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Il Decamerone o Decameron (dal greco antico, δἐκα, déka, "dieci", ed ἡμέρα, hēméra "giorno",
con il significato di "[opera di] dieci giorni"[1]) è una raccolta di cento novelle scritta nel Trecento
(probabilmente tra il 1349 ed il 1351) da Giovanni Boccaccio.

È considerata, nel contesto del Trecento europeo, una delle opere più importanti della letteratura,
fondatrice della letteratura in prosa in volgare italiano. Ebbe larghissima influenza non solo nella
letteratura italiana ed europea (si pensi solo ai Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer), ma anche
nelle lettere future, ispirando l'ideale di vita edonistica e dedicata al piacere ed al culto del viver
sereno tipici della cultura umanista e rinascimentale (che si traduce per esempio nel celebre Trionfo
di Bacco e Arianna, composizione poetica di Lorenzo de' Medici).

Il libro narra di un gruppo di giovani, sette donne e tre uomini, che trattenendosi fuori città per
quattordici giorni (il titolo indica i dieci giorni in cui si raccontano le novelle e non i quattro in cui
ci si riposa), per sfuggire alla peste nera, che imperversava in quel periodo a Firenze, raccontano a
turno delle novelle di taglio spesso umoristico e con frequenti richiami all'erotismo bucolico del
tempo. Per quest'ultimo aspetto, il libro fu tacciato di immoralità o di scandalo, e fu in molte epoche
censurato o comunque non adeguatamente considerato nella storia della letteratura.

Il titolo
Il titolo completo che Boccaccio dà alla sua opera è Comincia il libro chiamato Decameron
cognominato prencipe Galeotto, nel quale si contengono cento novelle in diece dì dette da sette
donne e da tre giovani uomini.

Decameron deriva dal greco e letteralmente significa "dieci giorni" e si rifà all'Exameron ("sei
giorni") di Sant'Ambrogio, un racconto sui sei giorni della creazione divina. In realtà il tempo
effettivo trascorso fuori città dai giovani è di quattordici giorni, poiché il venerdì è dedicato alla
preghiera e il sabato alla cura personale delle donne.

L'opera è cognominata (ossia sottotitolata) Prencipe Galeotto, con riferimento a un personaggio,
Galeuth o Galehaut, del ciclo bretone del romanzo cortese che fece da intermediario d'amore tra
Lancillotto e Ginevra. "Galeotto" inoltre riecheggia un famoso verso, riferito allo stesso
personaggio, del V canto dell'Inferno di Dante Alighieri, "Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse", verso
con cui Francesca termina il suo racconto.

La struttura
    Per approfondire, vedi la voce Struttura del Decameron.


All'interno del Decameron, Boccaccio immagina come, durante il periodo in cui la peste devasta
Firenze (1348), una brigata di sette ragazze e tre ragazzi, tutti di elevata condizione sociale
decidano di cercare una possibilità di fuga dal contagio spostandosi in campagna. Qui questi dieci
giovani trascorrono il tempo secondo precise regole, tra canti, balli e giochi. Notevole importanza,
come vedremo dopo, assumono anche le preghiere. Per occupare le prime ore serali, i ragazzi
decidono di raccontare una novella ciascuno, secondo precisi rituali: per esempio, l'elezione
quotidiana di un re che fisserà il tema della giornata a cui tutti gli altri narratori dovranno ispirarsi
nei loro racconti. Al solo Dioneo, per la sua giovane età, è concesso di non rispettare il tema delle
giornate; dovrà però novellare sempre per ultimo (Privilegio di Dioneo). La prima e la nona
giornata hanno un tema libero. Si sono date molteplici interpretazioni degli strani nomi attribuiti ai
narratori, in gran parte riecheggianti etimologie greche: Pampinea ("la rigogliosa"), Filomena
("amante del canto", oppure "colei che è amata"), Neifile ("nuova amante"), Filostrato ("vinto
d'amore"), Fiammetta (la donna amata da Boccaccio), Elissa (l'altro nome di Didone, la regina
dell'Eneide di Virgilio), Dioneo ("lussurioso", da Diona, madre di Venere; spurcissimus dyoneus si
definiva Boccaccio in una lettera giovanile), Lauretta (la donna simbolo di Petrarca), Emilia e
Panfilo (il "Tutto Amore", che infatti racconterà spesso novelle ad alto contenuto erotico).

Nel Decamerone le cento novelle, pur avendo spesso in comune il tema, sono diversissime l'una
dall'altra, poiché l'autore vuol rappresentare la vita di tutti i giorni nella sua grande varietà di tipi
umani, di atteggiamenti morali e psicologici, di virtù e di vizio; ne deriva che il Decameron offre
una straordinaria panoramica della civiltà del Trecento: in quest'epoca l'uomo borghese cercava di
creare un rapporto fra l'armonia, la realtà del profitto e gli ideali della nobiltà cavalleresca ormai
finita.

Come scritto nella conclusione dell’opera, i temi che Boccaccio voleva illustrare al popolo sono
essenzialmente due. In primo luogo, infatti, Boccaccio voleva mostrare ai fiorentini che è possibile
rialzarsi da qualunque disgrazia si venga colpiti, proprio come fanno i dieci giovani con la peste che
si abbatte in quel periodo sulla città. Il secondo tema, invece, è legato al rispetto e ai riguardi di
Boccaccio nei confronti delle donne: egli infatti scrive che quest’opera è dedicata a loro che, a quel
tempo, erano le persone che leggevano maggiormente e avevano più tempo per dedicarsi alla lettura
delle sue opere.

Il proemio
Il libro si apre con un proemio che delinea i motivi della stesura dell'opera. Boccaccio afferma che
il libro è indirizzato a coloro che sono afflitti da "pene d'amore", allo scopo di dilettarli con
piacevoli racconti e dare loro utili consigli. È chiaro perciò che l'opera è rivolta ad un pubblico di
donne e più precisamente a "coloro che amano". Il Decameron non è quindi una lettura da letterati
di professione, anche se raffinato ed elegante.

Sempre nel Proemio Boccaccio racconta di rivolgersi alle donne per rimediare al "Peccato della
Fortuna": le donne possono trovare poche distrazioni dalle pene d'amore rispetto agli uomini. Alle
donne, infatti, a causa delle usanze del tempo, erano preclusi certi svaghi che agli uomini erano
concessi, come la caccia, il gioco, il commerciare; tutte attività che possono occupare l'esistenza
dell'uomo. Quindi nelle novelle le donne potranno trovare diletto e utili soluzioni che allieveranno
le loro sofferenze.

Anche il tema dell'"Amore" ha una certa importanza: in effetti gran parte delle novelle tocca questa
tematica, che assume anche forme licenziose e che susciterà reazioni negative da parte di un
pubblico retrivo; per questo motivo Boccaccio, nell'introduzione alla quarta giornata e specialmente
nella conclusione, rivendicherà il suo diritto ad una letteratura libera ed ispirata ad una concezione
naturalistica dell'Eros (significativo in questo senso il cosiddetto "Apologo delle Papere").

La cornice
La cornice narrativa in cui inserire le novelle è di origine indiana (per esempio la raccolta
Pañcatantra). Tale struttura passò poi nella letteratura araba e in Occidente.

La cornice è costituita da tutto ciò che si trova al di fuori delle novelle ed in modo particolare dalla
Firenze contaminata dalla peste dove un gruppo di dieci giovani, di elevata condizione sociale, si
ritira in campagna per trovare scampo dal contagio. È per questo che Boccaccio all'inizio dell'opera
fa una lunga e dettagliata descrizione della malattia che colpì Firenze nel 1348 (ispirata quasi
interamente a conoscenze personali ma anche all'Historia Langobardorum di Paolo Diacono) che,
oltre a decimare la popolazione, distrugge tutte quelle norme sociali, quegli usi e quei costumi che
tanto gli erano cari. Al contrario, i giovani creano una sorta di realtà parallela quasi perfetta per
dimostrare come l'uomo, grazie all'aiuto delle proprie forze e della propria intelligenza, sia in grado
di dare un ordine alle cose, che poi sarà uno dei temi fondamentali dell'Umanesimo. In
contrapposizione al mondo uniforme di questi giovani si pongono poi le novelle, che hanno vita
autonoma: la realtà descritta è soprattutto quella mercantile e borghese; viene rappresentata
l'eterogeneità del mondo e la nostalgia verso quei valori che via via stanno per essere distrutti per
sempre; i protagonisti sono moltissimi ma hanno tutti in comune la determinazione di volersi
realizzare per mezzo delle proprie forze. Tutto ciò quindi fa del Decameron un'opera unica, poiché
non si tratta di una semplice raccolta di novelle: queste ultime sono tutte collegate fra di loro
attraverso la cornice narrativa, formando una sorta di romanzo.

La follia e le altre tematiche nel Decameron
Nel Decameron il tema della follia compare a più riprese intrecciandosi inevitabilmente con altre
tematiche, come quelle della beffa, dello scherno, della burla. Uno degli aspetti più interessanti,
però, è quello della follia per amore, per la quale spesso uno dei due amanti giunge fino alla morte.

La concezione della vita morale nel Decameron si basa sul contrasto tra Fortuna e Natura, le due
ministre del mondo (VI,2,6). L'uomo si definisce in base a queste due forze: una esterna, la Fortuna
(che lo condiziona ma che egli può volgere a proprio favore), l'altra interna, la Natura, con istinti e
appetiti che deve riconoscere con intelligenza. La Fortuna nelle novelle appare spesso come evento
inaspettato che sconvolge le vicende, mentre la Natura si presenta come forza primordiale la cui
espressione prima è l'Amore come sentimento invincibile che domina insieme l'anima e i sensi, che
sa ugualmente essere pienezza gioiosa di vita e di morte.

L'amore per Boccaccio è una forza insopprimibile, motivo di diletto ma anche di dolore, che agisce
nei più diversi strati sociali e per questo spesso si scontra con pregiudizi culturali e di costume. La
virtù in questo contesto non è mortificazione dell'istinto, bensì capacità di appagare e dominare gli
impulsi naturali.

Durante tutta la IV giornata vengono narrate novelle che trattano di amori che ebbero infelice fine:
si tratta di storie in cui la morte di uno degli amanti è inevitabile perché le leggi della Fortuna
trionfano su quelle naturali dell'Amore. All'interno della giornata, le novelle 3, 4 e 5 rappresentano
un trittico che illustra in modi diversi l'amore come follia. L'elemento che le accomuna è la presenza
della Fortuna coniugata come diversità di condizione sociale: prevale infatti la tematica dell'amore
che travalica le leggi della casta e del matrimonio, che diventa una follia sociale e motivo di
scandalo.

