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La complessità come RISORSA e
non come PROBLEMA
 La complessità del concetto e la pluralità di
definizioni del termine leadership non
devono essere considerati soltanto un
problema, ma prima di tutto, una RISORSA
a disposizione per farsi un’idea di base di
tale processo.
A cura del dott. Bozzi Domenico
Leadership: a proposito delle origini del termine
Dall’inglese: to lead = dirigere, guidare
A sua volta to lead deriva dall’antico Sassone ledian o
Germanico “leiten”, che ancora oggi in tedesco significa
condurre.
In italiano condurre deriva dal Latino:
cum = “assieme, con” e ducere “guidare, condurre”da
cui deriva la parola dux
Quindi, la parola leadership letteralmente significa
conduzione, guida, direzione, da cui il significato di
leader come conducente, condottiero, direttore.
Si fa risalire la nascita del concetto di
leadership al sociologo tedesco Max Weber
che, agli inizi del XX secolo, il quale si
appassionò all’aspetto carismatico di alcuni
leader definendo il concetto di carisma come
«l’attribuzione a una persona, da parte di una
collettività, di qualità ritenute eccezionali per
realizzare una missione collettiva di grande
importanza»
I leader erano in passato considerati modelli di vita e
un noto studioso, Howard Gardner (1995) a tal
proposito dice: «persone che tramite la parola e/o
l'esempio personale, hanno significativamente
influenzato i comportamenti, i pensieri e/o i
sentimenti di un numero rilevante di altri esseri
umani».
Per secoli i leader antichi quali i
sacerdoti, i re, i profeti, sono stati
tramandati sia per tenere memoria di
essi, sia per essere proposti come
modelli di riferimento per il popolo e per
il progresso sociale e la civilizzazione.
Platone, nella Repubblica affermò il
principio della leadership, sostenendo che
vi è chi, «essendo nato e formato per ciò,
deve comandare, governare e guidare gli
altri con un criterio di utile comunitario,
collettivo, verso il quale è responsabile
direttamente» .
Aristotele, nella Politica, non apprezzava
l'assenza di virtù tra coloro che mostravano
interesse per il ruolo di leader.
Machiavelli è considerato il primo importante autore
della leadership (Il principe, 1513), considerando il
leader « come colui che si sarebbe assunto il grande
impegno di fare l'Italia ». Machiavelli sottolinea il
rischio e le difficoltà di esercitare il ruolo di guida.
Per Machiavelli il leader deve raggiungere l'obiettivo
di esercitare il potere e mantenere l'autorità per ben
governare e se non è in grado di raggiungere tali
obiettivi, dimostrandosi quindi debole e non
all'altezza del compito, la conseguenza sarà il caos
morale, con «inganni truffe e tradimenti» (Christie e
Glis, 1970).
Cohn nel 1957 con I fanatici
dell’apocalisse asserisce che
nei movimenti totalitari del XX
secolo sono presenti elementi
tipici del millenarismo, un
fenomeno che risale al
Medioevo ed in particolare alle
dottrine del monaco
Gioacchino da Fiore, e che il
modo di pensare di leader
come Hitler, Rosenberg, Marx e
degli altri era escatologico.
Nel XX secolo, Italia, Germania e
Russia soggette a dittature
totalitarie caratterizzate dalla
concentrazione nel capo di un
potere praticamente assoluto.
. La psicologia ha contribuito molto allo
studio della leadership, analizzando il
rapporto fra leader e folla e fra leader e
massa, soprattutto da parte del francese G.
Le Bon (1841-1931) le cui opere, in
particolare la celebre Psychologie des
foules, vennero studiate dai dittatori
totalitari del XX secolo, i quali basarono il
proprio potere sulla capacità di controllare
e manipolare le masse.
«le persone che fanno parte di una folla provano un
senso immediato di intimità che deriva dalla
proiezione del loro ideale dell’Io sul leader e dalla
identificazione con esso».
Freud, introduce il concetto di investimento libidico nei
confronti di figure amate e temute e che costituiscono un
surrogato del grande padre.
Freud
Psicologia delle masse e analisi dell’io del 1921
La visione freudiana ha ispirato anche l'approccio
alla storia di vita e il metodo della biografia con la
psicoanalisi
Per Turner, (1982 ) «Un gruppo è un
insieme di due o più individui che
interagiscono e dipendono gli uni
dagli altri per il raggiungimento di un
obiettivo comune; il gruppo esiste
quando questi individui definiscono
se stessi come membri e quando la
sua esistenza è riconosciuta da
almeno un altro individuo».
Il concetto di
gruppo
Cooley (1864-1929) sociologo statunitense,
distingue:
Gruppi Primari (o piccoli gruppi) e Gruppi
Secondari. I primari, quali la famiglia o il
gruppo dei compagni di gioco, i gruppi
secondari, molto più estesi dei primi, sono
invece caratterizzati da relazioni indirette e
formali, prevalentemente di tipo contrattuale.
Gruppo d’Appartenenza e Gruppo di
Riferimento. Il primo è il gruppo a cui
l’individuo appartiene e alle cui regole conforma
il proprio comportamento.
Gruppo Interno e Gruppo Esterno.
Il primo è quello in cui una persona è inserita e si
identifica, il secondo è un gruppo a cui l’individuo
non appartiene e verso il quale può nutrire
sentimenti di avversione o di timore.
Gruppo naturale e Gruppo Sperimentale.
Il primo è costituito dalla famiglia o dai compagni
di gioco, il secondo è un gruppo che si costituisce
in vista di uno scopo.
Gruppo Formale e Gruppo Informale.
Il primo è regolato da una precisa strutturazione
delle relazioni interne e delle finalità da
perseguire, il secondo si forma essenzialmente in
base a motivi occasionali.
Il potere può essere definito come l'abilità a influenzare la
condotta degli altri e a resistere alle influenze indesiderate
messe in atto nei propri confronti (McMurray, 1975).
Avallone ritiene che tra i motivi che attivano e sostengono il
comportamento, una particolare rilevanza assume il bisogno
di potere.
Avallone scrive che:
«Bisogno di potere significa desiderio di lasciare la propria
traccia nella realtà, di incidere, di contare, fino ad assumere
la forma dell'esigenza di controllare gli altri, di manipolarli,
di renderli soggetti a sé. Le persone caratterizzate da un
elevato bisogno di potere sono, generalmente, aggressive,
amano la competizione, sono orientate all'azione e pronte a
inserirsi nei gruppi che costituiscono un luogo privilegiato
per esprimere e soddisfare i bisogni di potere».
• La differenza tra leadership e management
oggi appare meno netta rispetto al passato.
• In una organizzazione a volte può essere più
importante amministrare e in altri momenti
maggiore rilievo viene dato al compito di
motivare le persone e di sostenerle nei loro
compiti e guidarle al raggiungimento degli
obiettivi oppure ci sono situazioni in cui
occorre una gestione ora rivolta al compito e
ora che tende a sottolineare i risultati attesi.
Differenza tra Leadership e Management
•Ormai la distinzione tra il leader ed il
manager si è sempre più ridotta e queste due
figure tendono ad avere gli stessi compiti nelle
aziende, per avere successo, serve integrare
le capacità del leader con quelle del manager.
