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Da M.Dallari, Narrazioni e Conoscenza, Encyclopaideia n.18, 2005
Caratteristiche e funzioni della metacognizione narrativa
Possiamo configurare l’apparato metacognitivo che chiamiamo qui metacognizione
narrativa in sette funzioni fondamentali: metaforica, inferenziale (o della ricezione),
enfatica, del contratto di finzione, esemplificativa, intertestuale, mitopoietica.
In un progetto educativo che comprenda tutto l’arco dello sviluppo è facile rendersi
conto di come le prime quattro funzioni siano potenzialmente presenti già all’età
della scuola dell’infanzia (a patto, naturalmente, che le narrazioni facciano parte del
patrimonio formativo e dello stile di relazione di questi bambini con gli adulti),
mentre le ultime tre si strutturano, quando e se ciò avviene, a fronte di un quadro di
stimolazioni culturali più complesse e raffinate, che possono essere messe in opera
solo in età successiva, anche se non precisamente databile.
Esaminiamo dunque queste funzioni e le loro caratteristiche:
1) Funzione metaforica. Essa consiste nella capacità di produrre similitudini,
metafore, sineddoche, metonimie ecc. Consta, cioè, della possibilità di utilizzare
abitualmente i meccanismi della produzione simbolica attraverso i congegni della
condensazione e dello spostamento. All’interno di questa funzione trovano posto
anche la capacità di produrre neologismi e ogni forma di invenzione (fonetica,
semantica, sintattica, grammaticale…) capace di rendere più esteticamente efficace il
discorso. Per ciò che concerne la riflessione epistemologica e psicopedagogica
l’attenzione sulla metafora non riguarda tanto la sua descrivibilità in termini
linguistici quanto i processi che è capace di attivare in termini mentali e cognitivi,
cosicché possiamo intendere estensivamente con il termine metafora anche la
similitudine, la sineddoche, al metonimia, e tutti quei meccanismi linguistici che
implicano trasgressioni semantiche nel rapporto fra significanti e significati.
Pare particolarmente importante sottolineare come secondo il parere di studiosi quali
Piaget, Bruner, Rodari, e molti altri, la metafora (intesa nel senso più lato possibile)
non sia una conquista culturale ed evolutiva, ma faccia parte dell’atteggiamento
conoscitivo e comunicativo originario dei bambini. Quando infatti, già dai primi anni
di vita, rappresentano un evento o un oggetto attraverso espressioni metaforiche,
invitano gli altri a scoprire, di quella cosa, aspetti peculiari, deviazioni di significato
imprevedibili, ulteriorità di senso riferibili a i vissuti elaborati da loro in rapporto a
quella cosa.
Alberto Munari, sulla scia di Jean Piaget, sottolinea come l’uso e l’invenzione di
metafore faccia parte di un atteggiamento comunicativo e conoscitivo originario e
spontaneo, anche se le produzioni metaforiche infantili, il più delle volte, sono
scambiate dagli adulti per errori, e dunque scoraggiate e sostituite con il modo
“giusto”, cioè canonico e convenzionale, di nominare le cose (Munari A. 1997;
Dallari M. 2000). Resta evidente come l’uso di materiali narrativi e la valorizzazione
di un clima narrativo in educazione valorizzino e rinforzino il pensiero metaforico e
simbolico dei partecipanti al setting educativo, sia questo familiare o scolastico.
La capacità e l’abitudine ad utilizzare un pensiero metaforico nell’incontro con i
materiali simbolici consolidati all’interno dell’universo culturale d’appartenenza,
genera il pensiero figurale. La dimensione immaginale, e l’immaginario che si genera
e si alimenta da essa, è costituita da quelle figure che consentono all’inconscio e alla
coscienza di dialogare e rimanere in rapporto costruttivo per la costruzione sempre
“in farsi” (autopoiesi) delle rappresentazioni del mondo e delle rappresentazioni di sé.
Coscienza e inconscio non riguardano infatti solamente la dimensione della
soggettività, ma anche l’universo cosciente dei saperi culturalmente condivisi e ciò
che Carl Gustav Jung definisce inconscio collettivo. L’universo dei simboli
(mitologici e non solo) corrisponde in larga misura alla dimensione immaginale, e
viene da Jung paragonata a una costellazione. «Questa costellazione avviene da un
lato per l’attività specifica dell’inconscio e dall’altro in forza dello stato momentaneo
della coscienza la quale stimola anche sempre l’attività di materiali subliminali ad
essa attinenti, e inibisce nel contempo quelli che ad essa sono estranei. Di
conseguenza l’immagine è espressione tanto della situazione inconscia quanto di
quella momentanea cosciente. L’interpretazione del suo significato non può quindi
partire né dalla sola coscienza né dal solo inconscio, ma unicamente dal loro mutuo
rapporto» (Jung C. G. 1921).
Per chiarire l’idea di figura in relazione al problema della conoscenza possiamo
esaminarne tre tipi esemplari: la figura geometrica, la figura retorica, la figura
musicale. Le figure geometriche sono forme astratte, caratterizzate da una struttura
che le rende descrivibili e individuabili nella loro regolarità e alle quali possono
essere ricondotti oggetti e situazioni concrete. Le figure geometriche consentono di
classificare, riconoscere, descrivere, ma anche produrre e “fabbricare” i contorni di
qualsiasi oggetto. Ma non sono soltanto oggetti e situazioni statiche ad essere
riconducibili alla dimensione figurale: essa è rintracciabile anche in situazioni
dinamiche, nella danza, nello sport, in molti giochi rituali nuovi e arcaici. Le figure
musicali sono termini indicanti segni di notazione corrispondenti ai diversi valori di
durata delle note e delle pause. Le figure musicali sono 8, e ciascuna di esse vale il
doppio della seguente: breve, semibreve, minima, semiminima, croma, semicroma,
biscroma, semibiscroma. Ma anche termini come andante, largo, crescendo ecc., nel
lessico musicale, utilizzano procedimenti tipicamente metaforico-figurali. Le figure
retoriche possono essere intese in due modi differenti anche se interagenti: l’uno
vede la figura, nel linguaggio, come abbellimento, artificio retorico volto ad ornare e
rendere più accattivante un testo (scritto, visuale, sonoro…): l’altro modo di essere
delle figure riguarda invece una loro funzione simbolica, e si ha quando una
produzione figurale (un concetto, una descrizione, una frase, un’immagine letteraria o
visiva…) si rivela capace di funzionare come strumento della comprensione e
congegno metacognitivo irrinunciabile. Un sapere figurale è quello che si serve di
riferimenti che, nati attraverso un procedimento metaforico, divengono strumenti
insostituibili della comprensione, della rappresentazione, della conoscenza.
