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Le Aziende come Media
Company: il Transmedia
Storytelling per un Nuovo
Modello di Business
Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione
Corso di laurea in Scienze della Comunicazione
Cattedra di Teoria e Tecniche dei Nuovi Media
Candidato
Giulia Cennamo
Relatore Correlatore
Alberto Marinelli Flavia Marzano
A/A 2014/2015
2
Indice
Introduzione .............................................................................................. 4
1. Lo scenario: la società in rete e le nuove dinamiche di creazione
del valore.................................................................................................... 6
1.1 Il contesto sociale: la network society. Come cambiano pubblico
e consumatori......................................................................................... 6
1.2 Brand e co-creazione del valore................................................... 11
1.3 Il Web 2.0 e i nuovi strumenti per gli attori in gioco ................ 18
2. I media tra condivisione, circolazione e partecipazione. Come
viaggiano i contenuti sui social media................................................ 28
2.1 I network sociali e le comunità online.......................................... 28
2.2 Perché si condivide?...................................................................... 37
2.3 Pubblici attivi e cultura partecipativa ........................................ 46
3. La tenuta della brand identity e della brand reputation sulla
nuova scena mediatica ........................................................................... 54
3. 1 Verso nuove regole di marketing............................................... 54
3.2 Il controllo del brand passa dall’azienda agli utenti ................ 68
3.3 Dalla brand image alla brand reputation ........................................ 72
4. Il brand storytelling dai media tradizionali alla Rete .................. 84
4. 1 Brand storytelling: la marca come narrazione............................ 84
4.2 Web storytelling: come cambia il brand storytelling in Rete ........ 98
5. Brand e narrazioni transmediali: dallo storytelling alla media
company.................................................................................................. 104
3
5.1 Il transmedia storytelling come condizione per il dialogo........ 104
5.2 Transmedia branding: il transmedia storytelling nella
comunicazione di brand................................................................... 114
5.3 Le aziende come media company................................................. 122
Conclusioni............................................................................................ 133
4
Introduzione
L'attuale sistema sociale presenta alcuni fondamentali elementi di
novità che impongono una revisione dei modi in cui le aziende
comunicano e si relazionano con i loro consumatori.
L’avvento e la diffusione del Web 2.0 e delle tecnologie digitali ha
consentito la creazione di un’infrastruttura reticolare di
telecomunicazioni e il passaggio a un nuovo sistema sociale, detto
"network society". In più si sta verificando un vero e proprio
cambiamento culturale, che segna l'ingresso nell'era della "cultura
convergente", la quale vede la convergenza tra vecchi e nuovi mezzi
di comunicazione, tra contenuti prodotti dal basso e quelli delle
corporation, e l'interazione tra consumatori e produttori.
Stiamo assistendo all'emergere di una forma di cultura partecipativa,
consistente nel coinvolgimento attivo dei consumatori, i quali sono
ormai lontani dall'essere spettatori passivi e sono direttamente
coinvolti nei processi di produzione, tanto che si parla di prod-uso o
di co-creazione di valore del brand. I pubblici attivi intervengono nei
flussi di circolazione dei contenuti e, grazie ai nuovi strumenti offerti
loro dal Web partecipativo, contribuiscono a definire la reputazione
di brand e aziende. Il potere dei nuovi consumatori si esplicita
soprattutto nella produzione dei cosiddetti "contenuti generati dagli
utenti", consistenti in messaggi creati autonomamente dagli utenti
della Rete, che spesso hanno come oggetto brand, prodotti e servizi.
In un contesto di questo tipo le aziende devono prendere coscienza
che il controllo del brand e della loro immagine sta passando
gradualmente nelle mani dei consumatori. Le persone non si
accontentano più dei messaggi pubblicitari tradizionali e alle
5
comunicazioni unidirezionali delle aziende preferiscono il confronto
con gli altri utenti in merito a prodotti, servizi e brand. Per questo le
imprese devono necessariamente abbandonare le vecchie regole di
marketing e adottare nuove strategie improntate alla relazione e al
dialogo. Per raggiungere questo obiettivo devono raccontare una
storia coerente con l’identità dell’azienda e tale racconto deve essere
declinato in maniera organica sui vari canali in cui le persone sono
presenti.
Un tipo di approccio adeguato a un consumatore che vive nell’epoca
dei media convergenti e che possiede lo stesso potenziale di accesso
ai mezzi di produzione rispetto ad aziende e corporation, che un
tempo detenevano il monopolio della creazione di contenuti, consiste
nel progettare narrazioni di marca coinvolgenti che prevedano forme
di engagement per i pubblici e che si disperdano su varie piattaforme
in maniera coerente, secondo il modello del transmedia storytelling.
Le aziende devono quindi modificare le tradizionali strutture
organizzative per poter avviare un dialogo autentico con i propri
pubblici. Questa strutturazione può assumere varie forme, dal brand
journalism fino all’organizzazione secondo i criteri di una vera e
propria media company.
Partendo dalla disamina delle principali teorie che hanno cercato di
interpretare i cambiamenti in atto, questo lavoro analizza le
principali strategie e azioni progettate dalle aziende e, attraverso lo
studio di alcuni tra i principali casi di successo a livello
internazionale, arriva a proporre un possibile modello di indagine
del livello di organizzazione editoriale delle imprese.
6
1. Lo scenario: la società in rete e le nuove
dinamiche di creazione del valore
1.1 Il contesto sociale: la network society. Come
cambiano pubblico e consumatori
L’avvento e la diffusione delle tecnologie digitali e la conseguente
affermazione di un’infrastruttura reticolare di telecomunicazioni
hanno sancito il passaggio, nel mondo occidentale, da una società
moderna e di massa a una “società in rete”, la cosiddetta network
society1.
Col termine “rete” viene indicato un sistema formato da nodi
interconnessi. Questo tipo di sistema, nelle organizzazioni umane,
rappresenta una struttura comunicativa complessa costruita sulla
base di obiettivi condivisi.
Seppure da sempre presente in qualsiasi civiltà umana, la forma a
rete ha assunto rilevo nei sistemi sociali solo nell’epoca attuale: nelle
precedenti ere, infatti, le relazioni erano subordinate a logiche
organizzative di tipo verticale e gerarchico e a un potere distribuito
secondo flussi monodirezionali di comando e controllo.
I media elettrici di comunicazione di massa affermatisi tra la fine del
XIX e l’inizio del XX secolo (telegrafo, telefono, radio e televisione)
non si sono rivelati in grado di modificare in senso reticolare le
strutture tradizionali, rigide e verticali, della società industriale. È
solo grazie alle innovazioni tecnologiche introdotte a partire dalla
1 M. Castells, 1996, La Nascita della Società in Rete, Egea Università Bocconi
Editore, Milano, 2002
7
seconda metà del XX secolo, e al conseguente diffondersi di una
struttura reticolare di telecomunicazioni che ha abilitato la diffusione
del World Wide Web, che si è potuta affermare una vera propria
network society2.
In riferimento al nuovo sistema sociale, Barry Wellman parla di
“networked individualism”3, vale a dire un sistema in cui gli
individui appartengono – e si affidano per soddisfare i loro diversi
bisogni sociali, emotivi ed economici – a molteplici network
frammentati, debolmente interconnessi e composti da contatti
diversificati, facendo meno affidamento sui gruppi stabili e coesi che
costituivano il nucleo delle società tradizionali.
Ciò vuol dire che, a differenza dei loro antenati, che vivevano in
comunità ristrette ed erano integrati in piccoli gruppi (famiglie,
villaggi, vicinato, amici intimi, piccole organizzazioni), capaci di
garantire loro un sistema di supporto e una rete di sicurezza unitaria,
gli “individui networked” possono avvalersi delle conoscenze e
competenze del loro network sociale allargato, composto non solo da
familiari, vicini, amici più o meno stretti, ma anche da conoscenti,
amici di amici, colleghi, vecchi amici, persone con cui condividono
passioni e interessi professionali e così via4.
All’interno di questo “nuovo ordine sociale” di reti differenziate,
grazie anche alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie
dell’informazione e della comunicazione (Internet, Web 2.0 e
2 M. Castells, Comunicazione e potere, Egea Università Bocconi Editore,
Milano, 2009
3 L. Rainie, B. Wellman, 2012, Networked. Il nuovo sistema operativo sociale,
Guerini, Milano, 2012
4 Ibidem
8
connettività mobile in primis), le persone hanno a disposizione nuovi
strumenti per soddisfare i loro bisogni.
Possono cioè relazionarsi in modo semplice e istantaneo con i propri
contatti, cercare informazioni, scambiare pareri, condividere idee,
creare e diffondere contenuti in modi inimmaginabili fino a pochi
decenni fa.
Cambiano inoltre i modi in cui le persone fruiscono i contenuti
mediali e si relazionano con le aziende e i loro beni e servizi.
Secondo Henry Jenkins stiamo assistendo a un vero e proprio
cambiamento culturale, che è possibile definire “cultura
convergente”,
dove i vecchi e i nuovi media collidono, dove si incrociano i
“media grassroots”5 e quelli delle corporation, dove il
potere dei produttori e quello dei consumatori interagiscono
in modi imprevedibili.6
In questo inedito quadro sociale e mediatico, sta emergendo una
“cultura partecipativa”, che vede il coinvolgimento attivo dei
consumatori nella ricerca di nuove informazioni e nell’attivazione di
connessioni tra contenuti mediatici differenti.
Occorre abbandonare dunque la vecchia nozione di consumatore
come spettatore passivo e considerare come interagenti i ruoli di
5 Per “grassroots convergence” (convergenza grassroots) si intende il flusso dei
contenuti mediatici informale e talvolta non autorizzato a opera dei
consumatori, attraverso le pratiche di annotazione, modifica, espropriazione
e ridistribuzione dei contenuti stessi (H. Jenkins, 2006, Cultura Convergente,
Apogeo, Milano, 2007)
6 Ivi, p. XXV
9
consumatori e produttori, figure che nel contesto attuale appaiono
sempre meno distinte.
Queste interazioni avvengono secondo dinamiche ancora non del
tutto note e con un peso che varia da soggetto a soggetto: alcuni
consumatori si rivelano più abili degli altri nella partecipazione a
questa cultura emergente, così come le grandi aziende possono
ancora dimostrarsi più potenti dei consumatori singoli o aggregati7.
Giampaolo Fabris inscrive queste trasformazioni che investono
società, consumi, mercati e imprese in un vero e proprio “passaggio
epocale”, che vede il tramonto di una società industriale o moderna,
“positivista, razionalista, tecnocentrica, della fede nel progresso
lineare e delle verità assolute, della standardizzazione della
produzione e dei consumi, del primato della produzione, della
subalternità del consumatore”8, e segna l’inizio dell’era
postmoderna. Questa si caratterizza, tra l’altro, per un rinnovato
rapporto tra imprese e consumatori, che rende possibile la
realizzazione di convergenze, prima impensabili, tra gli interessi di
entrambi9.
C’è una riflessione che il mondo della produzione, per
miopia o arroganza, ha sempre evitato di fare: quella sulla
creatività del consumatore. Nella presunzione/certezza che la
creatività e l’innovazione fossero interamente delegate
all’impresa e che, su questo fronte, il consumatore avesse
poco o niente da dire [...]. Questo ha portato a ignorare una
fonte di possibile cooperazione creativa che potrebbe
7 Ibidem
8 G. Fabris, Societing. Il marketing nella società postmoderna, Egea, Milano, 2008,
p. 7
9 Ibidem
10
risolversi, invece, in un reale vantaggio competitivo per la
stessa impresa, permettendo di immettere sul mercato beni
e servizi sempre più rispondenti alle esigenze dell’utenza e
usufruendo, in un momento come quello che stiamo
attraversando – in cui i consumi si svegliano dal loro torpore
soltanto a fronte di una sostantiva innovazione –, di input
progettuali che indirizzino su terreni fertili la ricerca del
nuovo.10
Sempre Fabris utilizza i termini “prosumer” (parola composta da
“producer” e “consumer”) e “consumAttore”, per definire questo
“empowerment dei consumatori”, vale a dire il loro ruolo attivo,
lontano dalla posizione di passività tipica della tradizione
fordista/taylorista11. Un consumatore che produce.
Si arriva a parlare di “co-creazione di valore”12: consumatore e
impresa diventano partner nella progettazione di prodotti, servizi e
contenuti, nonché dello stesso brand.
Il consumo, nella sua vecchia accezione di semplice agire economico,
rivela dunque tutti i suoi limiti e, in quanto pratica sociale e
momento costitutivo della nostra identità, impone un passaggio
dalla vecchia nozione di marketing a una concezione più attuale, che
Fabris definisce, quasi provocatoriamente, societing. Al fine di
adattarsi a questo nuovo assetto sociale, il marketing necessita di una
revisione dei suoi principi fondanti, abbandonando l’approccio al
consumatore in quanto interlocutore da piegare, a favore di una sua
10 Ivi, p. 265 (corsivo mio)
11 Ibidem
12 C. K. Prahalad, V. Ramaswamy, The Future of Competition. Co-Creating
Unique Value With Customers, Harvard Business School Press, USA, 2004
11
considerazione di questo in quanto soggetto con cui intessere un
dialogo13.
1.2 Brand e co-creazione del valore
Nel corso del XX secolo nel mondo occidentale si sono alternati
diversi modelli di consumo, che è possibile riassumere in tre fasi:
a. fase del consumo finalizzato alla sola soddisfazione dei
bisogni primari;
b. fase del “consumo di status”;
c. fase del “consumerismo”14 e del consumo consapevole.
Inizialmente era predominante un tipo di consumo finalizzato alla
semplice soddisfazione di bisogni fisiologici quali bere, mangiare o
apparire, che si legava a un consumo di beni materiali e avveniva in
una condizione di isolamento, se non di rivalità, nei confronti degli
altri consumatori per l’accesso alle risorse.
Nella seconda metà del secolo questo approccio al consumo in
termini di sussistenza è stato superato e si è passati gradualmente a
modelli di consumo sempre più orientati all’“autorealizzazione del
sé”, in cui ha assunto sempre maggiore rilevanza la
compartecipazione al consumo tra gli individui.
13 G. Fabris, op. cit.
14 Il termine consumerismo “(in contrapposizione a consumismo) indica la
tendenza dei consumatori a organizzarsi in associazioni che si pongono
come controparte nei confronti dei produttori, per meglio difendersi dalla
pubblicità indiscriminata e per esercitare un pubblico controllo sulla qualità
e sui prezzi dei prodotti” (voce “consumerismo” de Il Vocabolario Treccani)
12
Negli anni Settanta e Ottanta si è affermato un “consumo di status”,
vale a dire un consumo vissuto come simbolo di benessere
economico e segno di demarcazione delle differenze tra i ceti sociali.
Il consumo di status porta con sé il limite di essere un consumo
inconsapevole. In questa fase, infatti, la scelta effettuata dal
consumatore non è frutto di un’accurata ricerca e presa di
consapevolezza del valore del prodotto, bensì il potere di definire la
qualità, il significato e il valore è nelle mani delle aziende, che lo
esercitano attraverso un forte controllo dei canali di comunicazione e
dell’accesso all’informazione.
Alla fine dagli anni Novanta acquista maggiore importanza la sfera
immateriale dei prodotti: a essere consumato non è il bene materiale
in sé, bensì il significato che questo assume all’interno di una
comunità con cui il consumatore si identifica. È la fase del
consumerismo e del consumo consapevole, in cui il consumatore è
esperto, competente, molto meno influenzabile, capace di selezionare
e di esprimere il proprio parere positivo o negativo rispetto ai
prodotti. Non si consuma per ostentare il proprio status, bensì per
gratificare se stessi, e lo si fa acquisendo conoscenze e competenze
specifiche, utili sia a orientare le scelte sia ad arricchire la fruizione di
beni e servizi.
Nella costruzione del valore di un bene si fa sempre più importante
l’identificazione, l’appartenenza a una comunità, l’interazione e la
collaborazione tra produttore e consumatore.
Il consumo diventa comunitario e si integra con le funzioni di
produzione, ideazione e aggiornamento del prodotto o servizio: i
consumatori entrano a far parte della catena del valore e
13
contribuiscono ai processi di innovazione agendo in forma
collaborativa.
I social media hanno dato una grossa spinta a questo processo:
consentendo la collaborazione di persone fisicamente distanti, hanno
trasformato tante piccole nicchie disconnesse in un movimento
globale e si sono dimostrati capaci, se adeguatamente utilizzati, di
aiutare le aziende nelle loro attività di targettizzazione, relazione,
collaborazione e ascolto di questi pubblici15.
Secondo Manuel Castells, una delle principali novità legate alla
nascita della società in rete è l'affermarsi delle cosiddette
"autocomunicazioni di massa", una nuova forma di comunicazione
in cui, grazie alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie della rete,
ogni individuo può produrre contenuti potenzialmente in grado di
raggiungere istantaneamente un pubblico globale16.
Fino a qualche decennio fa il modello predominante nel panorama
mediale e culturale è stato quello delle comunicazioni di massa, nel
quale un soggetto emittente produce un messaggio (utilizzando un
determinato codice) e lo veicola, attraverso un mezzo broadcasting di
cui ha il controllo o comunque l'accesso, a una massa indifferenziata
di destinatari, allo scopo di colpire i singoli riceventi e ottenere
qualche effetto.
Si tratta di una comunicazione unidirezionale uno-a-molti, prodotta
da grandi organizzazioni pubbliche o private nella forma ad esempio
di giornali, libri, film, programmi televisivi o radiofonici, con sistemi
di distribuzione diversi a seconda del medium utilizzato.
