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“Teorie dell’apprendimento e tecniche di modificazione
                                  comportamentale”


Definizioni e concetti generali
Tra i vari studiosi, esiste un sostanziale accordo riguardo alla definizione di apprendimento.
Fondamentalmente, l’apprendimento può essere definito: “un cambiamento permanente nel
comportamento, nei processi cognitivi e negli atteggiamenti, come conseguenza di specifiche
esperienze d’interazione tra l’organismo ed il suo ambiente”. In questa definizione, possiamo
individuare cinque elementi caratterizzanti e distintivi.
In primo luogo, l’apprendimento si manifesta e si sostanzia in un cambiamento. Come afferma
Cronbach (1980), possiamo inferire il verificarsi di un processo d’apprendimento dall’osservazione
di modificazioni verificatesi nella condotta dell’individuo. La seconda caratteristica
dell’apprendimento è la stabilità dei cambiamenti a livello comportamentale e cognitivo. Questo
criterio ci permette di distinguere l’apprendimento da quelle modificazioni temporanee nel nostro
comportamento, dovute a fenomeni transitori, quali la noia, la stanchezza, l’effetto di qualche
sostanza psicotropa, ecc. Stabilità, però, non significa affatto immutabilità: al pari del processo di
memorizzazione di nuove informazioni, anche i nuovi apprendimenti possono essere modificati o
perduti, nel caso in cui non vengano esercitati con una certa regolarità e frequenza. La terza
caratteristica è già stata implicitamente indicata. L’apprendimento implica delle modificazioni in
diversi repertori del soggetto: nel comportamento, nel modo di elaborare cognitivamente le
informazioni ambientali, nelle attitudini e nei pattern emozionali. In quarto luogo, l’apprendimento è
sempre il frutto di un’esperienza. Il processo d’apprendimento, quindi, implica la ricezione di
specifici stimoli ambientali, la loro elaborazione e una risposta conseguente (a livello di
comportamenti od attitudini).
Differenti approcci di studio hanno attribuito una diversa importanza al ruolo giocato da questi
processi cognitivi. Da un lato, possiamo annoverare le varie forme di condizionamento
(rispondente od operante), in cui si verifica un’associazione tra stimolo e risposta per contiguità
temporale. In questi casi, non è necessaria la comprensione cosciente tra i fattori in gioco. In altre
parole, l’associazione si stabilisce anche senza che il soggetto ne sia consapevole (come avviene,
ad esempio, nell’apprendimento di fobie monotematiche o di altri comportamenti disfunzionali).
Dall’altro lato, possiamo classificare tutte quelle forme di apprendimento mediate dai processi
cognitivi, come nel modeling descritto da Bandura. Infine, come ultima caratteristica,
l’apprendimento avviene sempre all’interno di un’interazione tra l’organismo ed il suo ambiente.
Al di là della delle definizioni, molte questioni rimangono aperte anche riguardo alla funzione
dell’apprendimento. Da un lato, si concorda sul fatto che l’apprendimento ha una funzione
adattativa. D’altro lato, però, non si possono ignorare tutti quei processi d’apprendimento che
danno luogo a comportamenti disfunzionali e patologici. In questi casi, si tratta allora di compiere
una valutazione dei prodotti dell’apprendimento. In linea generale, si può affermare che, attraverso
l’apprendimento, l’individuo impara strategie e comportamenti per soddisfare meglio i propri
bisogni e per interagire in maniera più adeguata con l’ambiente. Questa precisazione ci permette
di individuare le due fondamentali classi di oggetti dell’apprendimento. Infatti, possiamo imparare:
       contenuti, ossia nuove idee, informazioni, dati, ecc.;
       strategie ed abilità, a livello di elaborazione delle informazioni o a livello di
         comportamenti manifesti (ad esempio, l’apprendimento di nuove strategie di problem-
         solving).

È anche importante distinguere tra l’apprendimento e la maturazione spontanea dell’organismo.
Anche quest’ultima, infatti, comporta delle modificazioni stabili a livello comportamentale, affettivo
e cognitivo. Inoltre, i recenti studi in campo neuropsicologico ed evolutivo dimostrano l’importanza
delle esperienze nel canalizzare i processi maturazionali. Quale differenza permane allora con
l’apprendimento?
Possiamo individuare un fondamentale criterio distintivo. La maturazione comporta delle
modificazioni relativamente simili in tutti gli individui. Viceversa, l’apprendimento, essendo il
risultato di specifiche esperienze, porta progressivamente ad una differenziazione delle persone.
Infine, è fondamentale distinguere i processi d’apprendimento in base al grado d’intenzionalità del
soggetto che apprende. Da un lato, abbiamo tutte quelle forme di apprendimento non
programmate ed incidentali, derivanti dalla semplice interazione dell’individuo con l’ambiente
circostante: ad esempio, il bambino che si brucia toccando accidentalmente la stufa, impara a non
avvicinarvisi più. L’apprendimento accidentale può riguardare anche repertori più complessi: ad
esempio, la gran parte delle abilità sociali che utilizziamo quotidianamente non sono il frutto di
sessioni d’insegnamento strutturate ed intenzionali, ma derivano dalla continua interazione ed
osservazione di altri, per noi significativi. Dall’altro lato, abbiamo tutte quelle situazioni
d’apprendimento strutturate ed intenzionali: ad esempio, il ragazzo che si iscrive ad un corso
universitario. Anche in questo caso, però, il soggetto non si limiterà ad imparare le nozioni
trasmesse dal docente. Piuttosto, osservando ed interagendo con gli altri, potrà apprendere una
serie di strategie comportamentali e cognitive.