Un chiaro esempio di sapere figurale è quello allegorico, ma sono da considerare
figure del sapere anche definizioni e modi di dire.
2) Funzione inferenziale (o della ricezione). L’inferenza è la produzione di una
proposizione come conseguenza necessaria di una o più proposizioni e spesso è ciò
che sta fra una premessa e una conclusione. Inferenza è dunque il processo logico
grazie al quale, data una o più premesse, si giunge a una conclusione. In ambito
narratologico inferenza è anche la capacità di collegare gli elementi narrativi in forma
consequenziale. Per esempio: in una strip a fumetti ho tre immagini diverse fra loro:
se capisco la storia implicita nella sequenza di immagini ho compiuto un processo
inferenziale. Il processo metacognitivo di tipo inferenziale è comune al pensiero
narrativo e a quello logico, tanto che il termine inferenza viene usato anche come
sinonimo di argomentazione logica; corrisponde dunque alla capacità di collegare fra
loro in maniera consequenziale e sensata le singole parti di un testo, e di comprendere
e produrre un testo-discorso argomentativo o narrativo. Naturalmente gli schemi
d’inferenza possono essere differentemente vari e complessi: i modelli inferenziali
lineari e consequenziali (riferibili al discorso logico-dettutivo) sono simili a quelli
propri dei racconti semplici destinati a bambini piccoli, anche se nel racconto
(segnatamente nel racconto fantastico) irrompono spesso imprevedibili elementi di
sorpresa (un evento magico, un personaggio fantastico) i quali, pur non interferendo
con lo schema inferenziale lineare, non risultano desumibili dal semplice
procedimento razionale del discorso. Ci sono poi schemi inferenziali che prevedono,
strutturalmente, una rottura della linearità: è il caso della “barzelletta”, il racconto
della quale (come nel caso della scrittura del gag, spesso utilizzato nel linguaggio
cinematografico) presuppone un “fuori tempo”, un “fuori luogo”: la rottura,
insomma, della continuità inferenziale che viene spostata su un piano differente da
quello linearmente prevedibile. Ci sono poi modelli inferenziali circolari, non
teleologici (da telos, fine), che ricordano idealmente la figura del mandàla e tornano
su se stessi, come nel caso del limerik o nel testo del genere musicale “ballata”, nel
quale l’ultimo verso riprende il primo, alludendo al ricominciamento del racconto che
diviene così rituale e rievocativo, o nel “rondò”. Chi struttura compiutamente una
metacognizione narrativa elabora comunque la competenza inferenziale che
conferisce capacità di decodificare e produrre testi vari e complessi, all’interno dei
quali siano presenti, ad esempio, frasi subordinate, o la cui struttura testuale non sia
soltanto lineare ma anche complessa e ramificata.
Il procedimento inferenziale relativo all’evento narrativo viene definito anche
ricezione (Jauss H.R. 1987), e consiste nell’atto attraverso il quale un testo viene
recepito da un destinatario (ricevente, narratario) il quale lo riconosce come testo e,
ritenendo che possa essere portatore, in quanto tale, di contenuto e di senso, dà inizio
al processo di interpretazione. E’ questo, non solo in ambito narrativo, il momento
più importante dell’evento comunicativo, poiché se possiamo pensare che esista
comunicazione anche in assenza di uno specifico e riconoscibile emittente (per
esempio quando si interpreta il sintomo di una malattia, o si captano segnali
atmosferici per prevedere che tempo farà domani) sappiamo che è sulla figura del
ricevente che si regge la consistenza dell’evento comunicativo.
Qualunque emittente, d’altra parte, quando formula il suo messaggio si regola
immaginando un ricevente virtuale, ed usa dunque se stesso nella doppia funzione di
emittente reale e ricevente immaginato. L’assunto per cui, comunque, la
comunicazione può dirsi tale solo quando la relazione comunicativa è effettivamente
realizzata, possiamo verificarlo quando siamo al cospetto di messaggi che non
vengono riconosciuti come tali dall’emittente, ad esempio per mancanza di pre-
informazioni sul codice utilizzato o per l’incapacità o l’impossibilità di riconoscere il
messaggio come tale, cioè come testo che lo veicola. In questo caso, ancor prima di
dedicarsi, eventualmente, al lavoro di decodifica, il potenziale ricevente non
riconosce forma e senso alla “cosa” al cospetto della quale si trova. È il caso di molta
arte contemporanea, di fronte alla quale non pochi potenziali riceventi ritengono a
priori che “quella non è arte”, e non dedicano dunque alcun impegno alla
comprensione del senso e alla decodifica del significato del messaggio, ma è anche il
caso di certe lezioni scolastiche che alcuni alunni non cercano neppure di
decodificare poiché, non riuscendo a capire ragioni e funzioni della comunicazione
didattica e del loro stesso essere in quella situazione formativa, ritengono che la
lezione, ancor prima di verificarne l’eventuale comprensibilità, sia del tutto priva di
senso. Anche se poi non è infrequente che in questo caso l’alunno commenti il
discorso del docente con il compagno di banco dicendo: “non ci si capisce niente!”.