Un esempio è costituito dalla V novella della IV giornata, ovvero la storia di Lisabetta da Messina
e il vaso di basilico. In questa novella si sviluppa il contrasto Amore/Fortuna: Lorenzo è un
semplice garzone di bottega, bello e gentile, con tutte le qualità cortesi per suscitare l'amore;
Lisabetta, che appartiene a una famiglia di mercanti originaria di San Gimignano, incarna l'energia
eroica di chi resiste all'avversa fortuna solo con la forza del silenzio e del pianto; i tre fratelli sono i
garanti dell'onore della famiglia, non tollerano il matrimonio della sorella con qualcuno di rango
inferiore. Sono costretti ad intervenire per riportare le cose in ordine e per ristabilire l'equilibrio
sovvertito dalla pazzia amorosa di Lisabetta.
Boccaccio dichiara di aver scritto questo testo per le donne che lo leggeranno per passare il tempo:
più in generale, si può dire quindi che il pubblico a cui si rivolge l'opera è di ceto medio.

La Fortuna presente nell'opera è il "caso", a differenza di Dante che la considerava una intelligenza
angelica che agiva nell'àmbito di un progetto divino (Inferno,VII,76-96).L'opera boccacciana non è
ascetica ma laica, svincolata dal teocentrismo (Dio al centro dell' Universo) che invece sta alla base
della Commedia di Dante e della mentalità medievale della quale il Decameron rappresenta
l'"autunno". Oltre all'amore, presentato nei suoi vari aspetti anche sensuali, l'"Ingegno" umano è un
motivo ricorrente. Troviamo il gusto della beffa (Chichibio), la spegiudicatezza empia di
Ciappelletto, la dabbenaggine di Andreuccio da Perugia e Calandrino, l'arguzia e l'imbroglio(Frate
Cipolla), gli aspetti maliziosi e ridanciani (racconto delle monache e della badessa).Incontriamo
anche l'arguzia gentile di Cisti fornaio, l'intelligenza di Melchisedech e l'ingegno di Giotto. L'opera
presenta una duplice "anima". La prima è realistica, riflette la mentalità e la cultura della classe
borghese-mercantile ("epopea mercantile" Vittore Branca ha definito l'opera). La seconda è
aristocratica ed in essa sono presenti le virtù cavalleresche proprie dell'aristocrazia feudale: cortesia,
magnanimità, lealtà (novelle della decima giornata; novella di Federigo degli Alberighi). Il
Decameron si conclude con una giornata in cui domina appunto il motivo della virtù, seguendo
quindi una parabola morale ascendente secondo lo schema della poetica medievale. Si tratta del
percorso anche della Commedia di Dante e del Canzoniere di Petrarca, dove però è presente il
motivo religioso e teologico che invece manca nelle virtù terrene del laico Boccaccio. Nella
Commedia si va dalla condizione di peccato alla beatitudine celeste, nel Canzoniere dall'idea di
peccato e di traviamento del primo sonetto alla conclusiva canzone alla Vergine. [2].[3] [4]

Le fonti del Decameron
Come ha evidenziato anche il critico Vittore Branca nel suo "Decameron" sono molteplici le fonti
letterarie dell'opera. Esse sono: le novelle e collezioni di "storie" della letteratura greca e latina, le
raccolte medievali di novelle come il Libro de' sette savi e il Novellino, i romanzi cortesi, i romanzi
francesi, i racconti dei mercanti fiorentini, i fabliaux, i "lamenti" (componimenti medievali, spesso
popolari, in versi, per la morte di qualcuno), i cantari dei giullari, gli exempla.

La censura
A partire dalla metà del XVI secolo il sistema di controllo delle scritture andò organizzandosi e
istituzionalizzandosi per poter far fronte alla lotta contro l'eresia. Fu così istituito L'Indice dei libri
proibiti voluto da Papa Paolo IV Carafa nel 1559 come "filtro" per poter fronteggiare le accuse,
anche se velate, degli scrittori del tempo. L'ordine da Roma era tassativo: «...Per niun modo si parli
in male o scandalo de' preti, frati, abbati, abbadesse, monaci, monache, piovani, provosti, vescovi,
o altre cose sacre, ma si mutino lj nomi; o si faccia per altro modo che parrà meglio».

Il Decameron apparve nell'Indice dei libri proibiti alla lettera B nel seguente modo: «Boccacci
Decades seu novellae centum quae hactenus cum tollerabilibus erroribus impressae sunt et quae
posterum cum eisdaem erroribus imprimentur». Traduzione: Le decadi di Boccaccio o Cento
Novelle che finora sono state stampate con errori intollerabili e che in futuro saranno stampate con i
medesimi errori.

Nel 1573 l'Inquisizione commissionò a degli esperti fiorentini, I Deputati, il compito di "sistemare"
il testo fiorentino per eccellenza. Non esiste accordo sull'identità dei Deputati alla revisione del
Decameron, ma le ipotesi plausibili sembrano essere due. La prima considera tre componenti:
Vincenzo Borghini, Pierfrancesco Cambi, Sebastiano Antinori. La seconda ne considera quattro:
Vincenzo Borghini, Sebastiano Antinori, Agnolo Guicciardini e Antonio Benivieni. Tra i membri
del gruppo emerge Vincenzo Borghini, riconosciuto come il vero promotore della censura del
Decameron.

Essi, ricevuto dalla Chiesa di Roma il Decameron segnato nei passi da modificarsi, procedettero con
armi diverse, con ragioni culturali, tradizionali, filologiche e retoriche alla difesa del Decameron,
tentando di salvare il salvabile. Quindi alla Chiesa di Roma spettò direttamente la censura vera e
propria, mentre la specializzazione linguistica e filologica spettò ai Deputati.

Il 2 maggio 1572 tornò a Firenze la copia ufficiale autorizzata dall'Inquisitore di Roma per la
stampa, ma solo il 17 agosto 1573 il testo venne stampato. L'anno successivo il testo dell'opera
ridotta fu accompagnato da "Le Annotazioni di discorsi sopra alcuni luoghi del Decameron", una
raccolta di considerazioni linguistiche e filologiche che cercavano di giustificare le scelte fatte
durante le singole fasi della rassettatura. Il Decameron dei Deputati si ritrovò poco dopo proibito
dalla stessa Inquisizione, e conobbe perciò solo un'edizione.

Il Decameron conobbe nel 1582 un'altra edizione curata da Leonardo Salviati. Sembra che sia stato
lo stesso Salviati che, tramite il suo protettore Jacopo Buoncompagni, spinse la curia romana a
chiedere una nuova censura del Decameron. Infondata è l'ipotesi avanzata, secondo cui la nuova
rassettatura si sarebbe resa necessaria perché i Deputati avrebbero rivelato una certa trascuratezza
sul terreno della morale, soprattutto sessuale, lasciando insomma troppo correre sulla lascivia del
testo.

In realtà il Decameron di Salviati piuttosto che una vera e propria edizione fondata sui risultati di
ricerche originali, appare una correzione dell'edizione precedente. Ne deriva che mentre i Deputati
di Borghini si limitarono a tagliare, Salviati modificò, o più precisamente, che mentre i primi
intervennero sul testo, il secondo censurò anche la lettura, facendo ricorso a glosse marginali, per
svolgere apertamente una funzione di mediazione fra il testo e il lettore, per dare un'interpretazione
univoca. L'operazione di Salviati risparmiò 48 novelle, mentre ne modificò 52.

PERSONAGGI


Pampinea è un personaggio letterario del Decameron di Giovanni Boccaccio. Essa è una delle sette
fanciulle che fanno parte della brigata di giovani fuggiti da Firenze per evitare il contagio della
peste nera, che si rifugiano in una villa sulle colline e passano il tempo raccontandosi una novella
ciascuno al giorno.

Il suo nome, che Boccaccio sottolinea essere fittizio per celare la vera identità (non volendo egli
"che per le raccontate cose da loro [...] alcuna di loro possa prender vergogna") significa la
"rigogliosa", e viene usato dall'autore anche nella Comedia delle ninfe fiorentine e nel Bucolicon
Carmen.

Pampinea è la più grande delle donne (ha ventotto anni, come si dice nell'introduzione alla prima
giornata) ed è anche colei che convince il gruppo a fuggire dalla città. Per questo viene nominata
per prima "regina", colei cioè che comanda la prima giornata.

   La peste a Firenze nel Decameron di Boccaccio
   Sulla soglia del Decameron, prima che inizi la descrizione delle dieci giornate dedicate
al racconto di novelle, troviamo il racconto tragico e solenne della peste. La vicenda infatti
prende spunto dalla peste che nel 1348 colpisce Firenze come il resto dell'Europa. In
questa atmosfera di devastazione materiale e di dissoluzione morale, una brigata di dieci
giovani, sette donne e tre uomini, decidono di recarsi fuori città, in un palazzo del contado,
e di passare il tempo passeggiando, scherzando e raccontando novelle per esorcizzare
l'orrore della morte con la definizione di una laica ed equilibrata prospettiva dell'esistenza:
essa assume la forma dell’onestà, che è una virtù sociale, e della "gentilezza", che è
invece una virtù individuale. Se l’uomo risulta condizionato da " due ministre del mondo ",
che sono appunto la fortuna e la natura, l’ingegno può servire a controllare, almeno in
parte, la natura anche nei suoi aspetti di malattia, sofferenza e morte.

Il Decameron, dedicato poi in gran parte al racconto dell'amore per la vita nei suoi vari
aspetti, si apre dunque con la rappresentazione terrificante della morte:".... pervenne la
mortifera pestilenza, la quale o per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique
opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni
davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità di viventi avendo
private, senza ristare d’un luogo in un altro continuandosi, inverso l’Occidente
miserabilmente s’era ampliata...". Il tono è solenne, lo stile usato qui dal Boccaccio è
quello che veniva definito tragico, in corrispondenza alla serietà della materia. La
descrizione del fenomeno è lucida, distaccata, quasi scientifica, tanto che potrebbe
apparire fredda, se qualche inciso o qualche tensione stilistica non rivelasse l’orrore e il
giudizio morale dello scrittore. Il fatto è che Boccaccio, vuole affidare l’orrore e il giudizio
alle cose stesse, evitando ogni intervento soggettivo che correrebbe il rischio di cadere nel
patetico o nel tono esclamativo e retorico. Il suo atteggiamento distaccato è appunto
l’arma per suscitare l’orrore e la reazione morale di chi legge. Si motiva così la minuta
descrizione, in primo luogo, della corruzione fisica (i bubboni, le macchie) con la
agghiacciante constatazione finale ("certissimo indizio di futura morte"), in secondo luogo
degli effetti del contagio, in terzo luogo dei vari rimedi da ciascuno escogitati e la loro
sostanziale inutilità ("non perciò tutti campavano"), e infine della disgregazione morale e
sociale. Protagonista del Decameron è una società in trasformazione che, attraverso una
simile prova e tali stravolgimenti di valori, si trova alla fine profondamente mutata e si
accorge che sono nate "cose contrarie a’ primi costumi de’ cittadini". Le terribili condizioni
della peste provocarono la perdita della morale comune; testimoniano il rapporto crudele e
e innaturale che si era instaurato tra i cittadini frasi come "... l’un fratello l’altro
abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito e -
che maggior cosa è quasi non credibile - li padri e le madri i figlioli, quasi loro non fossero,
di visitare e di servire schifavano".