15 T. L. Tuten, M. R. Solomon, 2013, Social media marketing. Post-consumo,
innovazione collaborativa e valore condiviso, Pearson Italia, Milano-Torino, 2014
16 M. Castells, Comunicazione e potere, cit.
14
Nonostante il diffondersi di nuove forme di comunicazione legate
alla network society, le reti produttive e distributive dei media di
massa costituiscono tuttora la struttura prevalente nel sistema
mediatico globale.
In questo sistema è l’azienda a decidere quale immagine vuole dare
di sé, quali devono essere i suoi valori e quali elementi simbolici
deve ispirare. Sulla base di questi produce una comunicazione ad hoc
e, per quanto possibile, monitora tutti i contenuti che la riguardano,
selezionando quelli che hanno il diritto di entrare nel flusso
mediatico e quali invece non vanno divulgati.
La nascita delle autocomunicazioni di massa ha reso meno efficaci
questi meccanismi di controllo messi in atto dalle imprese, dando
origine a una rete di costruzione di significati condivisi. Si tratta di
un fenomeno inedito nella storia della comunicazione: la costruzione
e la diffusione di contenuti e rappresentazioni del mondo non sono
più appannaggio dei detentori del potere, bensì, grazie alla
diffusione dei social media a livello mondiale, si aprono a una massa
di individui che un tempo ne erano esclusi.
Quelli che un tempo erano un semplice target di consumatori,
destinatari passivi delle comunicazioni di massa, entrano in possesso
dei mezzi di produzione e di trasmissione dei contenuti, diventando
produttori-consumatori.
Nella società in rete si integrano e si completano a vicenda le forme
tradizionali di comunicazione interpersonale e di massa e le nuove
autocomunicazioni di massa17.
17 G. Di Fraia, Social Media Marketing. Manuale di comunicazione aziendale 2.0,
Hoepli, Milano, 2011
15
Henry Jenkins parla dell’emergere di un modello ibrido di
circolazione dei contenuti, in cui la condivisione dei materiali
all’interno di una cultura e tra una cultura e l’altra è determinata
dall’agire di un insieme di forze discendenti e ascendenti,
rappresentate rispettivamente da modalità commerciali e grassroots
(dal basso)18.
Questo spostamento dalla distribuzione alla circolazione
segnala un movimento verso un modello di cultura più
partecipativo, che vede il pubblico non semplicemente come
un insieme di consumatori di messaggi precostruiti, ma
come persone che plasmano, condividono,
ricontestualizzano e remixano contenuti in modi che in
precedenza non si sarebbero neppure potuti immaginare. E
lo fanno non come individui isolati, bensì all’interno di
comunità e reti più ampie, che consentono loro di
diffondere i contenuti ben al di là del loro immediato
circondario geografico. [...]. Le audience fanno sentire la
loro presenza dando attivamente forma ai flussi mediatici e
produttori, manager dei brand, professionisti del servizio ai
clienti e comunicatori aziendali si rendono conto dei loro
bisogni commerciali ascoltandoli attivamente e
rispondendo.19
Le comunità in rete svolgono dunque un ruolo importante nel
plasmare il modo in cui i contenuti circolano. Parallelamente al
crescere dell’importanza di queste pratiche del pubblico, stanno
nascendo online sempre più piattaforme che abilitano e facilitano la
condivisione informale e istantanea di prodotti mediali.
18 H. Jenkins, S. Ford, J. Green, 2013, Spreadable media. I media tra condivisione,
circolazione, partecipazione, Apogeo Education, Milano, 2013
19 Ivi, p. 2
16
Jenkins utilizza il termine “spreadable media” (media diffondibili)
per indicare questa nuova modalità di circolazione dei media, dove
per “diffondibilità” intende il potenziale (tecnico e culturale) di
condivisione dei media da parte delle audience per le loro finalità,
con o senza il consenso dei detentori dei diritti.
Le imprese e le industrie dei media devono necessariamente
adeguarsi a questo nuovo ambiente mediale più partecipativo,
prestando maggiore attenzione alle loro audience: le comunità in rete
hanno il potere di richiamare alle loro responsabilità le aziende che
agiscono secondo logiche contrarie agli interessi della collettività, in
qualche caso provocando loro seri danni. Per reagire a queste
dinamiche, molte aziende si sono attrezzate per trasformare in dati
aggregati le conversazioni attive delle comunità, concentrandosi più
sul sentire che sull’ascoltare in modo efficace le proprie audience.
Non è sufficiente infatti raccogliere i dati che provengono
dall’ascolto dei pubblici, ma è necessario fare qualcosa sulla base di
questi dati, rispondendo loro in maniera attiva20.
Ascoltare proattivamente ciò che le persone dicono del loro brand e
dei loro prodotti, significa per le aziende evitare che un problema di
customer service inascoltato si trasformi in una questione di relazioni
pubbliche o che una questione circa un messaggio o una pratica di
business dell’azienda provochi una crisi reputazionale per il brand
stesso21.
20 Il dibattito tecnico e scientifico sul valore e sull’utilizzo dei Big Data è
attualmente aperto. Per approfondimenti sul tema si rimanda a: G. Amati,
M. Bianchi, D. D'Aloisi, Big Data Analytics Lab: esperienza e competenza per
crescere, “Media Duemila”, a. XXXII, n. 302, novembre 2014, pp. 35-46
21 Ibidem
17
Intanto la cultura di rete sta generando forme sempre più elaborate
di co-creazione e di “prod-uso”. Il termine “produsage” (“prod-uso”,
fusione delle parole “produzione” e “uso”) è stato coniato da Axel
Bruns per descrivere queste nuove forme di produzione di contenuti
da parte degli utenti, i quali mettono in atto continui processi
collaborativi di creazione e ri-creazione delle risorse d’informazione
condivise dalla comunità, in un processo iterato ed evolutivo,
potenzialmente infinito. Si osserva così, nella società in rete, una
collaborazione ai progetti da parte di una comunità “alveare”, resa
possibile dagli strumenti messi a disposizione dai media sociali, che
abilitano approcci iterativi alle attività, dall’assenza di gerarchie,
dalla presenza di ruoli fluidi, dal prevalere dei materiali condivisi su
quelli proprietari e da una modalità granulare di risoluzione dei
problemi22.
La società in rete dunque comunica e consuma mediante la Rete,
diffonde istantaneamente simboli e conoscenze, condizionando
fortemente le forme culturali, del potere politico e della
mobilitazione sociale23. Ed è facilitata in ciò dal proliferare in Rete
degli user-generated media, vale a dire di strumenti che consentono la
produzione di contenuti “dal basso”, come siti, forum, blog,
microblog, social network e newsgroup24.
22 A. Bruns, Blogs, Wikipedia, Second Life, and Beyond. From Production to
Produsage, Peter Lang, New York, 2008
23 M. Castells, Comunicazione e potere, cit.
24 V. Cosenza, 2012, Social Media ROI, Apogeo, Milano 2014
18
1.3 Il Web 2.0 e i nuovi strumenti per gli attori in
gioco
La comunicazione sul Web è passata in tempi rapidi da un semplice
accesso alle informazioni a un processo più elaborato di costruzione
e gestione delle relazioni sociali.
A partire dalla seconda metà degli anni ‘90, mentre le scienze sociali
cominciavano a concentrare i loro studi sulla nascente Network
Society (termine che si è presto imposto in sostituzione dell’ormai
obsoleto “Information Society”), il mondo della comunicazione
d’impresa iniziò a porre l’attenzione sui processi innescati dalla
condivisione, da parte di aziende e consumatori, di un comune
spazio sociale e dunque sul ruolo che le nuove tecnologie della
comunicazione avrebbero dovuto ricoprire in questo scenario.
Ricerca sociale e strategie d’impresa condividevano l’idea che
Internet non è un semplice mezzo di comunicazione, bensì uno
strumento di relazione sociale25.
Un approccio innovativo al rapporto tra imprese e clienti nell’era di
Internet è stato offerto per la prima volta, a partire dal 1999, dal
Cluetrain Manifesto, una raccolta di 95 tesi, elaborate allo scopo di
analizzare l’impatto di Internet sulla comunicazione aziendale
interna ed esterna.
La prima tesi contenuta nel Manifesto recita: “Markets are
conversations”.
Con questa affermazione, il Manifesto propone alle imprese di
rivedere i propri processi comunicativi, trasformandoli in un dialogo
25 D. Bennato, Sociologia dei media digitali, Laterza, Roma-Bari 2011
19
con i propri pubblici, da considerarsi non più come semplici target di
consumatori, bensì come persone. Le aziende devono dunque
utilizzare Internet non come farebbero con un qualunque mass media,
ma come uno strumento di conversazione.
Per millenni i mercati sono stati luoghi fisici dove venditori e
acquirenti si incontravano per effettuare le loro transazioni
commerciali guardandosi negli occhi e dialogando. La vendita
giungeva al termine di una conversazione sulle qualità e l'unicità di
materiali e prodotti. I mercati erano luoghi d'incontro e
conversazione tra persone che condividevano interessi. Produttori e
clienti parlavano senza il filtro dei media, senza i condizionamenti e
gli artifici di posizionamenti pubblicitari e relazioni pubbliche.
Nell'era industriale, con la standardizzazione della produzione e la
massificazione dei mercati, le aziende hanno cominciato a indirizzare
i loro messaggi a una moltitudine indifferenziata di consumatori, che
spesso non erano interessati a riceverli.
Il Web ha restituito ai mercati la loro originaria vocazione al dialogo:
la Rete rappresenta infatti un luogo reale, dove le persone si
scambiano opinioni su prodotti e compagnie.
Queste conversazioni riguardano il più delle volte il valore dei
prodotti e dei servizi offerti dalle imprese e possono fornire giudizi
positivi o negativi, che toccano anche la reputazione delle aziende.
Immerse in questo luogo di conversazione, le persone non si
accontentano più dei claim pubblicitari tradizionali. Esse preferiscono
la voce umana ai discorsi vuoti del cosiddetto "business as usual".
Questi ultimi appaiono sempre più inutili se paragonati alla ricca
20
conversazione che si genera sul Web e che comprende anche le
esperienze reali degli altri utenti.
La differenza rispetto alla millenaria forma di pubblicità consistente
nel passaparola è che oggi questo word of mouth ha dimensioni
globali.
Le aziende sono dunque obbligate a capire come entrare in questa
conversazione globale, anziché continuare ad affidarsi alle vecchie
tecniche di marketing e promozione26.
Con l’aumento degli utenti di Internet, l’espandersi dell’utilizzo
commerciale della Rete e l’avvento dei social media, questa relazione
tra dimensione informatica e dimensione sociale si è resa sempre più
evidente e si è chiarita ulteriormente l’importanza di un sapiente
utilizzo dei nuovi media per la vita aziendale27.
Grazie agli spazi di relazione pubblici ospitati dalla Rete, come blog,
wiki e social network, gli utenti si trovano nella condizione sia di
ricevere che di produrre e filtrare informazioni. Sempre più
autonome, dunque, nel valutare beni e servizi e consapevoli di
questo loro potere, le persone si lasciano sempre meno influenzare
dai messaggi puramente propagandistici.
Nei primi anni del XXI secolo sono nati migliaia di servizi web che
hanno introdotto novità tecnologiche e sociali nella vita di utenti e
aziende e che rientrano nella categoria del Web 2.028.
26 D. Weinberger et al., 2001, The Cluetrain Manifesto, Basic Books, New York
2009 (10th Anniversary Edition)
27 D. Bennato, op. cit.
28 V. Cosenza, op. cit.
21
Il termine Web 2.0, come si intuisce dall’utilizzo dei numeri di serie
comunemente impiegati per indicare le versioni successive di un
software, indica una nuova fase del Web, che segue quella del Web
1.0.
Il merito della diffusione del termine Web 2.0 si attribuisce a Tim
O’Reilly, fondatore della casa editrice O’Reilly Media, il quale lo
introdusse in occasione della Web 2.0 Conference (poi diventata Web
2.0 Summit), tenutasi nel 2004 a San Francisco.
A Tim O’Reilly e al suo team si deve l’elaborazione di una serie di
principi che chiariscono le peculiarità di questa nuova generazione
del Web. Tra questi emergono due principali concetti chiave, che
sono alla base del Web 2.0: quelli di "architettura della
partecipazione" e di "intelligenza collettiva".
Il termine "architettura della partecipazione" si riferisce al
coinvolgimento, da parte delle società di servizi Web 2.0, del
maggior numero di utenti possibile, al fine di aumentare il valore del
servizi offerti, nonché di migliorarli grazie al contributo degli utenti.
Nei servizi Web 2.0 è inclusa una sorta di etica della cooperazione,
per la quale i servizi fungono da intermediari intelligenti, che
sfruttano il potere degli utenti.
Strettamente correlato con il concetto di “architettura della
partecipazione” è quello di “intelligenza collettiva”, altro principio
chiave del Web 2.0: secondo O’Reilly, i servizi di successo nell’era del
Web 2.0 sono quelli che hanno saputo sfruttare l’intelligenza
22
collettiva, incoraggiando i contributi degli utenti e incrementando il
loro coinvolgimento29.
Attraverso la tecnologia, è possibile valorizzare e coordinare
l’intelligenza distribuita nell’umanità. I mondi virtuali ci consentono
di creare un "cervello collaborativo": oltre a scambiarci informazioni,
possiamo infatti pensare insieme, condividere le nostre memorie e i
nostri progetti. In Internet, infatti, i singoli incanalano le loro
competenze individuali verso obiettivi condivisi30: "nessuno sa tutto,
ognuno sa qualcosa, la totalità del sapere risiede nell'umanità"31.
L’utente diventa il principale protagonista del Web, passando da
semplice fruitore a creatore di contenuti. Creazione, condivisione,
partecipazione e discussione sono infatti le principali caratteristiche
del Web 2.032.
Un’altra particolarità di questa fase dell'evoluzione del World Wide
Web (detta anche del Web dinamico, in contrapposizione a quella del
Web 1.0, o “statico”) evidenziata da Tim O’Reilly è “il Web come
piattaforma”, vale a dire un’esperienza dell’utente molto più simile a
29 T. O'Reilly, What Is Web 2.0. Design Patterns and Business Models for the Next
Generation of Software, O'Reilly, 2005,
<http://www.oreilly.com/pub/a/web2/archive/what-is-web-20.html> (ultima
consultazione: 6 marzo 2015)
30 P. Lévy, 1994, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio,
Feltrinelli, Milano, 1996
31 Ivi, p. 34
32 A. Marinelli, Glossario della comunicazione online, Materiali didattici del
Corso di Teoria e tecniche della comunicazione e dei nuovi media, Facoltà di
Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione, Sapienza Università di Roma,
A.A. 2012-2013
23
quella dei programmi desktop, lontana dalla staticità delle
tradizionali pagine Web.
Una “rich user experience” legata alla fruizione dei servizi Web è stata
resa possibile dall’utilizzo delle tecnologie di programmazione Ajax,
che costituiscono una componente chiave delle applicazioni Web
2.033. Ajax (parola composta dai nomi dei linguaggi di
programmazione Asynchronous JavaScript e XML) è un insieme di
tecnologie per lo sviluppo di applicazioni Web interattive, che
permettono l'aggiornamento dinamico di una pagina web34.
Il Web 2.0 offre dunque un elevato livello di interazione tra sito web
e utente.
Negli ultimi anni si è diffusa l’espressione “social media”, che allude
all’uso partecipativo e collaborativo del Web, sottolineando la
componente comunicativa dei nuovi servizi Internet, considerati
sempre più come media e sempre meno come tecnologie
informatiche35.
È possibile classificare i social media in cinque categorie:
1. servizi di gestione e pubblicazione di contenuti (blog36,
microblog e podcast).
33 T. O’Reilly, op. cit.
34 J. J. Garrett, Ajax: A New Approach to Web Applications, Adaptive Path, 2005,
<http://www.adaptivepath.com/ideas/ajax-new-approach-web-
applications/> (ultima consultazione: 9 marzo 2015)
35 D. Bennato, op. cit.
36 I blog (abbreviazione di web-log, che significa “diario online”) sono i primi
servizi Web pensati per essere usati da un pubblico ampio e diffuso e per
creare relazioni sociali. Si tratta di siti internet il cui contenuto è organizzato
24
WordPress, Blogger, Medium sono tra le più diffuse
piattaforme per la creazione di blog, mentre Twitter, offrendo
la possibilità di pubblicare in Rete brevi contenuti di 140
caratteri, rappresenta l’archetipo delle piattaforme di
microblogging37;
2. canali di content curation e sharing, ovvero servizi di
condivisione e aggregatori di oggetti mediali (come video,
foto, musica, notizie, livecasting, social bookmark38). Ne sono
alcuni esempi YouTube per i video, Flickr e Pinterest per le
foto, Slideshare per le presentazioni, Scribd per i documenti,
Spotify e Last.fm per i brani musicali, Storify per gli status
update dei vari social media, Livestream, Ustream, Google
Hangout e Periscope per i livecasting;
3. social network site, cioè servizi che consentono di gestire la
propria rete di contatti, sia rafforzando legami preesistenti,
cronologicamente in post. I lettori possono commentare i post e ricevere gli
aggiornamenti dai blog senza dover necessariamente digitarne l’indirizzo,
attraverso la ricezione di questi contenuti in un software specifico, basato
sulla tecnologia feed RSS, acronimo di Really Simple Syndication o Rich Site
Summary (ibidem)
37 Ibidem
38 Per “social bookmark” si intende un servizio che consente di raccogliere e
condividere link di siti web (ibidem). Ne è un esempio Tumblr, un servizio
che si pone a metà strada tra un blog e un social network, basato sulla
creazione dei cosiddetti tumblelog, vale a dire dei quaderni di appunti in cui
gli utenti possono raccogliere foto, video, citazioni, testi, audio e
collegamenti, caricando questi file dai propri computer oppure copiandoli e
incollandoli da altri siti tramite l’uso di appositi bookmarklet. Si tratta di una
sorta di diari-collage, che differiscono dai blog propriamente detti perché
fatti principalmente di contenuti multimediali, lasciando poco spazio alla
scrittura (V. Cosenza, op. cit.)