Questo fenomeno può avvenire anche per un libro, un brano musicale, una
trasmissione televisiva: l’incapacità di riconoscere quel testo come tale, perché le sue
caratteristiche immediatamente percepibili non rientrano all’interno degli schemi
culturali noti, inibisce la disponibilità a porsi nel ruolo di riceventi. Tuttavia il
mancato riconoscimento della funzione testuale di un (potenziale) messaggio non
dipende, come sappiamo bene, soltanto da competenze e preconoscenze culturali, ma
può essere determinato da fattori estetici (emozionali, affettivi) e dai pre-giudizi che
questi elementi comportano. Il pianto o il lamento di un bambino è spesso molto più
difficile da decodificare di un qualunque testo filosofico, letterario o scientifico, ma
una madre, di fronte a segnali di disagio presentato dal figlio, si pone solitamente in
atteggiamento di totale disponibilità a cercare di comprenderne ragioni e significati,
mentre questo coinvolgimento risulta spesso latitante nei confronti di testi la
decodifica dei quali potrebbe avvenire solo a fronte dello sforzo di consultare un
dizionario. Questo perché, nel secondo caso, il potenziale ricevente ritiene
semplicemente (a torto o a ragione) che non valga la pena di compiere quello sforzo.
La capacità di dotare di senso la presentazione del proprio testo, o di quello del quale,
come insegnanti dovremmo mediare ed “animare” la decodifica, dipende,
inizialmente, dalla nostra capacità di farlo riconoscere come portatore di elementi di
piacere (Barthes 1975). Ciò contribuisce a farne presupporre una dimensione di
testualità e a giustificare lo sforzo implicitamente richiesto nella sua decodifica e
nella sua comprensione. La forma di narrazione e il “clima narrativo” che può
accompagnare o permeare la presentazione di qualunque apparato testuale costituisce
senz’altro caratteristica estetica e formale capace di favorire curiosità e disponibilità
nei confronti di esso, della sua ricezione, della sua elaborazione.
Quando la applichiamo alle produzioni artistiche e narrative (anche se probabilmente
non solo in questi ambiti) l’inferenza può essere esaminata attraverso una bipartizione
di carattere funzionale. Possiamo infatti individuare due distinti processi inferenziali
che definiamo inferenza interna e inferenza esterna. Si ha inferenza interna quando
il processo di decodifica attraverso il congegno inferenziale è circoscritto al mondo
evocato o creato dal medium. Si ha inferenza esterna quando collegamenti,
organizzazioni secondo sequenze temporali o di causa-effetto, e tutto quanto
costituisce ciò che possiamo chiamare procedimento inferenziale, esce dal medium e
si collega o ad altri media (differenti, tuttavia, dal primo per caratteristiche
semiotiche, altrimenti si tratterebbe non di inferenza esterna ma di intertestualità), o
alla realtà, al mondo delle cose e della vita rispetto al quale il ricevente applica e
collega principi, categorie, affermazioni presentate dal medium narratore.
Facciamo alcuni esempi: la riflessione sulla presenza della coppia inferenza
esterna/inferenza interna nei processi di costruzione del sapere a partire dagli apparati
simbolici e narrativi risulta particolarmente significativo poiché attiene in maniera
specifica al problema del senso del testo. Problema fondamentale all’interno di una
analisi di tipo fenomenologico, per la quale la categoria del senso è fondativa, ma lo è
anche dal punto di vista dello specifico pedagogico, poiché il riconoscimento della
sensatezza di un materiale culturale da parte dei soggetti in formazione consente o
nega all’insegnante-educatore di essere accolto come un portatore di un’offerta
culturale e cognitiva sensata, degna di essere accolta ed elaborata.
Un testo ha senso quando, al suo interno, risponde a quelle caratteristiche di coerenza
e di autosufficienza che consentono di riconoscerne le caratteristiche di testualità. Ma
se vogliamo parlare di senso da un punto di vista non solo formale, ma più generale o
addirittura filosofico, un testo risulta sensato quando il collegamento fra il messaggio
che presenta e i contenuti che espone è riconducibile alla realtà, o è comunque
collegabile con una rete testuale e simbolica (vedi funzione intertestuale) all’interno
della quale trae un legittimazione che avviene, comunque, fuori di esso.
Un testo saggistico o una narrazione “realistica” vengono vissuti come dotati di senso
se i loro contenuti riconducono a una realtà almeno in parte nota al ricevente anche se
(e questo è solitamente auspicabile come elemento di qualità del testo stesso)
aggiunge conoscenze o fa scoprire nuovi aspetti e nuove dimensioni di essa. Lo
stesso principio vale anche per un testo fantastico o intenzionalmente non veritiero
quando, tuttavia, la rappresentazione interiore che il ricevente costruisce a partire
dalla decodifica del testo incontra, incrocia e utilizza elementi della realtà. Nessuno,
che io sappia, ha mai visto uno dei “morti viventi” che pullulano in molta letteratura
fantastica contemporanea, da Poe a Dylan Dog: ciascuno di noi ha tuttavia
l’esperienza di relazione con esseri viventi e sa bene cos’è un morto. L’inferenza
fantastica consiste dunque nell’incrociare due ingredienti riconducibili alla realtà
all’interno di quel testo. Leggendo i fumetti di Tiziano Sclavi, le novelle di Edgar
Allan Poe, o le avventura di Harry Potter, riconosciamo e rievochiamo ingredienti
contestuali, personaggi di contorno, oggetti e elementi scenografici sempre
riconducibili all’esperienza del rapporto con reale che ha contribuito e contribuisce
quotidianamente a strutturare quel “principio di realtà” che ci consente di riconoscere
il testo sensato anche laddove un particolare (l’irruzione nel racconto del personaggio
o dell’evento sovrannaturale) interrompe e contraddice tale principio. Ma questa
lettura ci offre anche la possibilità di attribuire il giudizio di “fantastico” a personaggi
e situazioni strane presenti nel racconto, compiendo un processo di inferenza esterna
che permette di riconoscere come estraneo, o parzialmente e estraneo, alla categoria
del reale quell’ingrediente narrativo.
Non è solo in questo modo, tuttavia, che un testo può essere riconosciuto come
sensato nel suo rapporto con il principio di realtà. Esso appare tale anche quando il
lettore, sia pure all’interno di un testo totalmente fantastico e irrealistico, trova spunti
metaforici e simbolici riconducibili al principio di realtà. Molti personaggi di fiabe,
favole e racconti mitologici (dei e semidei, draghi, orchi, fate, animali parlanti,
oggetti magici, figure di metamorfosi) sono non solo irriconducibili alla dimensione
del reale, ma spesso anche inquietanti, “perturbanti”. Quando tuttavia caratteri e
vicende possono essere ricondotte simbolicamente, emblematicamente e
allegoricamente alla nostra vita quotidiana l’inferenza esterna è possibile e non di
rado pedagogicamente molto utile.