Teorie dell’apprendimento
Nel corso di questo secolo sono state formulate teorie sull’apprendimento molto diverse, partendo
spesso da concezioni dello sviluppo e del funzionamento umano differenti, se non antitetiche. Il
proliferare di teorie, che talvolta si è tradotto in microteorie (come è avvenuto negli anni Settanta
con la micromodellistica di stampo cognitivista), ha determinato grosse difficoltà quando si è
cercato di classificare questi modelli. Così, ad esempio, Hilgard e Bower (1987) individuano 10
categorie fondamentali:
       1.    1.     connessionismo di Thorndike;
       2.    2.     condizionamento classico o rispondente di Pavlov;
       3.    3.     condizionamento per contiguità di Guthrie;
       4.    4.     condizionamento operante di Skinner;
       5.    5.     teoria sistematica di Hull;
       6.    6.     apprendimento basato su mappe e segnali di Tolman;
       7.    7.     teoria della Gestalt;
       8.    8.     psicodinamica;
       9.    9.     teoria matematica dell’apprendimento;
       10. 10. modelli H.I.P.

Questo elenco evidenzia immediatamente due aspetti. Da un lato, la difficoltà a trovare un criterio
di classificazione che non conduca ad un proliferare di categorie. Dall’altro lato, tuttavia, tale
elenco rischia di non essere esaustivo: ad esempio, nell’ultima categoria (modelli basati sul
processare informazioni) trovano posto teorie molto diverse e difficilmente accostabili l'una all'altra.
Gli stessi due autori sottolineano la difficoltà a dividere le teorie dell’apprendimento in due classi
molto generali: teorie stimolo-risposta (in cui includere Thorndike, Pavlov, Guthrie, Skinner, ecc.) e
teorie cognitivistiche (che andrebbero da Tolman ai modelli H.I.P., passando per la teoria della
Gestalt). Tutto ciò comporta una notevole complessità ed eterogeneità di approcci nello studio
dell’apprendimento. Comunque, le teorie sostenute dalle maggiori evidenze scientifiche e dai
maggiori risvolti operativi in ambito educativo sono quelle che ricadono nell’ambito degli approcci
di stampo comportamentale e cognitivista, che ora passeremo ad indagare.


Teorie associazionistiche o comportamenti-stiche
I più importanti contributi allo studio dell’apprendimento vengono dalla tradizione associazionistica.
Si tratta di ricerche condotte prevalentemente su animali, ma i cui risultati sono applicabili anche ai
processi d’apprendimento negli esseri umani. Soprattutto, questi risultati sono stati tradotti in
specifiche indicazioni operative per le situazioni d’insegnamento.

       I pionieri: Thorndike e Pavlov
I primi studi sull’apprendimento, basati su una rigorosa metodologia scientifica, sono stati condotti
sul finire del 1800 e nei primi del Novecento da Thorndike, negli Stati Uniti, e da Pavlov, in Russia.
L’associazionismo sperimentale studiato da Thorndike fu da lui stesso definito ‘connessionismo’.
L’intero processo d’apprendimento sarebbe cioè riducibile ad una serie di connessioni tra
situazioni-stimolo e risposte comportamentali.
Thorndike studiò il comportamento di alcuni gatti inseriti in una gabbia, dalla quale era possibile
uscire premendo una leva. Gli animali inizialmente emettevano casualmente una serie di risposte
comportamentali. Infine, arrivavano a premere la leva e ad uscire dalla gabbia. Reintrodotti nella
gabbia, i gatti progressivamente eliminavano le risposte non funzionali e finivano con l’emettere
solamente la precisa sequenza comportamentale necessaria a fuggire. Il meccanismo sottostante
questo processo fu chiamato ‘ap-prendimento per prove ed errori’.

L’intero processo sarebbe governato da due fondamentali regole:
  legge dell’effetto: ogni azione in grado di generare una conseguenza gratificante per
    l’individuo (ad esempio, la fuga dalla gabbia) ha maggiori probabilità di essere ripetuta.
    Viceversa, gli atti comportamentali che non determinano conseguenze positive sono destinati
    ad essere abbandonati;
  legge dell’esercizio: la ripetizione di una determinata risposta comportamentale in una
    data situazione tende a rinforzare la connessione tra quella risposta e la situazione. Viceversa,
    il disuso della risposta indebolisce l’associazione.