25
sia creando nuove connessioni sociali. Tra questi Facebook,
Twitter, Instagram, LinkedIn, Google+;
4. ambienti virtuali immersivi che permettono di vivere
esperienze sincrone di gioco o relazione, come Second Life e i
MMORPG (Massively multiplayer online role-playing game,
come World of Warcraft);
5. piattaforme di social collaboration, che si articolano in:
a. spazi per la creazione di community tematiche, come
Yammer, Jive, Asana per le aziende;
b. wiki39, come il sito enciclopedico Wikipedia, Slashdot e
le piattaforme Google Drive, Office online e Trello40.
Non si tratta di categorie chiuse: poiché ciascun social media può
integrare differenti tipi di funzionalità, la classificazione richiama
piuttosto il prevalere di alcune funzionalità sulle altre.
La definizione di “social network site” (SNS) comunemente
accettata è quella proposta nel 2007 dalle ricercatrici statunitensi
danah boyd e Nicole Ellison in un numero monografico del Journal of
Computer Mediated Communication.
Rientrano nella categoria dei social network site quei servizi web che
consentono di:
a. creare un profilo pubblico o semipubblico all’interno di un
sistema delimitato;
39 Il termine “wiki” è di origine hawaiana e significa “veloce”. Indica una
tipologia di software per la creazione di siti, in cui qualsiasi utente registrato
può contribuire alla produzione del contenuto (ibidem)
40 Rielaborazione da V. Cosenza, op. cit.
26
b. articolare una lista di utenti con cui si condivide una
connessione;
c. vedere ed esplorare la propria lista di contatti e quelle degli
altri all’interno del sistema41.
È possibile distinguere tra social network site generalisti e social
network site verticali, o tematici.
Oltre a quelli che raccolgono ampi pubblici (come Facebook, Twitter,
Google+), ci sono infatti social network orientati a una specifica
passione, che uniscono le persone in base agli interessi (Pinterest,
Instagram), SNS professionali (LinkedIn e Xing), SNS che sono anche
siti di condivisione di contenuti (Flickr, YouTube, Last.FM,
SoundCloud)42, geo social network, che offrono risposte adeguate alle
esigenze di un utente mobile, attraverso la sua localizzazione
geografica43 (Foursquare, Yelp, TripAdvisor).
Danah boyd attribuisce quattro caratteristiche ai social network site:
1. la persistenza: le azioni che compiamo sui social media
lasciano tracce accessibili anche a distanza di anni;
2. la ricercabilità: foto, video, messaggi, commenti,
condivisioni che ci riguardano possono essere trovati con
facilità;
41 d. boyd, N. Ellison, Social Network Sites: Definition, History, and Scholarship,
“Journal of Computer-Mediated Communication”, n. 13, 2007,
<http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/j.1083-6101.2007.00393.x/full>,
(ultima consultazione: 4 marzo 2015)
42 d. boyd, N. Ellison, op. cit.
43 V. Cosenza, op. cit.
27
3. la replicabilità: le tracce che lasciamo in Rete possono essere
riprodotte su diversi supporti, quindi decontestualizzate e
remixate da altri utenti;
4. il pubblico invisibile: non è facile immaginare il pubblico a
cui ci rivolgiamo quando pubblichiamo un contenuto. Inoltre
le tre caratteristiche precedenti fanno sì che al nostro
pubblico originario si aggiungano nuovi pubblici44.
Queste caratteristiche dei nuovi media non vanno trascurate dalle
aziende, perché influenzano anche la loro presenza online e le
attività che esse mettono in atto sul Web45.
44 d. boyd, Taken Out of Context: American Teen Sociality in Networked Publics,
Danah.org, 2008 <http://www.danah.org/papers/TakenOutOfContext.html>
(ultima consultazione: 9 marzo 2015)
45 V. Cosenza, op. cit.
28
2. I media tra condivisione, circolazione e
partecipazione. Come viaggiano i contenuti
sui social media
2.1 I network sociali e le comunità online
I flussi di comunicazione sui social media si basano sulla struttura e
sul funzionamento dei network sociali, i quali sono oggetto di studio
della social network analysis. Questo filone di ricerca, rifacendosi alla
“teoria dei grafi”, utilizza l’immagine del “social graph” (grafo
sociale) per rappresentare lo schema delle interconnessioni tra le
unità di un network46.
I “grafi” sono modelli matematici che servono a spiegare la struttura
dei network. Essi vengono utilizzati nei campi più diversi per
rappresentare come gli oggetti sono fisicamente o logicamente
connessi tra di loro in una struttura reticolare. Un grafo (figura 2.1)
rappresenta visivamente le connessioni che intercorrono tra un
insieme di oggetti, che vengono definiti “nodi”; alcune coppie di
oggetti sono collegate da link, detti "spigoli". Nei network sociali i
nodi sono persone o gruppi di persone, mentre gli spigoli
rappresentano le interazioni sociali; in un network di comunicazione i
nodi sono computer o altri dispositivi in grado di trasmettere
messaggi, mentre gli spigoli rappresentano i link diretti attraverso i
quali questi messaggi vengono trasmessi; in un network di
informazioni i nodi sono ad esempio pagine web o documenti e gli
spigoli sono connessioni logiche come hyperlink o citazioni47.
46 T. L. Tuten, M. R. Solomon, op. cit.
47 D. Easley, J. Kleinberg, Networks, Crowds, and Markets: Reasoning About a
Highly Connected World, Cambridge University Press, New York, 2010
29
Figura 2.1 Rappresentazione di un grafo sociale (social graph)
Un social network è un insieme di nodi socialmente rilevanti, connessi
gli uni con gli altri da una o più relazioni. I nodi, o membri del
network, sono principalmente persone o organizzazioni, ma qualsiasi
unità che si connette con altre unità può essere studiata come nodo
(ad esempio pagine web, articoli di giornale, paesi, quartieri,
aziende, posizioni). Le relazioni che collegano queste unità di rete
possono essere legami di parentela, di amicizia o odio, contatti di
lavoro, conoscenze, e possono originarsi da esperienze comuni, dalla
condivisione di interessi, hobby, luogo di provenienza o
caratteristiche demografiche.
Tra i nodi si creano flussi, che possono consistere nello scambio di
risorse, informazioni, influenza o supporto sociale48.
48 A. Marin, B. Wellman, Social Network Analysis: An Introduction, in P.
Carrington, J.Scott, Handbook of Social Network Analysis, Sage, Londra, 2010
30
Sui social media si generano flussi di contenuti verso i membri del
proprio network sociale quando si condividono notizie,
aggiornamenti sulla propria vita, opinioni su film o libri, foto, video,
commenti. Questi flussi di comunicazione avvengono in direzioni
diverse, in qualsiasi momento e spesso su più piattaforme49. Possono
essere a due o tre vie, diretti a un’intera comunità, a uno specifico
gruppo o a singoli individui.
I legami tra i membri di un network si concretizzano in interazioni,
attività condivise che possono consistere in conversazioni, esperienze
di co-working, partecipazione a eventi, scambio di pareri, esperienze
di acquisto e così via50.
Secondo la cosiddetta "teoria delle reti piccolo mondo", la maggior
parte delle volte i nodi di un grafo sociale non sono collegati gli uni
con gli altri direttamente, ma in modo indiretto attraverso i nodi
vicini.
Questa tesi è conosciuta anche come “principio dei sei gradi di
separazione"51, teoria derivante dal celebre esperimento condotto
dallo psicologo sociale Stanley Milgram nel 1967, allo scopo di
misurare la distanza che separava due cittadini qualsiasi degli Stati
Uniti. Il concetto di rete piccolo mondo consiste nell’idea che ogni
persona risulta collegata a qualsiasi altro essere umano da non più di
49 Quando i flussi di comunicazione avvengono su più media si parla di
“media multiplexity” (ibidem)
50 T. L. Tuten, M. R. Solomon, op. cit.
51 Milgram non ha mai utilizzato il termine “sei gradi di separazione”, reso
invece popolare dal titolo di una commedia di Broadway scritta nel 1991 da
John Guare e dal successivo lungometraggio da essa tratto (F. Comunello,
Networked sociability. Riflessioni e analisi sulle relazioni sociali (anche) mediate
dalle tecnologie, Guerini, Milano, 2010)
31
sei connessioni (“gradi di separazione”52): i passaggi sociali
intermedi (amici di amici di amici) che separano due individui scelti
a caso sarebbero al massimo sei. Si ha dunque l’impressione di vivere
in un “piccolo mondo”, se si pensa a quanto sia breve il percorso di
conoscenze che ci separa da un qualsiasi altro individuo53.
La nostra società è composta da un insieme di grafi completi (cluster
di persone fortemente interconnesse tra loro), i quali non sono isolati
tra loro, bensì collegati da “legami deboli” (i “conoscenti”, nel
linguaggio comune)54. Questa struttura è rintracciabile anche nei
social media: se consideriamo ad esempio il network di legami tra
soggetti che scambiano messaggi su Twitter con un profilo x,
all’interno di una massa intricata di contatti si possono individuare
alcuni cluster, ognuno dei quali composto da persone fortemente
inclini a twittare tra di loro e identificabile con un particolare
interesse o area di attività. Ogni membro di ciascun cluster avrà
probabilmente contatti con membri di altri cluster. Perciò, quando le
persone retwittano (ri-condividono) i messaggi ricevuti, questi si
diffonderanno e coloro che riceveranno il retweet prenderanno
consapevolezza di persone presenti in cluster diversi55.
Online le persone costituiscono community: in una sorta di
“cyberplace”, “le persone si connettono online con spiriti affini, si
52 La “distanza” tra due nodi è data dal numero di connessioni che, partendo
da un nodo, permettono di raggiungere l’altro con il minor numero di
passaggi. Si definisce “grado di separazione” la media delle distanze tra i
nodi (ibidem)
53 S. Milgram, The Small-World Problem, “Psychology Today”, vol. 1, n. 1,
maggio 1967, pp. 61-67
54 M. S. Granovetter, The Strenght of Weak Ties, “American Journal of
Sociology”, vol. 78, n. 6, maggio 1973, pp. 1360-1380
55 L. Rainie, B. Wellman, op. cit.
32
impegnano in relazioni di supporto e socialità, e riempiono la loro
attività online di significato, appartenenza e identità”56.
Le “comunità online” sono gruppi di persone che si incontrano
virtualmente, grazie agli strumenti offerti dalla Rete, per perseguire
obiettivi comuni o perché condividono interessi, caratteristiche o
esperienze, guidate nelle loro interazioni da precisi codici di
condotta57.
“Gli ‘interessi comuni’ sono l’unica ragione per cui le persone
comunicano tra di loro online [...] Molte persone hanno interessi
abbastanza specializzati e per trovare persone con interessi simili,
spesso hanno bisogno di interagire con una larga base di persone
anziché con i pochi individui che si possono trovare nell'ambiente
fisico circostante. E questo piace alle persone che hanno numerosi
interessi perché non devono passare da un club all'altro della città
per incontrare e conversare con gente interessata a temi specifici
come andare in barca o la lettura. Ci si può spostare per la città
senza alzarsi.58
Chi partecipa a una comunità, nel mondo reale come in quello
virtuale, prova sensazioni di appartenenza, di prossimità agli altri
membri e di interesse verso le attività del gruppo.
56 B. Wellman, Physical Place and Cyberplace: the Rise of Personalized
Networking, "International Journal of Urban and Regional Research", vol. 25,
n. 2, giugno 2001, pp. 227-252
57 T. L. Tuten, M. R. Solomon, op. cit.
58 J. Coate, Cyberspace Innkeeping: Building Online Community, 1998,
<http://www.cervisa.com/innkeeping.html> (ultima consultazione: 22
settembre 2015)
33
Grazie alle comunità sociali, le persone soddisfano i loro bisogni di
affiliazione, acquisizione e condivisione di risorse, svago e
informazione.
Il grado di attività e il vigore di una community si misura in base al
livello di partecipazione e interazione dei suoi membri.
Se ai tempi del Web 1.0 non esistevano vere e proprie community
online (gli utenti internet si procuravano contenuti consultando
molti siti, in un flusso di informazioni monodirezionale), il Web 2.0
ha offerto una serie di strumenti interattivi che ne hanno consentito il
proliferare59.
Le caratteristiche principali delle community online sono:
1. conversazioni: la comunicazione è una condizione
indispensabile per la creazione di una community. Per la
natura ibrida delle conversazioni digitali, scambiando
messaggi scritti con altri utenti online, si ha l’impressione di
aver effettivamente conversato con loro;
2. presenza: frequentando questi spazi virtuali, sembra di
trovarsi in un luogo ben preciso, si avverte un senso di
presenza;
3. democrazia: il modello politico vigente nelle comunità
virtuali è quasi sempre democratico, data la natura
orizzontale dei social media. Vengono nominati leader coloro
che riescono a guadagnarsi un’ottima reputazione presso gli
altri membri del gruppo, con la loro costante partecipazione
alle attività della community, la qualità dei loro contributi e la
59 T. L. Tuten, M. R. Solomon, op. cit.
34
loro capacità di aggiungere valore alla comunità e di
favorirne la crescita;
4. standard di comportamento: il buon funzionamento di una
comunità online dipende dall’esistenza e dal rispetto di una
serie di regole di comportamento, che possono essere
dichiarate esplicitamente in specifici “termini di servizio”
(una sorta di contratto sociale stipulato tra l’host o l’organo
di governo e gli utenti) o rimanere implicite. Queste norme
servono a evitare i casi di “flaming” (l’infiammarsi della
conversazione, con l’invio di messaggi volutamente ostili e
provocatori da parte di qualche utente e la successiva
reazione degli altri membri della community), a proteggere
la privacy dei membri o la proprietà intellettuale dei
contenuti postati o a evitare comportamenti scorretti. Queste
barriere si abbassano nei siti ad accesso libero, dove
chiunque può partecipare mantenendo il proprio anonimato;
5. livello di partecipazione: la vita di una comunità online
dipende dalla partecipazione dei suoi utenti, che non può
limitarsi alle attività di pochi membri. Una comunità online
di successo come Facebook è in grado di mantenere alta
l’attività dei suoi membri offrendo loro molteplici modalità
di partecipazione (status update, commenti, social game, quiz,
creazione di eventi, caricamento di foto e video, condivisione
di note e link)60.
Le risorse che le persone accumulano e scambiano nelle loro
relazioni di comunità costituiscono un “capitale sociale”61, vale a dire
60 Ibidem; J. Coate, op. cit.
61 J. S. Coleman, Social Capital in the Creation of Human Capital, "American
Journal of Sociology", vol. 94, 1988, pp. 95-120
35
una risorsa cumulata il cui valore è il risultato di un patrimonio di
relazioni. Può consistere per esempio in conoscenze, particolari
capacità o supporto emotivo.
Una comunità si caratterizza anche per la sua cultura, vale a dire per
un set di norme, linguaggi, conoscenze e interessi. Sono parte di
questa cultura i “memi”62, vale a dire frammenti di informazioni
culturali che si trasmettono da persona a persona fino a diventare
patrimonio collettivo. Si tratta di contenuti di vario tipo, come frasi,
idee, canzoni, immagini, mode, comportamenti, parole in gergo. La
particolarità di questi contenuti è la loro replicabilità all’infinito, cioè
la possibilità data agli utenti di creare innumerevoli varianti a partire
da questi format.
Ne sono un esempio le migliaia di versioni del motto “Keep calm and
carry on”63 (figura 2.2), prodotte grazie ad appositi generatori
62 Il termine “meme” fu introdotto dal biologo evoluzionista inglese Richard
Dawkins nel 1976 per descrivere l’equivalente culturale del gene: così come i
geni si diffondono nel “pool genico” passando da un corpo all’altro tramite
gli spermatozoi e le cellule uovo, i memi si trasmettono nel “pool memico”
saltando da un cervello all’altro attraverso un processo di “imitazione” (R.