Ma un racconto fantastico può attivare un processo di inferenza esterna in maniera
anche più semplice: non esistono, nella realtà, cani a macchie rosse e blu, ma il
personaggio della Pimpa creato e raccontato da Altan è riconoscibile come sensato
perché i piccoli lettori sanno cos’è un cane e quali sono le sue caratteristiche di
comportamento e di relazione con gli umani. Pimpa, come molti personaggi
strutturalmente e narrativamente a lei simili, unisce caratteristiche riconducibili alla
dimensione reale ad altre che sfuggono ad essa ma mantengono coerenza (e che
creano dunque presupposti di riconoscibilità) all’interno del testo. Pimpa è un cane
che si comporta in maniera decisamente canina: inferenza esterna; in più parla ed è a
pallini rossi e blu, ma lo è coerentemente all’interno di tutto il testo e di tutta la
catena seriale dei testi che la riguardano: inferenza interna.
La legittimazione intertestuale di un racconto avviene invece quando gli ingredienti
del tutto irrealistici di esso richiamano tuttavia racconti già culturalmente accreditati,
cosicché chiunque produca un film, un fumetto o un racconto in cui si narrano
vicende vampiresche attenendosi ai canoni (la croce, l’aglio, la fobia della luce, i topi
e i pipistrelli…) introdotti dal prototipo di Bram Stoker, può contare sul fatto che essi
rendono condivisibili a priori una serie di regole che permettono di partecipare a un
“contratto di finzione” (vedi) già collaudato e consolidato.
3) Funzione enfatica. Corrisponde alla capacità di sottolineare o inserire nel discorso
o nel racconto elementi di curvatura emozionale: ironia, mistero, sorpresa,
drammaticità… La funzione metacognitiva corrispondente alla dimensione enfatica
non riguarda, ovviamente, solamente l’abilità retorica relativa al raccontare con
sottolineature emozionalmente significative, ma al pensare già il discorso (scritto e
orale) come strutturalmente e originariamente capace di determinarsi come dotato di
particolari determinazioni di senso e di significato grazie alle particolari curvature
enfatiche che lo caratterizzano in quanto strumento di pensiero, di rappresentazione e
di comunicazione. Strutturare metacognitivamente la funzione enfatica significa
dunque essere consapevoli del fatto che qualunque evento, qualora formalizzato
secondo determinate strategie narrative, può risultare emozionante e dunque
esteticamente e affettivamente significativo.
4) Contratto di finzione: Non si ha narrazione senza contratto di finzione, che
corrisponde alla capacità di stabilire un accordo implicito fra narratore e narratorio
relativo alla sospensione delle dimensione spazio-temporale del “qui e ora” e delle
convenzioni e delle regole sulle quali si basa il principio di realtà. All’interno del
racconto, che ci porta in luoghi e tempi differenti da quelli contingenti, possono così
avvenire cose fantastiche, irreali o surreali. Il contratto di finzione è implicito, ma la
sua stipulazione può essere sollecitata attraverso rituali il cui significato sia
culturalmente condiviso: a teatro lo spegnersi delle luci in sala e l’apertura del sipario
ci portano nella dimensone “finta” del racconto ancor prima che gli attori diano inizio
allo spettacolo, e chi narra fiabe, o chi se le è sentite narrare, sa bene che la formula
“c’era una volta” non significa, letteralmente, che il racconto ci porta in un’epoca
passata, ma che ciò che ci verrà raccontato riguarda una dimensione “altra”, per
accogliere e comprendere la quale occorre accettare la stipulazione del contratto di
finzione che, da quel momento fino alla fine del racconto, lega narratore e narratari.
Sappiamo bene come la capacità di adeguarsi alle clausole stranianti di questo
contratto sia tutt’altro che scontata e naturale ma sia, invece, una complessa e
preziosa costruzione culturale (spesso alcuni bambini, durante il racconto di fiabe,
chiedono con trepidazione: «…ma è vero…?»), anche se le pratiche di gioco, e la
capacità che i bambini hanno, all’interno di esso, di spostarsi di tempo e di luogo, di
assumere ruoli fantastici, di inventare funzioni straordinarie per gli oggetti d’uso
comune e di compiere azioni impossibili nella realtà (come morire e risuscitare), ci
fanno supporre l’esistenza di elementi di naturalità che il contratto di finzione
narrativo perfeziona, sviluppa, rende più consapevoli e culturalmente condivisibili.
D’altra parte non è infrequente che i bambini “iniziati” ai riti fiabeschi usino i verbi
all’imperfetto («io facevo…, tu eri…») riportando le regole strutturate nella loro
mente dalla metacognizione narrativa alle pratiche di improvvisazione teatrale tipiche
del giocare.
5) Funzione esemplificativa corrispondente alla capacità di inserire nel proprio
discorso micro-narrazioni contenutisticamente pertinenti ma digressive dal punto di
vista della coerenza discorsiva. All’interno della funzione esemplificativa vanno
annoverati anche tutti i fenomeni di digressione linguistica, compresi i cosiddetti
“voli pindarici”, a patto che il loro uso non comprometta la coerenza complessiva del
discorso.
6) Funzione intertestuale; il termine intertestualità, creato da Michail Bachtin
(Bachtin M. 1934/35) e ripreso ampiamente da Julia Kristeva (Kristeva J. 1969) si
riferisce, in questi autori, alla dimensione specifica del testo scritto e alla sua
caratteristica di esistere sempre in collegamento e riferimento ad altri testi. Nella
nostra accezione essa consiste nella capacità di collegare il testo del proprio discorso
ad altri testi e ad altre fonti (riferimenti), dimostrando così di avere strutturato la
coscienza di vivere all’interno di un flusso narrativo-ermeneutico nel quale ciascun
atto di pensiero e di scambio simbolico avviene e si legittima in riferimento
all’universo delle pre-cognizioni singolarmente acquisite e culturalemente condivise.