Le conclusioni di Thorndike enfatizzano soprattutto il ruolo della gratificazione sullo stabilirsi delle
connessioni S-R, piuttosto che il semplice esercizio o l’uso di punizioni.
Altre ricerche fondamentali per gli studi sull’apprendimento sono quelle del fisiologo russo Pavlov,
che portarono alla formulazione del paradigma definito ‘condizionamento rispondente’. Nel corso di
ricerche sui cani, Pavlov notò che progressivamente la risposta di salivazione non compariva solo
quando il cibo veniva posto sulla lingua del cane, ma nel momento in cui l’animale sentiva il
rumore dei passi dello sperimentatore che portava il cibo. Il fisiologo russo, allora, associò la
presentazione del cibo ad un suono o ad una luce. La reazione di salivazione finì con l’essere
elicitata semplicemente da questi stimoli sonori o luminosi.
Il cibo è definito stimolo incondizionato, in quanto biologicamente e naturalmente provoca la
reazione di salivazione (risposta incondizionata). La luce od il suono, invece, sono stimoli
condizionati, in quanto biologicamente non sono capaci di suscitare la risposta di salivazione, ma
raggiungono tale capacità quando vengono ripetutamente associati allo stimolo incondizionato (il
cibo). La risposta di salivazione allo stimolo condizionato viene definita risposta condizionata.
Questo processo è stato chiamato nel suo complesso condizionamento rispondente, in quanto non
porta all’apprendimento di nuovi comportamenti, ma al condizionamento di una risposta già
esistente a stimoli biologicamente neutri.
Il condizionamento rispondente rappresenta una forma basilare d’apprendimento non solo negli
animali, ma anche negli uomini. Molte nostre risposte automatiche a situazioni-stimolo dipendono
dalla presenza di condizionamenti di tipo pavloviano (comprese, ad esempio, molte reazioni
fobiche). Questo modello d’apprendimento presenta alcune caratteristiche peculiari. Innanzitutto,
esiste un intervallo ottimale tra la presentazione dello stimolo condizionato e di quello
incondizionato, affinché si stabilisca un’associazione. Questo intervallo oscilla tra mezzo secondo
e 2 secondi. Ciò implica che intervalli troppo lunghi (ad esempio, oltre i 15 secondi) non sono in
grado di determinare alcuna associazione.
La seconda caratteristica richiama la legge dell’esercizio formulata da Thorndike: la risposta
condizionata cioè tenderà a scomparire se lo stimolo condizionato viene presentato ripetutamente
senza essere seguito dallo stimolo incondizionato. Questo fenomeno è definito estinzione.
Tuttavia, basterà riproporre solo alcune volte lo stimolo condizionato seguito da quello
incondizionato, affinché si ristabilisca l’associazione originaria. È possibile ottenere anche
condizionamenti derivati o di secondo ordine, quando associamo ad uno stimolo condizionato un
ulteriore stimolo condizionato.

       Il condizionamento operante di Skinner
Gli studi di Skinner portarono alla formulazione di una seconda forma basilare d’apprendimento,
definita condizionamento operante. In questo caso, le ricerche si concentrarono sulle risposte
comportamentali che spontaneamente e casualmente un soggetto esibisce in una determinata
situazione. La probabilità futura d’emissione di tali risposte dipenderà dalle conseguenze che esse
avranno prodotto. Le risposte, che vengono in qualche modo premiate, tenderanno a comparire in
futuro con maggiore probabilità in situazioni-stimolo simili. Viceversa, quelle risposte che vengono
punite o, comunque, non ricevono un premio, tenderanno ad essere abbandonate.
Il modello di Skinner è servito da base per lo sviluppo di molte tecniche educative e riabilitative,
che si sono mostrate di notevole efficacia. Attraverso un’attenta somministrazione di premi e
punizioni, infatti, è possibile far apprendere (modellare) risposte comportamentali anche molto
complesse (a titolo di esempio, è sufficiente ricordare la controversia col modello di Chomski
sull’acquisizione del linguaggio).
È necessario chiarire alcuni termini impiegati in questa teoria. Con rinforzo positivo si intendono
quelle conseguenze positive in grado di aumentare la probabilità futura d’emissione dello stesso
comportamento (ad esempio, una lode da parte dell’insegnante). Si parla di rinforzo negativo (da
non confondere con la punizione) quando il comportamento permette di evitare una conseguenza
spiacevole (ad esempio, un rimprovero). Anche in questo caso, il comportamento in questione
risulterà rafforzato. Viceversa, la punizione è un qualsiasi evento spiacevole in grado di ridurre
l’emissione di una certa risposta.
Sicuramente, nella teoria skinneriana e nelle sue applicazioni il rinforzo gioca un ruolo più centrale
rispetto a quello della punizione. Infatti, attraverso la somministrazione dei rinforzi possiamo
modellare il comportamento desiderato (dalla lettura alle abilità sportive). La punizione, invece,
provoca solamente una riduzione di un dato comportamento, ma non determina affatto la
comparsa di un altro comportamento desiderato. Anzi, spesso l’uso della punizione genera
risposte di fuga che allontanano il soggetto dall’impegnarsi in un dato compito (non a caso, molte
fobie per la scuola sono ingenerate da un atteggiamento eccessivamente punitivo dell’insegnante,
che porta l’alunno a sviluppare reazioni d’ansia e di fuga nei confronti dell’esperienza scolastica
nel suo insieme).
Per questi motivi, quando è necessario punire un comportamento particolarmente problematico, è
sempre consigliabile rinforzare, al contempo, comportamenti adattivi ed alternativi. Spesso, alcuni
comportamenti disadattivi sono mantenuti dal fatto che producono conseguenze positive: tornando
all’esempio della fobia scolastica, le insistenti richieste del ragazzo di non andare a scuola (spesso
sotto forma di lamentele fisiche) finiscono talvolta con l’ottenere il fine desiderato (il genitore cede
alle richieste ed accontenta il ragazzo, rinforzando però in tal modo le sue reazioni di fuga). Il
modello skinneriano, quindi, rappresenta un ottimo schema per comprendere molti fenomeni
coinvolti nel processo d’apprendimento e per intervenire al fine d’implementare un sistema
d’insegnamento più efficace.
Le due forme di condizionamento descritte (rispondente ed operante) presentano due importanti
caratteristiche, funzionali ad ogni processo d’apprendimento. Da un lato, si verifica un fenomeno di
generalizzazione: dopo aver appreso una determinata associazione S-R, impariamo a reagire a
stimoli simili a quello originario. Questo meccanismo garantisce l’economicità del nostro
apprendimento: infatti, non siamo costretti ad apprendere specifiche risposte ad ogni situazione
data, ma siamo in grado di trasferire i comportamenti appresi in una circostanza ad altre simili.
Dall’altro lato, tuttavia, esiste un processo di discriminazione, grazie al quale siamo in grado di
cogliere le differenze tra situazioni-stimolo diverse, mettendo in atto comportamenti differenti. Ciò
garantisce la flessibilità del nostro operare.