•Management significa portare a termine,
compiere, avere la responsabilità di qualcosa
mentre leadership vuol dire, invece,
influenzare, orientare, dirigere il corso,
l’azione, l’opinione. Per Bennis, W., Nanus, B.
(1985) Manager «è chi fa le cose nel modo
giusto, leader è chi fa le cose giuste».
LA LEADERSHIP: alcune definizioni
Stodgill (1974), eminente figura di primo
piano della ricerca del significato di
leadership, afferma, che: ”ci sono quasi
tante definizioni della leadership quante
sono le persone che hanno tentato di
definirne il concetto”.
Per Yukl, (1994): ”come tutti i costrutti
nelle scienze sociali, la definizione di
leadership è arbitraria e molto soggettiva.
Alcune definizioni sono più utili di altre, ma
non c’è una definizione corretta”.
Leadership: una pluralità di definizioni
Hogan (1994) parla della leadership come una
modalità di «persuadere delle persone a mettere da
parte, per un periodo, i loro obiettivi individuali, con lo
scopo di raggiungere un fine comune, importante per
la responsabilità e il benessere del gruppo». Il
concetto di leadership non è più inteso come dominio
e il leader non obbliga le persone ad obbedirlo
semplicemente perché detiene il potere ma il suo
obiettivo è diverso, è quello di costruire un gruppo che
si prefigge un obiettivo e lo sostiene in questo
percorso.
La leadership è l'attività volta a influenzare le persone che
si impegnano volontariamente su obiettivi di gruppo (A.
Etzioni, 1961).
-Il processo volto a influenzare le attività di un individuo
o di un gruppo che si impegna per il conseguimento di
obiettivi in una determinata situazione (P. Hersey e K.
Blanchard, 1984).
-La complessità dei processi psicologici che
caratterizzano l'esercizio delle funzioni di potere e di
influenzamento nei gruppi (G. Trentini, 1980).
-La leadership può essere riferita, in senso largo, alla
relazione che corre tra un individuo e un gruppo
costituito intorno ad un interesse comune e che in
induce a comportarsi secondo modalità dirette o
comunque determinate dall'individuo medesimo (K.
Schmidt, 1933).
-Il termine leader si riferisce alla persona che è stata
eletta o incaricata o che è emersa dal gruppo per
dirigere e coordinare gli sforzi dei membri del gruppo
stesso in direzione di un dato scopo (Fiedler, 1987).
TEORIA DEI TRATTI O TEORIA DEL
GRANDE UOMO
I primi studi (Stodgill, 1948; Weber, 1946) si
concentrarono sulla ricerca di tratti e caratteristiche
personali di cui l’individuo era dotato e che si
riteneva ne facessero un leader: è la teoria del
grande uomo sorta negli anni ’50 che ipotizza la
necessità, per poter essere un leader, di avere
qualità non solo come intelligenza, fiducia in sé,
forza di volontà, ma anche bellezza, una certa
statura, forza fisica, voce con determinate
caratteristiche, salute, ovvero di essere una persona
speciale.
Galton (1869)
Una prima formulazione della teoria dei
tratti nello studio della leadership risale a
Galton (1869), in Hereditary Genius.
Galton sostiene che alcuni tratti innati,
come ad esempio gli attributi individuali, la
personalità, i bisogni, i motivi, i valori e le
skills (come le abilità a fare certe cose in
maniera efficace) possono predire il
raggiungimento e l’efficacia nelle posizioni
di leadership.
Alcune Critiche alla teoria dei tratti
 Jennings (1961, p.65): «Cinquanta anni di studi non
sono riusciti a produrre un tratto di personalità o un
set di qualità che possano essere usate per
discriminare i leader dai non leader».
 Anche Jukl (1981) riconosce che alcuni tratti
aumentano la probabilità che un leader sarà
efficiente, ma non garantiscono l'efficienza e la
relativa importanza dei differenti tratti dipende dalla
natura della situazione.
 Nello studio dei tratti è l'aver trascurato l'ambiente
come in grado di determinare quali tratti possono
essere più necessari.
 Mancanza di un accordo globale sulla misurazione dei
tratti e sullo strumento da usare.
Questo approccio esamina cosa fanno i leader senza
sapere chi sono in termini di caratteristiche
individuali, sempre, però, alla ricerca di uno stile di
leadership ottimale ed efficace in tutte le situazioni.
La ricerca in questo ambito iniziò negli anni ’40 con
il contributo di ricercatori guidati da Ralph Stodgill
presso l'Ohio State University con uno strumento di
indagine conosciuto con il nome di Leader Behavior
Description Questionnaire (LBDQ) costituito da
descrizioni sul comportamento di un leader.
Lo studio
del comportamento dei leader
 Ancora oggi si usa il LBDQ in versione finale e
contiene una quindicina di voci relative alla
struttura di iniziazione e altrettante relative alla
considerazione. In pratica chi viene intervistato
deve giudicare la frequenza con cui i leader
adottano un comportamento piuttosto che un altro
rispondendo a vari item.
 Gli aspetti negativi di questo approccio sono la sua
estrema semplicità e mancanza di generalizzabilità
oltre all’eccessiva fiducia che le risposte potessero
portare ad uno stile efficiente. Anche in questo
approccio non vengono considerate le variabili
ambientali.
C’è una somiglianza tra i due fattori scoperti dal
gruppo di ricercatori dell’Ohio e le tipologie di
leader che invece Bales notò emergere nelle
discussioni di gruppo di laboratorio, il leader
orientato al compito e il leader orientato alle
relazioni (Bales, Schils, 1953).
In ogni caso Bales pensa che i due ruoli si
pongono solitamente in conflitto e che sono quasi
sempre ricoperti da due persone diverse, il
gruppo dell’Ohio pensa invece che i due ruoli
sono due dimensioni indipendenti del
comportamento del leader ossia non sono
necessariamente né correlate né in conflitto.
Lo stile di leadership, quindi, può, essere
definito dalla combinazione dei relativi
punteggi su queste due dimensioni e a
venirne fuori sono quattro stili di leadership:
•alta considerazione e bassa struttura
d'iniziazione;
•bassa struttura di iniziazione e alta
considerazione;
•alta struttura di iniziazione e alta
considerazione;
•alta struttura di iniziazione e bassa
considerazione.
 Questo approccio però ignora le variabili
ambientali.
 la parte debole è nella sua relativa
semplicità con sole due dimensioni
coinvolte, nella scarsa generalizzabilità e
nella fiducia eccessiva che le risposte al
questionario LBDQ sicuramente potessero
misurare la leadership efficiente,
 inoltre è contestato pure l'assunto che
considerazione e struttura d'iniziazione
siano indipendenti.
L'interesse per la relazione e quello per la produzione
 La griglia manageriale di Blake e Mouton (1964)
esamina l'interesse per la relazione (orientamento al
dipendente, come la fiducia, il rispetto, l'obbedienza) e
l'interesse per la produzione (orientamento al compito,
risultati, prestazioni, profitti) come due fattori
indipendenti ma essenziali fattori per l'efficienza
manageriale. La leadership si esercita su due variabili,
ossia lo stile di comando dei dirigenti:
 interesse per la produzione (risultati, prestazioni,
profitti)
 interesse per le persone (fiducia, rispetto,
obbedienza).