Dawkins, 1976, Il gene egoista, Zanichelli, Bologna, 1979)
63 “Keep calm and carry on” (“mantieni la calma e vai avanti”) nasce da un
vecchio manifesto prodotto e diffuso durante la Seconda Guerra Mondiale
dal governo britannico, che aveva lo scopo di esortare il popolo a non
scoraggiarsi di fronte alla prospettiva di tempi duri e alla minaccia di
continui bombardamenti notturni da parte dell’aviazione nazista. Una copia
del manifesto fu ritrovata nel 2000 in una storica libreria della regione di
Northumberland, in Inghilterra, la Barter Books. I proprietari della Barter
Books pensarono di incorniciarla e appenderla in uno dei locali della libreria
e, solo in seguito alle richieste dei visitatori, di stamparne delle riproduzioni
e diffonderne sul Web delle versioni digitali. Di condivisione in
condivisione, il successo di “Keep calm…”, con la sua grafica essenziale, i
colori accesi, la corona stilizzata e il suo riecheggiare un modo di fare tutto
36
automatici disponibili online64. La modalità con cui un meme si
diffonde all’interno di una comunità ricorda il modo in cui si
espandono i virus, per questo si attribuisce loro una natura
“virale”65. Quando un meme viene condiviso e imitato, esso passa
velocemente da una persona all’altra, diffondendosi con una
progressione geometrica, proprio come un virus che infetta un
numero sempre maggiore di persone fino a produrre un’epidemia66.
britannico, sobrio e risoluto, è stato inarrestabile (E. Menietti, La storia di
“Keep Calm and Carry On”, Il Post, 3 aprile 2012,
<http://www.ilpost.it/2012/04/03/la-storia-di-keep-calm-and-carry-on/>,
ultima consultazione: 23 settembre 2015)
64 Per una rassegna aggiornata di memi internazionali si rimanda al sito
http://www.cheezburger.com/
65 Il termine “virale” fu applicato per la prima volta al marketing nel 1995
per descrivere la rapida e massiccia diffusione del servizio di posta
elettronica Hotmail. La compagnia riuscì a ottenere milioni di iscrizioni nel
giro di pochi mesi solo grazie al passaparola, innescato dal trasferimento del
messaggio di marketing “Get your free Web-based email at Hotmail”, posto
automaticamente in fondo a ogni email inviata da un mittente che utilizzava
già il servizio. L'espressione "marketing virale" rende conto, dunque, della
strategia che ha comportato la rapida diffusione del servizio email tramite
reti di passaparola (S. Jurvetson, T. Draper, Viral Marketing: Viral Marketing
phenomenon explained, DFJ, 1997, <http://dfj.com/news/article_26.shtml>,
ultima consultazione: 29 settembre 2015)
66 T. L. Tuten, M. R. Solomon, op. cit.
37
Figura 2.2 Copia del manifesto originale “Keep calm and carry on” e
un esempio di rielaborazione del meme
2.2 Perché si condivide?
“La qualità specifica di cui un messaggio necessita per avere
successo è la capacità di ‘fare presa’, ovvero di attecchire per poi
diffondersi”, per dirla con Malcolm Gladwell67. Il concetto di “fattore
presa” (stickiness) si riferisce alla capacità di un messaggio, un film o
un prodotto di fare presa, colpire ed essere memorabile al punto da
determinare un cambiamento o spingere qualcuno all’azione.
Il meccanismo con cui idee, prodotti, comportamenti e messaggi si
67 M. Gladwell, 2000, Il punto critico. I grandi effetti dei piccoli cambiamenti, BUR
Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2006, p. 110
38
diffondono somiglia a quello con cui si espandono le epidemie e
segue pertanto gli stessi principi che sono alla base della diffusione
dei virus:
a. la contagiosità;
b. il fatto che piccoli cambiamenti possono produrre grandi
effetti;
c. il fatto che il cambiamento non avviene in modo graduale,
ma in un momento ben preciso: il cosiddetto “punto critico”.
Il punto critico di un’epidemia dipende dalle persone che causano il
contagio, dall’agente stesso dell’infezione e dall’ambiente in cui tale
contagio avviene. Allo stesso modo, un determinato cambiamento si
verifica per effetto di almeno uno di questi tre fattori, definiti
rispettivamente “legge dei pochi”, “fattore presa” e “potere del
contesto”.
Per la legge dei pochi, le epidemie sociali si scatenano in seguito agli
sforzi di un piccolo gruppo di persone “fuori dell’ordinario”, che si
distinguono dalla massa per la loro straordinaria capacità di
connessione e per il loro grado di socievolezza, sagacia, entusiasmo,
energia e influenza all’interno del gruppo. Si tratta dei cosiddetti
“connettori”, persone che possiedono innumerevoli connessioni
sociali. Quanto più un’idea o un prodotto incontrano il consenso di
un connettore, tanto maggiore saranno il loro successo e la loro
diffusione, grazie all’innesco di meccanismi di “passaparola”, i quali
sono in grado di esercitare elevati livelli di persuasione.
Il successo di un’epidemia sociale non dipende solo dai connettori,
ma anche da persone particolarmente influenti, perché detentrici di
informazioni su tantissimi prodotti, prezzi e posti e fortemente
39
motivate a rendere gli altri partecipi di queste loro conoscenze:
queste figure si definiscono “esperti di mercato”, detentori di
opinioni disinteressate e competenti. Oltre agli esperti di mercato,
che rappresentano delle vere e proprie banche dati perché forniscono
il messaggio, e ai connettori, i quali fungono da collante in quanto
diffondono questo messaggio, nelle dinamiche di contagio entra in
gioco una terza figura, quella dei “venditori”, persone con
personalità forte e doti di persuasione. Potremmo ricondurre gli
esperti di mercato e i venditori alla categoria degli opinion leader
(anche detti influencer)68. Fondamentali nelle epidemie sociali sono
68 Gli “opinion leader” sono persone in grado di influenzare gli atteggiamenti
o i comportamenti degli altri, in quanto fonti di informazioni di enorme
valore. Queste persone possiedono un potere sociale, consistente in
particolari competenze tecniche, conoscenze di prodotti (scaturite da attente
valutazioni e selezioni o dall’esperienza diretta), elevato numero di
connessioni sociali, posizione di leadership, potere referente (in loro i
consumatori si riconoscono in quanto a valori e convinzioni), status e livello
di istruzione leggermente superiore. Gli opinion leader sono spesso i primi ad
acquistare e a provare i nuovi prodotti e, non essendo legati a nessun
interesse, i loro giudizi, positivi o negativi, risultano più credibili rispetto
alle comunicazioni ufficiali delle aziende, le quali si limitano a esaltare le
qualità dei prodotti (T. L. Tuten, M. R. Solomon, op. cit.). Il concetto di
“opinion leader” fu introdotto al termine di una ricerca condotta, in una
contea degli Stati Uniti durante la campagna presidenziale del 1940, allo
scopo di studiare l’impatto sugli elettori dei messaggi elettorali trasmessi dai
media (P. F. Lazarsfeld, B. Berelson, H. Gaudet, The People’s Choice, New
York, Duell, Sloan & Pearce, 1944). Il risultato di questo progetto di ricerca fu
la formulazione di una nuova prospettiva teorica sul processo delle
comunicazioni di massa, che prese il nome di “flusso di comunicazione a
due stadi” (“two-step flow of communication”). Questo modello individua due
stadi basilari nel passaggio di informazioni dai media agli elettori: un primo
stadio va dai mezzi di comunicazione di massa agli individui direttamente
esposti ai loro messaggi; il secondo passaggio avviene, attraverso i canali
interpersonali, da queste persone, gli opinion leader, ad altre non esposte ai
40
anche i piccoli cambiamenti di contesto, relativi cioè all’ambiente
circostante e ai gruppi di appartenenza: le idee si diffondono più
facilmente quando le condizioni sono adatte.
Per rendere contagioso un messaggio e scatenare un’epidemia
sociale, è necessario che tale messaggio possieda il fattore presa, cioè
che abbia la capacità di avere un forte impatto, di attecchire, di
“incollarsi” letteralmente nella testa di chi lo riceve.
Occorre dunque agire sul modo in cui si struttura e si presenta
l’informazione, al fine di renderla irresistibile, garantendone
l’impatto69.
Il successo di un contenuto dipende però in larga parte anche
dall’attività delle audience, vale a dire dai processi di diffondibilità
a cui sono sottoposti i contenuti online per effetto dell’azione degli
utenti. Ciò significa che i creatori di contenuti, per assicurarsi il
successo dei loro prodotti, oltre a creare testi mediali capaci di
coinvolgere le persone, devono tenere conto di alcuni fattori
determinanti nelle dinamiche di diffondibilità, che sono legati a
processi di apprezzamento sociale e alla partecipazione attiva delle
audience coinvolte.
Bisogna quindi chiedersi quali sono le motivazioni che spingono i
partecipanti a condividere informazioni e a innescarne la
messaggi originali dei media, che dipendono dalle prime per informarsi. Il
nome “leader d’opinione” si riferisce al fatto che non si tratta di semplici
trasmettitori di informazioni, bensì di persone capaci di svolgere
un’”influenza personale”, fornendo proprie interpretazioni dei messaggi e
contribuendo a formare le intenzioni di voto di coloro a cui passano le
informazioni (M. L. DeFleur, S. J. Ball-Rokeach, 1989, Teorie delle
comunicazioni di massa, Il Mulino, Bologna 1995)
69 M. Gladwell, op. cit.
41
circolazione70.
Una ricerca condotta dal Customer Insight Group del New York Times,
dal titolo “The Psychology of Sharing: Why do People Share Online?” (La
Psicologia della Condivisione: Perché le Persone Condividono
Online?)71, indaga i motivi alla base della condivisione di contenuti
sul Web.
I ricercatori del New York Times partono dal presupposto che
condividere fa parte della natura umana, trattandosi di un’attività
che risponde a bisogni fisiologici, di sicurezza, di amore e
appartenenza, di stima e di autorealizzazione72; nell’era
dell’informazione quest’attività risulta amplificata, perché
condividiamo più contenuti, da più fonti, con più persone, più
spesso e più velocemente.
70 H. Jenkins, S. Ford, J. Green, op. cit.
71 The New York Times Customer Insight Group, The Psychology of Sharing:
Why do People Share Online?, The New York Times Company, 2011,
<http://nytmarketing.whsites.net/mediakit/pos/> (ultima consultazione: 11
settembre 2015)
72 La gerarchia dei bisogni, elaborata dallo psicologo statunitense Abraham
Harold Maslow, dal quale prende il nome di “piramide di Maslow”,
rappresenta un modello esplicativo generale delle motivazioni alla base dei
comportamenti di consumo e un’interessante prospettiva per la psicologia
pubblicitaria. Maslow indica una lista di motivi la cui realizzazione segue
una scala di priorità, per cui i bisogni più in alto nella piramide (posti
gerarchicamente a un livello di priorità inferiore) si formulano e possono
essere soddisfatti solo dopo che sono stati soddisfatti quelli con un livello
più alto di impellenza. Alla base della piramide si trovano i bisogni
fisiologici, i più impellenti in assoluto, la cui soddisfazione è prioritaria
rispetto a quella degli altri bisogni (A. H. Maslow, Motivation and Personality,
Harper and Raw, New York, 1954; G. Fabris, 1992, La pubblicità teorie e prassi,
FrancoAngeli, Milano, 2002)
42
La ricerca ha individuato cinque motivazioni fondamentali che
spiegano perché si condivide online:
1. per aiutare gli altri, trasmettendo loro notizie utili,
interessanti o divertenti;
2. per presentare e coltivare un’immagine di sé e dei propri
interessi;
3. per alimentare e nutrire le relazioni sociali (condividere
mantiene le persone connesse, rafforzando legami o creando
nuovi contatti tra persone con interessi simili);
4. per la soddisfazione che deriva dal sentirsi utili e importanti
per gli altri;
5. per sostenere le cause o i brand che ci stanno a cuore.
Dallo studio risulta inoltre che condividere i contenuti e leggere le
risposte degli altri utenti ha un impatto positivo sul modo in cui
gestiamo, comprendiamo ed elaboriamo informazioni ed eventi.
Finalità identitarie e relazionali, dunque, che raramente operano
isolatamente e sfociano tutte nei rapporti che gli utenti hanno gli uni
con gli altri: “sharing is all about relationships” (“condividere è tutta
una questione di relazioni”)73.
Si condividono materiali online, quindi, per definire la propria
identità (esprimendo i propri gusti e consumi culturali), per
rafforzare legami sociali (trasmettendo determinate informazioni ai
contatti che potrebbero essere interessati a esse), per esprimere un
parere personale su un determinato contenuto mediale, per acquisire
notorietà o ampliare la propria rete di contatti, per tenere attiva una
73 Ibidem
43
comunità d’interesse o come ispirazione per creare contenuti
originali.
I contenuti si diffondono se sono in grado di alimentare
conversazioni già attive tra le audience. Prima di procedere alla
condivisione di un contenuto mediatico, le audience ne valutano
attentamente il valore e scelgono di condividerlo se prevedono che
anche gli altri ne apprezzeranno il valore. I contenuti vengono
valutati dunque non solo in base agli standard personali degli utenti,
ma anche in funzione del valore percepito per la loro cerchia
sociale74.
In un’ottica di “economia del dono”, quando si segnala qualcosa a
qualcuno, lo si fa per alimentare un legame, come si fa con i regali.
Oltre che per dire qualcosa di sé, si condivide per ristabilire o
alimentare una relazione.
Alla base del meccanismo della condivisione ci sono dunque le
emozioni: sono le emozioni a muoversi tra i social network quando
un’idea si diffonde e contagia75.
Si tratta principalmente di una condivisione di energia
affettiva, una condivisione di emozioni che alimentano
relazioni e identità personali e collettive. Possiamo dire che
virale è la condivisione sociale delle emozioni. Alimentare un
legame sociale con gli altri e definire una identità comune
attraverso il dono di un’emozione è il motivo profondo per
cui le persone si scambiano contenuti. Le storie virali si
diffondono perché sono in grado di rinforzare il legame
sociale fra le persone, quasi fossero un dono. Un dono che il
74 H. Jenkins, S. Ford, J. Green, op. cit.
75 M. Pallera, Create! Progettare idee contagiose (e rendere il mondo migliore),
Sperling & Kupfer, Milano, 2012
44
mittente fa al ricevente, che dice qualcosa di loro, che
rinforza i loro legami sulla base di un’emozione condivisa.76
Nel suo Saggio sul dono77, Marcel Mauss afferma che è tramite lo
scambio di un dono che si instaurano relazioni, si costruiscono e
alimentano legami sociali. Il motivo del dono non è economico, bensì
sociale, in quanto invita alla reciprocità e lo fa non per mezzo di
obblighi contrattuali, ma attraverso qualcosa di spirituale, che
coinvolge l’onore sia del donatore che di colui che riceve il dono. È
come se nel donare si trasmettesse anche una parte di sé: questo crea
un legame tra le persone coinvolte nello scambio, dando origine a
una condizione di mutua interdipendenza e solidarietà tra le
persone.
L’economia del dono – insieme alla qualità delle relazioni tra le
persone, alla discussione critica sulle informazioni e al controllo sulle
principali notizie che circolano sul Web – è uno dei valori che
emergono nel pubblico dei nuovi media, come testimoniato dal
grande successo riscosso da blog e social network site. Le persone
hanno bisogno di esprimersi e connettersi e pertanto preferiscono
collaborare anziché competere. Espressione e connessione, persone
e rete, sono le due funzioni fondamentali alla base del sistema dei
network sociali78.
Il pubblico attivo della rete regala a se stesso e agli altri il
proprio tempo. Le persone donano idee e lavoro in cambio
della possibilità di esprimersi con la propria voce e di
76 Ivi, pp. 84-85
77 M. Mauss, 1950, Saggio sul dono: forma e motivo dello scambio nelle società
arcaiche, Einaudi, Torino, 2002
78 L. De Biase, Economia della felicità. Dalla blogosfera al valore del dono e oltre,
Serie Bianca Feltrinelli, Milano, 2007
45
ascoltare quella dei pari, ottenendo un riconoscimento della
propria identità e una nuova esperienza delle relazioni con
altri. I media del dono sono preziosi. L’economia del
gratuito che pervade questi progetti editoriali partecipati,
sostanzialmente informali o più o meno abilmente
controllati, non funziona in base allo scambio monetario. È
piuttosto fondata sulla coltivazione delle relazioni tra le
persone: la vera materia prima – e ultima – dell’economia
del dono. Arrivando a costruire enormi giacimenti di risorse
scarse come il tempo, appunto, l’attenzione e la fiducia.79
Questo network di persone che parlano pubblicamente costituisce un
nuovo medium molto potente, che sta acquistando credibilità,
attenzione e dedizione da parte dei pubblici, a svantaggio dei media
tradizionali, che a poco a poco perdono, o mantengono a fatica,
queste preziose risorse80.
Un approccio eccessivamente pubblicitario e commerciale da parte
delle aziende risulta poco opportuno in un contesto pervaso da
queste dinamiche. Rischia anzi di risultare controproducente81.
Al brand non resta che entrare nei processi psicologici e nelle
dinamiche sociali dei consumatori, divenire parte di una comunità e
ottenerne il rispetto o porsi alla sua guida, facendosi portatore dei
sogni e dei bisogni su cui essa si fonda, aiutando le persone a
rafforzare le loro identità e le loro motivazioni, supportando i loro
progetti con la sua comunicazione o attuando strategie di marketing
che facciano leva su narrazioni ed emozioni universali.
79 Ivi, p. 47
80 Ibidem
81 M. Pallera, op. cit.
46
Un’idea ha ottime possibilità di diventare contagiosa se fa leva su
una “tensione” che attraversa la società o che interessa il percorso
esistenziale delle persone in un dato momento.
Le aziende devono dunque identificare le tensioni psico-culturali che
interessano le proprie audience e le comunità online di riferimento,
individuando visioni del mondo e conflitti manifesti o latenti, di
carattere psicologico, sociale o culturale.
I prodotti e le marche, con le loro narrazioni, sono in grado di
alleviare questi conflitti, cavalcando queste tensioni e rispondendo
alle necessità ideologiche ed esistenziali delle persone82.
2.3 Pubblici attivi e cultura partecipativa
Una cultura partecipativa è una cultura con barriere
relativamente basse all'espressione artistica e all'impegno
civico, forte sostegno alle attività di produzione e alla
condivisione delle creazioni, e una sorta di mentorship
informale in cui partecipanti esperti trasmettono conoscenza
ai principianti. In una cultura partecipativa, i membri sono
anche convinti che i loro contributi siano importanti e si
sentono in qualche modo connessi gli uni con gli altri (o,
quantomeno, sono interessati alle opinioni degli altri in
merito alle loro creazioni).83
La cultura partecipativa è il risultato della possibilità, data ai
consumatori dalla diffusione massiccia delle tecnologie digitali, di
82 Ibidem
83 H. Jenkins et al., Confronting the Challenges of Participatory Culture. Media
Education for the 21st Century, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts,
2009, p. XI (traduzione e corsivo miei)
47
"archiviare, annotare, appropriarsi e rimettere in circolo i contenuti
dei media in nuovi e potenti modi"84.