       L’apprendimento per imitazione
Una terza fondamentale modalità d’apprendimento (oltre al condizionamento rispondente e quello
operante) è rappresentata dal modeling (modellamento). Questa forma d’apprendimento è stata
studiata da Bandura, partendo dalla constatazione che molte abilità e conoscenze vengono
apprese, osservando un’altra persona che manifesta un determinato comportamento. Tutti noi,
cioè, apprendiamo imitando un ‘modello’ che mostra una certa padronanza nell’abilità da acquisire.
Tale modalità d’apprendimento sarebbe attiva fin dai primi anni d’età, quando il bambino prende a
modello soprattutto i genitori o eventuali fratelli maggiori. Il modeling chiama in causa importanti
processi cognitivi:
processi attentivi, grazie ai quali la persona dirige e mantiene l’attenzione sul modello;
     processi di ritenzione, in base ai quali si memorizzano le sequenze comportamentali
     osservate;
     processi di riproduzione motoria, per mezzo dei quali si ripropongono dette
     sequenze;
     rinforzo e processi motivazionali, ossia i premi e le sanzioni che aumentano o
     diminuiscono la probabilità d’emissione dei comportamenti imitati.

Con il contributo di Bandura, i processi cognitivi acquistano un importante ruolo causale
nell’apprendimento. Inoltre, il modeling è alla base dell’acquisizione di molte abilità complesse,
come ad esempio quelle sportive.

       Il modello H.I.P.
Nel corso degli anni Settanta si affermò un nuovo approccio allo studio dei processi cognitivi,
rappresentato dal modello dello Human Information Processing. Fondandosi sulla metafora della
mente umana come computer, si ritenne di poter studiare scientificamente i processi
d’elaborazione delle informazioni da parte dell’uomo, superando quindi le critiche e lo scetticismo
propri del comportamentismo. Lo schema fondamentale adottato dal nuovo approccio di ricerca è
quello proprio del funzionamento delle macchine calcolatrici:

Il modello H.I.P. (Human Information Processing)




                                     Elaborazione
                input →                cognitiva              → output




I vari studiosi di scienze cognitive si distinsero nella misura in cui ritenevano di poter descrivere
dettagliatamente i processi d’elaborazione centrale o, invece, credevano di non poter indagare
approfonditamente questi processi, essendo comunque inaccessibili ad un’osservazione diretta.
L’approccio H.I.P. ha ricevuto nel tempo notevoli critiche: la metafora della mente come computer
è stata infatti considerata inadeguata a rappresentare la complessità e la capacità costruttiva della
struttura cognitiva dell’uomo. In particolare, è stata criticata la passività in cui verrebbe relegata la
mente umana, destinata solamente ad elaborare gli input forniti dall’ambiente. Parallelamente,
mentre alcuni studiosi sottolineano la sostanziale uniformità nel modo di processare le informazioni
da parte di soggetti diversi (ad esempio, Piaget), altri insistono maggiormente sulla possibilità di
percorsi evolutivi idiosincrasici. Al di là di queste critiche e di questi dibattiti, il modello H.I.P. ha
avuto il merito di sottolineare il ruolo dei processi cognitivi nell’apprendimento. In questo senso,
l’individuo non si limita ad associare situazioni-stimolo a risposte comportamentali: piuttosto,
utilizza precisi piani e strategie cognitive, in base ai quali riceve ed elabora le informazioni in
ingresso, pianifica le risposte e memorizza i dati rilevanti. A tal proposito, rimane fondamentale il
classico modello cibernetico TOTE, descritto da Miller, Galanter e Pribram (1960). Di fronte ad un
nuovo compito d’apprendimento (ad esempio, la risoluzione di un problema) l’individuo segue un
preciso algoritmo:

       T = Test, ossia verifica della situazione attuale e della discrepanza con la situazione
       desiderata (nell’esempio, la risoluzione del problema);
       O = Operate, ossia l’implementazione della strategia scelta per risolvere il problema;
       T = reTest, ossia verifica del risultato raggiunto;
       E = Exit, uscita dal processo, in caso di risultato soddisfacente, o avvio di un nuovo
       processo.
Questo schema permette di descrivere compiti d’apprendimento a differenti livelli di complessità,
da semplici memorizzazioni di informazioni ad elaborati compiti di problem-solving.