 Lo stile di leadership efficace e duraturo è quello che
media
La griglia manageriale identifica cinque diversi stili
di leadership
 Esaurito
 Circolo ricreativo
 Compito
 Metà strada
 Squadra
La griglia manageriale, quindi, tende a essere un
modello attitudinale che misura i valori o i
sentimenti di un leader, mentre lo schema
dell'Ohio State include dei concetti
comportamentali, oltre a indicatori attitudinali.
La griglia manageriale
non esamina le variabili
situazionali del processo
di leadership.
Il modello di Fiedler (1967)
 Fiedler evidenzia il limite delle teorie sugli stili di
leadership che puntavano alla ricerca dello stile
migliore senza considerare il contesto in cui la
leadership si esplica ed è stato il primo a porre in
evidenza l’importanza del fattore situazionale;
 Fiedler parte dal presupposto che nessun tratto o
comportamento del leader risulta efficace in ogni
contesto, propone un piano teorico che, partendo
dall’analisi della “situazione”, pone in correlazione
la performance del gruppo con lo stile adottato
dal leader.
 Una persona, per Fiedler, reagisce all'ambiente
che lo circonda secondo il modo in cui lo
percepisce. Somministrando un questionario si
chiede ai leader di descrivere la persona con cui,
nel loro percorso formativo, sono riusciti a
lavorare meno bene. Con tale misura si può
determinare quanto il percepiente ritiene che due
persone siano simili o differenti tra di loro. Per
Fiedler questa misura ha una grande importanza
nei rapporti interpersonali di un gruppo e
specialmente nei rapporti del leader con i membri
del gruppo

 Così una persona che considera molto importante
la riuscita sul lavoro, percepirà le persone che lo
aiutano nel lavoro totalmente differenti dalle
persone che gli sono d'impedimento.
 In una prima fase Fiedler (1967) assume che
punteggi alti indicano un orientamento alla
relazione mentre punteggi bassi un orientamento
al compito ma l'esito delle ricerche nel verificare
questa ipotesi è stato però alterno. A questo
punto Fiedler e collaboratori hanno ipotizzato che
il giusto tipo di comportamento dipende anche da
quanto la situazione è favorevole al leader.
 Hanno concepito quindi la leadership come un processo
d'influenza il cui grado di favorevolezza della situazione è
dato dalla combinazione di tre fattori:
 1) la posizione di potere del leader: i leader possono
avere a disposizione molte forme di ricompense o
punizioni, esercitando un’autorità considerevole. Se la loro
posizione è debole essi possono non avere il potere
necessario;
 2) la struttura del compito; Un gruppo, cui è stato
affidato un compito molto semplice, è molto più semplice
da dirigere di un gruppo il cui lavoro sia complesso e
dall’esito molto incerto.
 3) i rapporti interpersonali tra i leader e i
componenti del gruppo: Un leader che lavora in un
clima di fiducia, lealtà e stima da parte del gruppo, troverà
il suo compito molto più piacevole.
 Creato da House e Mitchell 1974 questo modello della
contingenza si basa sugli aspetti motivazionali individuali
nei gruppi. I leader col loro comportamento influenzano la
percezione dei subordinati rispetto al «sentiero verso
l’obiettivo» (path goal) aiutandoli a identificare un certo
percorso per raggiungere gli obiettivi del gruppo.
 La teoria del Percorso-Obiettivo sostiene che
nell'esecuzione dei compiti per raggiungere i risultati
previsti, i risultati rappresentano l'obiettivo mentre i
compiti sono il percorso, pertanto se i compiti sono
eseguiti nella giusta maniera si hanno i risultati e dunque
le ricompense. In questa situazione il compito del leader è
quello di assicurare che il percorso verso l'obiettivo risulti
chiaro ai collaboratori e che non vi siano ostacoli verso il
raggiungimento dell'obiettivo.
Modello del sentiero verso l'obiettivo
Dunque esiste una relazione tra il comportamento del
leader, i fattori situazionali e i risultati. I fattori situazionali
che interagiscono con il comportamento del leader sono le
caratteristiche dei collaboratori e i fattori ambientali.
 Quale stile di leadership? Il ruolo del leader nella teoria del
percorso-obiettivo varia a seconda della situazione. Il
leader dovrebbe ridurre l'incertezza chiarendo le
aspettative circa i risultati desiderati o il modo per ottenerli
(l'incertezza del compito). Secondariamente il leader
dovrebbe rimuovere gli ostacoli alla performance. Infine il
leader dovrebbe cercare di accrescere la valenza percepita
dai collaboratori nei confronti del compito stesso, del
raggiungimento dell'obiettivo o di entrambi.
 Questi studi, in sintesi, suggeriscono che un modo utile per
descrivere la leadership è di distinguere tra leader orientati
ai compiti e leader orientati alle persone
Il modello di Vroom e Yetton
 E’ un modello che fornisce ai leader una struttura
per decidere in base al reale grado di
partecipazione del gruppo. A differenza di altri
modelli situazionali, Vroom e Yetton creano un
modello normativo nel senso che prescrive ai
leader comportamenti «giusti» relativamente al
livello di partecipazione del gruppo.
 Questo modello riguarda gli stili del leader nei
processi decisionali e individua quali stili siano
necessari al leader nelle diverse situazioni. Gli
stili decisionali sono cinque e variano su un
continuum che va dall’autocratico al
partecipativo.
I leader hanno cinque stili decisionali da poter
utilizzare i quali variano lungo un continuum:
 Autocratico (AI) il leader prende le decisioni da
solo senza consultare i membri.
 Autocratico con richiesta d’informazioni ai
collaboratori (AII) il leader decide da solo e i
subordinati sono in parte implicati.
 Consultivo individuale (CI) il leader consulta
individualmente i collaboratori e prende da solo la
decisione.
 Consultivo di gruppo (CII) il leader consulta il
gruppo e prende da solo la decisione.
 Partecipativo (G) il leader condivide il problema col
gruppo per arrivare ad una soluzione consensuale.
 Vroom e Yetton pensano che non ci sia un unico
livello di leadership che va bene in tutte le
situazioni e dunque vogliono trovare lo stile di
leadership da suggerire al leader da adottare in
rapporto alla situazione in cui si trova ad
operare.
 Le critiche al modello sono che i dati utilizzati
per validare la teoria sono scaturiti
dall'autodescrizione da parte dei leader del loro
stile decisionale. Inoltre i metodi sperimentali in
cui si chiede di descrivere una situazione di
successo o di insuccesso sono soggetti al
fenomeno della desiderabilità sociale.
Leadership situazionale
•Vroom ha scritto nel 1976:
«Io non riesco a vedere nessuna forma di
leadership come ottimale per tutte le
situazioni. Il contributo delle azioni di un
leader per l’efficienza della sua
organizzazione non può essere
determinato senza considerare la natura
della situazione in cui il comportamento
viene espletato».
Hersey P., Blanchard K.