La cultura partecipativa comprende forme di partecipazione che
possono consistere in affiliazioni (partecipazione a comunità online,
come Facebook, Instagram, piattaforme di gioco), espressioni
(produzione di nuovi contenuti, come parodie, “fan fiction”, “song
vid”, “mash-up”85), problem solving collaborativo (lavorare in gruppo
per sviluppare conoscenze o raggiungere obiettivi, ad esempio
attraverso Wikipedia o attività di spoiling, che consistono
nell’anticipare trame di serie tv o l'evolversi dei reality show),
84 Ivi, p. 8
85 Le “fan fiction” sono produzioni amatoriali in cui i fan immaginano nuovi
svolgimenti della trama di un contenuto broadcast (nel caso dei reality show si
parla di “reality fiction”), a partire da personaggi e ambientazioni del
prodotto originale. Si tratta spesso di creazioni collettive, frutto della fantasia
delle comunità dei fan. I “song vid” (video sonori) sono per la maggior parte
produzioni delle comunità femminili di fan e consistono nel montaggio di
scene di film o programmi televisivi con brani di musica pop: si tratta di
contenuti dal tono sentimentale, che esplorano aspetti emozionali dei
personaggi o suggeriscono interpretazioni inedite delle storie e intrecci
alternativi, soffermandosi su sottotesti non sviluppati nei prodotti originali. I
“mash-up” sono materiali digitali mixati e modificati, prodotti dagli utenti
mescolando all’interno delle proprie creazioni materiali trovati online, come
testi, immagini e canzoni.
Queste appropriazioni grassroots dei contenuti mediali che caratterizzano la
“cultura di rete” non sono nate con le nuove tecnologie digitali, ma da esse
hanno ricevuto un’enorme spinta, che ne ha determinato la crescita
esponenziale. Tali pratiche sociali e culturali affondano le loro radici nella
“fan culture” e in altre pratiche di consumo consolidate, come la cultura dei
ritagli da quotidiani e periodici, tipica delle donne americane del
diciannovesimo secolo (H. Jenkins, Cultura Convergente, cit.; H. Jenkins, S.
Ford, J. Green, op. cit.; L. Rainie, B. Wellman, op. cit.)
48
circolazioni (dare forma al flusso dei media, ad esempio
contribuendo a blog o pubblicando podcast)86.
Nell'attuale panorama dei media sta emergendo un particolare trend
sociale per cui le persone utilizzano i tool disponibili online per
connettersi le une con le altre e per ottenere dagli altri utenti ciò che
desiderano, come informazioni, prodotti, pareri, supporto o idee.
Fanno dunque affidamento sulle relazioni sociali piuttosto che
dipendere dalle istituzioni tradizionali per soddisfare i propri
bisogni. Questo fenomeno viene definito "groundswell" (letteralmente
"onda anomala").
Ad esempio è possibile acquistare qualcosa da altre persone tramite
eBay anziché in un negozio, oppure si può trovare lavoro utilizzando
LinkedIn invece di recarsi presso un ufficio di collocamento87.
Forrester Research ha individuato sette categorie di consumatori
digitali, ordinate in base al loro livello di coinvolgimento social, dai
creatori veri e propri di contenuti originali ai semplici consumatori,
che formano la cosiddetta “scala dei social technographics” (figura 2.3).
Si possono distinguere dunque sette modalità di partecipazione al
social Web:
1. creatori: utenti che producono contenuti originali, come
blog, pagine web, articoli, racconti, video, audio, musica, che
possono essere fruiti e condivisi da altri (si tratta dei
cosiddetti “user-generated content”, o UGC);
2. conversatori: persone che, postando aggiornamenti sui loro
profili social e commentando quelli dei loro contatti,
86 H. Jenkins et al., Confronting the Challenges of Participatory Culture, cit.
87 J. Bernoff, C. Li, Groundswell. Winning in a World Transformed by Social
Technologies, Harvard Business Review Press, Boston, 2011
49
intessono delle conversazioni con i loro network (ad esempio
tramite tweet, post su Facebook e foto su Instagram)
3. critici: utenti che reagiscono ai contenuti più che crearli,
attivi nel recensire prodotti o servizi (ad esempio su Yelp o
TripAdvisor), commentare post di blog altrui, scrivere sui
forum online, editare e modificare contenuti wiki;
4. collezionisti: si distinguono per capacità organizzativa ed
efficienza e sono utili alle comunità social perché aiutano a
classificare i contenuti del Web, utilizzando aggregatori (feed
RSS), bookmark, aggiungendo “tag” (etichette), votando
pagine web e segnalando contenuti di rilievo;
5. socievoli: utenti che hanno un profilo su uno o più social
network site e frequentano regolarmente questi siti;
6. spettatori: anche detti “lurker” (guardoni), sono quelle
persone che si limitano a consumare contenuti di altre
persone, spesso nascondendo la propria identità. Non
partecipano e non aggiungono valore alle comunità online,
ma si comportano come farebbero con i media tradizionali,
leggendo blog, forum e recensioni, “spiando” i tweet e gli
altri aggiornamenti social della loro rete, guardando video o
ascoltando podcast;
7. inattivi: utilizzano Internet senza però frequentare gli
ambienti social88.
88 Ibidem; J. Bernoff, Social Technographics: Conversationalists get onto the ladder,
Forrester Research, 2010,
<http://forrester.typepad.com/groundswell/2010/01/conversationalists-get-
onto-the-ladder.html> (ultima consultazione: 30 settembre 2015).
Va aggiunta la categoria dei “troll”: quegli utenti che pubblicano
volutamente, all'interno delle comunità virtuali, post offensivi, provocatori,
irritanti o che contraddicono il senso comune, al fine di disturbare la
comunicazione online, fomentare gli animi e scatenare un ampio numero di
50
Figura 2.3 Scala dei social technographics
Dai dati di Forrester Reasearch si evince che i più attivi sulle
piattaforme social costituiscono una piccolissima percentuale del
totale degli utenti del Web 2.0, con il 24% di utenti statunitensi
classificabili come “creatori” e il 70% facenti parte della categoria
inutili risposte da parte dei membri delle community (Indiana University
Knowledge Base, What is a troll?, Indiana University, 2013,
<https://kb.iu.edu/d/afhc>, ultima consultazione: 8 ottobre 2015)
51
“spettatori”89. Anche i dati relativi all’utenza italiana riflettono lo
stesso fenomeno: il 23% degli internauti italiani sono attivi online
come “creatori”, mentre la percentuale degli “spettatori” è del 52%90.
Dunque la maggior parte degli utenti guarda o scarica contenuti
forniti da altri. Ma la modalità di partecipazione degli utenti meno
attivi, vale a dire le attività di valutazione, apprezzamento, critica e
ricircolazione dei contenuti, non va considerata meno importante
degli atti di produzione mediale.
La sola consapevolezza della possibilità di partecipare alla
conversazione che avviene sui media e di contribuire alla produzione
mediale rende infatti gli spettatori del Web 2.0 osservatori meno
passivi.
Inoltre quelli che vengono definiti i “guardoni dei media sociali”
conferiscono valore a chi condivide o produce contenuti, perché ne
ampliano l’audience e ne motivano il lavoro. I creatori di contenuti
ricevono beneficio anche dai critici e dai collezionisti, i quali si
aiutano anche reciprocamente, poiché i collezionisti ricevono dai
critici idee su quali contenuti considerare rilevanti e al contempo
facilitano loro l’accesso a tali contenuti91.
Le “audience attive” partecipano direttamente alla creazione di
senso nel nuovo panorama mediale, per questo, secondo Jenkins,
non è giusto attribuire il successo di un contenuto alla semplice
89 Dati relativi al 2010 (ibidem)
90 Dati relativi al 2010 (What's The Social Technographics Profile Of Your
Customers?, Forrester Research, 2010,
<http://empowered.forrester.com/tool_consumer.html>,
ultima consultazione: 30 settembre 2015)
91 H. Jenkins, S. Ford, J. Green, op. cit.
52
trasmissione di un virus tra i membri di una platea passiva e
inconsapevole. Al concetto di “viralità” è invece da preferirsi quello
di “diffondibilità” (“spreadability”), dato che, quando fanno circolare i
contenuti mediatici, le persone prendono decisioni attive ed
esprimono giudizi e apprezzamenti, aggiungendo di volta in volta
valore ai messaggi che trasferiscono.
Di fronte a queste audience attive, le aziende non possono pensare di
produrre contenuti che “infettino” i pubblici: devono piuttosto
progettare contenuti che abbiano maggiori probabilità di diffondersi,
domandandosi cosa spinga i partecipanti a condividere informazioni
e a relazionarsi con le loro community92.
La partecipazione è entrata di diritto nel marketing mix, “l’insieme
degli strumenti di marketing utilizzati dall’azienda per perseguire i
propri obiettivi di marketing nel mercato considerato”93. Alle “4 P”94
tradizionali del marketing (prodotto, prezzo, promozione e punto
vendita, o distribuzione) si aggiunge la P di “partecipazione”,
92 Ibidem
93 P. Kotler, 2003, Marketing Management, 11a edizione, Pearson Education
Italia, Milano, 2004, p. 21
94 Per completezza va chiarito che gli stessi Kotler e Keller hanno
recentemente aggiunto alle celebri 4 P del marketing mix teorizzate da
McCarthy quattro nuove categorie, che afferiscono all’approccio da essi
definito del “marketing olistico”: “persone” (inteso sia come attenzione ai
dipendenti che ai clienti, considerati persone in senso ampio e non più
consumatori), “processi” (necessari all’implementazione delle idee e dei
concetti di marketing, oltre che allo sviluppo di prodotti e servizi
innovativi), “programmi” (tutte le attività di pianificazione descritte dalle
vecchie 4P e intese in senso integrato) e “performance” (il monitoraggio dei
risultati in termini sia finanziari che di brand e customer equity, e relativi
all’impatto che l’organizzazione stessa ha al suo esterno, nel contesto sociale
in cui è inserita). P. Kotler, K. L. Keller, Marketing Management, 14a edizione,
Pearson Education, Upper Saddle River, 2012
53
aspetto su cui si concentra il lavoro del social media marketing95. Ne
parleremo più approfonditamente nel quarto capitolo del presente
lavoro.
95 L. Tuten, M. Solomon, op. cit.
54
3. La tenuta della brand identity e della brand
reputation sulla nuova scena mediatica
3. 1 Verso nuove regole di marketing
Secondo i dati Censis-Ucsi relativi al 2015, il 60,4% degli utenti
Internet italiani utilizza il Web per la ricerca di strade e località; la
seconda funzione pratica di Internet maggiormente sfruttata nel
quotidiano è la ricerca di informazioni su aziende, prodotti e servizi
(lo fa il 56% degli utenti Internet); seguono l’home banking (46,2%) e
l’ascolto di musica (il 43,9% del totale della popolazione e il 69,9%
dei giovani). 15 milioni di Italiani fanno acquisti sul Web (il 43,5%
degli utenti Internet), il 25,9% guarda film online (percentuale che
sale al 46% tra i giovani), il 18,4% cerca lavoro in Rete, il 16,2%
telefona via Skype o altri servizi VoIP, il 13,9% prenota viaggi.
Il Dodicesimo Rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione96 utilizza
l’espressione “disintermediazione digitale”97 per descrivere il
fenomeno per cui gli utenti utilizzano sempre più le nuove
96 Censis-Ucsi, 12° Rapporto sulla comunicazione. L’economia della
disintermediazione digitale, FrancoAngeli, Milano, 2015
97 Morcellini parla di "dismediazione": "come la scuola, anche la politica e il
giornalismo, luoghi sociali in cui tradizionalmente veniva costruita
un'interazione tra i soggetti, in cui venivano formate figure di mediazione
sociale professionalmente deputate a essere in mezzo tra un soggetto e l'altro,
o tra un soggetto e le istituzioni, entrano in crisi. Nella misura in cui i
soggetti sembrano voler fare a meno della mediazione, le sue figure
caratterizzanti entrano in crisi, personalmente, professionalmente e
collettivamente, cioè in termini di visibilità pubblica" (C. Ruggiero, La crisi
della mediazione politica e "quinto potere" alla prova dell'identità, in M. Morcellini
(a cura di), Multigiornalismi, Mondadori, Milano, 2011, pp. 31-32)
55
tecnologie per entrare in contatto con gli interlocutori e i servizi di
loro interesse, evitando l’intermediazione di altri soggetti.
I consumatori attivi, grazie agli strumenti offerti dal Web, cercano le
opinioni degli altri consumatori su prodotti e servizi, inviano le loro
lamentele direttamente alle aziende oppure comunicano pareri e
suggerimenti ai membri delle community con cui condividono gusti e
interessi. Dunque sul Web il consumo diventa condivisione di stili di
vita e si pone in una logica orizzontale rispetto alla comunicazione
d'impresa.
Il 36,6% degli Italiani entra in contatto con le aziende attraverso i
seguenti canali online:
● sito web dell'azienda: 19,9%;
● e-mail dell'azienda: 11,7%;
● pagina Facebook dell'azienda: 8,2%;
● pagina Facebook creata dagli utenti: 5,2%;
● blog o forum tematici (recensioni, commenti, ecc.): 3,4%;
● canale YouTube creato dagli utenti (videotutorial,
videorecensioni, ecc.): 2,5%;
● canale YouTube dell'azienda: 1,2%98.
Per promuovere i loro prodotti, servizi, idee, persone o luoghi, gli
operatori di marketing hanno oggi a disposizione tre tipi di media
(figura 3.1):
a. paid media (media a pagamento): spazi pubblicitari a
pagamento, vale a dire annunci televisivi, radiofonici,
98 Dati relativi al 2013 (Censis-Ucsi, 11° Rapporto sulla comunicazione.
L'evoluzione digitale della specie, FrancoAngeli, Milano, 2013)
56
inserzioni su riviste e quotidiani, i vari tipi di advertising su
Internet, compreso il “search engine marketing” (SEM),
consistente in una forma di marketing online volta ad
aumentare la visibilità dell’URL di un sito nei risultati dei
motori di ricerca;
b. owned media (media di proprietà): si tratta dei canali
controllati da una marca, come i siti aziendali, i siti di e-
commerce, i blog aziendali, gli advergame e gli ARG (Alternate
Reality Gaming)99;
c. earned media (media guadagnati): messaggi che circolano al
di fuori del controllo dell’azienda e senza l’impiego di costi
diretti da parte di questa. Sono rappresentati da
comunicazioni via passaparola, fan, follower, like, commenti,
99 Gli advergame rappresentano una modalità di utilizzo del gioco come
strumento pubblicitario. “La parola advergame è una crasi tra advertising e
game/gaming. Si tratta di giochi interattivi, sviluppati dal 1998 negli Usa,
utilizzati per veicolare messaggi pubblicitari, accrescere la brand awareness e
generare traffico verso i siti di tipo consumer. Gli advergame sono quindi
un’alternativa ai banner e alle forme tradizionali di pubblicità online e
permettono di raggiungere, a costi relativamente bassi, milioni di persone,
creando esperienze potenzialmente coinvolgenti” (P. Panarese, Quel che resta
della pubblicità. La comunicazione di marketing nell’epoca post spot, Fausto
Lupetti Editore, Bologna, 2010, p. 241). “Si definisce alternate reality game
un’esperienza a carattere ludico o promozionale che crea una realtà
alternativa utilizzando diverse piattaforme e richiami sui media tradizionali
e digitali” (M. Giovagnoli, Transmedia. Storytelling e comunicazione, Apogeo,
Milano, 2013, p. 16). Si tratta di “giochi cross-mediali che mescolano
l’esperienza del videogioco con la vita reale in una specie di caccia al tesoro a
base di interattività, multimedia e entertainment, realtà e mondi virtuali” (B.
Cova, A. Giordano, M. Pallera, Marketing non-convenzionale. Viral, Guerrilla,
Tribal e i 10 principi fondamentali del marketing postmoderno, Il Sole 24 ORE,
Milano, 2007, p. 245)
57
contenuti condivisi, conversazioni nelle community, link,
recensioni, ecc.
Figura 3.1 Il modello “Converged Media” di Altimeter Group
Nei social media la maggior parte del valore promozionale per le
aziende deriva dagli earned e dagli owned media. In generale, è
importante che le aziende stabiliscano la comunicazione con il nuovo
consumatore connesso adottando un approccio convergente, in cui i
messaggi sui diversi tipi di canali (online ma anche tradizionali)
siano coerenti e integrati tra loro100.
100 R. Lieb, The Converged Media Imperative: How Brands Will Combine Paid,
Owned and Earned Media, Altimeter Group, 2012
58
Le marche acquistano valore sui social media quando riescono a
coinvolgere i consumatori (attraverso strategie di marketing
relazionale) e quando incoraggiano i consumatori a interagire con
loro e a condividere queste interazioni con altri potenziali
consumatori.
Considerato il potere degli endorsement personalizzati e dei
meccanismi del passaparola, quando gli utenti condividono online
opinioni positive sui brand, le aziende risultano notevolmente
avvantaggiate in termini di “earned reach” (ampiezza e qualità dei
contatti con gli utenti).
Con le nostre opinioni online su beni e servizi, siamo in grado di
influenzare i membri del nostro network nelle loro decisioni
d’acquisto.