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  • 1. “Teorie dell’apprendimento e tecniche di modificazione comportamentale” Definizioni e concetti generali Tra i vari studiosi, esiste un sostanziale accordo riguardo alla definizione di apprendimento. Fondamentalmente, l’apprendimento può essere definito: “un cambiamento permanente nel comportamento, nei processi cognitivi e negli atteggiamenti, come conseguenza di specifiche esperienze d’interazione tra l’organismo ed il suo ambiente”. In questa definizione, possiamo individuare cinque elementi caratterizzanti e distintivi. In primo luogo, l’apprendimento si manifesta e si sostanzia in un cambiamento. Come afferma Cronbach (1980), possiamo inferire il verificarsi di un processo d’apprendimento dall’osservazione di modificazioni verificatesi nella condotta dell’individuo. La seconda caratteristica dell’apprendimento è la stabilità dei cambiamenti a livello comportamentale e cognitivo. Questo criterio ci permette di distinguere l’apprendimento da quelle modificazioni temporanee nel nostro comportamento, dovute a fenomeni transitori, quali la noia, la stanchezza, l’effetto di qualche sostanza psicotropa, ecc. Stabilità, però, non significa affatto immutabilità: al pari del processo di memorizzazione di nuove informazioni, anche i nuovi apprendimenti possono essere modificati o perduti, nel caso in cui non vengano esercitati con una certa regolarità e frequenza. La terza caratteristica è già stata implicitamente indicata. L’apprendimento implica delle modificazioni in diversi repertori del soggetto: nel comportamento, nel modo di elaborare cognitivamente le informazioni ambientali, nelle attitudini e nei pattern emozionali. In quarto luogo, l’apprendimento è sempre il frutto di un’esperienza. Il processo d’apprendimento, quindi, implica la ricezione di specifici stimoli ambientali, la loro elaborazione e una risposta conseguente (a livello di comportamenti od attitudini). Differenti approcci di studio hanno attribuito una diversa importanza al ruolo giocato da questi processi cognitivi. Da un lato, possiamo annoverare le varie forme di condizionamento (rispondente od operante), in cui si verifica un’associazione tra stimolo e risposta per contiguità temporale. In questi casi, non è necessaria la comprensione cosciente tra i fattori in gioco. In altre parole, l’associazione si stabilisce anche senza che il soggetto ne sia consapevole (come avviene, ad esempio, nell’apprendimento di fobie monotematiche o di altri comportamenti disfunzionali). Dall’altro lato, possiamo classificare tutte quelle forme di apprendimento mediate dai processi cognitivi, come nel modeling descritto da Bandura. Infine, come ultima caratteristica, l’apprendimento avviene sempre all’interno di un’interazione tra l’organismo ed il suo ambiente. Al di là della delle definizioni, molte questioni rimangono aperte anche riguardo alla funzione dell’apprendimento. Da un lato, si concorda sul fatto che l’apprendimento ha una funzione adattativa. D’altro lato, però, non si possono ignorare tutti quei processi d’apprendimento che danno luogo a comportamenti disfunzionali e patologici. In questi casi, si tratta allora di compiere una valutazione dei prodotti dell’apprendimento. In linea generale, si può affermare che, attraverso l’apprendimento, l’individuo impara strategie e comportamenti per soddisfare meglio i propri bisogni e per interagire in maniera più adeguata con l’ambiente. Questa precisazione ci permette di individuare le due fondamentali classi di oggetti dell’apprendimento. Infatti, possiamo imparare: contenuti, ossia nuove idee, informazioni, dati, ecc.; strategie ed abilità, a livello di elaborazione delle informazioni o a livello di comportamenti manifesti (ad esempio, l’apprendimento di nuove strategie di problem- solving). È anche importante distinguere tra l’apprendimento e la maturazione spontanea dell’organismo. Anche quest’ultima, infatti, comporta delle modificazioni stabili a livello comportamentale, affettivo e cognitivo. Inoltre, i recenti studi in campo neuropsicologico ed evolutivo dimostrano l’importanza delle esperienze nel canalizzare i processi maturazionali. Quale differenza permane allora con l’apprendimento?
  • 2. Possiamo individuare un fondamentale criterio distintivo. La maturazione comporta delle modificazioni relativamente simili in tutti gli individui. Viceversa, l’apprendimento, essendo il risultato di specifiche esperienze, porta progressivamente ad una differenziazione delle persone. Infine, è fondamentale distinguere i processi d’apprendimento in base al grado d’intenzionalità del soggetto che apprende. Da un lato, abbiamo tutte quelle forme di apprendimento non programmate ed incidentali, derivanti dalla semplice interazione dell’individuo con l’ambiente circostante: ad esempio, il bambino che si brucia toccando accidentalmente la stufa, impara a non avvicinarvisi più. L’apprendimento accidentale può riguardare anche repertori più complessi: ad esempio, la gran parte delle abilità sociali che utilizziamo quotidianamente non sono il frutto di sessioni d’insegnamento strutturate ed intenzionali, ma derivano dalla continua interazione ed osservazione