Il modello di P. Hersey e K. Blanchard
denominato «leadership situazionale» è anche
noto come life-cycle theory (teoria del ciclo di
vita) dove i due autori nordamericani sostengono
che non esista uno stile di leadership ideale, che
possa cioè essere valido in assoluto ed in tutti i
casi. Per loro i veri leader sono coloro che dopo
aver effettuato una efficace diagnosi riescono ad
adattare il proprio stile alle situazioni i cui
agiscono e l’efficacia scaturisce proprio dal grado
di coerenza del comportamento del leader con il
tipo di situazione in cui, in quel momento, si
trova a dover esercitare il suo ruolo.
«Non esiste – affermano Hersey e
Blanchard nel loro libro «leadership
situazionale»– un unico modo, migliore di
tutti gli altri, per influenzare le persone.
Lo stile di leadership che una persona
dovrebbe utilizzare con gli individui o con i
gruppi dipende dal livello di maturità delle
persone che il leader sta tentando di
influenzare».
La novità della loro teoria sta proprio nel
prevedere un diverso stile gestionale in
funzione del contesto e del diverso livello
di maturità presente nei collaboratori.
 La loro teoria delinea quattro
modalità diverse di gestione della
leadership
(delegare, partecipare, vendere,
prescrivere)
e quattro diversi livelli di Maturità,
indicati con la lettera M, posseduti dai
collaboratori del leader.
 Gli stili di leadership sono:
 Stile direttivo (S1) chiamato telling
(alto orientamento al compito, basso alle relazioni),
 - Stile persuasivo (S2) chiamato selling
(alto orientamento al compito, alto alle relazioni),
 Stile partecipativo (S3) denominato
partecipating (
basso orientamento al compito, alto alle relazioni)
 Stile delegante (S4) chiamato delegating
(basso orientamento al compito, basso alle
relazioni)
 Per Hersey e Blanchard uno degli aspetti più critici che il leader deve
prendere in considerazione è la maturità dei propri collaboratori. Per
questo motivo essi hanno suddiviso la maturità delle persone in quattro
possibili livelli, così come hanno fatto con gli stili di leadership:
 livello: maturità bassa - M1
 livello: maturità medio-bassa – M2
 livello: maturità medio-alta – M3
 livello: maturità alta. – M4
Si parla di quattro stili di leadership, in
quanto secondo gli Autori, ai quattro livelli
prima riportati corrispondono, altrettanti stili
di leadership efficaci, pertanto è possibile
abbinare la maturità e lo stile:
 Dipendenti con maturità bassa, avremo uno
stile di leadership direttivo;
 dipendenti con maturità medio-bassa,
avremo uno stile di leadership persuasivo;
 dipendenti con maturità medio-alta, avremo
uno stile di leadership partecipativo;
 Dipendenti con maturità alta, avremo uno
stile di leadership delegante.
Il leader come causa plausibile di un evento
 Per Calder e Pfeffer (1977) la teoria dell’attribuzione causale
possa essere un modello appropriato per capire come viene
percepita la leadership in un gruppo. Per essi la leadership
esiste solo come percezione derivata dalle inferenze fatte sul
comportamento e/o sui suoi effetti poiché è un processo che
dipende dalle attribuzioni fatte dai componenti del gruppo
più che dalle azioni del leader (Calder, 1977) e che la
leadership è una qualità personale che può essere giudicata
soltanto dagli osservatori o sulla base di particolari
comportamenti assunti dal leader o sulla base delle
conseguenze associate a tali comportamenti. Solo il
comportamento e i risultati che ne derivano vengono
accettati, quindi, come potenziali rivelatori della leadership e
riescono a distinguere un soggetto da un altro, quando sono
visti originati da qualità personali del soggetto.
La teoria delle risorse cognitive
 Fiedler e collaboratori (Fiedler, Potter, Zais, Knowlton, 1979) hanno
studiato gli effetti dello stress sulla performance. Loro sostengono che
lo stress interpersonale influenzi ed entri in gioco nel rapporto diretto
tra l’intelligenza e la conoscenza tecnica e le decisioni del leader e le
sue azioni pratiche. Essi hanno trovato che l’interpersonal stress
(causato da problemi interpersonali che possono verificarsi coi
collaboratori o col diretto superiore) distrae il leader dal lavoro vero e
proprio in quanto fa confluire tutti i suoi pensieri e tutte le sue energie
nel tentativo di cercare una via d’uscita alla situazione stressante. In
tale circostanza di forte stress interpersonale il leader sarà meno in
grado di usare le sue abilità intellettuali nel lavoro, così farà
maggiormente ricorso alla propria esperienza e risolverà i problemi
lavorativi in base di altri problemi che ha precedentemente risolto,
pertanto secondo i ricercatori, in una situazione di basso stress
interpersonale, i leader usano la loro intelligenza più dell’esperienza,
invece in situazione con alto stress interpersonale i leader ricorreranno
maggiormente all’esperienza accumulata senza cercare nuove soluzioni
ai problemi che si presentano loro.
Leadership carismatica
 Negli studi sulla leadership carismatica l’attenzione è rivolta ai collaboratori del
leader, sulla loro risposta emozionale ad esso. Tali teorie descrivono il leader
in termini di colui che articola una visione e una missione e che cerca di
creare e mantenere un’immagine positiva nelle menti sia dei collaboratori che
dei superiori. A differenza delle precedenti teorie, esse sostengono che il
leader riesce a cambiare i valori, gli obiettivi, i bisogni e le disposizioni dei
collaboratori facendo diventare loro la sua visione, non limitandosi ad allineare
gli obiettivi degli individui con gli obiettivi organizzativi. I leader carismatici
cambiano i corsi dell’azione e degli eventi mentre i leader transazionali
migliorano le situazioni esistenti. I leader, ora, vengono studiati per l’effetto
che hanno sulle emozioni e sull’autostima dei collaboratori, piuttosto che per
le loro variabili cognitive e le loro abilità. House (1977, p. 190) suggerisce che
la leadership carismatica dovrebbe essere definita secondo i suoi effetti: « […]
i leader carismatici sono quelli che hanno effetti carismatici sui seguaci in un
grado altamente insolito». Gli effetti che
 Secondo Boarl e Bryson possiamo avere due tipi di leader carismatici, i
visionari e quelli prodotti dalla crisi, entrambi cercano di creare e costruire un
nuovo e differente mondo che sia valido per lui e per i suoi collaboratori

La leadership trasformazionale e quella
transazionale
 L’approccio dei tratti, quelli
comportamentali e quelli delle
contingenze si concentrano
principalmente sul leader, su cosa fa o
è, mentre le teorie del processo di
leadership spiegano i processi
attraverso i quali si sviluppa la relazione
tra i leader e i collaboratori o potenziali
follower.
 La leadership trasformazionale è legata al concetto di
empowerment, dove il leader è «colui che è capace di
incoraggiare i propri collaboratori a fare più di quello che in
origine essi si aspettavano di fare» (Bass, 1985, p. 20); egli
è agente di cambiamento e ricopre il ruolo di guida e di
motivatore.