Appunto in una simile situazione un gruppo di giovani amici decide di abbandonare
Firenze e di riparare in campagna. Il luogo dove riparano è in netto contrasto rispetto alla
città tormentata dal flagello: una grande villa in collina, confortevole e bella, circondata dal
verde dei prati, ricca d’acque freschissime e vini preziosi. E in netto contrasto è la
psicologia dei giovani : tanto lì dominata dall’incubo della morte, quanto qui disposta a
godere onestamente e serenamente i piaceri della vita. Fra i loro divertimenti ci sarà
anche quello di raccontare per dieci giorni una novella ciascuno. Questi giovani vanno
contro le convenzioni sociali dell’epoca, infatti solitamente gli uomini avevano occupazioni
differenti da quelle delle donne, la peste induce a superare queste barriere creando una
comitiva mista che manifesta la propria libertà esprimendo idee discutibili e non accettate
dalla società di quel tempo. La peste sembra dunque aver per così dire spezzato ogni
legame con il vivere civile.

Nella descrizione cupa, lucida, distaccata e realistica della peste - vista come un
fenomeno non solo di corruzione fisica ma di disgregazione morale e sociale - e nella
evasione dei dieci giovani, che lasciano alle spalle le "mura vote" di Firenze e ritrovano
nella campagna, nelle loro feste, nei loro giochi, nei loro passatempi la gioia di vivere, può
forse trovarsi il senso più riposto dell’arte del Boccaccio: l’affermazione della vita sulla
morte, affermazione che è quasi emblematicamente riassunta nell’immagine felice dei
giovani che ritornano da una passeggiata: "Essi eran tutti di frondi di quercia inghirlandati,
con le man piene o d’erbe odorifere o di fiori ; e chi scontrati gli avesse, niuna cosa
avrebbe potuto dire se non: O costor non saranno dalla morte vinti o ella gli ucciderà lieti ".
Boccaccio vuol proporre la vittoria della vita, in tutte le sue manifestazioni, dalle più
elementari alle più elevate (e in certi casi la morte stessa è dignitosa difesa dei valori della
vita), sulla morte, nei suoi aspetti, non solo di corruzione fisica ma di mortificazione della
natura e di tenebra della ragione. Questo è il significato artistico e ideologico del che
introduce alle novelle e di tutta la cornice che le racchiude, al di là della funzione
strumentale di offrire una struttura organica e verosimile a tutta l’opera.

Struttura del Decameron

La struttura del Decameron è un articolato sistema con il quale Giovanni Boccaccio presentò le
cento novelle del suo capolavoro. La cornice vede dieci giovani (tre ragazzi e sette ragazze) che per
sfuggire alla peste nera che imperversa su Firenze si riuniscono in una villa di campagna. Per
passare il tempo ciascun pomeriggio (tranne i giorni di venerdì e sabato dedicati alla penitenza)
ognuno di loro racconta una novella agli altri secondo un tema stabilito il giorno prima. Il tema
viene scelto dal "Re" o dalla "Regina" del giorno. Solo il personaggio di Dioneo è dispensato dal
seguire il tema prestabilito e la sua novella è narrata sempre per ultima.

Boccaccio curò molto ogni piccolo particolare; per esempio già dalla scelta dei nomi possiamo
capire quale sia il carattere e la funzione del personaggio: Dioneo letteralmente dal latino significa
"Dio Nuovo" quindi allude al significato di una vita diversa ed infatti è il ragazzo ribelle della
brigata; oppure, ancora, Panfilo, che dal greco significa "Tutto Amore", racconterà spesso novelle
piene di carica erotica. Tutti insieme questi personaggi riflettono poi il vero carattere dell'autore.

Cepparello da Prato( PRIMA NOVELLA DELLA 1 GIORNATA)

Cepparello da Prato, conosciuto anche come Ser Ciappelletto, è un personaggio letterario del
Decameron di Giovanni Boccaccio, protagonista della prima novella dell'opera (giornata I, novella
1). Era un notaio, per cui aveva diritto ad essere chiamato "Ser" prima del nome.

Boccaccio lo introduce nella novella facendolo chiamare da Musciatto Franzesi. Questo mercante
francese infatti deve recarsi in Italia al seguito di Carlo di Valois e lascia a vari incaricati le sue
faccende mercantili, ma non riesce a trovare "tanto malvagio uom" per riscuotere i debiti verso i
clienti borgognoni ("uomini riottosi e di mala condizione e misleali") "che opporre alla loro
malvagità si potesse" (giornata I, novella 1, 8-9). L'unico che gli venga in mente è appunto solo
Cepparello da Prato, che aveva già avuto modo di ospitare a Parigi, dove era stato rinominato
Ciappelletto: i francesi infatti credevano che il nome derivasse da "cappello" per cui lo
nazionalizzarono in chapelet.

Egli era un uomo avvezzo ad ogni empietà: spergiuro, seminatore di discordia e scandali, omicida,
bestemmiatore, fedifrago, goloso, bevitore e giocatore d'azzardo. Così empio che quando, recatosi
in Francia in casa di due mercanti fiorentini, malato e vicino a morire, i due padroni di casa sono
fortemente tormentati: non lo possono cacciare, non lo possono far confessare, perché se rivelasse i
suoi peccati nessun religioso gli darebbe l'assoluzione e sarebbe uno scandalo per la loro casa aver
ospitato un uomo che non si possa seppellire in suolo consacrato (i loro creditori, malvagi
borgognoni, li crederebbero ladri di pari razza e si rifiuterebbero di pagarli); né tantomeno possono
farlo morire senza il sacramento della confessione. Ma Cepparello sente i loro dubbi e per non
recare loro danno li prega di far chiamare un confessore, con il quale averebbe compiuto il suo
ultimo peccato dinnanzi a Dio, non facendo ormai per lui differenza uno in più o uno in meno.

Viene chiamato allora un venerabile frate al quale Cepparello, durante la confessione, inizia a
rifilare una serie di fandonie, come se egli fosse stato l'uomo più pio e timorato di Dio sulla terra.
La sua recitazione ha tanto effetto, che il frate ne rimane profondamente colpito. La finta
confessione è in alcuni tratti esilarante, dicendo Cepparello, con grande pentimento e timore,
peccati così lievi che fanno sorridere lo stesso frate, che le liquida come leggier cose.

Il frate, dopo avergli dato l'assoluzione, lo rassicura che sarà sepolto nella chiesa del loro convento
e gli dà la comunione e l'estrema unzione. Di lì a poco Cepparello muore e, sparsasi la voce della
confessione di un sant'uomo, tutto il capitolo dei frati gli concesse dei funerali solenni, ai quali
partecipò la folla incuriosita di vedere quel sant'uomo. Addirittura iniziano subito a venerarlo, con il
beneplacito dei frati, e gli strappano le vesti per conservarle come reliquie. Votandosi alla sua
indulgenza presto venne proclamato San Ciappelletto.

La novella si chiude con il Boccaccio che si chiede, attraverso le parole di Panfilo, se Dio abbia
avuto pietà di questo "santo" ammettendolo per la sua bonarietà in Paradiso, nonostante le sue
numerose malefatte.

Tra i temi della novella ci sono la valorizzazione dell'ingegno individuale (la confessione di
Ciappelletto), la separazione tra livello divino e umano, l'ingenuità degli uomini di chiesa a fronte
dell'ipocrisia della borghesia, che vuole conciliare mercatura e religione. Gli uomini si rivolgono ai
santi come mediatori nei loro rapporti con Dio, ma i santi sono un'invenzione umana, e possono
essere anche cacciati nell'inferno da Dio, il quale accoglie solo le buone intenzioni di coloro che
rivolgono a lui preghiere. Dio quindi può convertire un fatto negativo (la santificazione del
peccatore) in uno positivo.

Frate Cipolla

Frate Cipolla è un novella del Decameron, raccontata da Dioneo ed è l’ultima della sesta giornata,
nella quale “sotto il reggimento d’Elissa, si ragiona di chi con alcun leggiadro motto, tentato, si
riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno”.

A Certaldo, un paesetto della Toscana, ogni anno veniva inviato un frate della confraternita di
Sant’Antonio a riscuotere le offerte dei fedeli; questo compito toccava a frate Cipolla al quale gli
abitanti di Certaldo erano affezionati più che altro perché quella località era famosa per la
produzione di cipolle. Quell’anno il frate, oltre a benedire il bestiame, del quale Sant’Antonio era il
protettore, promise che avrebbe mostrato ai fedeli una reliquia che egli stesso aveva recuperato: una
piuma dell’arcangelo Gabriele. Due abitanti di Certaldo, Giovanni del Bragoniera e Biagio Pizzini, i
quali conoscevano da tempo il frate, udito ciò decisero di giocargli una beffa, con il solo intento di
vedere in che modo il frate sarebbe riuscito a tirarsi fuori da una situazione imbarazzante; si
recarono quindi dove il frate alloggiava mentre quest’ultimo era da un suo amico. Qui vi trovarono
Guccio Imbratta o Balena o Porco, il servo di frate Cipolla, il quale era stato incaricato di
sorvegliare la stanza del suo padrone; Guccio, il quale non sapeva frenare le passioni, avendo visto
una serva alquanto brutta in cucina, lasciò perdere il suo compito per andare a far colpo su
quest’ultima di nome Nuta. Della situazione approfittarono Giovanni e Biagio salmone che, entrati
nella camera del frate, presero la penna, la quale venne riconosciuta per quella di un pappagallo, e la
sostituirono con dei carboni. Quando il frate, al cospetto dei fedeli creduloni, scoprì la beffa, pensò
subito che non doveva essere opera del servo in quanto non era così intelligente, né si arrabbiò con
lui per non aver adempito al suo compito. In questa situazione imprevista il frate è abile
nell’inventare una storia fantastica e priva di senso che racconta di un viaggio immaginario che lo
portò da “Non-mi-blasmate-se-voi-piace” (Non mi biasimate per piacere) il quale gli donò alcune
reliquie della sua collezione tra le quali la piuma e i carboni sui quali fu arrostito San Lorenzo.
Essendo queste due reliquie poste in scatole identiche, il frate nel venire a Certaldo le confuse e
prese la scatola sbagliata; ciò, secondo frate Cipolla, è accaduto non per sua negligenza ma per
volontà divina in quanto due giorni dopo si sarebbe celebrata la festa in onore di San Lorenzo. A
questo punto il frate mostra ai fedeli i carboni con i quali fa il segno della croce per benedirli. Alla
fine della cerimonia i due, che gli avevano giocato lo scherzo e che avevano assistito al discorso
ridendo di cuore, si complimentarono con lui ridandogli la penna.