di altri, per noi significativi. Dall’altro lato, abbiamo tutte quelle situazioni d’apprendimento strutturate ed intenzionali: ad esempio, il ragazzo che si iscrive ad un corso universitario. Anche in questo caso, però, il soggetto non si limiterà ad imparare le nozioni trasmesse dal docente. Piuttosto, osservando ed interagendo con gli altri, potrà apprendere una serie di strategie comportamentali e cognitive. Teorie dell’apprendimento Nel corso di questo secolo sono state formulate teorie sull’apprendimento molto diverse, partendo spesso da concezioni dello sviluppo e del funzionamento umano differenti, se non antitetiche. Il proliferare di teorie, che talvolta si è tradotto in microteorie (come è avvenuto negli anni Settanta con la micromodellistica di stampo cognitivista), ha determinato grosse difficoltà quando si è cercato di classificare questi modelli. Così, ad esempio, Hilgard e Bower (1987) individuano 10 categorie fondamentali: 1. 1. connessionismo di Thorndike; 2. 2. condizionamento classico o rispondente di Pavlov; 3. 3. condizionamento per contiguità di Guthrie; 4. 4. condizionamento operante di Skinner; 5. 5. teoria sistematica di Hull; 6. 6. apprendimento basato su mappe e segnali di Tolman; 7. 7. teoria della Gestalt; 8. 8. psicodinamica; 9. 9. teoria matematica dell’apprendimento; 10. 10. modelli H.I.P. Questo elenco evidenzia immediatamente due aspetti. Da un lato, la difficoltà a trovare un criterio di classificazione che non conduca ad un proliferare di categorie. Dall’altro lato, tuttavia, tale elenco rischia di non essere esaustivo: ad esempio, nell’ultima categoria (modelli basati sul processare informazioni) trovano posto teorie molto diverse e difficilmente accostabili l'una all'altra. Gli stessi due autori sottolineano la difficoltà a dividere le teorie dell’apprendimento in due classi molto generali: teorie stimolo-risposta (in cui includere Thorndike, Pavlov, Guthrie, Skinner, ecc.) e teorie cognitivistiche (che andrebbero da Tolman ai modelli H.I.P., passando per la teoria della Gestalt). Tutto ciò comporta una notevole complessità ed eterogeneità di approcci nello studio dell’apprendimento. Comunque, le teorie sostenute dalle maggiori evidenze scientifiche e dai maggiori risvolti operativi in ambito educativo sono quelle che ricadono nell’ambito degli approcci di stampo comportamentale e cognitivista, che ora passeremo ad indagare. Teorie associazionistiche o comportamenti-stiche I più importanti contributi allo studio dell’apprendimento vengono dalla tradizione associazionistica. Si tratta di ricerche condotte prevalentemente su animali, ma i cui risultati sono applicabili anche ai processi d’apprendimento negli esseri umani. Soprattutto, questi risultati sono stati tradotti in specifiche indicazioni operative per le situazioni d’insegnamento. I pionieri: Thorndike e Pavlov
  • 3. I primi studi sull’apprendimento, basati su una rigorosa metodologia scientifica, sono stati condotti sul finire del 1800 e nei primi del Novecento da Thorndike, negli Stati Uniti, e da Pavlov, in Russia. L’associazionismo sperimentale studiato da Thorndike fu da lui stesso definito ‘connessionismo’. L’intero processo d’apprendimento sarebbe cioè riducibile ad una serie di connessioni tra situazioni-stimolo e risposte comportamentali. Thorndike studiò il comportamento di alcuni gatti inseriti in una gabbia, dalla quale era possibile uscire premendo una leva. Gli animali inizialmente emettevano casualmente una serie di risposte comportamentali. Infine, arrivavano a premere la leva e ad uscire dalla gabbia. Reintrodotti nella gabbia, i gatti progressivamente eliminavano le risposte non funzionali e finivano con l’emettere solamente la precisa sequenza comportamentale necessaria a fuggire. Il meccanismo sottostante questo processo fu chiamato ‘ap-prendimento per prove ed errori’. L’intero processo sarebbe governato da due fondamentali regole: legge dell’effetto: ogni azione in grado di generare una conseguenza gratificante per l’individuo (ad esempio, la fuga dalla gabbia) ha maggiori probabilità di essere ripetuta. Viceversa, gli atti comportamentali che non determinano conseguenze positive sono destinati ad essere abbandonati; legge dell’esercizio: la ripetizione di una determinata risposta comportamentale in una data situazione tende a rinforzare la connessione tra quella risposta e la situazione. Viceversa, il disuso della risposta indebolisce l’associazione. Le conclusioni di Thorndike enfatizzano soprattutto il ruolo della gratificazione sullo stabilirsi delle connessioni S-R, piuttosto che il semplice esercizio o l’uso di punizioni. Altre ricerche fondamentali per gli studi sull’apprendimento sono quelle del fisiologo russo Pavlov, che portarono alla formulazione del paradigma definito ‘condizionamento rispondente’. Nel corso di ricerche sui cani, Pavlov notò che progressivamente la risposta di salivazione non compariva solo quando il cibo veniva posto sulla lingua del cane, ma nel momento in cui l’animale sentiva il rumore dei passi dello sperimentatore che portava il cibo. Il fisiologo russo, allora, associò la presentazione del cibo ad un suono o ad una luce. La reazione di salivazione finì con