7) Funzione mitopoietica: corrisponde alla tendenza di produrre cosmogonie
intertestuali, collocando, o dimostrando di avere la capacità di collegare, ciascun
testo (compreso quello del discorso che si sta producendo contestualmente)
all’interno di una visione del mondo (weltanshauung) generata dalla capacità di
produrre mito da parte dell’insieme delle produzioni testuali (segnatamente letteraria
e narrativa, ma anche artistico-visiva e musicale) della cultura di appartenenza.

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  • 1. Da M.Dallari, Narrazioni e Conoscenza, Encyclopaideia n.18, 2005 Caratteristiche e funzioni della metacognizione narrativa Possiamo configurare l’apparato metacognitivo che chiamiamo qui metacognizione narrativa in sette funzioni fondamentali: metaforica, inferenziale (o della ricezione), enfatica, del contratto di finzione, esemplificativa, intertestuale, mitopoietica. In un progetto educativo che comprenda tutto l’arco dello sviluppo è facile rendersi conto di come le prime quattro funzioni siano potenzialmente presenti già all’età della scuola dell’infanzia (a patto, naturalmente, che le narrazioni facciano parte del patrimonio formativo e dello stile di relazione di questi bambini con gli adulti), mentre le ultime tre si strutturano, quando e se ciò avviene, a fronte di un quadro di stimolazioni culturali più complesse e raffinate, che possono essere messe in opera solo in età successiva, anche se non precisamente databile. Esaminiamo dunque queste funzioni e le loro caratteristiche: 1) Funzione metaforica. Essa consiste nella capacità di produrre similitudini, metafore, sineddoche, metonimie ecc. Consta, cioè, della possibilità di utilizzare abitualmente i meccanismi della produzione simbolica attraverso i congegni della condensazione e dello spostamento. All’interno di questa funzione trovano posto anche la capacità di produrre neologismi e ogni forma di invenzione (fonetica, semantica, sintattica, grammaticale…) capace di rendere più esteticamente efficace il discorso. Per ciò che concerne la riflessione epistemologica e psicopedagogica l’attenzione sulla metafora non riguarda tanto la sua descrivibilità in termini linguistici quanto i processi che è capace di attivare in termini mentali e cognitivi, cosicché possiamo intendere estensivamente con il termine metafora anche la similitudine, la sineddoche, al metonimia, e tutti quei meccanismi linguistici che implicano trasgressioni semantiche nel rapporto fra significanti e significati. Pare particolarmente importante sottolineare come secondo il parere di studiosi quali Piaget, Bruner, Rodari, e molti altri, la metafora (intesa nel senso più lato possibile) non sia una conquista culturale ed evolutiva, ma faccia parte dell’atteggiamento conoscitivo e comunicativo originario dei bambini. Quando infatti, già dai primi anni di vita, rappresentano un evento o un oggetto attraverso espressioni metaforiche, invitano gli altri a scoprire, di quella cosa, aspetti peculiari, deviazioni di significato imprevedibili, ulteriorità di senso riferibili a i vissuti elaborati da loro in rapporto a quella cosa. Alberto Munari, sulla scia di Jean Piaget, sottolinea come l’uso e l’invenzione di metafore faccia parte di un atteggiamento comunicativo e conoscitivo originario e spontaneo, anche se le produzioni metaforiche infantili, il più delle volte, sono scambiate dagli adulti per errori, e dunque scoraggiate e sostituite con il modo
  • 2. “giusto”, cioè canonico e convenzionale, di nominare le cose (Munari A. 1997; Dallari M. 2000). Resta evidente come l’uso di materiali narrativi e la valorizzazione di un clima narrativo in educazione valorizzino e rinforzino il pensiero metaforico e simbolico dei partecipanti al setting educativo, sia questo familiare o scolastico. La capacità e l’abitudine ad utilizzare un pensiero metaforico nell’incontro con i materiali simbolici consolidati all’interno dell’universo culturale d’appartenenza, genera il pensiero figurale. La dimensione immaginale, e l’immaginario che si genera e si alimenta da essa, è costituita da quelle figure che consentono all’inconscio e alla coscienza di dialogare e rimanere in rapporto costruttivo per la costruzione sempre “in farsi” (autopoiesi) delle rappresentazioni del mondo e delle rappresentazioni di sé. Coscienza e inconscio non riguardano infatti solamente la dimensione della soggettività, ma anche l’universo cosciente dei saperi culturalmente condivisi e ciò che Carl Gustav Jung definisce inconscio collettivo. L’universo dei simboli (mitologici e non solo) corrisponde in larga misura alla dimensione immaginale, e viene da Jung paragonata a una costellazione. «Questa costellazione avviene da un lato per l’attività specifica dell’inconscio e dall’altro in forza dello stato momentaneo della coscienza la quale stimola anche sempre l’attività di materiali subliminali ad essa attinenti, e inibisce nel contempo quelli che ad essa sono estranei. Di conseguenza l’immagine è espressione tanto della situazione inconscia quanto di quella momentanea cosciente. L’interpretazione del suo significato non può quindi partire né dalla sola coscienza né dal solo inconscio, ma unicamente dal loro mutuo rapporto» (Jung C. G. 1921). Per chiarire l’idea di figura in relazione al problema della conoscenza possiamo esaminarne tre tipi esemplari: la figura geometrica, la figura retorica, la figura musicale. Le figure geometriche sono forme astratte, caratterizzate da una struttura che le rende descrivibili e individuabili nella loro regolarità e alle quali possono essere ricondotti oggetti e situazioni concrete. Le figure geometriche consentono di classificare, riconoscere, descrivere, ma anche produrre e “fabbricare” i contorni di qualsiasi oggetto. Ma non sono soltanto oggetti e situazioni statiche ad essere riconducibili alla dimensione figurale: essa è rintracciabile anche in situazioni dinamiche, nella danza, nello sport, in molti giochi rituali nuovi e arcaici. Le figure musicali sono termini indicanti segni di notazione corrispondenti ai diversi valori di durata delle note e delle pause. Le figure musicali sono 8, e ciascuna di esse vale il doppio della seguente: breve, semibreve, minima, semiminima, croma, semicroma, biscroma, semibiscroma. Ma anche termini come andante, largo, crescendo ecc., nel lessico musicale, utilizzano procedimenti tipicamente metaforico-figurali. Le figure retoriche possono essere intese in due modi differenti anche se interagenti: l’uno vede la figura, nel linguaggio, come abbellimento, artificio retorico volto ad ornare e rendere più accattivante un testo (scritto, visuale, sonoro…): l’altro modo di essere delle figure riguarda invece una loro funzione simbolica, e si ha quando una produzione figurale (un concetto, una descrizione, una frase, un’immagine letteraria o visiva…) si rivela capace di funzionare come strumento della comprensione e congegno metacognitivo irrinunciabile. Un sapere figurale è quello che si serve di