I personaggi
In questa novella si presentano due strati sociali ed intellettuali ben distinti. In uno vi troviamo gli
ignoranti ed i poveri di spirito: Nuta, Guccio ed i contadini di Certaldo. Il secondo strato sociale che
incontriamo e che si oppone al primo è quello dell’élite arguta e capace di ingannare molti, fra
questi troviamo frate Cipolla ed i suoi due amici Giovanni del Bragoniera e Biagio Pizzini.

Frate Cipolla

appartenente all’ordine di Sant’Antonio frate Cipolla è un uomo di piccola statura, rosso di capelli
ed un buontempone. L’elemento caratterizzante della sua personalità è l’arte della retorica:
<<chi conosciuto non l’avesse, non solamente un gran retorico l’avrebbe estimato, ma l’avrebbe
detto esser Tullio medesimo o forse Quintiliano;>>
Questa sua arte è evidente nel discorso che egli pronuncia quando scopre la beffa che gli è stata
giocata, nel quale grazie ai molti giochi di parole, alle affermazioni stranissime e agli assurdi
geografici, riesce a voltare l’imprevisto a suo favore.

Guccio

servo di frate Cipolla, Guccio è il classico servo sbadato che non sa resistere ai piaceri del cibo e del
corpo. Di lui frate Cipolla dice:
<<Egli è tardo, sbugliardo e bugiardo; negligente, disubidiente e mal diciente; trascurato,
smemorato e scostumato;>>
Nonostante ciò Guccio cerca di imitare il suo padrone nell’arte della retorica come espediente per
conquistare le donne, ma i risultati non sono ovviamente gli stessi.

Giovanni del Bragoniera e Biagio Pizzini

amici e appartenenti allo stesso strato sociale di frate Cipolla, Giovanni e Biagio, non si fanno
abbindolare dai discorsi del frate, decidono di ordire una beffa a suo danno, sapendo che frate
Cipolla non sarebbe caduto nel tranello, poiché conoscevano molto bene le sue capacità di oratoria e
di improvvisazione; i due burloni volevano solo godersi la scena che il frate avrebbe inventato.

Nuta

è la serva di cui Guccio si invaghisce. Viene così da Dioneo descritta:
<<grassa grossa e piccola e mal fatta, con un paio di poppe che parean due ceston da letame;>>

Temi
La sesta giornata è dedicata a coloro che riescono a superare situazioni di rischio impreviste,
mediante l’uso opportuno e appropriato della parola. L’esaltazione della capacità dell’oratoria e
della presenza di spirito come mezzi per cavarsela in situazioni imbarazzanti non è un tema
esclusivo della sesta giornata, anzi, è presente anche in molte novelle delle altre giornate del
Decameron. A sottolineare l’importanza della retorica in questa novella è il lungo discorso di frate
Cipolla che occupa ben un terzo della lunghezza totale della novella. Con questo discorso frate
Cipolla dà sfogo a tutta la sua abilità di oratore grazie al frequente uso della figura retorica
dell’anfibologia, puntando a stordire gli ascoltatori e confondere loro le idee. Tale figura retorica,
facilmente visibile nei seguenti passi:
<<io fui madato dal mio superiore in quelle parti dove apparisce il sole […] pervenni dove tutte
l’acque corrono alla ‘ngiù; […] che io vidi volare i pennati>>
consiste in un'espressione o discorso dal significato ambiguo ed interpretabile in due modi diversi.
Per esempio il termine “pennati” può significare sia “volatili” che “coltelli per potare”. Il discorso
inizia con una descrizione di viaggi immaginari che alludono a scenari esotici ma che in realtà si
riferiscono a luoghi vicini e fatti banali, resi però irriconoscibili dall’uso di artifici retorici. A
sottolineare questo carattere fantastico e ambiguo del discorso ci pensano anche i nomi di alcuni
luoghi totalmente inventati: “Truffia”, “Buffia” e “Terra di Menzogna”. Questo discorso ha una
duplice funzione, se da un lato esso serve al frate per convincere la folla della veridicità della
reliquia, dall’altro svolge la funzione di far divertire i due giovani che assistevano al discorso di
Cipolla come se lui fosse un attore teatrale che deve dimostrare la sua bravura nell’improvvisare
davanti ad una situazione inaspettata. Altro tema fondamentale è quello della beffa che in questa
novella è addirittura doppia, essa infatti è sia giocata dai due ragazzi al frate, sia da quest’ultimo ai
danni di coloro che lo ascoltano. Boccaccio con questa novella vuole innanzitutto comunicarci
l’ampio divario intellettuale che c’è fra la massa contadina e la classe dirigente costituita
dall’emergente classe mercantile, dagli ecclesiastici e dagli uomini di cultura, quale è Boccaccio, i
quali grazie alla loro astuzia superiore sono capaci di ingannare molte persone. Come già accaduto
nella novella di Ser Cepparello, Boccaccio muove anche un duro attacco nei confronti della Chiesa,
sottolineandone la sua tendenza ad approfittare dell’ignoranza del popolo per riscuotere offerte
maggiori mostrando false reliquie e donando indulgenze invalide. Ciò è messo in evidenza dal fatto
che frate Cipolla nel suo sermone cita reliquie come un braccio della santa croce, la mascella della
Morte di San Lazzaro ed il sudore di San Michele quando combatté contro il diavolo, le quali sono
vistosamente dei falsi. Anche Dante nel XXIX canto del Paradiso critica questo aspetto della
Chiesa, accusando i frati della confraternita di Sant’Antonio di usare il denaro ricavato dalle offerte
e dalla compravendita delle false indulgenze per nutrire i propri animali, figli e concubine:

ABRAAM GIUDEO(SECONDA NOVELLA 1 GIORNATA)
Questa novella, ambientata sia in Francia che a Roma, è scritta da Neifile e come anche la novella
di “Ser Ciappelletto” questa non ha un tema specifico, perché essendo la prima giornata i giovani
ragazzi, protagonisti dell'opera, si lasciano andare al libero piacere della narrazione, senza un
particolare tema o modello da seguire.
La vicenda ha per protagonisti due commercianti di stoffe, Giannotto di Civignì ed Abraam giudeo,
e anche i clerici.
I due nonostante la differenza di religione sono legati da una profonda amicizia e da valori comuni
come la rettitudine e l'onestà. Giannotto voleva che Abraam diventasse cristiano perché gli
dispiaceva che la sua anima si perdesse per mancanza di fede, inoltre per dimostrargli la superiorità
della religione cristiana rispetto a quella ebraica, diceva che questa si diffondeva sempre di più, ma
questo, anche se attratto dalle motivazioni postegli, rimane fedele alla sua religione fino a che un
giorno comunica al cristiano che stava per compiere un viaggio a Roma per vedere da vicino lo stile
di vita del Papa e del clero e che se ne fosse rimasto colpito si sarebbe fatto battezzare. Giannotto
non voleva che Abraam partisse per Roma perché sapeva che a Roma avrebbe visto la corruzione
del Vaticano, visto che a quell’epoca c’era come Papa Leone X che vendeva al popolo le
indulgenze per completare la Basilica di San Pietro a Roma, infatti gli disse che quel viaggio a
Roma era inutile e che anche a Parigi avrebbe potuto trovare ottimi maestri, ma lui partì lo stesso.
Infatti Abraam si accorge da subito della vita peccaminosa dei chierici: lussuria, avarizia, simonia.
Quando torna da Giannotto, il quale ha ormai perso la speranza nella conversione dell'amico, gli
annuncia invece che nessuno potrà ostacolargli il battesimo perché proprio durante il proprio
viaggio si è accorto che lo Spirito Santo è con il Cristianesimo e con nessuna altra religione, perché,
pensa che solo in questo modo avrebbe potuto sopravvivere in mezzo a tanto peccato e ad
accrescere di giorno in giorno il numero dei fedeli.
Questa novella si può dividere in tre macro-sequenze: la prima dice Giannotto parla con Abraam e
cerca di farlo convertire; la seconda quando Abraam effettua il viaggio a Roma; la terza quando
Abraam ritorna e, con meraviglia di Giannotto, si converte al Cristianesimo.
La focalizzazione è zero, in quanto il narratore è onnisciente.

Melchisedech giudeo (3 NOVELLA 1 GIORNATA)

Melchisedech giudeo è un personaggio letterario protagonista della terza novella della prima
giornata del Decameron di Giovanni Boccaccio. Egli è un esempio di ebreo saggio, una figura
presente in varie opere della letteratura medievale.

Trama[modifica]
Melchisedech è un ricco israelita alla corte del Sultano di Babilonia (Baghdad), Saladino (un
simbolo di lealtà cavalleresca e sapienza in molti autori medievali, nonostante fosse musulmano), il
quale lo fa chiamare per interrogarlo con la premeditata intenzione di coglierlo in fallo in tema di
dottrina religiosa, al fine di poterlo spogliare legalmente delle sue ricchezze.

La domanda è per il luogo, i tempi ed i personaggi coinvolti, estremamente insidiosa, il Saladino
infatti chiede a Melchisedech nientemeno quale sia la vera religione tra quelle monoteiste
(Cristianesimo, ebraismo o islam), il rischio è evidentemente quello di incorrere nella blasfemia
indicando la religione ebraica oppure nell'apostasia indicando la religione islamica, in ogni caso
rischia la rovina.

Per uscire brillantemente dalla difficile situazione egli si affida al racconto di un apologo nel quale
per lunga tradizione in una famiglia si usa nominare uno dei figli erede universale dei beni e dei
titoli consegnandogli uno speciale anello, un giorno uno degli eredi in tal modo nominato, giunto il
suo turno di nominare l'erede viene assalito dal dubbio e dall'impossibilità di scegliere chi egli ami
di più, per evitare il dilemma fa riprodurre l'anello in altri due esemplari perfettissimi e consegna i
tre anelli oramai indistinguibili ad ognuno dei suoi tre figli.

Alla morte del padre inevitabilmente i figli iniziano una insanabile diatriba su quale di loro sia il
vero ed unico erede, con conseguenti liti ed inimicizie.

Il sultano piacevolmente sorpreso dall'elegante metafora e dall'abilità del narratore decide di non
procedere oltre con l'inganno e di chiedere apertamente l'aiuto finanziario necessitato a
Melchisedech, il quale volentieri accondiscende. In seguito prende il saggio ebreo come suo servo e
consigliere, facendogli grandi doni.