l’essere elicitata semplicemente da questi stimoli sonori o luminosi. Il cibo è definito stimolo incondizionato, in quanto biologicamente e naturalmente provoca la reazione di salivazione (risposta incondizionata). La luce od il suono, invece, sono stimoli condizionati, in quanto biologicamente non sono capaci di suscitare la risposta di salivazione, ma raggiungono tale capacità quando vengono ripetutamente associati allo stimolo incondizionato (il cibo). La risposta di salivazione allo stimolo condizionato viene definita risposta condizionata. Questo processo è stato chiamato nel suo complesso condizionamento rispondente, in quanto non porta all’apprendimento di nuovi comportamenti, ma al condizionamento di una risposta già esistente a stimoli biologicamente neutri. Il condizionamento rispondente rappresenta una forma basilare d’apprendimento non solo negli animali, ma anche negli uomini. Molte nostre risposte automatiche a situazioni-stimolo dipendono dalla presenza di condizionamenti di tipo pavloviano (comprese, ad esempio, molte reazioni fobiche). Questo modello d’apprendimento presenta alcune caratteristiche peculiari. Innanzitutto, esiste un intervallo ottimale tra la presentazione dello stimolo condizionato e di quello incondizionato, affinché si stabilisca un’associazione. Questo intervallo oscilla tra mezzo secondo e 2 secondi. Ciò implica che intervalli troppo lunghi (ad esempio, oltre i 15 secondi) non sono in grado di determinare alcuna associazione. La seconda caratteristica richiama la legge dell’esercizio formulata da Thorndike: la risposta condizionata cioè tenderà a scomparire se lo stimolo condizionato viene presentato ripetutamente senza essere seguito dallo stimolo incondizionato. Questo fenomeno è definito estinzione. Tuttavia, basterà riproporre solo alcune volte lo stimolo condizionato seguito da quello incondizionato, affinché si ristabilisca l’associazione originaria. È possibile ottenere anche condizionamenti derivati o di secondo ordine, quando associamo ad uno stimolo condizionato un ulteriore stimolo condizionato. Il condizionamento operante di Skinner
  • 4. Gli studi di Skinner portarono alla formulazione di una seconda forma basilare d’apprendimento, definita condizionamento operante. In questo caso, le ricerche si concentrarono sulle risposte comportamentali che spontaneamente e casualmente un soggetto esibisce in una determinata situazione. La probabilità futura d’emissione di tali risposte dipenderà dalle conseguenze che esse avranno prodotto. Le risposte, che vengono in qualche modo premiate, tenderanno a comparire in futuro con maggiore probabilità in situazioni-stimolo simili. Viceversa, quelle risposte che vengono punite o, comunque, non ricevono un premio, tenderanno ad essere abbandonate. Il modello di Skinner è servito da base per lo sviluppo di molte tecniche educative e riabilitative, che si sono mostrate di notevole efficacia. Attraverso un’attenta somministrazione di premi e punizioni, infatti, è possibile far apprendere (modellare) risposte comportamentali anche molto complesse (a titolo di esempio, è sufficiente ricordare la controversia col modello di Chomski sull’acquisizione del linguaggio). È necessario chiarire alcuni termini impiegati in questa teoria. Con rinforzo positivo si intendono quelle conseguenze positive in grado di aumentare la probabilità futura d’emissione dello stesso comportamento (ad esempio, una lode da parte dell’insegnante). Si parla di rinforzo negativo (da non confondere con la punizione) quando il comportamento permette di evitare una conseguenza spiacevole (ad esempio, un rimprovero). Anche in questo caso, il comportamento in questione risulterà rafforzato. Viceversa, la punizione è un qualsiasi evento spiacevole in grado di ridurre l’emissione di una certa risposta. Sicuramente, nella teoria skinneriana e nelle sue applicazioni il rinforzo gioca un ruolo più centrale rispetto a quello della punizione. Infatti, attraverso la somministrazione dei rinforzi possiamo modellare il comportamento desiderato (dalla lettura alle abilità sportive). La punizione, invece, provoca solamente una riduzione di un dato comportamento, ma non determina affatto la comparsa di un altro comportamento desiderato. Anzi, spesso l’uso della punizione genera risposte di fuga che allontanano il soggetto dall’impegnarsi in un dato compito (non a caso, molte fobie per la scuola sono ingenerate da un atteggiamento eccessivamente punitivo dell’insegnante, che porta l’alunno a sviluppare reazioni d’ansia e di fuga nei confronti dell’esperienza scolastica nel suo insieme). Per questi motivi, quando è necessario punire un comportamento particolarmente problematico, è sempre consigliabile rinforzare, al contempo, comportamenti adattivi ed alternativi. Spesso, alcuni comportamenti disadattivi sono mantenuti dal fatto che producono conseguenze positive: tornando all’esempio della fobia scolastica, le insistenti richieste del ragazzo di non andare a scuola (spesso sotto forma di lamentele fisiche) finiscono talvolta con l’ottenere il fine desiderato (il genitore cede alle richieste ed accontenta il ragazzo, rinforzando però in tal modo le sue reazioni di fuga). Il modello