 Nell’approccio transazionale essere leader non è più vista
né una questione individuale né una questione situazionale-
contingente legata al compito che il gruppo deve affrontare
né è l’interazione di entrambe, ma dipende dagli scambi tra
leader e seguaci nel corso dell’interazione a partire dal
primissimo istante in cui essa ha inizio. Si comincia a
considerare l’importanza della percezione sociale nella
nascita di un leader.
La leadership trasformazionale e quella
transazionale

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Breve storia della Leadership. Teorie principali. A brief history of leadership . Main theories.

  • 1. La complessità come RISORSA e non come PROBLEMA  La complessità del concetto e la pluralità di definizioni del termine leadership non devono essere considerati soltanto un problema, ma prima di tutto, una RISORSA a disposizione per farsi un’idea di base di tale processo. A cura del dott. Bozzi Domenico
  • 2. Leadership: a proposito delle origini del termine Dall’inglese: to lead = dirigere, guidare A sua volta to lead deriva dall’antico Sassone ledian o Germanico “leiten”, che ancora oggi in tedesco significa condurre. In italiano condurre deriva dal Latino: cum = “assieme, con” e ducere “guidare, condurre”da cui deriva la parola dux Quindi, la parola leadership letteralmente significa conduzione, guida, direzione, da cui il significato di leader come conducente, condottiero, direttore.
  • 3. Si fa risalire la nascita del concetto di leadership al sociologo tedesco Max Weber che, agli inizi del XX secolo, il quale si appassionò all’aspetto carismatico di alcuni leader definendo il concetto di carisma come «l’attribuzione a una persona, da parte di una collettività, di qualità ritenute eccezionali per realizzare una missione collettiva di grande importanza»
  • 4. I leader erano in passato considerati modelli di vita e un noto studioso, Howard Gardner (1995) a tal proposito dice: «persone che tramite la parola e/o l'esempio personale, hanno significativamente influenzato i comportamenti, i pensieri e/o i sentimenti di un numero rilevante di altri esseri umani». Per secoli i leader antichi quali i sacerdoti, i re, i profeti, sono stati tramandati sia per tenere memoria di essi, sia per essere proposti come modelli di riferimento per il popolo e per il progresso sociale e la civilizzazione.
  • 5. Platone, nella Repubblica affermò il principio della leadership, sostenendo che vi è chi, «essendo nato e formato per ciò, deve comandare, governare e guidare gli altri con un criterio di utile comunitario, collettivo, verso il quale è responsabile direttamente» . Aristotele, nella Politica, non apprezzava l'assenza di virtù tra coloro che mostravano interesse per il ruolo di leader.
  • 6. Machiavelli è considerato il primo importante autore della leadership (Il principe, 1513), considerando il leader « come colui che si sarebbe assunto il grande impegno di fare l'Italia ». Machiavelli sottolinea il rischio e le difficoltà di esercitare il ruolo di guida. Per Machiavelli il leader deve raggiungere l'obiettivo di esercitare il potere e mantenere l'autorità per ben governare e se non è in grado di raggiungere tali obiettivi, dimostrandosi quindi debole e non all'altezza del compito, la conseguenza sarà il caos morale, con «inganni truffe e tradimenti» (Christie e Glis, 1970).
  • 7. Cohn nel 1957 con I fanatici dell’apocalisse asserisce che nei movimenti totalitari del XX secolo sono presenti elementi tipici del millenarismo, un fenomeno che risale al Medioevo ed in particolare alle dottrine del monaco Gioacchino da Fiore, e che il modo di pensare di leader come Hitler, Rosenberg, Marx e degli altri era escatologico.
  • 8. Nel XX secolo, Italia, Germania e Russia soggette a dittature totalitarie caratterizzate dalla concentrazione nel capo di un potere praticamente assoluto. . La psicologia ha contribuito molto allo studio della leadership, analizzando il rapporto fra leader e folla e fra leader e massa, soprattutto da parte del francese G. Le Bon (1841-1931) le cui opere, in particolare la celebre Psychologie des foules, vennero studiate dai dittatori totalitari del XX secolo, i quali basarono il proprio potere sulla capacità di controllare e manipolare le masse.
  • 9. «le persone che fanno parte di una folla provano un senso immediato di intimità che deriva dalla proiezione del loro ideale dell’Io sul leader e dalla identificazione con esso». Freud, introduce il concetto di investimento libidico nei confronti di figure amate e temute e che costituiscono un surrogato del grande padre. Freud Psicologia delle masse e analisi dell’io del 1921 La visione freudiana ha ispirato anche l'approccio alla storia di vita e il metodo della biografia con la psicoanalisi
  • 10.
  • 11. Per Turner, (1982 ) «Un gruppo è un insieme di due o più individui che interagiscono e dipendono gli uni dagli altri per il raggiungimento di un obiettivo comune; il gruppo esiste quando questi individui definiscono se stessi come membri e quando la sua esistenza è riconosciuta da almeno un altro individuo». Il concetto di gruppo
  • 12. Cooley (1864-1929) sociologo statunitense, distingue: Gruppi Primari (o piccoli gruppi) e Gruppi Secondari. I primari, quali la famiglia o il gruppo dei compagni di gioco, i gruppi secondari, molto più estesi dei primi, sono invece caratterizzati da relazioni indirette e formali, prevalentemente di tipo contrattuale. Gruppo d’Appartenenza e Gruppo di Riferimento. Il primo è il gruppo a cui l’individuo appartiene e alle cui regole conforma il proprio comportamento.
  • 13. Gruppo Interno e Gruppo Esterno. Il primo è quello in cui una persona è inserita e si identifica, il secondo è un gruppo a cui l’individuo non appartiene e verso il quale può nutrire sentimenti di avversione o di timore. Gruppo naturale e Gruppo Sperimentale. Il primo è costituito dalla famiglia o dai compagni di gioco, il secondo è un gruppo che si costituisce in vista di uno scopo. Gruppo Formale e Gruppo Informale. Il primo è regolato da una precisa strutturazione delle relazioni interne e delle finalità da perseguire, il secondo si forma essenzialmente in base a motivi occasionali.
  • 14. Il potere può essere definito come l'abilità a influenzare la condotta degli altri e a resistere alle influenze indesiderate messe in atto nei propri confronti (McMurray, 1975). Avallone ritiene che tra i motivi che attivano e sostengono il comportamento, una particolare rilevanza assume il bisogno di potere. Avallone scrive che: «Bisogno di potere significa desiderio di lasciare la propria traccia nella realtà, di incidere, di contare, fino ad assumere la forma dell'esigenza di controllare gli altri, di manipolarli, di renderli soggetti a sé. Le persone caratterizzate da un elevato bisogno di potere sono, generalmente, aggressive, amano la competizione, sono orientate all'azione e pronte a inserirsi nei gruppi che costituiscono un luogo privilegiato per esprimere e soddisfare i bisogni di potere».