Morale
La morale del racconto è tutta racchiusa in queste poche righe:

   « E così vi dico, signor mio, delle tre leggi alli tre popoli date da Dio padre, delle quali la quistion
   proponeste: ciascuno la sua eredità, la sua vera legge e i suoi comandamenti dirittamente si crede
   avere e fare; ma chi se l'abbia, come degli anelli, ancora ne pende la quistione. »
QUARTA NOVELLA (DIONEO)

Un frate, colpito dalla bellezza di una giovane ragazza, decide di condurla nella
sua cella dove i due, attratti l’uno dall’altra, si sollazzano. Il frate capisce di
essere scoperto dall’abate, decide perciò di uscire lasciando la porta della sua
cella aperta per far cadere anche l’abate nella colpa. Il superiore, inizialmente
scandalizzato dal peccato, non appena vede la ragazza nella cella del frate,
viene subito pervaso anche lui da desideri peccaminosi: cede alla tentazione e
li soddisfa. Il frate lo coglie sul fatto e non può venire condannato da colui che
ha commesso lo stesso peccato. Così la cosa rimase nascosta, e la fanciulla
continuò a frequentare tutti e due.

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  • 1. Il Decamerone o Decameron (dal greco antico, δἐκα, déka, "dieci", ed ἡμέρα, hēméra "giorno", con il significato di "[opera di] dieci giorni"[1]) è una raccolta di cento novelle scritta nel Trecento (probabilmente tra il 1349 ed il 1351) da Giovanni Boccaccio. È considerata, nel contesto del Trecento europeo, una delle opere più importanti della letteratura, fondatrice della letteratura in prosa in volgare italiano. Ebbe larghissima influenza non solo nella letteratura italiana ed europea (si pensi solo ai Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer), ma anche nelle lettere future, ispirando l'ideale di vita edonistica e dedicata al piacere ed al culto del viver sereno tipici della cultura umanista e rinascimentale (che si traduce per esempio nel celebre Trionfo di Bacco e Arianna, composizione poetica di Lorenzo de' Medici). Il libro narra di un gruppo di giovani, sette donne e tre uomini, che trattenendosi fuori città per quattordici giorni (il titolo indica i dieci giorni in cui si raccontano le novelle e non i quattro in cui ci si riposa), per sfuggire alla peste nera, che imperversava in quel periodo a Firenze, raccontano a turno delle novelle di taglio spesso umoristico e con frequenti richiami all'erotismo bucolico del tempo. Per quest'ultimo aspetto, il libro fu tacciato di immoralità o di scandalo, e fu in molte epoche censurato o comunque non adeguatamente considerato nella storia della letteratura. Il titolo Il titolo completo che Boccaccio dà alla sua opera è Comincia il libro chiamato Decameron cognominato prencipe Galeotto, nel quale si contengono cento novelle in diece dì dette da sette donne e da tre giovani uomini. Decameron deriva dal greco e letteralmente significa "dieci giorni" e si rifà all'Exameron ("sei giorni") di Sant'Ambrogio, un racconto sui sei giorni della creazione divina. In realtà il tempo effettivo trascorso fuori città dai giovani è di quattordici giorni, poiché il venerdì è dedicato alla preghiera e il sabato alla cura personale delle donne. L'opera è cognominata (ossia sottotitolata) Prencipe Galeotto, con riferimento a un personaggio, Galeuth o Galehaut, del ciclo bretone del romanzo cortese che fece da intermediario d'amore tra Lancillotto e Ginevra. "Galeotto" inoltre riecheggia un famoso verso, riferito allo stesso personaggio, del V canto dell'Inferno di Dante Alighieri, "Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse", verso con cui Francesca termina il suo racconto. La struttura Per approfondire, vedi la voce Struttura del Decameron. All'interno del Decameron, Boccaccio immagina come, durante il periodo in cui la peste devasta Firenze (1348), una brigata di sette ragazze e tre ragazzi, tutti di elevata condizione sociale decidano di cercare una possibilità di fuga dal contagio spostandosi in campagna. Qui questi dieci giovani trascorrono il tempo secondo precise regole, tra canti, balli e giochi. Notevole importanza, come vedremo dopo, assumono anche le preghiere. Per occupare le prime ore serali, i ragazzi decidono di raccontare una novella ciascuno, secondo precisi rituali: per esempio, l'elezione quotidiana di un re che fisserà il tema della giornata a cui tutti gli altri narratori dovranno ispirarsi nei loro racconti. Al solo Dioneo, per la sua giovane età, è concesso di non rispettare il tema delle giornate; dovrà però novellare sempre per ultimo (Privilegio di Dioneo). La prima e la nona giornata hanno un tema libero. Si sono date molteplici interpretazioni degli strani nomi attribuiti ai
  • 2. narratori, in gran parte riecheggianti etimologie greche: Pampinea ("la rigogliosa"), Filomena ("amante del canto", oppure "colei che è amata"), Neifile ("nuova amante"), Filostrato ("vinto d'amore"), Fiammetta (la donna amata da Boccaccio), Elissa (l'altro nome di Didone, la regina dell'Eneide di Virgilio), Dioneo ("lussurioso", da Diona, madre di Venere; spurcissimus dyoneus si definiva Boccaccio in una lettera giovanile), Lauretta (la donna simbolo di Petrarca), Emilia e Panfilo (il "Tutto Amore", che infatti racconterà spesso novelle ad alto contenuto erotico). Nel Decamerone le cento novelle, pur avendo spesso in comune il tema, sono diversissime l'una dall'altra, poiché l'autore vuol rappresentare la vita di tutti i giorni nella sua grande varietà di tipi umani, di atteggiamenti morali e psicologici, di virtù e di vizio; ne deriva che il Decameron offre una straordinaria panoramica della civiltà del Trecento: in quest'epoca l'uomo borghese cercava di creare un rapporto fra l'armonia, la realtà del profitto e gli ideali della nobiltà cavalleresca ormai finita. Come scritto nella conclusione dell’opera, i temi che Boccaccio voleva illustrare al popolo sono essenzialmente due. In primo luogo, infatti, Boccaccio voleva mostrare ai fiorentini che è possibile rialzarsi da qualunque disgrazia si venga colpiti, proprio come fanno i dieci giovani con la peste che si abbatte in quel periodo sulla città. Il secondo tema, invece, è legato al rispetto e ai riguardi di Boccaccio nei confronti delle donne: egli infatti scrive che quest’opera è dedicata a loro che, a quel tempo, erano le persone che leggevano maggiormente e avevano più tempo per dedicarsi alla lettura delle sue opere. Il proemio Il libro si apre con un proemio che delinea i motivi della stesura dell'opera. Boccaccio afferma che il libro è indirizzato a coloro che sono afflitti da "pene d'amore", allo scopo di dilettarli con piacevoli racconti e dare loro utili consigli. È chiaro perciò che l'opera è rivolta ad un pubblico di donne e più precisamente a "coloro che amano". Il Decameron non è quindi una lettura da letterati di professione, anche se raffinato ed elegante. Sempre nel Proemio Boccaccio racconta di rivolgersi alle donne per rimediare al "Peccato della Fortuna": le donne possono trovare poche distrazioni dalle pene d'amore rispetto agli uomini. Alle donne, infatti, a causa delle usanze del tempo, erano preclusi certi svaghi che agli uomini erano concessi, come la caccia, il gioco, il commerciare; tutte attività che possono occupare l'esistenza dell'uomo. Quindi nelle novelle le donne potranno trovare diletto e utili soluzioni che allieveranno le loro sofferenze. Anche il tema dell'"Amore" ha una certa importanza: in effetti gran parte delle novelle tocca questa tematica, che assume anche forme licenziose e che susciterà reazioni negative da parte di un pubblico retrivo; per questo motivo Boccaccio, nell'introduzione alla quarta giornata e specialmente nella conclusione, rivendicherà il suo diritto ad una letteratura libera ed ispirata ad una concezione naturalistica dell'Eros (significativo in questo senso il cosiddetto "Apologo delle Papere"). La cornice La cornice narrativa in cui inserire le novelle è di origine indiana (per esempio la raccolta Pañcatantra). Tale struttura passò poi nella letteratura araba e in Occidente. La cornice è costituita da tutto ciò che si trova al di fuori delle novelle ed in modo particolare dalla Firenze contaminata dalla peste dove un gruppo di dieci giovani, di elevata condizione sociale, si
  • 3. ritira in campagna per trovare scampo dal contagio. È per questo che Boccaccio all'inizio dell'opera fa una lunga e dettagliata descrizione della malattia che colpì Firenze nel 1348 (ispirata quasi interamente a conoscenze personali ma anche all'Historia Langobardorum di Paolo Diacono) che, oltre a decimare la popolazione, distrugge tutte quelle norme sociali, quegli usi e quei costumi che tanto gli erano cari. Al contrario, i giovani creano una sorta di realtà parallela quasi perfetta per dimostrare come l'uomo, grazie all'aiuto delle proprie forze e della propria intelligenza, sia in grado di dare un ordine alle cose, che poi sarà uno dei temi fondamentali dell'Umanesimo. In contrapposizione al mondo uniforme di questi giovani si pongono poi le novelle, che hanno vita autonoma: la realtà descritta è soprattutto quella mercantile e borghese; viene rappresentata l'eterogeneità del mondo e la nostalgia verso quei valori che via via stanno per essere distrutti per sempre; i protagonisti sono moltissimi ma hanno tutti in comune la determinazione di volersi realizzare per mezzo delle proprie forze. Tutto ciò quindi fa del Decameron un'opera unica, poiché non si tratta di una semplice raccolta di novelle: queste ultime sono tutte collegate fra di loro attraverso la cornice narrativa, formando una sorta di romanzo. La follia e le altre tematiche nel Decameron Nel Decameron il tema della follia compare a più riprese intrecciandosi inevitabilmente con altre tematiche, come quelle della beffa, dello scherno, della burla. Uno degli aspetti più interessanti, però, è quello della follia per amore, per la quale spesso uno dei due amanti giunge fino alla morte. La concezione della vita morale nel Decameron si basa sul contrasto tra Fortuna e Natura, le due ministre del mondo (VI,2,6). L'uomo si definisce in base a queste due forze: una esterna, la Fortuna (che lo condiziona ma che egli può volgere a proprio favore), l'altra interna, la Natura, con istinti e appetiti che deve riconoscere con intelligenza. La Fortuna nelle novelle appare spesso come evento inaspettato che sconvolge le vicende, mentre la Natura si presenta come forza primordiale la cui espressione prima è l'Amore come sentimento invincibile che domina insieme l'anima e i sensi, che sa ugualmente essere pienezza gioiosa di vita e di morte. L'amore per Boccaccio è una forza insopprimibile, motivo di diletto ma anche di dolore, che agisce nei più diversi strati sociali e per questo spesso si scontra con pregiudizi culturali e di costume. La virtù in questo contesto non è mortificazione dell'istinto, bensì capacità di appagare e dominare gli impulsi naturali. Durante tutta la IV giornata vengono narrate novelle che trattano di amori che ebbero infelice fine: si tratta di storie in cui la morte di uno degli amanti è inevitabile perché le leggi della Fortuna trionfano su quelle naturali dell'Amore. All'interno della giornata, le novelle 3, 4 e 5 rappresentano un trittico che illustra in modi diversi l'amore come follia. L'elemento che le accomuna è la presenza della Fortuna coniugata come diversità di condizione sociale: prevale infatti la tematica dell'amore che travalica le leggi della casta e del matrimonio, che diventa una follia sociale e motivo di scandalo. Un esempio è costituito dalla V novella della IV giornata, ovvero la storia di Lisabetta da Messina e il vaso di basilico. In questa novella si sviluppa il contrasto Amore/Fortuna: Lorenzo è un semplice garzone di bottega, bello e gentile, con tutte le qualità cortesi per suscitare l'amore; Lisabetta, che appartiene a una famiglia di mercanti originaria di San Gimignano, incarna l'energia eroica di chi resiste all'avversa fortuna solo con la forza del silenzio e del pianto; i tre fratelli sono i garanti dell'onore della famiglia, non tollerano il matrimonio della sorella con qualcuno di rango inferiore. Sono costretti ad intervenire per riportare le cose in ordine e per ristabilire l'equilibrio sovvertito dalla pazzia amorosa di Lisabetta.