  • 3. riferimenti che, nati attraverso un procedimento metaforico, divengono strumenti insostituibili della comprensione, della rappresentazione, della conoscenza. Un chiaro esempio di sapere figurale è quello allegorico, ma sono da considerare figure del sapere anche definizioni e modi di dire. 2) Funzione inferenziale (o della ricezione). L’inferenza è la produzione di una proposizione come conseguenza necessaria di una o più proposizioni e spesso è ciò che sta fra una premessa e una conclusione. Inferenza è dunque il processo logico grazie al quale, data una o più premesse, si giunge a una conclusione. In ambito narratologico inferenza è anche la capacità di collegare gli elementi narrativi in forma consequenziale. Per esempio: in una strip a fumetti ho tre immagini diverse fra loro: se capisco la storia implicita nella sequenza di immagini ho compiuto un processo inferenziale. Il processo metacognitivo di tipo inferenziale è comune al pensiero narrativo e a quello logico, tanto che il termine inferenza viene usato anche come sinonimo di argomentazione logica; corrisponde dunque alla capacità di collegare fra loro in maniera consequenziale e sensata le singole parti di un testo, e di comprendere e produrre un testo-discorso argomentativo o narrativo. Naturalmente gli schemi d’inferenza possono essere differentemente vari e complessi: i modelli inferenziali lineari e consequenziali (riferibili al discorso logico-dettutivo) sono simili a quelli propri dei racconti semplici destinati a bambini piccoli, anche se nel racconto (segnatamente nel racconto fantastico) irrompono spesso imprevedibili elementi di sorpresa (un evento magico, un personaggio fantastico) i quali, pur non interferendo con lo schema inferenziale lineare, non risultano desumibili dal semplice procedimento razionale del discorso. Ci sono poi schemi inferenziali che prevedono, strutturalmente, una rottura della linearità: è il caso della “barzelletta”, il racconto della quale (come nel caso della scrittura del gag, spesso utilizzato nel linguaggio cinematografico) presuppone un “fuori tempo”, un “fuori luogo”: la rottura, insomma, della continuità inferenziale che viene spostata su un piano differente da quello linearmente prevedibile. Ci sono poi modelli inferenziali circolari, non teleologici (da telos, fine), che ricordano idealmente la figura del mandàla e tornano su se stessi, come nel caso del limerik o nel testo del genere musicale “ballata”, nel quale l’ultimo verso riprende il primo, alludendo al ricominciamento del racconto che diviene così rituale e rievocativo, o nel “rondò”. Chi struttura compiutamente una metacognizione narrativa elabora comunque la competenza inferenziale che conferisce capacità di decodificare e produrre testi vari e complessi, all’interno dei quali siano presenti, ad esempio, frasi subordinate, o la cui struttura testuale non sia soltanto lineare ma anche complessa e ramificata. Il procedimento inferenziale relativo all’evento narrativo viene definito anche ricezione (Jauss H.R. 1987), e consiste nell’atto attraverso il quale un testo viene recepito da un destinatario (ricevente, narratario) il quale lo riconosce come testo e, ritenendo che possa essere portatore, in quanto tale, di contenuto e di senso, dà inizio al processo di interpretazione. E’ questo, non solo in ambito narrativo, il momento più importante dell’evento comunicativo, poiché se possiamo pensare che esista comunicazione anche in assenza di uno specifico e riconoscibile emittente (per
  • 4. esempio quando si interpreta il sintomo di una malattia, o si captano segnali atmosferici per prevedere che tempo farà domani) sappiamo che è sulla figura del ricevente che si regge la consistenza dell’evento comunicativo. Qualunque emittente, d’altra parte, quando formula il suo messaggio si regola immaginando un ricevente virtuale, ed usa dunque se stesso nella doppia funzione di emittente reale e ricevente immaginato. L’assunto per cui, comunque, la comunicazione può dirsi tale solo quando la relazione comunicativa è effettivamente realizzata, possiamo verificarlo quando siamo al cospetto di messaggi che non vengono riconosciuti come tali dall’emittente, ad esempio per mancanza di pre- informazioni sul codice utilizzato o per l’incapacità o l’impossibilità di riconoscere il messaggio come tale, cioè come testo che lo veicola. In questo caso, ancor prima di dedicarsi, eventualmente, al lavoro di decodifica, il potenziale ricevente non riconosce forma e senso alla “cosa” al cospetto della quale si trova. È il caso di molta arte contemporanea, di fronte alla quale non pochi potenziali riceventi ritengono a priori che “quella non è arte”, e non dedicano dunque alcun impegno alla comprensione del senso e alla decodifica del significato del messaggio, ma è anche il caso di certe lezioni scolastiche che alcuni alunni non cercano neppure di decodificare poiché, non riuscendo a capire ragioni e funzioni della comunicazione didattica e del loro stesso essere in quella situazione formativa, ritengono che la lezione, ancor prima di verificarne l’eventuale comprensibilità, sia del tutto priva di senso. Anche se poi non è infrequente che in questo caso l’alunno commenti il discorso del docente con il compagno di banco dicendo: “non ci si capisce niente!”