  • 15. • La differenza tra leadership e management oggi appare meno netta rispetto al passato. • In una organizzazione a volte può essere più importante amministrare e in altri momenti maggiore rilievo viene dato al compito di motivare le persone e di sostenerle nei loro compiti e guidarle al raggiungimento degli obiettivi oppure ci sono situazioni in cui occorre una gestione ora rivolta al compito e ora che tende a sottolineare i risultati attesi. Differenza tra Leadership e Management
  • 16. •Ormai la distinzione tra il leader ed il manager si è sempre più ridotta e queste due figure tendono ad avere gli stessi compiti nelle aziende, per avere successo, serve integrare le capacità del leader con quelle del manager. •Management significa portare a termine, compiere, avere la responsabilità di qualcosa mentre leadership vuol dire, invece, influenzare, orientare, dirigere il corso, l’azione, l’opinione. Per Bennis, W., Nanus, B. (1985) Manager «è chi fa le cose nel modo giusto, leader è chi fa le cose giuste».
  • 17. LA LEADERSHIP: alcune definizioni Stodgill (1974), eminente figura di primo piano della ricerca del significato di leadership, afferma, che: ”ci sono quasi tante definizioni della leadership quante sono le persone che hanno tentato di definirne il concetto”. Per Yukl, (1994): ”come tutti i costrutti nelle scienze sociali, la definizione di leadership è arbitraria e molto soggettiva. Alcune definizioni sono più utili di altre, ma non c’è una definizione corretta”.
  • 18. Leadership: una pluralità di definizioni Hogan (1994) parla della leadership come una modalità di «persuadere delle persone a mettere da parte, per un periodo, i loro obiettivi individuali, con lo scopo di raggiungere un fine comune, importante per la responsabilità e il benessere del gruppo». Il concetto di leadership non è più inteso come dominio e il leader non obbliga le persone ad obbedirlo semplicemente perché detiene il potere ma il suo obiettivo è diverso, è quello di costruire un gruppo che si prefigge un obiettivo e lo sostiene in questo percorso. La leadership è l'attività volta a influenzare le persone che si impegnano volontariamente su obiettivi di gruppo (A. Etzioni, 1961).
  • 19. -Il processo volto a influenzare le attività di un individuo o di un gruppo che si impegna per il conseguimento di obiettivi in una determinata situazione (P. Hersey e K. Blanchard, 1984). -La complessità dei processi psicologici che caratterizzano l'esercizio delle funzioni di potere e di influenzamento nei gruppi (G. Trentini, 1980). -La leadership può essere riferita, in senso largo, alla relazione che corre tra un individuo e un gruppo costituito intorno ad un interesse comune e che in induce a comportarsi secondo modalità dirette o comunque determinate dall'individuo medesimo (K. Schmidt, 1933). -Il termine leader si riferisce alla persona che è stata eletta o incaricata o che è emersa dal gruppo per dirigere e coordinare gli sforzi dei membri del gruppo stesso in direzione di un dato scopo (Fiedler, 1987).
  • 20. TEORIA DEI TRATTI O TEORIA DEL GRANDE UOMO I primi studi (Stodgill, 1948; Weber, 1946) si concentrarono sulla ricerca di tratti e caratteristiche personali di cui l’individuo era dotato e che si riteneva ne facessero un leader: è la teoria del grande uomo sorta negli anni ’50 che ipotizza la necessità, per poter essere un leader, di avere qualità non solo come intelligenza, fiducia in sé, forza di volontà, ma anche bellezza, una certa statura, forza fisica, voce con determinate caratteristiche, salute, ovvero di essere una persona speciale.
  • 21. Galton (1869) Una prima formulazione della teoria dei tratti nello studio della leadership risale a Galton (1869), in Hereditary Genius. Galton sostiene che alcuni tratti innati, come ad esempio gli attributi individuali, la personalità, i bisogni, i motivi, i valori e le skills (come le abilità a fare certe cose in maniera efficace) possono predire il raggiungimento e l’efficacia nelle posizioni di leadership.
  • 22. Alcune Critiche alla teoria dei tratti  Jennings (1961, p.65): «Cinquanta anni di studi non sono riusciti a produrre un tratto di personalità o un set di qualità che possano essere usate per discriminare i leader dai non leader».  Anche Jukl (1981) riconosce che alcuni tratti aumentano la probabilità che un leader sarà efficiente, ma non garantiscono l'efficienza e la relativa importanza dei differenti tratti dipende dalla natura della situazione.  Nello studio dei tratti è l'aver trascurato l'ambiente come in grado di determinare quali tratti possono essere più necessari.  Mancanza di un accordo globale sulla misurazione dei tratti e sullo strumento da usare.
  • 23. Questo approccio esamina cosa fanno i leader senza sapere chi sono in termini di caratteristiche individuali, sempre, però, alla ricerca di uno stile di leadership ottimale ed efficace in tutte le situazioni. La ricerca in questo ambito iniziò negli anni ’40 con il contributo di ricercatori guidati da Ralph Stodgill presso l'Ohio State University con uno strumento di indagine conosciuto con il nome di Leader Behavior Description Questionnaire (LBDQ) costituito da descrizioni sul comportamento di un leader. Lo studio del comportamento dei leader
  • 24.  Ancora oggi si usa il LBDQ in versione finale e contiene una quindicina di voci relative alla struttura di iniziazione e altrettante relative alla considerazione. In pratica chi viene intervistato deve giudicare la frequenza con cui i leader adottano un comportamento piuttosto che un altro rispondendo a vari item.  Gli aspetti negativi di questo approccio sono la sua estrema semplicità e mancanza di generalizzabilità oltre all’eccessiva fiducia che le risposte potessero portare ad uno stile efficiente. Anche in questo approccio non vengono considerate le variabili ambientali.
  • 25. C’è una somiglianza tra i due fattori scoperti dal gruppo di ricercatori dell’Ohio e le tipologie di leader che invece Bales notò emergere nelle discussioni di gruppo di laboratorio, il leader orientato al compito e il leader orientato alle relazioni (Bales, Schils, 1953). In ogni caso Bales pensa che i due ruoli si pongono solitamente in conflitto e che sono quasi sempre ricoperti da due persone diverse, il gruppo dell’Ohio pensa invece che i due ruoli sono due dimensioni indipendenti del comportamento del leader ossia non sono necessariamente né correlate né in conflitto.
  • 26. Lo stile di leadership, quindi, può, essere definito dalla combinazione dei relativi punteggi su queste due dimensioni e a venirne fuori sono quattro stili di leadership: •alta considerazione e bassa struttura d'iniziazione; •bassa struttura di iniziazione e alta considerazione; •alta struttura di iniziazione e alta considerazione; •alta struttura di iniziazione e bassa considerazione.
  • 27.  Questo approccio però ignora le variabili ambientali.  la parte debole è nella sua relativa semplicità con sole due dimensioni coinvolte, nella scarsa generalizzabilità e nella fiducia eccessiva che le risposte al questionario LBDQ sicuramente potessero misurare la leadership efficiente,  inoltre è contestato pure l'assunto che considerazione e struttura d'iniziazione siano indipendenti.