  • 4. Boccaccio dichiara di aver scritto questo testo per le donne che lo leggeranno per passare il tempo: più in generale, si può dire quindi che il pubblico a cui si rivolge l'opera è di ceto medio. La Fortuna presente nell'opera è il "caso", a differenza di Dante che la considerava una intelligenza angelica che agiva nell'àmbito di un progetto divino (Inferno,VII,76-96).L'opera boccacciana non è ascetica ma laica, svincolata dal teocentrismo (Dio al centro dell' Universo) che invece sta alla base della Commedia di Dante e della mentalità medievale della quale il Decameron rappresenta l'"autunno". Oltre all'amore, presentato nei suoi vari aspetti anche sensuali, l'"Ingegno" umano è un motivo ricorrente. Troviamo il gusto della beffa (Chichibio), la spegiudicatezza empia di Ciappelletto, la dabbenaggine di Andreuccio da Perugia e Calandrino, l'arguzia e l'imbroglio(Frate Cipolla), gli aspetti maliziosi e ridanciani (racconto delle monache e della badessa).Incontriamo anche l'arguzia gentile di Cisti fornaio, l'intelligenza di Melchisedech e l'ingegno di Giotto. L'opera presenta una duplice "anima". La prima è realistica, riflette la mentalità e la cultura della classe borghese-mercantile ("epopea mercantile" Vittore Branca ha definito l'opera). La seconda è aristocratica ed in essa sono presenti le virtù cavalleresche proprie dell'aristocrazia feudale: cortesia, magnanimità, lealtà (novelle della decima giornata; novella di Federigo degli Alberighi). Il Decameron si conclude con una giornata in cui domina appunto il motivo della virtù, seguendo quindi una parabola morale ascendente secondo lo schema della poetica medievale. Si tratta del percorso anche della Commedia di Dante e del Canzoniere di Petrarca, dove però è presente il motivo religioso e teologico che invece manca nelle virtù terrene del laico Boccaccio. Nella Commedia si va dalla condizione di peccato alla beatitudine celeste, nel Canzoniere dall'idea di peccato e di traviamento del primo sonetto alla conclusiva canzone alla Vergine. [2].[3] [4] Le fonti del Decameron Come ha evidenziato anche il critico Vittore Branca nel suo "Decameron" sono molteplici le fonti letterarie dell'opera. Esse sono: le novelle e collezioni di "storie" della letteratura greca e latina, le raccolte medievali di novelle come il Libro de' sette savi e il Novellino, i romanzi cortesi, i romanzi francesi, i racconti dei mercanti fiorentini, i fabliaux, i "lamenti" (componimenti medievali, spesso popolari, in versi, per la morte di qualcuno), i cantari dei giullari, gli exempla. La censura A partire dalla metà del XVI secolo il sistema di controllo delle scritture andò organizzandosi e istituzionalizzandosi per poter far fronte alla lotta contro l'eresia. Fu così istituito L'Indice dei libri proibiti voluto da Papa Paolo IV Carafa nel 1559 come "filtro" per poter fronteggiare le accuse, anche se velate, degli scrittori del tempo. L'ordine da Roma era tassativo: «...Per niun modo si parli in male o scandalo de' preti, frati, abbati, abbadesse, monaci, monache, piovani, provosti, vescovi, o altre cose sacre, ma si mutino lj nomi; o si faccia per altro modo che parrà meglio». Il Decameron apparve nell'Indice dei libri proibiti alla lettera B nel seguente modo: «Boccacci Decades seu novellae centum quae hactenus cum tollerabilibus erroribus impressae sunt et quae posterum cum eisdaem erroribus imprimentur». Traduzione: Le decadi di Boccaccio o Cento Novelle che finora sono state stampate con errori intollerabili e che in futuro saranno stampate con i medesimi errori. Nel 1573 l'Inquisizione commissionò a degli esperti fiorentini, I Deputati, il compito di "sistemare" il testo fiorentino per eccellenza. Non esiste accordo sull'identità dei Deputati alla revisione del Decameron, ma le ipotesi plausibili sembrano essere due. La prima considera tre componenti: Vincenzo Borghini, Pierfrancesco Cambi, Sebastiano Antinori. La seconda ne considera quattro:
  • 5. Vincenzo Borghini, Sebastiano Antinori, Agnolo Guicciardini e Antonio Benivieni. Tra i membri del gruppo emerge Vincenzo Borghini, riconosciuto come il vero promotore della censura del Decameron. Essi, ricevuto dalla Chiesa di Roma il Decameron segnato nei passi da modificarsi, procedettero con armi diverse, con ragioni culturali, tradizionali, filologiche e retoriche alla difesa del Decameron, tentando di salvare il salvabile. Quindi alla Chiesa di Roma spettò direttamente la censura vera e propria, mentre la specializzazione linguistica e filologica spettò ai Deputati. Il 2 maggio 1572 tornò a Firenze la copia ufficiale autorizzata dall'Inquisitore di Roma per la stampa, ma solo il 17 agosto 1573 il testo venne stampato. L'anno successivo il testo dell'opera ridotta fu accompagnato da "Le Annotazioni di discorsi sopra alcuni luoghi del Decameron", una raccolta di considerazioni linguistiche e filologiche che cercavano di giustificare le scelte fatte durante le singole fasi della rassettatura. Il Decameron dei Deputati si ritrovò poco dopo proibito dalla stessa Inquisizione, e conobbe perciò solo un'edizione. Il Decameron conobbe nel 1582 un'altra edizione curata da Leonardo Salviati. Sembra che sia stato lo stesso Salviati che, tramite il suo protettore Jacopo Buoncompagni, spinse la curia romana a chiedere una nuova censura del Decameron. Infondata è l'ipotesi avanzata, secondo cui la nuova rassettatura si sarebbe resa necessaria perché i Deputati avrebbero rivelato una certa trascuratezza sul terreno della morale, soprattutto sessuale, lasciando insomma troppo correre sulla lascivia del testo. In realtà il Decameron di Salviati piuttosto che una vera e propria edizione fondata sui risultati di ricerche originali, appare una correzione dell'edizione precedente. Ne deriva che mentre i Deputati di Borghini si limitarono a tagliare, Salviati modificò, o più precisamente, che mentre i primi intervennero sul testo, il secondo censurò anche la lettura, facendo ricorso a glosse marginali, per svolgere apertamente una funzione di mediazione fra il testo e il lettore, per dare un'interpretazione univoca. L'operazione di Salviati risparmiò 48 novelle, mentre ne modificò 52. PERSONAGGI Pampinea è un personaggio letterario del Decameron di Giovanni Boccaccio. Essa è una delle sette fanciulle che fanno parte della brigata di giovani fuggiti da Firenze per evitare il contagio della peste nera, che si rifugiano in una villa sulle colline e passano il tempo raccontandosi una novella ciascuno al giorno. Il suo nome, che Boccaccio sottolinea essere fittizio per celare la vera identità (non volendo egli "che per le raccontate cose da loro [...] alcuna di loro possa prender vergogna") significa la "rigogliosa", e viene usato dall'autore anche nella Comedia delle ninfe fiorentine e nel Bucolicon Carmen. Pampinea è la più grande delle donne (ha ventotto anni, come si dice nell'introduzione alla prima giornata) ed è anche colei che convince il gruppo a fuggire dalla città. Per questo viene nominata per prima "regina", colei cioè che comanda la prima giornata. La peste a Firenze nel Decameron di Boccaccio Sulla soglia del Decameron, prima che inizi la descrizione delle dieci giornate dedicate al racconto di novelle, troviamo il racconto tragico e solenne della peste. La vicenda infatti
  • 6. prende spunto dalla peste che nel 1348 colpisce Firenze come il resto dell'Europa. In questa atmosfera di devastazione materiale e di dissoluzione morale, una brigata di dieci giovani, sette donne e tre uomini, decidono di recarsi fuori città, in un palazzo del contado, e di passare il tempo passeggiando, scherzando e raccontando novelle per esorcizzare l'orrore della morte con la definizione di una laica ed equilibrata prospettiva dell'esistenza: essa assume la forma dell’onestà, che è una virtù sociale, e della "gentilezza", che è invece una virtù individuale. Se l’uomo risulta condizionato da " due ministre del mondo ", che sono appunto la fortuna e la natura, l’ingegno può servire a controllare, almeno in parte, la natura anche nei suoi aspetti di malattia, sofferenza e morte. Il Decameron, dedicato poi in gran parte al racconto dell'amore per la vita nei suoi vari aspetti, si apre dunque con la rappresentazione terrificante della morte:".... pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in un altro continuandosi, inverso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata...". Il tono è solenne, lo stile usato qui dal Boccaccio è quello che veniva definito tragico, in corrispondenza alla serietà della materia. La descrizione del fenomeno è lucida, distaccata, quasi scientifica, tanto che potrebbe apparire fredda, se qualche inciso o qualche tensione stilistica non rivelasse l’orrore e il giudizio morale dello scrittore. Il fatto è che Boccaccio, vuole affidare l’orrore e il giudizio alle cose stesse, evitando ogni intervento soggettivo che correrebbe il rischio di cadere nel patetico o nel tono esclamativo e retorico. Il suo atteggiamento distaccato è appunto l’arma per suscitare l’orrore e la reazione morale di chi legge. Si motiva così la minuta descrizione, in primo luogo, della corruzione fisica (i bubboni, le macchie) con la agghiacciante constatazione finale ("certissimo indizio di futura morte"), in secondo luogo degli effetti del contagio, in terzo luogo dei vari rimedi da ciascuno escogitati e la loro sostanziale inutilità ("non perciò tutti campavano"), e infine della disgregazione morale e sociale. Protagonista del Decameron è una società in trasformazione