Le conversazioni online sui brand generano le cosiddette “influence
impression”101, dalle quali le marche possono trarre giovamento al
pari delle impression pubblicitarie.
<http://www.altimetergroup.com/2012/07/the-converged-media-
imperative/> (ultima consultazione: 23 novembre 2015)
101 I concetti di “influence impression” e “influence post” sono stati introdotti da
Forrester Research. Un “influence post” si ha quando un utente condivide un
commento su un prodotto o servizio sui social media, che sia un giudizio
positivo o una lamentela. Il termine “influence impression” (da “impression”,
che nel linguaggio della pubblicità sta per visualizzazione o esposizione al
messaggio) indica l’esposizione al brand che avviene attraverso un’altra
persona: si verifica quando gli altri vedono o hanno accesso a un influence
post. Se una persona ha 500 follower su Twitter e posta un tweet riguardo a un
prodotto, quel post ha 500 influence impression potenziali. Questo tipo di
impression ha molto valore perché i consumatori si fidano e si lasciano
influenzare molto più dalle informazioni che ricevono dai loro conoscenti
piuttosto che dai messaggi pubblicitari (A. Ray, Peer Influence Analysis: What
It Is & How Marketers Use It, Forrester Research, 20 aprile 2010,
59
Il modello di comunicazione predominante nei mercati attuali
appare lontano da quello che abbiamo conosciuto finora, incentrato
sul paradigma pubblicitario: i nuovi media e i cambiamenti culturali
da essi indotti spingono verso una forma di “mercato post-
pubblicitario”, in cui la comunicazione acquista sempre maggiore
valore e la pubblicità, pur restando centrale come forma di
comunicazione di marketing, sta man mano perdendo la sua
posizione dominante.
I nuovi media basati sull’interattività costituiscono una minaccia
concreta per quel tipo di pubblicità affermatosi per decenni, essendo
l’interattività stessa incompatibile con esso102.
Il nuovo scenario mediale è pervaso da mezzi e forme comunicative
che Marshall McLuhan definirebbe “freddi”103, vale a dire tali da
esigere un’elevata partecipazione e un alto grado di coinvolgimento
<http://blogs.forrester.com/augie_ray/10-04-20-
peer_influence_analysis_what_it_how_marketers_use_it>,
ultima consultazione: 28 ottobre 2015)
102 R. Brognara, M. Del Curto, New media & comunicazione di marketing. Verso i
mercati post-pubblicitari, FrancoAngeli, Milano, 2009
103 Il concetto di temperatura dei media introdotto da Marshall McLuhan è
legato al grado di partecipazione che un mezzo di comunicazione richiede ai
suoi fruitori. In tal senso, si definiscono "media caldi" quelli che non esigono
una partecipazione attiva da parte di chi li utilizza, mentre i "media freddi"
presuppongono una maggiore partecipazione e un più elevato grado di
coinvolgimento da parte dei fruitori. Sulla temperatura di un medium
incidono il numero dei canali sensoriali impegnati nella sua fruizione e il
livello d'intensità o definizione con cui sono costruiti i messaggi. La
televisione rappresenta dunque un medium freddo, partecipazionale,
mentre la radio è un medium caldo, che può anche fungere da rumore di
fondo (M. McLuhan, 1964, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano,
1967)
60
da parte dei destinatari104. Dunque “una campagna che utilizza un
mezzo interattivo trascurando di sollecitare la risposta del pubblico è
miope e zoppa”105.
La pubblicità si trova a operare in un contesto di gran lunga diverso
da quello in cui è storicamente cresciuta e si è affermata, un contesto
in cui si perdono i tradizionali standard tecnici e strategici della
comunicazione di marketing. Basti pensare alla moltiplicazione dei
mezzi, che comporta l’impossibilità di costruire e pianificare
campagne seguendo logiche di linearità, volte a raggiungere
“ipodermicamente”106 i consumatori attraverso uno o più canali.
Le audience si moltiplicano e si disperdono su molti canali, diversi
sia tra loro che rispetto al passato; ciò rende improponibile la
trasmissione di un messaggio unico e indiscriminato.
I nuovi pubblici, quelli che si aggregano nelle community online,
risultano difficilmente omologabili in target pubblicitari vecchio
104 R. Brognara, M. Del Curto, op. cit.
105 Ivi, p. 18
106 La “teoria ipodermica” (chiamata anche “bullet theory”, teoria del
proiettile magico) è la prima teoria elaborata nell’ambito della communication
research, risale al periodo delle due guerre mondiali e coincide con la
diffusione su larga scala delle comunicazioni di massa, Secondo questo
modello, ogni membro del pubblico di massa costituisce un individuo
isolato che viene “attaccato” singolarmente e direttamente dai messaggi dei
media. La teoria ipodermica sostiene una connessione diretta tra esposizione
ai messaggi dei media e comportamenti (in accordo con le contemporanee
teorie psicologiche behavioriste dello “stimolo-risposta”), per cui, se un
messaggio propagandistico raggiunge i singoli individui all’interno di una
massa anonima, esso riuscirà a “inoculare” facilmente il suo contenuto
persuasivo (M. Wolf, 1985, Teorie delle comunicazioni di massa, Strumenti
Bompiani, Milano, 2001)
61
stampo e faticosamente raggiungibili attraverso gli strumenti di
advertising tradizionali107.
È l’era della “coda lunga”108, che vede il passaggio da un “mercato di
massa” a una “massa di mercati”, o, più precisamente, di nicchie di
mercato:
[...] la nostra cultura e la nostra economia si stanno
affrancando dall’importanza attribuita a un numero
relativamente esiguo di hit (prodotti e mercati mainstream),
posizionati sulla testa della curva di domanda, e si stanno
spostando verso un largo numero di nicchie collocate sulla
coda.109
La comunicazione di marca tradizionale si avvia, dunque, verso il
tramonto: se per decenni, infatti, il suo approccio si è basato sulla
persuasione del pubblico attraverso storie e messaggi accuratamente
confezionati e trasmessi tramite i mezzi classici (televisione, radio,
giornali, riviste e affissioni), con l’avvento del Web e dei social media
le persone hanno dimostrato di non accontentarsi più delle
comunicazioni unidirezionali e di non fidarsi più della solita
pubblicità. Messaggi “one-way”, ripetitivi, che interrompono
fastidiosamente il consumo di altre forme mediali, lasciano il posto,
nei nuovi media, a forme di comunicazione multidirezionali, che non
interrompono la fruizione di altri contenuti (non a caso si parla oggi
di “interruption marketing” in relazione a questo approccio di
marketing): per la prima volta, grazie ai nuovi strumenti, c’è la
107 Ibidem
108 C. Anderson, 2006, La coda lunga. Da un mercato di massa a una massa di
mercati, Codice edizioni, Torino, 2010
109 Ivi, p. 45
62
possibilità che le comunicazioni di marca siano dialogiche e non
intrusive.
La sfiducia crescente verso la pubblicità classica si accompagna a una
nuova consapevolezza da parte di utenti del Web e consumatori:
quella di preferire parlare delle marche piuttosto che recepire
automaticamente i loro discorsi. Non funzionano più, quindi, i
messaggi intrusivi e declamatori vecchia maniera: a questi le persone
preferiscono il parere dei propri amici o di altri consumatori con cui
entrano in contatto in Rete. Nei social media è ritornata con nuova
forza, dopo essere stata a lungo eclissata dai mezzi di comunicazione
di massa, l’antica forma di comunicazione basata sul passaparola,
che appare oggi la forma di conversazione privilegiata intorno alle
marche.
Potendo scegliere, i consumatori preferiscono le conversazioni libere
e disinteressate con i propri pari ai tentativi della pubblicità
tradizionale di utilizzarli come bersaglio. Anzi, essi sono interessati a
discorrere con le marche, ma tale dialogo può funzionare solo se si
sottrae alle vecchie regole del marketing110. In questo quadro, in cui il
valore del messaggio è sempre più determinato dall’autorevolezza
della fonte, è evidente che il discorso reputazionale diventa sempre
più centrale per le marche.
“Data la nuova realtà determinata dal Web, alle aziende si richiede
sempre più di saper progettare, vendere e comunicare col loro
pubblico in modi assai diversi dal passato”111.
110 J. Sassoon, Web Storytelling. Costruire storie di marca nei social media,
FrancoAngeli, Milano, 2012
111 Ivi, p. 20
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Le Aziende come Media Company: il Transmedia Storytelling per un Nuovo Modello di Business

  • 1. 1 Le Aziende come Media Company: il Transmedia Storytelling per un Nuovo Modello di Business Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione Corso di laurea in Scienze della Comunicazione Cattedra di Teoria e Tecniche dei Nuovi Media Candidato Giulia Cennamo Relatore Correlatore Alberto Marinelli Flavia Marzano A/A 2014/2015
  • 2. 2 Indice Introduzione .............................................................................................. 4 1. Lo scenario: la società in rete e le nuove dinamiche di creazione del valore.................................................................................................... 6 1.1 Il contesto sociale: la network society. Come cambiano pubblico e consumatori......................................................................................... 6 1.2 Brand e co-creazione del valore................................................... 11 1.3 Il Web 2.0 e i nuovi strumenti per gli attori in gioco ................ 18 2. I media tra condivisione, circolazione e partecipazione. Come viaggiano i contenuti sui social media................................................ 28 2.1 I network sociali e le comunità online.......................................... 28 2.2 Perché si condivide?...................................................................... 37 2.3 Pubblici attivi e cultura partecipativa ........................................ 46 3. La tenuta della brand identity e della brand reputation sulla nuova scena mediatica ........................................................................... 54 3. 1 Verso nuove regole di marketing............................................... 54 3.2 Il controllo del brand passa dall’azienda agli utenti ................ 68 3.3 Dalla brand image alla brand reputation ........................................ 72 4. Il brand storytelling dai media tradizionali alla Rete .................. 84 4. 1 Brand storytelling: la marca come narrazione............................ 84 4.2 Web storytelling: come cambia il brand storytelling in Rete ........ 98 5. Brand e narrazioni transmediali: dallo storytelling alla media company.................................................................................................. 104
  • 3. 3 5.1 Il transmedia storytelling come condizione per il dialogo........ 104 5.2 Transmedia branding: il transmedia storytelling nella comunicazione di brand................................................................... 114 5.3 Le aziende come media company................................................. 122 Conclusioni............................................................................................ 133
  • 4. 4 Introduzione L'attuale sistema sociale presenta alcuni fondamentali elementi di novità che impongono una revisione dei modi in cui le aziende comunicano e si relazionano con i loro consumatori. L’avvento e la diffusione del Web 2.0 e delle tecnologie digitali ha consentito la creazione di un’infrastruttura reticolare di telecomunicazioni e il passaggio a un nuovo sistema sociale, detto "network society". In più si sta verificando un vero e proprio cambiamento culturale, che segna l'ingresso nell'era della "cultura convergente", la quale vede la convergenza tra vecchi e nuovi mezzi di comunicazione, tra contenuti prodotti dal basso e quelli delle corporation, e l'interazione tra consumatori e produttori. Stiamo assistendo all'emergere di una forma di cultura partecipativa, consistente nel coinvolgimento attivo dei consumatori, i quali sono ormai lontani dall'essere spettatori passivi e sono direttamente coinvolti nei processi di produzione, tanto che si parla di prod-uso o di co-creazione di valore del brand. I pubblici attivi intervengono nei flussi di circolazione dei contenuti e, grazie ai nuovi strumenti offerti loro dal Web partecipativo, contribuiscono a definire la reputazione di brand e aziende. Il potere dei nuovi consumatori si esplicita soprattutto nella produzione dei cosiddetti "contenuti generati dagli utenti", consistenti in messaggi creati autonomamente dagli utenti della Rete, che spesso hanno come oggetto brand, prodotti e servizi. In un contesto di questo tipo le aziende devono prendere coscienza che il controllo del brand e della loro immagine sta passando gradualmente nelle mani dei consumatori. Le persone non si accontentano più dei messaggi pubblicitari tradizionali e alle
  • 5. 5 comunicazioni unidirezionali delle aziende preferiscono il confronto con gli altri utenti in merito a prodotti, servizi e brand. Per questo le imprese devono necessariamente abbandonare le vecchie regole di marketing e adottare nuove strategie improntate alla relazione e al dialogo. Per raggiungere questo obiettivo devono raccontare una storia coerente con l’identità dell’azienda e tale racconto deve essere declinato in maniera organica sui vari canali in cui le persone sono presenti. Un tipo di approccio adeguato a un consumatore che vive nell’epoca dei media convergenti e che possiede lo stesso potenziale di accesso ai mezzi di produzione rispetto ad aziende e corporation, che un tempo detenevano il monopolio della creazione di contenuti, consiste nel progettare narrazioni di marca coinvolgenti che prevedano forme di engagement per i pubblici e che si disperdano su varie piattaforme in maniera coerente, secondo il modello del transmedia storytelling. Le aziende devono quindi modificare le tradizionali strutture organizzative per poter avviare un dialogo autentico con i propri pubblici. Questa strutturazione può assumere varie forme, dal brand journalism fino all’organizzazione secondo i criteri di una vera e propria media company. Partendo dalla disamina delle principali teorie che hanno cercato di interpretare i cambiamenti in atto, questo lavoro analizza le principali strategie e azioni progettate dalle aziende e, attraverso lo studio di alcuni tra i principali casi di successo a livello internazionale, arriva a proporre un possibile modello di indagine del livello di organizzazione editoriale delle imprese.