  • 28. L'interesse per la relazione e quello per la produzione  La griglia manageriale di Blake e Mouton (1964) esamina l'interesse per la relazione (orientamento al dipendente, come la fiducia, il rispetto, l'obbedienza) e l'interesse per la produzione (orientamento al compito, risultati, prestazioni, profitti) come due fattori indipendenti ma essenziali fattori per l'efficienza manageriale. La leadership si esercita su due variabili, ossia lo stile di comando dei dirigenti:  interesse per la produzione (risultati, prestazioni, profitti)  interesse per le persone (fiducia, rispetto, obbedienza).  Lo stile di leadership efficace e duraturo è quello che media
  • 29. La griglia manageriale identifica cinque diversi stili di leadership  Esaurito  Circolo ricreativo  Compito  Metà strada  Squadra La griglia manageriale, quindi, tende a essere un modello attitudinale che misura i valori o i sentimenti di un leader, mentre lo schema dell'Ohio State include dei concetti comportamentali, oltre a indicatori attitudinali.
  • 30. La griglia manageriale non esamina le variabili situazionali del processo di leadership.
  • 31. Il modello di Fiedler (1967)  Fiedler evidenzia il limite delle teorie sugli stili di leadership che puntavano alla ricerca dello stile migliore senza considerare il contesto in cui la leadership si esplica ed è stato il primo a porre in evidenza l’importanza del fattore situazionale;  Fiedler parte dal presupposto che nessun tratto o comportamento del leader risulta efficace in ogni contesto, propone un piano teorico che, partendo dall’analisi della “situazione”, pone in correlazione la performance del gruppo con lo stile adottato dal leader.
  • 32.  Una persona, per Fiedler, reagisce all'ambiente che lo circonda secondo il modo in cui lo percepisce. Somministrando un questionario si chiede ai leader di descrivere la persona con cui, nel loro percorso formativo, sono riusciti a lavorare meno bene. Con tale misura si può determinare quanto il percepiente ritiene che due persone siano simili o differenti tra di loro. Per Fiedler questa misura ha una grande importanza nei rapporti interpersonali di un gruppo e specialmente nei rapporti del leader con i membri del gruppo 
  • 33.  Così una persona che considera molto importante la riuscita sul lavoro, percepirà le persone che lo aiutano nel lavoro totalmente differenti dalle persone che gli sono d'impedimento.  In una prima fase Fiedler (1967) assume che punteggi alti indicano un orientamento alla relazione mentre punteggi bassi un orientamento al compito ma l'esito delle ricerche nel verificare questa ipotesi è stato però alterno. A questo punto Fiedler e collaboratori hanno ipotizzato che il giusto tipo di comportamento dipende anche da quanto la situazione è favorevole al leader.
  • 34.  Hanno concepito quindi la leadership come un processo d'influenza il cui grado di favorevolezza della situazione è dato dalla combinazione di tre fattori:  1) la posizione di potere del leader: i leader possono avere a disposizione molte forme di ricompense o punizioni, esercitando un’autorità considerevole. Se la loro posizione è debole essi possono non avere il potere necessario;  2) la struttura del compito; Un gruppo, cui è stato affidato un compito molto semplice, è molto più semplice da dirigere di un gruppo il cui lavoro sia complesso e dall’esito molto incerto.  3) i rapporti interpersonali tra i leader e i componenti del gruppo: Un leader che lavora in un clima di fiducia, lealtà e stima da parte del gruppo, troverà il suo compito molto più piacevole.
  • 35.  Creato da House e Mitchell 1974 questo modello della contingenza si basa sugli aspetti motivazionali individuali nei gruppi. I leader col loro comportamento influenzano la percezione dei subordinati rispetto al «sentiero verso l’obiettivo» (path goal) aiutandoli a identificare un certo percorso per raggiungere gli obiettivi del gruppo.  La teoria del Percorso-Obiettivo sostiene che nell'esecuzione dei compiti per raggiungere i risultati previsti, i risultati rappresentano l'obiettivo mentre i compiti sono il percorso, pertanto se i compiti sono eseguiti nella giusta maniera si hanno i risultati e dunque le ricompense. In questa situazione il compito del leader è quello di assicurare che il percorso verso l'obiettivo risulti chiaro ai collaboratori e che non vi siano ostacoli verso il raggiungimento dell'obiettivo. Modello del sentiero verso l'obiettivo
  • 36. Dunque esiste una relazione tra il comportamento del leader, i fattori situazionali e i risultati. I fattori situazionali che interagiscono con il comportamento del leader sono le caratteristiche dei collaboratori e i fattori ambientali.  Quale stile di leadership? Il ruolo del leader nella teoria del percorso-obiettivo varia a seconda della situazione. Il leader dovrebbe ridurre l'incertezza chiarendo le aspettative circa i risultati desiderati o il modo per ottenerli (l'incertezza del compito). Secondariamente il leader dovrebbe rimuovere gli ostacoli alla performance. Infine il leader dovrebbe cercare di accrescere la valenza percepita dai collaboratori nei confronti del compito stesso, del raggiungimento dell'obiettivo o di entrambi.  Questi studi, in sintesi, suggeriscono che un modo utile per descrivere la leadership è di distinguere tra leader orientati ai compiti e leader orientati alle persone
  • 37. Il modello di Vroom e Yetton  E’ un modello che fornisce ai leader una struttura per decidere in base al reale grado di partecipazione del gruppo. A differenza di altri modelli situazionali, Vroom e Yetton creano un modello normativo nel senso che prescrive ai leader comportamenti «giusti» relativamente al livello di partecipazione del gruppo.  Questo modello riguarda gli stili del leader nei processi decisionali e individua quali stili siano necessari al leader nelle diverse situazioni. Gli stili decisionali sono cinque e variano su un continuum che va dall’autocratico al partecipativo.
  • 38. I leader hanno cinque stili decisionali da poter utilizzare i quali variano lungo un continuum:  Autocratico (AI) il leader prende le decisioni da solo senza consultare i membri.  Autocratico con richiesta d’informazioni ai collaboratori (AII) il leader decide da solo e i subordinati sono in parte implicati.  Consultivo individuale (CI) il leader consulta individualmente i collaboratori e prende da solo la decisione.  Consultivo di gruppo (CII) il leader consulta il gruppo e prende da solo la decisione.  Partecipativo (G) il leader condivide il problema col gruppo per arrivare ad una soluzione consensuale.
  • 39.  Vroom e Yetton pensano che non ci sia un unico livello di leadership che va bene in tutte le situazioni e dunque vogliono trovare lo stile di leadership da suggerire al leader da adottare in rapporto alla situazione in cui si trova ad operare.  Le critiche al modello sono che i dati utilizzati per validare la teoria sono scaturiti dall'autodescrizione da parte dei leader del loro stile decisionale. Inoltre i metodi sperimentali in cui si chiede di descrivere una situazione di successo o di insuccesso sono soggetti al fenomeno della desiderabilità sociale.
  • 40. Leadership situazionale •Vroom ha scritto nel 1976: «Io non riesco a vedere nessuna forma di leadership come ottimale per tutte le situazioni. Il contributo delle azioni di un leader per l’efficienza della sua organizzazione non può essere determinato senza considerare la natura della situazione in cui il comportamento viene espletato».