che, attraverso una simile prova e tali stravolgimenti di valori, si trova alla fine profondamente mutata e si accorge che sono nate "cose contrarie a’ primi costumi de’ cittadini". Le terribili condizioni della peste provocarono la perdita della morale comune; testimoniano il rapporto crudele e e innaturale che si era instaurato tra i cittadini frasi come "... l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito e - che maggior cosa è quasi non credibile - li padri e le madri i figlioli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano". Appunto in una simile situazione un gruppo di giovani amici decide di abbandonare Firenze e di riparare in campagna. Il luogo dove riparano è in netto contrasto rispetto alla città tormentata dal flagello: una grande villa in collina, confortevole e bella, circondata dal verde dei prati, ricca d’acque freschissime e vini preziosi. E in netto contrasto è la psicologia dei giovani : tanto lì dominata dall’incubo della morte, quanto qui disposta a godere onestamente e serenamente i piaceri della vita. Fra i loro divertimenti ci sarà anche quello di raccontare per dieci giorni una novella ciascuno. Questi giovani vanno contro le convenzioni sociali dell’epoca, infatti solitamente gli uomini avevano occupazioni differenti da quelle delle donne, la peste induce a superare queste barriere creando una comitiva mista che manifesta la propria libertà esprimendo idee discutibili e non accettate dalla società di quel tempo. La peste sembra dunque aver per così dire spezzato ogni legame con il vivere civile. Nella descrizione cupa, lucida, distaccata e realistica della peste - vista come un fenomeno non solo di corruzione fisica ma di disgregazione morale e sociale - e nella evasione dei dieci giovani, che lasciano alle spalle le "mura vote" di Firenze e ritrovano nella campagna, nelle loro feste, nei loro giochi, nei loro passatempi la gioia di vivere, può forse trovarsi il senso più riposto dell’arte del Boccaccio: l’affermazione della vita sulla morte, affermazione che è quasi emblematicamente riassunta nell’immagine felice dei giovani che ritornano da una passeggiata: "Essi eran tutti di frondi di quercia inghirlandati, con le man piene o d’erbe odorifere o di fiori ; e chi scontrati gli avesse, niuna cosa
  • 7. avrebbe potuto dire se non: O costor non saranno dalla morte vinti o ella gli ucciderà lieti ". Boccaccio vuol proporre la vittoria della vita, in tutte le sue manifestazioni, dalle più elementari alle più elevate (e in certi casi la morte stessa è dignitosa difesa dei valori della vita), sulla morte, nei suoi aspetti, non solo di corruzione fisica ma di mortificazione della natura e di tenebra della ragione. Questo è il significato artistico e ideologico del che introduce alle novelle e di tutta la cornice che le racchiude, al di là della funzione strumentale di offrire una struttura organica e verosimile a tutta l’opera. Struttura del Decameron La struttura del Decameron è un articolato sistema con il quale Giovanni Boccaccio presentò le cento novelle del suo capolavoro. La cornice vede dieci giovani (tre ragazzi e sette ragazze) che per sfuggire alla peste nera che imperversa su Firenze si riuniscono in una villa di campagna. Per passare il tempo ciascun pomeriggio (tranne i giorni di venerdì e sabato dedicati alla penitenza) ognuno di loro racconta una novella agli altri secondo un tema stabilito il giorno prima. Il tema viene scelto dal "Re" o dalla "Regina" del giorno. Solo il personaggio di Dioneo è dispensato dal seguire il tema prestabilito e la sua novella è narrata sempre per ultima. Boccaccio curò molto ogni piccolo particolare; per esempio già dalla scelta dei nomi possiamo capire quale sia il carattere e la funzione del personaggio: Dioneo letteralmente dal latino significa "Dio Nuovo" quindi allude al significato di una vita diversa ed infatti è il ragazzo ribelle della brigata; oppure, ancora, Panfilo, che dal greco significa "Tutto Amore", racconterà spesso novelle piene di carica erotica. Tutti insieme questi personaggi riflettono poi il vero carattere dell'autore. Cepparello da Prato( PRIMA NOVELLA DELLA 1 GIORNATA) Cepparello da Prato, conosciuto anche come Ser Ciappelletto, è un personaggio letterario del Decameron di Giovanni Boccaccio, protagonista della prima novella dell'opera (giornata I, novella 1). Era un notaio, per cui aveva diritto ad essere chiamato "Ser" prima del nome. Boccaccio lo introduce nella novella facendolo chiamare da Musciatto Franzesi. Questo mercante francese infatti deve recarsi in Italia al seguito di Carlo di Valois e lascia a vari incaricati le sue faccende mercantili, ma non riesce a trovare "tanto malvagio uom" per riscuotere i debiti verso i clienti borgognoni ("uomini riottosi e di mala condizione e misleali") "che opporre alla loro malvagità si potesse" (giornata I, novella 1, 8-9). L'unico che gli venga in mente è appunto solo Cepparello da Prato, che aveva già avuto modo di ospitare a Parigi, dove era stato rinominato Ciappelletto: i francesi infatti credevano che il nome derivasse da "cappello" per cui lo nazionalizzarono in chapelet. Egli era un uomo avvezzo ad ogni empietà: spergiuro, seminatore di discordia e scandali, omicida, bestemmiatore, fedifrago, goloso, bevitore e giocatore d'azzardo. Così empio che quando, recatosi in Francia in casa di due mercanti fiorentini, malato e vicino a morire, i due padroni di casa sono fortemente tormentati: non lo possono cacciare, non lo possono far confessare, perché se rivelasse i suoi peccati nessun religioso gli darebbe l'assoluzione e sarebbe uno scandalo per la loro casa aver ospitato un uomo che non si possa seppellire in suolo consacrato (i loro creditori, malvagi borgognoni, li crederebbero ladri di pari razza e si rifiuterebbero di pagarli); né tantomeno possono farlo morire senza il sacramento della confessione. Ma Cepparello sente i loro dubbi e per non recare loro danno li prega di far chiamare un confessore, con il quale averebbe compiuto il suo ultimo peccato dinnanzi a Dio, non facendo ormai per lui differenza uno in più o uno in meno. Viene chiamato allora un venerabile frate al quale Cepparello, durante la confessione, inizia a rifilare una serie di fandonie, come se egli fosse stato l'uomo più pio e timorato di Dio sulla terra.
  • 8. La sua recitazione ha tanto effetto, che il frate ne rimane profondamente colpito. La finta confessione è in alcuni tratti esilarante, dicendo Cepparello, con grande pentimento e timore, peccati così lievi che fanno sorridere lo stesso frate, che le liquida come leggier cose. Il frate, dopo avergli dato l'assoluzione, lo rassicura che sarà sepolto nella chiesa del loro convento e gli dà la comunione e l'estrema unzione. Di lì a poco Cepparello muore e, sparsasi la voce della confessione di un sant'uomo, tutto il capitolo dei frati gli concesse dei funerali solenni, ai quali partecipò la folla incuriosita di vedere quel sant'uomo. Addirittura iniziano subito a venerarlo, con il beneplacito dei frati, e gli strappano le vesti per conservarle come reliquie. Votandosi alla sua indulgenza presto venne proclamato San Ciappelletto. La novella si chiude con il Boccaccio che si chiede, attraverso le parole di Panfilo, se Dio abbia avuto pietà di questo "santo" ammettendolo per la sua bonarietà in Paradiso, nonostante le sue numerose malefatte. Tra i temi della novella ci sono la valorizzazione dell'ingegno individuale (la confessione di Ciappelletto), la separazione tra livello divino e umano, l'ingenuità degli uomini di chiesa a fronte dell'ipocrisia della borghesia, che vuole conciliare mercatura e religione. Gli uomini si rivolgono ai santi come mediatori nei loro rapporti con Dio, ma i santi sono un'invenzione umana, e possono essere anche cacciati nell'inferno da Dio, il quale accoglie solo le buone intenzioni di coloro che rivolgono a lui preghiere. Dio quindi può convertire un fatto negativo (la santificazione del peccatore) in uno positivo. Frate Cipolla Frate Cipolla è un novella del Decameron, raccontata da Dioneo ed è l’ultima della sesta giornata, nella quale “sotto il reggimento d’Elissa, si ragiona di chi con alcun leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno”. A Certaldo, un paesetto della Toscana, ogni anno veniva inviato un frate della confraternita di Sant’Antonio a riscuotere le offerte dei fedeli; questo compito toccava a frate Cipolla al quale gli abitanti di Certaldo erano affezionati più che altro perché quella località era famosa per la produzione di cipolle. Quell’anno il frate, oltre a benedire il bestiame, del quale Sant’Antonio era il protettore, promise che avrebbe mostrato ai fedeli una reliquia che egli stesso aveva recuperato: una piuma dell’arcangelo Gabriele. Due abitanti di Certaldo, Giovanni del Bragoniera e Biagio Pizzini, i quali conoscevano da tempo il frate, udito ciò decisero di giocargli una beffa, con il solo intento di vedere in che modo il frate sarebbe riuscito a tirarsi fuori da una situazione imbarazzante; si recarono quindi dove il frate alloggiava mentre quest’ultimo era da un suo amico. Qui vi trovarono Guccio Imbratta o Balena o Porco, il servo di frate Cipolla, il quale era stato incaricato di sorvegliare la stanza del suo padrone; Guccio, il quale non sapeva frenare le passioni, avendo visto una serva alquanto brutta in cucina, lasciò perdere il suo compito per andare a far colpo su quest’ultima di nome Nuta. Della situazione approfittarono Giovanni e Biagio salmone che, entrati nella camera del frate, presero la penna, la quale venne riconosciuta per quella di un pappagallo, e la sostituirono con dei carboni. Quando il frate, al cospetto dei fedeli creduloni, scoprì la beffa, pensò subito che non doveva essere opera del servo in quanto non era così intelligente, né si arrabbiò con lui per non aver adempito al suo compito. In questa situazione imprevista il frate è abile nell’inventare una storia fantastica e priva di senso che racconta di un viaggio immaginario che lo portò da “Non-mi-blasmate-se-voi-piace” (Non mi biasimate per piacere) il quale gli donò alcune reliquie della sua collezione tra le quali la piuma e i carboni sui quali fu arrostito San Lorenzo. Essendo queste due reliquie poste in scatole identiche, il frate nel venire a Certaldo le confuse e prese la scatola sbagliata; ciò, secondo frate Cipolla, è accaduto non per sua negligenza ma per
