferiscono ad un sistema più ampio.
  • 10. La rete dei collaboratori, dunque, ha la responsabilità di produrre una comunicazione orientata al problem solving, mentre il management ha la responsabilità di prendere decisioni anche in base ai feedback che riceve. E questo pensiamo l'abbiano già capito le aziende cui il panorama italiano è solito guardare come fossero marziane: Google e Sun Microsystem, ad esempio.