skinneriano, quindi, rappresenta un ottimo schema per comprendere molti fenomeni coinvolti nel processo d’apprendimento e per intervenire al fine d’implementare un sistema d’insegnamento più efficace. Le due forme di condizionamento descritte (rispondente ed operante) presentano due importanti caratteristiche, funzionali ad ogni processo d’apprendimento. Da un lato, si verifica un fenomeno di generalizzazione: dopo aver appreso una determinata associazione S-R, impariamo a reagire a stimoli simili a quello originario. Questo meccanismo garantisce l’economicità del nostro apprendimento: infatti, non siamo costretti ad apprendere specifiche risposte ad ogni situazione data, ma siamo in grado di trasferire i comportamenti appresi in una circostanza ad altre simili. Dall’altro lato, tuttavia, esiste un processo di discriminazione, grazie al quale siamo in grado di cogliere le differenze tra situazioni-stimolo diverse, mettendo in atto comportamenti differenti. Ciò garantisce la flessibilità del nostro operare. L’apprendimento per imitazione Una terza fondamentale modalità d’apprendimento (oltre al condizionamento rispondente e quello operante) è rappresentata dal modeling (modellamento). Questa forma d’apprendimento è stata studiata da Bandura, partendo dalla constatazione che molte abilità e conoscenze vengono apprese, osservando un’altra persona che manifesta un determinato comportamento. Tutti noi, cioè, apprendiamo imitando un ‘modello’ che mostra una certa padronanza nell’abilità da acquisire. Tale modalità d’apprendimento sarebbe attiva fin dai primi anni d’età, quando il bambino prende a modello soprattutto i genitori o eventuali fratelli maggiori. Il modeling chiama in causa importanti processi cognitivi:
  • 5. processi attentivi, grazie ai quali la persona dirige e mantiene l’attenzione sul modello; processi di ritenzione, in base ai quali si memorizzano le sequenze comportamentali osservate; processi di riproduzione motoria, per mezzo dei quali si ripropongono dette sequenze; rinforzo e processi motivazionali, ossia i premi e le sanzioni che aumentano o diminuiscono la probabilità d’emissione dei comportamenti imitati. Con il contributo di Bandura, i processi cognitivi acquistano un importante ruolo causale nell’apprendimento. Inoltre, il modeling è alla base dell’acquisizione di molte abilità complesse, come ad esempio quelle sportive. Il modello H.I.P. Nel corso degli anni Settanta si affermò un nuovo approccio allo studio dei processi cognitivi, rappresentato dal modello dello Human Information Processing. Fondandosi sulla metafora della mente umana come computer, si ritenne di poter studiare scientificamente i processi d’elaborazione delle informazioni da parte dell’uomo, superando quindi le critiche e lo scetticismo propri del comportamentismo. Lo schema fondamentale adottato dal nuovo approccio di ricerca è quello proprio del funzionamento delle macchine calcolatrici: Il modello H.I.P. (Human Information Processing) Elaborazione input → cognitiva → output I vari studiosi di scienze cognitive si distinsero nella misura in cui ritenevano di poter descrivere dettagliatamente i processi d’elaborazione centrale o, invece, credevano di non poter indagare approfonditamente questi processi, essendo comunque inaccessibili ad un’osservazione diretta. L’approccio H.I.P. ha ricevuto nel tempo notevoli critiche: la metafora della mente come computer è stata infatti considerata inadeguata a rappresentare la complessità e la capacità costruttiva della struttura cognitiva dell’uomo. In particolare, è stata criticata la passività in cui verrebbe relegata la mente umana, destinata solamente ad elaborare gli input forniti dall’ambiente. Parallelamente, mentre alcuni studiosi sottolineano la sostanziale uniformità nel modo di processare le informazioni da parte di soggetti diversi (ad esempio, Piaget), altri insistono maggiormente sulla possibilità di percorsi evolutivi idiosincrasici. Al di là di queste critiche e di questi dibattiti, il modello H.I.P. ha avuto il merito di sottolineare il ruolo dei processi cognitivi nell’apprendimento. In questo senso, l’individuo non si limita ad associare situazioni-stimolo a risposte comportamentali: piuttosto, utilizza precisi piani e strategie cognitive, in base ai quali riceve ed elabora le informazioni in ingresso, pianifica le risposte e memorizza i dati rilevanti. A tal proposito, rimane fondamentale il classico modello cibernetico TOTE, descritto da Miller, Galanter e Pribram (1960). Di fronte ad un nuovo compito d’apprendimento (ad esempio, la risoluzione di un problema) l’individuo segue un preciso algoritmo: T = Test, ossia verifica della situazione attuale e della discrepanza con la situazione desiderata (nell’esempio, la risoluzione del problema); O = Operate, ossia l’implementazione della strategia scelta per risolvere il problema; T = reTest, ossia verifica del risultato raggiunto; E = Exit, uscita dal processo, in caso di risultato soddisfacente, o avvio di un nuovo processo.
  • 6. Questo schema permette di descrivere compiti d’apprendimento a differenti livelli di complessità, da semplici memorizzazioni di informazioni ad elaborati compiti di problem-solving.