  • 9. volontà divina in quanto due giorni dopo si sarebbe celebrata la festa in onore di San Lorenzo. A questo punto il frate mostra ai fedeli i carboni con i quali fa il segno della croce per benedirli. Alla fine della cerimonia i due, che gli avevano giocato lo scherzo e che avevano assistito al discorso ridendo di cuore, si complimentarono con lui ridandogli la penna. I personaggi In questa novella si presentano due strati sociali ed intellettuali ben distinti. In uno vi troviamo gli ignoranti ed i poveri di spirito: Nuta, Guccio ed i contadini di Certaldo. Il secondo strato sociale che incontriamo e che si oppone al primo è quello dell’élite arguta e capace di ingannare molti, fra questi troviamo frate Cipolla ed i suoi due amici Giovanni del Bragoniera e Biagio Pizzini. Frate Cipolla appartenente all’ordine di Sant’Antonio frate Cipolla è un uomo di piccola statura, rosso di capelli ed un buontempone. L’elemento caratterizzante della sua personalità è l’arte della retorica: <<chi conosciuto non l’avesse, non solamente un gran retorico l’avrebbe estimato, ma l’avrebbe detto esser Tullio medesimo o forse Quintiliano;>> Questa sua arte è evidente nel discorso che egli pronuncia quando scopre la beffa che gli è stata giocata, nel quale grazie ai molti giochi di parole, alle affermazioni stranissime e agli assurdi geografici, riesce a voltare l’imprevisto a suo favore. Guccio servo di frate Cipolla, Guccio è il classico servo sbadato che non sa resistere ai piaceri del cibo e del corpo. Di lui frate Cipolla dice: <<Egli è tardo, sbugliardo e bugiardo; negligente, disubidiente e mal diciente; trascurato, smemorato e scostumato;>> Nonostante ciò Guccio cerca di imitare il suo padrone nell’arte della retorica come espediente per conquistare le donne, ma i risultati non sono ovviamente gli stessi. Giovanni del Bragoniera e Biagio Pizzini amici e appartenenti allo stesso strato sociale di frate Cipolla, Giovanni e Biagio, non si fanno abbindolare dai discorsi del frate, decidono di ordire una beffa a suo danno, sapendo che frate Cipolla non sarebbe caduto nel tranello, poiché conoscevano molto bene le sue capacità di oratoria e di improvvisazione; i due burloni volevano solo godersi la scena che il frate avrebbe inventato. Nuta è la serva di cui Guccio si invaghisce. Viene così da Dioneo descritta: <<grassa grossa e piccola e mal fatta, con un paio di poppe che parean due ceston da letame;>> Temi La sesta giornata è dedicata a coloro che riescono a superare situazioni di rischio impreviste, mediante l’uso opportuno e appropriato della parola. L’esaltazione della capacità dell’oratoria e della presenza di spirito come mezzi per cavarsela in situazioni imbarazzanti non è un tema esclusivo della sesta giornata, anzi, è presente anche in molte novelle delle altre giornate del Decameron. A sottolineare l’importanza della retorica in questa novella è il lungo discorso di frate Cipolla che occupa ben un terzo della lunghezza totale della novella. Con questo discorso frate
  • 10. Cipolla dà sfogo a tutta la sua abilità di oratore grazie al frequente uso della figura retorica dell’anfibologia, puntando a stordire gli ascoltatori e confondere loro le idee. Tale figura retorica, facilmente visibile nei seguenti passi: <<io fui madato dal mio superiore in quelle parti dove apparisce il sole […] pervenni dove tutte l’acque corrono alla ‘ngiù; […] che io vidi volare i pennati>> consiste in un'espressione o discorso dal significato ambiguo ed interpretabile in due modi diversi. Per esempio il termine “pennati” può significare sia “volatili” che “coltelli per potare”. Il discorso inizia con una descrizione di viaggi immaginari che alludono a scenari esotici ma che in realtà si riferiscono a luoghi vicini e fatti banali, resi però irriconoscibili dall’uso di artifici retorici. A sottolineare questo carattere fantastico e ambiguo del discorso ci pensano anche i nomi di alcuni luoghi totalmente inventati: “Truffia”, “Buffia” e “Terra di Menzogna”. Questo discorso ha una duplice funzione, se da un lato esso serve al frate per convincere la folla della veridicità della reliquia, dall’altro svolge la funzione di far divertire i due giovani che assistevano al discorso di Cipolla come se lui fosse un attore teatrale che deve dimostrare la sua bravura nell’improvvisare davanti ad una situazione inaspettata. Altro tema fondamentale è quello della beffa che in questa novella è addirittura doppia, essa infatti è sia giocata dai due ragazzi al frate, sia da quest’ultimo ai danni di coloro che lo ascoltano. Boccaccio con questa novella vuole innanzitutto comunicarci l’ampio divario intellettuale che c’è fra la massa contadina e la classe dirigente costituita dall’emergente classe mercantile, dagli ecclesiastici e dagli uomini di cultura, quale è Boccaccio, i quali grazie alla loro astuzia superiore sono capaci di ingannare molte persone. Come già accaduto nella novella di Ser Cepparello, Boccaccio muove anche un duro attacco nei confronti della Chiesa, sottolineandone la sua tendenza ad approfittare dell’ignoranza del popolo per riscuotere offerte maggiori mostrando false reliquie e donando indulgenze invalide. Ciò è messo in evidenza dal fatto che frate Cipolla nel suo sermone cita reliquie come un braccio della santa croce, la mascella della Morte di San Lazzaro ed il sudore di San Michele quando combatté contro il diavolo, le quali sono vistosamente dei falsi. Anche Dante nel XXIX canto del Paradiso critica questo aspetto della Chiesa, accusando i frati della confraternita di Sant’Antonio di usare il denaro ricavato dalle offerte e dalla compravendita delle false indulgenze per nutrire i propri animali, figli e concubine: ABRAAM GIUDEO(SECONDA NOVELLA 1 GIORNATA) Questa novella, ambientata sia in Francia che a Roma, è scritta da Neifile e come anche la novella di “Ser Ciappelletto” questa non ha un tema specifico, perché essendo la prima giornata i giovani ragazzi, protagonisti dell'opera, si lasciano andare al libero piacere della narrazione, senza un particolare tema o modello da seguire. La vicenda ha per protagonisti due commercianti di stoffe, Giannotto di Civignì ed Abraam giudeo, e anche i clerici. I due nonostante la differenza di religione sono legati da una profonda amicizia e da valori comuni come la rettitudine e l'onestà. Giannotto voleva che Abraam diventasse cristiano perché gli dispiaceva che la sua anima si perdesse per mancanza di fede, inoltre per dimostrargli la superiorità della religione cristiana rispetto a quella ebraica, diceva che questa si diffondeva sempre di più, ma questo, anche se attratto dalle motivazioni postegli, rimane fedele alla sua religione fino a che un giorno comunica al cristiano che stava per compiere un viaggio a Roma per vedere da vicino lo stile di vita del Papa e del clero e che se ne fosse rimasto colpito si sarebbe fatto battezzare. Giannotto non voleva che Abraam partisse per Roma perché sapeva che a Roma avrebbe visto la corruzione del Vaticano, visto che a quell’epoca c’era come Papa Leone X che vendeva al popolo le indulgenze per completare la Basilica di San Pietro a Roma, infatti gli disse che quel viaggio a Roma era inutile e che anche a Parigi avrebbe potuto trovare ottimi maestri, ma lui partì lo stesso. Infatti Abraam si accorge da subito della vita peccaminosa dei chierici: lussuria, avarizia, simonia. Quando torna da Giannotto, il quale ha ormai perso la speranza nella conversione dell'amico, gli annuncia invece che nessuno potrà ostacolargli il battesimo perché proprio durante il proprio viaggio si è accorto che lo Spirito Santo è con il Cristianesimo e con nessuna altra religione, perché,
  • 11. pensa che solo in questo modo avrebbe potuto sopravvivere in mezzo a tanto peccato e ad accrescere di giorno in giorno il numero dei fedeli. Questa novella si può dividere in tre macro-sequenze: la prima dice Giannotto parla con Abraam e cerca di farlo convertire; la seconda quando Abraam effettua il viaggio a Roma; la terza quando Abraam ritorna e, con meraviglia di Giannotto, si converte al Cristianesimo. La focalizzazione è zero, in quanto il narratore è onnisciente. Melchisedech giudeo (3 NOVELLA 1 GIORNATA) Melchisedech giudeo è un personaggio letterario protagonista della terza novella della prima giornata del Decameron di Giovanni Boccaccio. Egli è un esempio di ebreo saggio, una figura presente in varie opere della letteratura medievale. Trama[modifica] Melchisedech è un ricco israelita alla corte del Sultano di Babilonia (Baghdad), Saladino (un simbolo di lealtà cavalleresca e sapienza in molti autori medievali, nonostante fosse musulmano), il quale lo fa chiamare per interrogarlo con la premeditata intenzione di coglierlo in fallo in tema di dottrina religiosa, al fine di poterlo spogliare legalmente delle sue ricchezze. La domanda è per il luogo, i tempi ed i personaggi coinvolti, estremamente insidiosa, il Saladino infatti chiede a Melchisedech nientemeno quale sia la vera religione tra quelle monoteiste (Cristianesimo, ebraismo o islam), il rischio è evidentemente quello di incorrere nella blasfemia indicando la religione ebraica oppure nell'apostasia indicando la religione islamica, in ogni caso rischia la rovina. Per uscire brillantemente dalla difficile situazione egli si affida al racconto di un apologo nel quale per lunga tradizione in una famiglia si usa nominare uno dei figli erede universale dei beni e dei titoli consegnandogli uno speciale anello, un giorno uno degli eredi in tal modo nominato, giunto il suo turno di nominare l'erede viene assalito dal dubbio e dall'impossibilità di scegliere chi egli ami di più, per evitare il dilemma fa riprodurre l'anello in altri due esemplari perfettissimi e consegna i tre anelli oramai indistinguibili ad ognuno dei suoi tre figli. Alla morte del padre inevitabilmente i figli iniziano una insanabile diatriba su quale di loro sia il vero ed unico erede, con conseguenti liti ed inimicizie. Il sultano piacevolmente sorpreso dall'elegante metafora e dall'abilità del narratore decide di non procedere oltre con l'inganno e di chiedere apertamente l'aiuto finanziario necessitato a Melchisedech, il quale volentieri accondiscende. In seguito prende il saggio ebreo come suo servo e consigliere, facendogli grandi doni. Morale La morale del racconto è tutta racchiusa in queste poche righe: « E così vi dico, signor mio, delle tre leggi alli tre popoli date da Dio padre, delle quali la quistion proponeste: ciascuno la sua eredità, la sua vera legge e i suoi comandamenti dirittamente si crede avere e fare; ma chi se l'abbia, come degli anelli, ancora ne pende la quistione. »
  • 12. QUARTA NOVELLA (DIONEO) Un frate, colpito dalla bellezza di una giovane ragazza, decide di condurla nella sua cella dove i due, attratti l’uno dall’altra, si sollazzano. Il frate capisce di essere scoperto dall’abate, decide perciò di uscire lasciando la porta della sua cella aperta per far cadere anche l’abate nella colpa. Il superiore, inizialmente scandalizzato dal peccato, non appena vede la ragazza nella cella del frate, viene subito pervaso anche lui da desideri peccaminosi: cede alla tentazione e li soddisfa. Il frate lo coglie sul fatto e non può venire condannato da colui che ha commesso lo stesso peccato. Così la cosa rimase nascosta, e la fanciulla continuò a frequentare tutti e due.