  • 6. 6 1. Lo scenario: la società in rete e le nuove dinamiche di creazione del valore 1.1 Il contesto sociale: la network society. Come cambiano pubblico e consumatori L’avvento e la diffusione delle tecnologie digitali e la conseguente affermazione di un’infrastruttura reticolare di telecomunicazioni hanno sancito il passaggio, nel mondo occidentale, da una società moderna e di massa a una “società in rete”, la cosiddetta network society1. Col termine “rete” viene indicato un sistema formato da nodi interconnessi. Questo tipo di sistema, nelle organizzazioni umane, rappresenta una struttura comunicativa complessa costruita sulla base di obiettivi condivisi. Seppure da sempre presente in qualsiasi civiltà umana, la forma a rete ha assunto rilevo nei sistemi sociali solo nell’epoca attuale: nelle precedenti ere, infatti, le relazioni erano subordinate a logiche organizzative di tipo verticale e gerarchico e a un potere distribuito secondo flussi monodirezionali di comando e controllo. I media elettrici di comunicazione di massa affermatisi tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo (telegrafo, telefono, radio e televisione) non si sono rivelati in grado di modificare in senso reticolare le strutture tradizionali, rigide e verticali, della società industriale. È solo grazie alle innovazioni tecnologiche introdotte a partire dalla 1 M. Castells, 1996, La Nascita della Società in Rete, Egea Università Bocconi Editore, Milano, 2002
  • 7. 7 seconda metà del XX secolo, e al conseguente diffondersi di una struttura reticolare di telecomunicazioni che ha abilitato la diffusione del World Wide Web, che si è potuta affermare una vera propria network society2. In riferimento al nuovo sistema sociale, Barry Wellman parla di “networked individualism”3, vale a dire un sistema in cui gli individui appartengono – e si affidano per soddisfare i loro diversi bisogni sociali, emotivi ed economici – a molteplici network frammentati, debolmente interconnessi e composti da contatti diversificati, facendo meno affidamento sui gruppi stabili e coesi che costituivano il nucleo delle società tradizionali. Ciò vuol dire che, a differenza dei loro antenati, che vivevano in comunità ristrette ed erano integrati in piccoli gruppi (famiglie, villaggi, vicinato, amici intimi, piccole organizzazioni), capaci di garantire loro un sistema di supporto e una rete di sicurezza unitaria, gli “individui networked” possono avvalersi delle conoscenze e competenze del loro network sociale allargato, composto non solo da familiari, vicini, amici più o meno stretti, ma anche da conoscenti, amici di amici, colleghi, vecchi amici, persone con cui condividono passioni e interessi professionali e così via4. All’interno di questo “nuovo ordine sociale” di reti differenziate, grazie anche alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Internet, Web 2.0 e 2 M. Castells, Comunicazione e potere, Egea Università Bocconi Editore, Milano, 2009 3 L. Rainie, B. Wellman, 2012, Networked. Il nuovo sistema operativo sociale, Guerini, Milano, 2012 4 Ibidem
  • 8. 8 connettività mobile in primis), le persone hanno a disposizione nuovi strumenti per soddisfare i loro bisogni. Possono cioè relazionarsi in modo semplice e istantaneo con i propri contatti, cercare informazioni, scambiare pareri, condividere idee, creare e diffondere contenuti in modi inimmaginabili fino a pochi decenni fa. Cambiano inoltre i modi in cui le persone fruiscono i contenuti mediali e si relazionano con le aziende e i loro beni e servizi. Secondo Henry Jenkins stiamo assistendo a un vero e proprio cambiamento culturale, che è possibile definire “cultura convergente”, dove i vecchi e i nuovi media collidono, dove si incrociano i “media grassroots”5 e quelli delle corporation, dove il potere dei produttori e quello dei consumatori interagiscono in modi imprevedibili.6 In questo inedito quadro sociale e mediatico, sta emergendo una “cultura partecipativa”, che vede il coinvolgimento attivo dei consumatori nella ricerca di nuove informazioni e nell’attivazione di connessioni tra contenuti mediatici differenti. Occorre abbandonare dunque la vecchia nozione di consumatore come spettatore passivo e considerare come interagenti i ruoli di 5 Per “grassroots convergence” (convergenza grassroots) si intende il flusso dei contenuti mediatici informale e talvolta non autorizzato a opera dei consumatori, attraverso le pratiche di annotazione, modifica, espropriazione e ridistribuzione dei contenuti stessi (H. Jenkins, 2006, Cultura Convergente, Apogeo, Milano, 2007) 6 Ivi, p. XXV
  • 9. 9 consumatori e produttori, figure che nel contesto attuale appaiono sempre meno distinte. Queste interazioni avvengono secondo dinamiche ancora non del tutto note e con un peso che varia da soggetto a soggetto: alcuni consumatori si rivelano più abili degli altri nella partecipazione a questa cultura emergente, così come le grandi aziende possono ancora dimostrarsi più potenti dei consumatori singoli o aggregati7. Giampaolo Fabris inscrive queste trasformazioni che investono società, consumi, mercati e imprese in un vero e proprio “passaggio epocale”, che vede il tramonto di una società industriale o moderna, “positivista, razionalista, tecnocentrica, della fede nel progresso lineare e delle verità assolute, della standardizzazione della produzione e dei consumi, del primato della produzione, della subalternità del consumatore”8, e segna l’inizio dell’era postmoderna. Questa si caratterizza, tra l’altro, per un rinnovato rapporto tra imprese e consumatori, che rende possibile la realizzazione di convergenze, prima impensabili, tra gli interessi di entrambi9. C’è una riflessione che il mondo della produzione, per miopia o arroganza, ha sempre evitato di fare: quella sulla creatività del consumatore. Nella presunzione/certezza che la creatività e l’innovazione fossero interamente delegate all’impresa e che, su questo fronte, il consumatore avesse poco o niente da dire [...]. Questo ha portato a ignorare una fonte di possibile cooperazione creativa che potrebbe 7 Ibidem 8 G. Fabris, Societing. Il marketing nella società postmoderna, Egea, Milano, 2008, p. 7 9 Ibidem
  • 10. 10 risolversi, invece, in un reale vantaggio competitivo per la stessa impresa, permettendo di immettere sul mercato beni e servizi sempre più rispondenti alle esigenze dell’utenza e usufruendo, in un momento come quello che stiamo attraversando – in cui i consumi si svegliano dal loro torpore soltanto a fronte di una sostantiva innovazione –, di input progettuali che indirizzino su terreni fertili la ricerca del nuovo.10 Sempre Fabris utilizza i termini “prosumer” (parola composta da “producer” e “consumer”) e “consumAttore”, per definire questo “empowerment dei consumatori”, vale a dire il loro ruolo attivo, lontano dalla posizione di passività tipica della tradizione fordista/taylorista11. Un consumatore che produce. Si arriva a parlare di “co-creazione di valore”12: consumatore e impresa diventano partner nella progettazione di prodotti, servizi e contenuti, nonché dello stesso brand. Il consumo, nella sua vecchia accezione di semplice agire economico, rivela dunque tutti i suoi limiti e, in quanto pratica sociale e momento costitutivo della nostra identità, impone un passaggio dalla vecchia nozione di marketing a una concezione più attuale, che Fabris definisce, quasi provocatoriamente, societing. Al fine di adattarsi a questo nuovo assetto sociale, il marketing necessita di una revisione dei suoi principi fondanti, abbandonando l’approccio al consumatore in quanto interlocutore da piegare, a favore di una sua 10 Ivi, p. 265 (corsivo mio) 11 Ibidem 12 C. K. Prahalad, V. Ramaswamy, The Future of Competition. Co-Creating Unique Value With Customers, Harvard Business School Press, USA, 2004
  • 11. 11 considerazione di questo in quanto soggetto con cui intessere un dialogo13. 1.2 Brand e co-creazione del valore Nel corso del XX secolo nel mondo occidentale si sono alternati diversi modelli di consumo, che è possibile riassumere in tre fasi: a. fase del consumo finalizzato alla sola soddisfazione dei bisogni primari; b. fase del “consumo di status”; c. fase del “consumerismo”14 e del consumo consapevole. Inizialmente era predominante un tipo di consumo finalizzato alla semplice soddisfazione di bisogni fisiologici quali bere, mangiare o apparire, che si legava a un consumo di beni materiali e avveniva in una condizione di isolamento, se non di rivalità, nei confronti degli altri consumatori per l’accesso alle risorse. Nella seconda metà del secolo questo approccio al consumo in termini di sussistenza è stato superato e si è passati gradualmente a modelli di consumo sempre più orientati all’“autorealizzazione del sé”, in cui ha assunto sempre maggiore rilevanza la compartecipazione al consumo tra gli individui. 13 G. Fabris, op. cit. 14 Il termine consumerismo “(in contrapposizione a consumismo) indica la tendenza dei consumatori a organizzarsi in associazioni che si pongono come controparte nei confronti dei produttori, per meglio difendersi dalla pubblicità indiscriminata e per esercitare un pubblico controllo sulla qualità e sui prezzi dei prodotti” (voce “consumerismo” de Il Vocabolario Treccani)
  • 12. 12 Negli anni Settanta e Ottanta si è affermato un “consumo di status”, vale a dire un consumo vissuto come simbolo di benessere economico e segno di demarcazione delle differenze tra i ceti sociali. Il consumo di status porta con sé il limite di essere un consumo inconsapevole. In questa fase, infatti, la scelta effettuata dal consumatore non è frutto di un’accurata ricerca e presa di consapevolezza del valore del prodotto, bensì il potere di definire la qualità, il significato e il valore è nelle mani delle aziende, che lo esercitano attraverso un forte controllo dei canali di comunicazione e dell’accesso all’informazione. Alla fine dagli anni Novanta acquista maggiore importanza la sfera immateriale dei prodotti: a essere consumato non è il bene materiale in sé, bensì il significato che questo assume all’interno di una comunità con cui il consumatore si identifica. È la fase del consumerismo e del consumo consapevole, in cui il consumatore è esperto, competente, molto meno influenzabile, capace di selezionare e di esprimere il proprio parere positivo o negativo rispetto ai prodotti. Non si consuma per ostentare il proprio status, bensì per gratificare se stessi, e lo si fa acquisendo conoscenze e competenze specifiche, utili sia a orientare le scelte sia ad arricchire la fruizione di beni e servizi. Nella costruzione del valore di un bene si fa sempre più importante l’identificazione, l’appartenenza a una comunità, l’interazione e la collaborazione tra produttore e consumatore. Il consumo diventa comunitario e si integra con le funzioni di produzione, ideazione e aggiornamento del prodotto o servizio: i consumatori entrano a far parte della catena del valore e
  • 13. 13 contribuiscono ai processi di innovazione agendo in forma collaborativa. I social media hanno dato una grossa spinta a questo processo: consentendo la collaborazione di persone fisicamente distanti, hanno trasformato tante piccole nicchie disconnesse in un movimento globale e si sono dimostrati capaci, se adeguatamente utilizzati, di aiutare le aziende nelle loro attività di targettizzazione, relazione, collaborazione e ascolto di questi pubblici15. Secondo Manuel Castells, una delle principali novità legate alla nascita della società in rete è l'affermarsi delle cosiddette "autocomunicazioni di massa", una nuova forma di comunicazione in cui, grazie alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie della rete, ogni individuo può produrre contenuti potenzialmente in grado di raggiungere istantaneamente un pubblico globale16. Fino a qualche decennio fa il modello predominante nel panorama mediale e culturale è stato quello delle comunicazioni di massa, nel quale un soggetto emittente produce un messaggio (utilizzando un determinato codice) e lo veicola, attraverso un mezzo broadcasting di cui ha il controllo o comunque l'accesso, a una massa indifferenziata di destinatari, allo scopo di colpire i singoli riceventi e ottenere qualche effetto. Si tratta di una comunicazione unidirezionale uno-a-molti, prodotta da grandi organizzazioni pubbliche o private nella forma ad esempio di giornali, libri, film, programmi televisivi o radiofonici, con sistemi di distribuzione diversi a seconda del medium utilizzato. 15 T. L. Tuten, M. R. Solomon, 2013, Social media marketing. Post-consumo, innovazione collaborativa e valore condiviso, Pearson Italia, Milano-Torino, 2014 16 M. Castells, Comunicazione e potere, cit.
  • 14. 14 Nonostante il diffondersi di nuove forme di comunicazione legate alla network society, le reti produttive e distributive dei media di massa costituiscono tuttora la struttura prevalente nel sistema mediatico globale. In questo sistema è l’azienda a decidere quale immagine vuole dare di sé, quali devono essere i suoi valori e quali elementi simbolici deve ispirare. Sulla base di questi produce una comunicazione ad hoc e, per quanto possibile, monitora tutti i contenuti che la riguardano, selezionando quelli che hanno il diritto di entrare nel flusso mediatico e quali invece non vanno divulgati. La nascita delle autocomunicazioni di massa ha reso meno efficaci questi meccanismi di controllo messi in atto dalle imprese, dando origine a una rete di costruzione di significati condivisi. Si tratta di un fenomeno inedito nella storia della comunicazione: la costruzione e la diffusione di contenuti e rappresentazioni del mondo non sono più appannaggio dei detentori del potere, bensì, grazie alla diffusione dei social media a livello mondiale, si aprono a una massa di individui che un tempo ne erano esclusi. Quelli che un tempo erano un semplice target di consumatori, destinatari passivi delle comunicazioni di massa, entrano in possesso dei mezzi di produzione e di trasmissione dei contenuti, diventando produttori-consumatori. Nella società in rete si integrano e si completano a vicenda le forme tradizionali di comunicazione interpersonale e di massa e le nuove autocomunicazioni di massa17. 17 G. Di Fraia, Social Media Marketing. Manuale di comunicazione aziendale 2.0, Hoepli, Milano, 2011
  • 15. 15 Henry Jenkins parla dell’emergere di un modello ibrido di circolazione dei contenuti, in cui la condivisione dei materiali all’interno di una cultura e tra una cultura e l’altra è determinata dall’agire di un insieme di forze discendenti e ascendenti, rappresentate rispettivamente da modalità commerciali e grassroots (dal basso)18. Questo spostamento dalla distribuzione alla circolazione segnala un movimento verso un modello di cultura più partecipativo, che vede il pubblico non semplicemente come un insieme di consumatori di messaggi precostruiti, ma come persone che plasmano, condividono, ricontestualizzano e remixano contenuti in modi che in precedenza non si sarebbero neppure potuti immaginare. E lo fanno non come individui isolati, bensì all’interno di comunità e reti più ampie, che consentono loro di diffondere i contenuti ben al di là del loro immediato circondario geografico. [...]. Le audience fanno sentire la loro presenza dando attivamente forma ai flussi mediatici e produttori, manager dei brand, professionisti del servizio ai clienti e comunicatori aziendali si rendono conto dei loro bisogni commerciali ascoltandoli attivamente e rispondendo.19 Le comunità in rete svolgono dunque un ruolo importante nel plasmare il modo in cui i contenuti circolano. Parallelamente al crescere dell’importanza di queste pratiche del pubblico, stanno nascendo online sempre più piattaforme che abilitano e facilitano la condivisione informale e istantanea di prodotti mediali. 18 H. Jenkins, S. Ford, J. Green, 2013, Spreadable media. I media tra condivisione, circolazione, partecipazione, Apogeo Education, Milano, 2013 19 Ivi, p. 2
  • 16. 16 Jenkins utilizza il termine “spreadable media” (media diffondibili) per indicare questa nuova modalità di circolazione dei media, dove per “diffondibilità” intende il potenziale (tecnico e culturale) di condivisione dei media da parte delle audience per le loro finalità, con o senza il consenso dei detentori dei diritti. Le imprese e le industrie dei media devono necessariamente adeguarsi a questo nuovo ambiente mediale più partecipativo, prestando maggiore attenzione alle loro audience: le comunità in rete hanno il potere di richiamare alle loro responsabilità le aziende che agiscono secondo logiche contrarie agli interessi della collettività, in qualche caso provocando loro seri danni. Per reagire a queste dinamiche, molte aziende si sono attrezzate per trasformare in dati aggregati le conversazioni attive delle comunità, concentrandosi più sul sentire che sull’ascoltare in modo efficace le proprie audience. Non è sufficiente infatti raccogliere i dati che provengono dall’ascolto dei pubblici, ma è necessario fare qualcosa sulla base di questi dati, rispondendo loro in maniera attiva20. Ascoltare proattivamente ciò che le persone dicono del loro brand e dei loro prodotti, significa per le aziende evitare che un problema di customer service inascoltato si trasformi in una questione di relazioni pubbliche o che una questione circa un messaggio o una pratica di business dell’azienda provochi una crisi reputazionale per il brand stesso21. 20 Il dibattito tecnico e scientifico sul valore e sull’utilizzo dei Big Data è attualmente aperto. Per approfondimenti sul tema si rimanda a: G. Amati, M. Bianchi, D. D'Aloisi, Big Data Analytics Lab: esperienza e competenza per crescere, “Media Duemila”, a. XXXII, n. 302, novembre 2014, pp. 35-46 21 Ibidem
  • 17. 17 Intanto la cultura di rete sta generando forme sempre più elaborate di co-creazione e di “prod-uso”. Il termine “produsage” (“prod-uso”, fusione delle parole “produzione” e “uso”) è stato coniato da Axel Bruns per descrivere queste nuove forme di produzione di contenuti da parte degli utenti, i quali mettono in atto continui processi collaborativi di creazione e ri-creazione delle risorse d’informazione condivise dalla comunità, in un processo iterato ed evolutivo, potenzialmente infinito. Si osserva così, nella società in rete, una collaborazione ai progetti da parte di una comunità “alveare”, resa possibile dagli strumenti messi a disposizione dai media sociali, che abilitano approcci iterativi alle attività, dall’assenza di gerarchie, dalla presenza di ruoli fluidi, dal prevalere dei materiali condivisi su quelli proprietari e da una modalità granulare di risoluzione dei problemi22. La società in rete dunque comunica e consuma mediante la Rete, diffonde istantaneamente simboli e conoscenze, condizionando fortemente le forme culturali, del potere politico e della mobilitazione sociale23. Ed è facilitata in ciò dal proliferare in Rete degli user-generated media, vale a dire di strumenti che consentono la produzione di contenuti “dal basso”, come siti, forum, blog, microblog, social network e newsgroup24. 22 A. Bruns, Blogs, Wikipedia, Second Life, and Beyond. From Production to Produsage, Peter Lang, New York, 2008 23 M. Castells, Comunicazione e potere, cit. 24 V. Cosenza, 2012, Social Media ROI, Apogeo, Milano 2014
  • 18. 18 1.3 Il Web 2.0 e i nuovi strumenti per gli attori in gioco La comunicazione sul Web è passata in tempi rapidi da un semplice accesso alle informazioni a un processo più elaborato di costruzione e gestione delle relazioni sociali. A partire dalla seconda metà degli anni ‘90, mentre le scienze sociali cominciavano a concentrare i loro studi sulla nascente Network Society (termine che si è presto imposto in sostituzione dell’ormai obsoleto “Information Society”), il mondo della comunicazione d’impresa iniziò a porre l’attenzione sui processi innescati dalla condivisione, da parte di aziende e consumatori, di un comune spazio sociale e dunque sul ruolo che le nuove tecnologie della comunicazione avrebbero dovuto ricoprire in questo scenario. Ricerca sociale e strategie d’impresa condividevano l’idea che Internet non è un semplice mezzo di comunicazione, bensì uno strumento di relazione sociale25. Un approccio innovativo al rapporto tra imprese e clienti nell’era di Internet è stato offerto per la prima volta, a partire dal 1999, dal Cluetrain Manifesto, una raccolta di 95 tesi, elaborate allo scopo di analizzare l’impatto di Internet sulla comunicazione aziendale interna ed esterna. La prima tesi contenuta nel Manifesto recita: “Markets are conversations”. Con questa affermazione, il Manifesto propone alle imprese di rivedere i propri processi comunicativi, trasformandoli in un dialogo 25 D. Bennato, Sociologia dei media digitali, Laterza, Roma-Bari 2011
  • 19. 19 con i propri pubblici, da considerarsi non più come semplici target di consumatori, bensì come persone. Le aziende devono dunque utilizzare Internet non come farebbero con un qualunque mass media, ma come uno strumento di conversazione. Per millenni i mercati sono stati luoghi fisici dove venditori e acquirenti si incontravano per effettuare le loro transazioni commerciali guardandosi negli occhi e dialogando. La vendita giungeva al termine di una conversazione sulle qualità e l'unicità di materiali e prodotti. I mercati erano luoghi d'incontro e conversazione tra persone che condividevano interessi. Produttori e clienti parlavano senza il filtro dei media, senza i condizionamenti e gli artifici di posizionamenti pubblicitari e relazioni pubbliche. Nell'era industriale, con la standardizzazione della produzione e la massificazione dei mercati, le aziende hanno cominciato a indirizzare i loro messaggi a una moltitudine indifferenziata di consumatori, che spesso non erano interessati a riceverli. Il Web ha restituito ai mercati la loro originaria vocazione al dialogo: la Rete rappresenta infatti un luogo reale, dove le persone si scambiano opinioni su prodotti e compagnie. Queste conversazioni riguardano il più delle volte il valore dei prodotti e dei servizi offerti dalle imprese e possono fornire giudizi positivi o negativi, che toccano anche la reputazione delle aziende. Immerse in questo luogo di conversazione, le persone non si accontentano più dei claim pubblicitari tradizionali. Esse preferiscono la voce umana ai discorsi vuoti del cosiddetto "business as usual". Questi ultimi appaiono sempre più inutili se paragonati alla ricca
  • 20. 20 conversazione che si genera sul Web e che comprende anche le esperienze reali degli altri utenti. La differenza rispetto alla millenaria forma di pubblicità consistente nel passaparola è che oggi questo word of mouth ha dimensioni globali. Le aziende sono dunque obbligate a capire come entrare in questa conversazione globale, anziché continuare ad affidarsi alle vecchie tecniche di marketing e promozione26. Con l’aumento degli utenti di Internet, l’espandersi dell’utilizzo commerciale della Rete e l’avvento dei social media, questa relazione tra dimensione informatica e dimensione sociale si è resa sempre più evidente e si è chiarita ulteriormente l’importanza di un sapiente utilizzo dei nuovi media per la vita aziendale27. Grazie agli spazi di relazione pubblici ospitati dalla Rete, come blog, wiki e social network, gli utenti si trovano nella condizione sia di ricevere che di produrre e filtrare informazioni. Sempre più autonome, dunque, nel valutare beni e servizi e consapevoli di questo loro potere, le persone si lasciano sempre meno influenzare dai messaggi puramente propagandistici. Nei primi anni del XXI secolo sono nati migliaia di servizi web che hanno introdotto novità tecnologiche e sociali nella vita di utenti e aziende e che rientrano nella categoria del Web 2.028. 26 D. Weinberger et al., 2001, The Cluetrain Manifesto, Basic Books, New York 2009 (10th Anniversary Edition) 27 D. Bennato, op. cit. 28 V. Cosenza, op. cit.