. Questo fenomeno può avvenire anche per un libro, un brano musicale, una trasmissione televisiva: l’incapacità di riconoscere quel testo come tale, perché le sue caratteristiche immediatamente percepibili non rientrano all’interno degli schemi culturali noti, inibisce la disponibilità a porsi nel ruolo di riceventi. Tuttavia il mancato riconoscimento della funzione testuale di un (potenziale) messaggio non dipende, come sappiamo bene, soltanto da competenze e preconoscenze culturali, ma può essere determinato da fattori estetici (emozionali, affettivi) e dai pre-giudizi che questi elementi comportano. Il pianto o il lamento di un bambino è spesso molto più difficile da decodificare di un qualunque testo filosofico, letterario o scientifico, ma una madre, di fronte a segnali di disagio presentato dal figlio, si pone solitamente in atteggiamento di totale disponibilità a cercare di comprenderne ragioni e significati, mentre questo coinvolgimento risulta spesso latitante nei confronti di testi la decodifica dei quali potrebbe avvenire solo a fronte dello sforzo di consultare un dizionario. Questo perché, nel secondo caso, il potenziale ricevente ritiene semplicemente (a torto o a ragione) che non valga la pena di compiere quello sforzo. La capacità di dotare di senso la presentazione del proprio testo, o di quello del quale, come insegnanti dovremmo mediare ed “animare” la decodifica, dipende, inizialmente, dalla nostra capacità di farlo riconoscere come portatore di elementi di piacere (Barthes 1975). Ciò contribuisce a farne presupporre una dimensione di testualità e a giustificare lo sforzo implicitamente richiesto nella sua decodifica e nella sua comprensione. La forma di narrazione e il “clima narrativo” che può accompagnare o permeare la presentazione di qualunque apparato testuale costituisce
  • 5. senz’altro caratteristica estetica e formale capace di favorire curiosità e disponibilità nei confronti di esso, della sua ricezione, della sua elaborazione. Quando la applichiamo alle produzioni artistiche e narrative (anche se probabilmente non solo in questi ambiti) l’inferenza può essere esaminata attraverso una bipartizione di carattere funzionale. Possiamo infatti individuare due distinti processi inferenziali che definiamo inferenza interna e inferenza esterna. Si ha inferenza interna quando il processo di decodifica attraverso il congegno inferenziale è circoscritto al mondo evocato o creato dal medium. Si ha inferenza esterna quando collegamenti, organizzazioni secondo sequenze temporali o di causa-effetto, e tutto quanto costituisce ciò che possiamo chiamare procedimento inferenziale, esce dal medium e si collega o ad altri media (differenti, tuttavia, dal primo per caratteristiche semiotiche, altrimenti si tratterebbe non di inferenza esterna ma di intertestualità), o alla realtà, al mondo delle cose e della vita rispetto al quale il ricevente applica e collega principi, categorie, affermazioni presentate dal medium narratore. Facciamo alcuni esempi: la riflessione sulla presenza della coppia inferenza esterna/inferenza interna nei processi di costruzione del sapere a partire dagli apparati simbolici e narrativi risulta particolarmente significativo poiché attiene in maniera specifica al problema del senso del testo. Problema fondamentale all’interno di una analisi di tipo fenomenologico, per la quale la categoria del senso è fondativa, ma lo è anche dal punto di vista dello specifico pedagogico, poiché il riconoscimento della sensatezza di un materiale culturale da parte dei soggetti in formazione consente o nega all’insegnante-educatore di essere accolto come un portatore di un’offerta culturale e cognitiva sensata, degna di essere accolta ed elaborata. Un testo ha senso quando, al suo interno, risponde a quelle caratteristiche di coerenza e di autosufficienza che consentono di riconoscerne le caratteristiche di testualità. Ma se vogliamo parlare di senso da un punto di vista non solo formale, ma più generale o addirittura filosofico, un testo risulta sensato quando il collegamento fra il messaggio che presenta e i contenuti che espone è riconducibile alla realtà, o è comunque collegabile con una rete testuale e simbolica (vedi funzione intertestuale) all’interno della quale trae un legittimazione che avviene, comunque, fuori di esso. Un testo saggistico o una narrazione “realistica” vengono vissuti come dotati di senso se i loro contenuti riconducono a una realtà almeno in parte nota al ricevente anche se (e questo è solitamente auspicabile come elemento di qualità del testo stesso) aggiunge conoscenze o fa scoprire nuovi aspetti e nuove dimensioni di essa. Lo stesso principio vale anche per un testo fantastico o intenzionalmente non veritiero quando, tuttavia, la rappresentazione interiore che il ricevente costruisce a partire dalla decodifica del testo incontra, incrocia e utilizza elementi della realtà. Nessuno, che io sappia, ha mai visto uno dei “morti viventi” che pullulano in molta letteratura fantastica contemporanea, da Poe a Dylan Dog: ciascuno di noi ha tuttavia l’esperienza di relazione con esseri viventi e sa bene cos’è un morto. L’inferenza fantastica consiste dunque nell’incrociare due ingredienti riconducibili alla realtà all’interno di quel testo. Leggendo i fumetti di Tiziano Sclavi, le novelle di Edgar Allan Poe, o le avventura di Harry Potter, riconosciamo e rievochiamo ingredienti contestuali, personaggi di contorno, oggetti e elementi scenografici sempre
  • 6. riconducibili all’esperienza del rapporto con reale che ha contribuito e contribuisce quotidianamente a strutturare quel “principio di realtà” che ci consente di riconoscere il testo sensato anche laddove un particolare (l’irruzione nel racconto del personaggio o dell’evento sovrannaturale) interrompe e contraddice tale principio. Ma questa lettura ci offre anche la possibilità di attribuire il giudizio di “fantastico” a personaggi e situazioni strane presenti nel racconto, compiendo un processo di inferenza esterna che permette di riconoscere come estraneo, o parzialmente e estraneo, alla categoria del reale quell’ingrediente narrativo. Non è solo in questo modo, tuttavia, che un testo può essere riconosciuto come sensato nel suo rapporto con il principio di realtà. Esso appare tale anche quando il lettore, sia pure all’interno di un testo totalmente fantastico e irrealistico, trova spunti metaforici e simbolici riconducibili al principio di realtà. Molti personaggi di fiabe, favole e racconti mitologici (dei e semidei, draghi, orchi, fate, animali parlanti, oggetti magici, figure di metamorfosi) sono non solo irriconducibili alla dimensione del reale, ma spesso anche inquietanti, “perturbanti”. Quando tuttavia caratteri e vicende possono essere ricondotte simbolicamente, emblematicamente e allegoricamente alla nostra vita quotidiana l’inferenza esterna