  • 41. Hersey P., Blanchard K. Il modello di P. Hersey e K. Blanchard denominato «leadership situazionale» è anche noto come life-cycle theory (teoria del ciclo di vita) dove i due autori nordamericani sostengono che non esista uno stile di leadership ideale, che possa cioè essere valido in assoluto ed in tutti i casi. Per loro i veri leader sono coloro che dopo aver effettuato una efficace diagnosi riescono ad adattare il proprio stile alle situazioni i cui agiscono e l’efficacia scaturisce proprio dal grado di coerenza del comportamento del leader con il tipo di situazione in cui, in quel momento, si trova a dover esercitare il suo ruolo.
  • 42. «Non esiste – affermano Hersey e Blanchard nel loro libro «leadership situazionale»– un unico modo, migliore di tutti gli altri, per influenzare le persone. Lo stile di leadership che una persona dovrebbe utilizzare con gli individui o con i gruppi dipende dal livello di maturità delle persone che il leader sta tentando di influenzare». La novità della loro teoria sta proprio nel prevedere un diverso stile gestionale in funzione del contesto e del diverso livello di maturità presente nei collaboratori.
  • 43.  La loro teoria delinea quattro modalità diverse di gestione della leadership (delegare, partecipare, vendere, prescrivere) e quattro diversi livelli di Maturità, indicati con la lettera M, posseduti dai collaboratori del leader.
  • 44.  Gli stili di leadership sono:  Stile direttivo (S1) chiamato telling (alto orientamento al compito, basso alle relazioni),  - Stile persuasivo (S2) chiamato selling (alto orientamento al compito, alto alle relazioni),  Stile partecipativo (S3) denominato partecipating ( basso orientamento al compito, alto alle relazioni)  Stile delegante (S4) chiamato delegating (basso orientamento al compito, basso alle relazioni)
  • 45.  Per Hersey e Blanchard uno degli aspetti più critici che il leader deve prendere in considerazione è la maturità dei propri collaboratori. Per questo motivo essi hanno suddiviso la maturità delle persone in quattro possibili livelli, così come hanno fatto con gli stili di leadership:  livello: maturità bassa - M1  livello: maturità medio-bassa – M2  livello: maturità medio-alta – M3  livello: maturità alta. – M4
  • 46. Si parla di quattro stili di leadership, in quanto secondo gli Autori, ai quattro livelli prima riportati corrispondono, altrettanti stili di leadership efficaci, pertanto è possibile abbinare la maturità e lo stile:  Dipendenti con maturità bassa, avremo uno stile di leadership direttivo;  dipendenti con maturità medio-bassa, avremo uno stile di leadership persuasivo;  dipendenti con maturità medio-alta, avremo uno stile di leadership partecipativo;  Dipendenti con maturità alta, avremo uno stile di leadership delegante.
  • 47. Il leader come causa plausibile di un evento  Per Calder e Pfeffer (1977) la teoria dell’attribuzione causale possa essere un modello appropriato per capire come viene percepita la leadership in un gruppo. Per essi la leadership esiste solo come percezione derivata dalle inferenze fatte sul comportamento e/o sui suoi effetti poiché è un processo che dipende dalle attribuzioni fatte dai componenti del gruppo più che dalle azioni del leader (Calder, 1977) e che la leadership è una qualità personale che può essere giudicata soltanto dagli osservatori o sulla base di particolari comportamenti assunti dal leader o sulla base delle conseguenze associate a tali comportamenti. Solo il comportamento e i risultati che ne derivano vengono accettati, quindi, come potenziali rivelatori della leadership e riescono a distinguere un soggetto da un altro, quando sono visti originati da qualità personali del soggetto.
  • 48. La teoria delle risorse cognitive  Fiedler e collaboratori (Fiedler, Potter, Zais, Knowlton, 1979) hanno studiato gli effetti dello stress sulla performance. Loro sostengono che lo stress interpersonale influenzi ed entri in gioco nel rapporto diretto tra l’intelligenza e la conoscenza tecnica e le decisioni del leader e le sue azioni pratiche. Essi hanno trovato che l’interpersonal stress (causato da problemi interpersonali che possono verificarsi coi collaboratori o col diretto superiore) distrae il leader dal lavoro vero e proprio in quanto fa confluire tutti i suoi pensieri e tutte le sue energie nel tentativo di cercare una via d’uscita alla situazione stressante. In tale circostanza di forte stress interpersonale il leader sarà meno in grado di usare le sue abilità intellettuali nel lavoro, così farà maggiormente ricorso alla propria esperienza e risolverà i problemi lavorativi in base di altri problemi che ha precedentemente risolto, pertanto secondo i ricercatori, in una situazione di basso stress interpersonale, i leader usano la loro intelligenza più dell’esperienza, invece in situazione con alto stress interpersonale i leader ricorreranno maggiormente all’esperienza accumulata senza cercare nuove soluzioni ai problemi che si presentano loro.
  • 49. Leadership carismatica  Negli studi sulla leadership carismatica l’attenzione è rivolta ai collaboratori del leader, sulla loro risposta emozionale ad esso. Tali teorie descrivono il leader in termini di colui che articola una visione e una missione e che cerca di creare e mantenere un’immagine positiva nelle menti sia dei collaboratori che dei superiori. A differenza delle precedenti teorie, esse sostengono che il leader riesce a cambiare i valori, gli obiettivi, i bisogni e le disposizioni dei collaboratori facendo diventare loro la sua visione, non limitandosi ad allineare gli obiettivi degli individui con gli obiettivi organizzativi. I leader carismatici cambiano i corsi dell’azione e degli eventi mentre i leader transazionali migliorano le situazioni esistenti. I leader, ora, vengono studiati per l’effetto che hanno sulle emozioni e sull’autostima dei collaboratori, piuttosto che per le loro variabili cognitive e le loro abilità. House (1977, p. 190) suggerisce che la leadership carismatica dovrebbe essere definita secondo i suoi effetti: « […] i leader carismatici sono quelli che hanno effetti carismatici sui seguaci in un grado altamente insolito». Gli effetti che  Secondo Boarl e Bryson possiamo avere due tipi di leader carismatici, i visionari e quelli prodotti dalla crisi, entrambi cercano di creare e costruire un nuovo e differente mondo che sia valido per lui e per i suoi collaboratori 
  • 50. La leadership trasformazionale e quella transazionale  L’approccio dei tratti, quelli comportamentali e quelli delle contingenze si concentrano principalmente sul leader, su cosa fa o è, mentre le teorie del processo di leadership spiegano i processi attraverso i quali si sviluppa la relazione tra i leader e i collaboratori o potenziali follower.
  • 51.  La leadership trasformazionale è legata al concetto di empowerment, dove il leader è «colui che è capace di incoraggiare i propri collaboratori a fare più di quello che in origine essi si aspettavano di fare» (Bass, 1985, p. 20); egli è agente di cambiamento e ricopre il ruolo di guida e di motivatore.  Nell’approccio transazionale essere leader non è più vista né una questione individuale né una questione situazionale- contingente legata al compito che il gruppo deve affrontare né è l’interazione di entrambe, ma dipende dagli scambi tra leader e seguaci nel corso dell’interazione a partire dal primissimo istante in cui essa ha inizio. Si comincia a considerare l’importanza della percezione sociale nella nascita di un leader. La leadership trasformazionale e quella transazionale