è possibile e non di rado pedagogicamente molto utile. Ma un racconto fantastico può attivare un processo di inferenza esterna in maniera anche più semplice: non esistono, nella realtà, cani a macchie rosse e blu, ma il personaggio della Pimpa creato e raccontato da Altan è riconoscibile come sensato perché i piccoli lettori sanno cos’è un cane e quali sono le sue caratteristiche di comportamento e di relazione con gli umani. Pimpa, come molti personaggi strutturalmente e narrativamente a lei simili, unisce caratteristiche riconducibili alla dimensione reale ad altre che sfuggono ad essa ma mantengono coerenza (e che creano dunque presupposti di riconoscibilità) all’interno del testo. Pimpa è un cane che si comporta in maniera decisamente canina: inferenza esterna; in più parla ed è a pallini rossi e blu, ma lo è coerentemente all’interno di tutto il testo e di tutta la catena seriale dei testi che la riguardano: inferenza interna. La legittimazione intertestuale di un racconto avviene invece quando gli ingredienti del tutto irrealistici di esso richiamano tuttavia racconti già culturalmente accreditati, cosicché chiunque produca un film, un fumetto o un racconto in cui si narrano vicende vampiresche attenendosi ai canoni (la croce, l’aglio, la fobia della luce, i topi e i pipistrelli…) introdotti dal prototipo di Bram Stoker, può contare sul fatto che essi rendono condivisibili a priori una serie di regole che permettono di partecipare a un “contratto di finzione” (vedi) già collaudato e consolidato. 3) Funzione enfatica. Corrisponde alla capacità di sottolineare o inserire nel discorso o nel racconto elementi di curvatura emozionale: ironia, mistero, sorpresa, drammaticità… La funzione metacognitiva corrispondente alla dimensione enfatica non riguarda, ovviamente, solamente l’abilità retorica relativa al raccontare con sottolineature emozionalmente significative, ma al pensare già il discorso (scritto e orale) come strutturalmente e originariamente capace di determinarsi come dotato di particolari determinazioni di senso e di significato grazie alle particolari curvature
  • 7. enfatiche che lo caratterizzano in quanto strumento di pensiero, di rappresentazione e di comunicazione. Strutturare metacognitivamente la funzione enfatica significa dunque essere consapevoli del fatto che qualunque evento, qualora formalizzato secondo determinate strategie narrative, può risultare emozionante e dunque esteticamente e affettivamente significativo. 4) Contratto di finzione: Non si ha narrazione senza contratto di finzione, che corrisponde alla capacità di stabilire un accordo implicito fra narratore e narratorio relativo alla sospensione delle dimensione spazio-temporale del “qui e ora” e delle convenzioni e delle regole sulle quali si basa il principio di realtà. All’interno del racconto, che ci porta in luoghi e tempi differenti da quelli contingenti, possono così avvenire cose fantastiche, irreali o surreali. Il contratto di finzione è implicito, ma la sua stipulazione può essere sollecitata attraverso rituali il cui significato sia culturalmente condiviso: a teatro lo spegnersi delle luci in sala e l’apertura del sipario ci portano nella dimensone “finta” del racconto ancor prima che gli attori diano inizio allo spettacolo, e chi narra fiabe, o chi se le è sentite narrare, sa bene che la formula “c’era una volta” non significa, letteralmente, che il racconto ci porta in un’epoca passata, ma che ciò che ci verrà raccontato riguarda una dimensione “altra”, per accogliere e comprendere la quale occorre accettare la stipulazione del contratto di finzione che, da quel momento fino alla fine del racconto, lega narratore e narratari. Sappiamo bene come la capacità di adeguarsi alle clausole stranianti di questo contratto sia tutt’altro che scontata e naturale ma sia, invece, una complessa e preziosa costruzione culturale (spesso alcuni bambini, durante il racconto di fiabe, chiedono con trepidazione: «…ma è vero…?»), anche se le pratiche di gioco, e la capacità che i bambini hanno, all’interno di esso, di spostarsi di tempo e di luogo, di assumere ruoli fantastici, di inventare funzioni straordinarie per gli oggetti d’uso comune e di compiere azioni impossibili nella realtà (come morire e risuscitare), ci fanno supporre l’esistenza di elementi di naturalità che il contratto di finzione narrativo perfeziona, sviluppa, rende più consapevoli e culturalmente condivisibili. D’altra parte non è infrequente che i bambini “iniziati” ai riti fiabeschi usino i verbi all’imperfetto («io facevo…, tu eri…») riportando le regole strutturate nella loro mente dalla metacognizione narrativa alle pratiche di improvvisazione teatrale tipiche del giocare. 5) Funzione esemplificativa corrispondente alla capacità di inserire nel proprio discorso micro-narrazioni contenutisticamente pertinenti ma digressive dal punto di vista della coerenza discorsiva. All’interno della funzione esemplificativa vanno annoverati anche tutti i fenomeni di digressione linguistica, compresi i cosiddetti “voli pindarici”, a patto che il loro uso non comprometta la coerenza complessiva del discorso. 6) Funzione intertestuale; il termine intertestualità, creato da Michail Bachtin (Bachtin M. 1934/35) e ripreso ampiamente da Julia Kristeva (Kristeva J. 1969) si riferisce, in questi autori, alla dimensione specifica del testo scritto e alla sua
  • 8. caratteristica di esistere sempre in collegamento e riferimento ad altri testi. Nella nostra accezione essa consiste nella capacità di collegare il testo del proprio discorso ad altri testi e ad altre fonti (riferimenti), dimostrando così di avere strutturato la coscienza di vivere all’interno di un flusso narrativo-ermeneutico nel quale ciascun atto di pensiero e di scambio simbolico avviene e si legittima in riferimento all’universo delle pre-cognizioni singolarmente acquisite e culturalemente condivise. 7) Funzione mitopoietica: corrisponde alla tendenza di produrre cosmogonie intertestuali, collocando, o dimostrando di avere la capacità di collegare, ciascun testo (compreso quello del discorso che si sta producendo contestualmente) all’interno di una visione del mondo (weltanshauung) generata dalla capacità di produrre mito da parte dell’insieme delle produzioni testuali (segnatamente letteraria e narrativa, ma anche artistico-visiva e musicale) della cultura di appartenenza.