  • 21. 21 Il termine Web 2.0, come si intuisce dall’utilizzo dei numeri di serie comunemente impiegati per indicare le versioni successive di un software, indica una nuova fase del Web, che segue quella del Web 1.0. Il merito della diffusione del termine Web 2.0 si attribuisce a Tim O’Reilly, fondatore della casa editrice O’Reilly Media, il quale lo introdusse in occasione della Web 2.0 Conference (poi diventata Web 2.0 Summit), tenutasi nel 2004 a San Francisco. A Tim O’Reilly e al suo team si deve l’elaborazione di una serie di principi che chiariscono le peculiarità di questa nuova generazione del Web. Tra questi emergono due principali concetti chiave, che sono alla base del Web 2.0: quelli di "architettura della partecipazione" e di "intelligenza collettiva". Il termine "architettura della partecipazione" si riferisce al coinvolgimento, da parte delle società di servizi Web 2.0, del maggior numero di utenti possibile, al fine di aumentare il valore del servizi offerti, nonché di migliorarli grazie al contributo degli utenti. Nei servizi Web 2.0 è inclusa una sorta di etica della cooperazione, per la quale i servizi fungono da intermediari intelligenti, che sfruttano il potere degli utenti. Strettamente correlato con il concetto di “architettura della partecipazione” è quello di “intelligenza collettiva”, altro principio chiave del Web 2.0: secondo O’Reilly, i servizi di successo nell’era del Web 2.0 sono quelli che hanno saputo sfruttare l’intelligenza
  • 22. 22 collettiva, incoraggiando i contributi degli utenti e incrementando il loro coinvolgimento29. Attraverso la tecnologia, è possibile valorizzare e coordinare l’intelligenza distribuita nell’umanità. I mondi virtuali ci consentono di creare un "cervello collaborativo": oltre a scambiarci informazioni, possiamo infatti pensare insieme, condividere le nostre memorie e i nostri progetti. In Internet, infatti, i singoli incanalano le loro competenze individuali verso obiettivi condivisi30: "nessuno sa tutto, ognuno sa qualcosa, la totalità del sapere risiede nell'umanità"31. L’utente diventa il principale protagonista del Web, passando da semplice fruitore a creatore di contenuti. Creazione, condivisione, partecipazione e discussione sono infatti le principali caratteristiche del Web 2.032. Un’altra particolarità di questa fase dell'evoluzione del World Wide Web (detta anche del Web dinamico, in contrapposizione a quella del Web 1.0, o “statico”) evidenziata da Tim O’Reilly è “il Web come piattaforma”, vale a dire un’esperienza dell’utente molto più simile a 29 T. O'Reilly, What Is Web 2.0. Design Patterns and Business Models for the Next Generation of Software, O'Reilly, 2005, <http://www.oreilly.com/pub/a/web2/archive/what-is-web-20.html> (ultima consultazione: 6 marzo 2015) 30 P. Lévy, 1994, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1996 31 Ivi, p. 34 32 A. Marinelli, Glossario della comunicazione online, Materiali didattici del Corso di Teoria e tecniche della comunicazione e dei nuovi media, Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione, Sapienza Università di Roma, A.A. 2012-2013
  • 23. 23 quella dei programmi desktop, lontana dalla staticità delle tradizionali pagine Web. Una “rich user experience” legata alla fruizione dei servizi Web è stata resa possibile dall’utilizzo delle tecnologie di programmazione Ajax, che costituiscono una componente chiave delle applicazioni Web 2.033. Ajax (parola composta dai nomi dei linguaggi di programmazione Asynchronous JavaScript e XML) è un insieme di tecnologie per lo sviluppo di applicazioni Web interattive, che permettono l'aggiornamento dinamico di una pagina web34. Il Web 2.0 offre dunque un elevato livello di interazione tra sito web e utente. Negli ultimi anni si è diffusa l’espressione “social media”, che allude all’uso partecipativo e collaborativo del Web, sottolineando la componente comunicativa dei nuovi servizi Internet, considerati sempre più come media e sempre meno come tecnologie informatiche35. È possibile classificare i social media in cinque categorie: 1. servizi di gestione e pubblicazione di contenuti (blog36, microblog e podcast). 33 T. O’Reilly, op. cit. 34 J. J. Garrett, Ajax: A New Approach to Web Applications, Adaptive Path, 2005, <http://www.adaptivepath.com/ideas/ajax-new-approach-web- applications/> (ultima consultazione: 9 marzo 2015) 35 D. Bennato, op. cit. 36 I blog (abbreviazione di web-log, che significa “diario online”) sono i primi servizi Web pensati per essere usati da un pubblico ampio e diffuso e per creare relazioni sociali. Si tratta di siti internet il cui contenuto è organizzato
  • 24. 24 WordPress, Blogger, Medium sono tra le più diffuse piattaforme per la creazione di blog, mentre Twitter, offrendo la possibilità di pubblicare in Rete brevi contenuti di 140 caratteri, rappresenta l’archetipo delle piattaforme di microblogging37; 2. canali di content curation e sharing, ovvero servizi di condivisione e aggregatori di oggetti mediali (come video, foto, musica, notizie, livecasting, social bookmark38). Ne sono alcuni esempi YouTube per i video, Flickr e Pinterest per le foto, Slideshare per le presentazioni, Scribd per i documenti, Spotify e Last.fm per i brani musicali, Storify per gli status update dei vari social media, Livestream, Ustream, Google Hangout e Periscope per i livecasting; 3. social network site, cioè servizi che consentono di gestire la propria rete di contatti, sia rafforzando legami preesistenti, cronologicamente in post. I lettori possono commentare i post e ricevere gli aggiornamenti dai blog senza dover necessariamente digitarne l’indirizzo, attraverso la ricezione di questi contenuti in un software specifico, basato sulla tecnologia feed RSS, acronimo di Really Simple Syndication o Rich Site Summary (ibidem) 37 Ibidem 38 Per “social bookmark” si intende un servizio che consente di raccogliere e condividere link di siti web (ibidem). Ne è un esempio Tumblr, un servizio che si pone a metà strada tra un blog e un social network, basato sulla creazione dei cosiddetti tumblelog, vale a dire dei quaderni di appunti in cui gli utenti possono raccogliere foto, video, citazioni, testi, audio e collegamenti, caricando questi file dai propri computer oppure copiandoli e incollandoli da altri siti tramite l’uso di appositi bookmarklet. Si tratta di una sorta di diari-collage, che differiscono dai blog propriamente detti perché fatti principalmente di contenuti multimediali, lasciando poco spazio alla scrittura (V. Cosenza, op. cit.)
  • 25. 25 sia creando nuove connessioni sociali. Tra questi Facebook, Twitter, Instagram, LinkedIn, Google+; 4. ambienti virtuali immersivi che permettono di vivere esperienze sincrone di gioco o relazione, come Second Life e i MMORPG (Massively multiplayer online role-playing game, come World of Warcraft); 5. piattaforme di social collaboration, che si articolano in: a. spazi per la creazione di community tematiche, come Yammer, Jive, Asana per le aziende; b. wiki39, come il sito enciclopedico Wikipedia, Slashdot e le piattaforme Google Drive, Office online e Trello40. Non si tratta di categorie chiuse: poiché ciascun social media può integrare differenti tipi di funzionalità, la classificazione richiama piuttosto il prevalere di alcune funzionalità sulle altre. La definizione di “social network site” (SNS) comunemente accettata è quella proposta nel 2007 dalle ricercatrici statunitensi danah boyd e Nicole Ellison in un numero monografico del Journal of Computer Mediated Communication. Rientrano nella categoria dei social network site quei servizi web che consentono di: a. creare un profilo pubblico o semipubblico all’interno di un sistema delimitato; 39 Il termine “wiki” è di origine hawaiana e significa “veloce”. Indica una tipologia di software per la creazione di siti, in cui qualsiasi utente registrato può contribuire alla produzione del contenuto (ibidem) 40 Rielaborazione da V. Cosenza, op. cit.
  • 26. 26 b. articolare una lista di utenti con cui si condivide una connessione; c. vedere ed esplorare la propria lista di contatti e quelle degli altri all’interno del sistema41. È possibile distinguere tra social network site generalisti e social network site verticali, o tematici. Oltre a quelli che raccolgono ampi pubblici (come Facebook, Twitter, Google+), ci sono infatti social network orientati a una specifica passione, che uniscono le persone in base agli interessi (Pinterest, Instagram), SNS professionali (LinkedIn e Xing), SNS che sono anche siti di condivisione di contenuti (Flickr, YouTube, Last.FM, SoundCloud)42, geo social network, che offrono risposte adeguate alle esigenze di un utente mobile, attraverso la sua localizzazione geografica43 (Foursquare, Yelp, TripAdvisor). Danah boyd attribuisce quattro caratteristiche ai social network site: 1. la persistenza: le azioni che compiamo sui social media lasciano tracce accessibili anche a distanza di anni; 2. la ricercabilità: foto, video, messaggi, commenti, condivisioni che ci riguardano possono essere trovati con facilità; 41 d. boyd, N. Ellison, Social Network Sites: Definition, History, and Scholarship, “Journal of Computer-Mediated Communication”, n. 13, 2007, <http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/j.1083-6101.2007.00393.x/full>, (ultima consultazione: 4 marzo 2015) 42 d. boyd, N. Ellison, op. cit. 43 V. Cosenza, op. cit.
  • 27. 27 3. la replicabilità: le tracce che lasciamo in Rete possono essere riprodotte su diversi supporti, quindi decontestualizzate e remixate da altri utenti; 4. il pubblico invisibile: non è facile immaginare il pubblico a cui ci rivolgiamo quando pubblichiamo un contenuto. Inoltre le tre caratteristiche precedenti fanno sì che al nostro pubblico originario si aggiungano nuovi pubblici44. Queste caratteristiche dei nuovi media non vanno trascurate dalle aziende, perché influenzano anche la loro presenza online e le attività che esse mettono in atto sul Web45. 44 d. boyd, Taken Out of Context: American Teen Sociality in Networked Publics, Danah.org, 2008 <http://www.danah.org/papers/TakenOutOfContext.html> (ultima consultazione: 9 marzo 2015) 45 V. Cosenza, op. cit.
  • 28. 28 2. I media tra condivisione, circolazione e partecipazione. Come viaggiano i contenuti sui social media 2.1 I network sociali e le comunità online I flussi di comunicazione sui social media si basano sulla struttura e sul funzionamento dei network sociali, i quali sono oggetto di studio della social network analysis. Questo filone di ricerca, rifacendosi alla “teoria dei grafi”, utilizza l’immagine del “social graph” (grafo sociale) per rappresentare lo schema delle interconnessioni tra le unità di un network46. I “grafi” sono modelli matematici che servono a spiegare la struttura dei network. Essi vengono utilizzati nei campi più diversi per rappresentare come gli oggetti sono fisicamente o logicamente connessi tra di loro in una struttura reticolare. Un grafo (figura 2.1) rappresenta visivamente le connessioni che intercorrono tra un insieme di oggetti, che vengono definiti “nodi”; alcune coppie di oggetti sono collegate da link, detti "spigoli". Nei network sociali i nodi sono persone o gruppi di persone, mentre gli spigoli rappresentano le interazioni sociali; in un network di comunicazione i nodi sono computer o altri dispositivi in grado di trasmettere messaggi, mentre gli spigoli rappresentano i link diretti attraverso i quali questi messaggi vengono trasmessi; in un network di informazioni i nodi sono ad esempio pagine web o documenti e gli spigoli sono connessioni logiche come hyperlink o citazioni47. 46 T. L. Tuten, M. R. Solomon, op. cit. 47 D. Easley, J. Kleinberg, Networks, Crowds, and Markets: Reasoning About a Highly Connected World, Cambridge University Press, New York, 2010
  • 29. 29 Figura 2.1 Rappresentazione di un grafo sociale (social graph) Un social network è un insieme di nodi socialmente rilevanti, connessi gli uni con gli altri da una o più relazioni. I nodi, o membri del network, sono principalmente persone o organizzazioni, ma qualsiasi unità che si connette con altre unità può essere studiata come nodo (ad esempio pagine web, articoli di giornale, paesi, quartieri, aziende, posizioni). Le relazioni che collegano queste unità di rete possono essere legami di parentela, di amicizia o odio, contatti di lavoro, conoscenze, e possono originarsi da esperienze comuni, dalla condivisione di interessi, hobby, luogo di provenienza o caratteristiche demografiche. Tra i nodi si creano flussi, che possono consistere nello scambio di risorse, informazioni, influenza o supporto sociale48. 48 A. Marin, B. Wellman, Social Network Analysis: An Introduction, in P. Carrington, J.Scott, Handbook of Social Network Analysis, Sage, Londra, 2010
  • 30. 30 Sui social media si generano flussi di contenuti verso i membri del proprio network sociale quando si condividono notizie, aggiornamenti sulla propria vita, opinioni su film o libri, foto, video, commenti. Questi flussi di comunicazione avvengono in direzioni diverse, in qualsiasi momento e spesso su più piattaforme49. Possono essere a due o tre vie, diretti a un’intera comunità, a uno specifico gruppo o a singoli individui. I legami tra i membri di un network si concretizzano in interazioni, attività condivise che possono consistere in conversazioni, esperienze di co-working, partecipazione a eventi, scambio di pareri, esperienze di acquisto e così via50. Secondo la cosiddetta "teoria delle reti piccolo mondo", la maggior parte delle volte i nodi di un grafo sociale non sono collegati gli uni con gli altri direttamente, ma in modo indiretto attraverso i nodi vicini. Questa tesi è conosciuta anche come “principio dei sei gradi di separazione"51, teoria derivante dal celebre esperimento condotto dallo psicologo sociale Stanley Milgram nel 1967, allo scopo di misurare la distanza che separava due cittadini qualsiasi degli Stati Uniti. Il concetto di rete piccolo mondo consiste nell’idea che ogni persona risulta collegata a qualsiasi altro essere umano da non più di 49 Quando i flussi di comunicazione avvengono su più media si parla di “media multiplexity” (ibidem) 50 T. L. Tuten, M. R. Solomon, op. cit. 51 Milgram non ha mai utilizzato il termine “sei gradi di separazione”, reso invece popolare dal titolo di una commedia di Broadway scritta nel 1991 da John Guare e dal successivo lungometraggio da essa tratto (F. Comunello, Networked sociability. Riflessioni e analisi sulle relazioni sociali (anche) mediate dalle tecnologie, Guerini, Milano, 2010)
  • 31. 31 sei connessioni (“gradi di separazione”52): i passaggi sociali intermedi (amici di amici di amici) che separano due individui scelti a caso sarebbero al massimo sei. Si ha dunque l’impressione di vivere in un “piccolo mondo”, se si pensa a quanto sia breve il percorso di conoscenze che ci separa da un qualsiasi altro individuo53. La nostra società è composta da un insieme di grafi completi (cluster di persone fortemente interconnesse tra loro), i quali non sono isolati tra loro, bensì collegati da “legami deboli” (i “conoscenti”, nel linguaggio comune)54. Questa struttura è rintracciabile anche nei social media: se consideriamo ad esempio il network di legami tra soggetti che scambiano messaggi su Twitter con un profilo x, all’interno di una massa intricata di contatti si possono individuare alcuni cluster, ognuno dei quali composto da persone fortemente inclini a twittare tra di loro e identificabile con un particolare interesse o area di attività. Ogni membro di ciascun cluster avrà probabilmente contatti con membri di altri cluster. Perciò, quando le persone retwittano (ri-condividono) i messaggi ricevuti, questi si diffonderanno e coloro che riceveranno il retweet prenderanno consapevolezza di persone presenti in cluster diversi55. Online le persone costituiscono community: in una sorta di “cyberplace”, “le persone si connettono online con spiriti affini, si 52 La “distanza” tra due nodi è data dal numero di connessioni che, partendo da un nodo, permettono di raggiungere l’altro con il minor numero di passaggi. Si definisce “grado di separazione” la media delle distanze tra i nodi (ibidem) 53 S. Milgram, The Small-World Problem, “Psychology Today”, vol. 1, n. 1, maggio 1967, pp. 61-67 54 M. S. Granovetter, The Strenght of Weak Ties, “American Journal of Sociology”, vol. 78, n. 6, maggio 1973, pp. 1360-1380 55 L. Rainie, B. Wellman, op. cit.
  • 32. 32 impegnano in relazioni di supporto e socialità, e riempiono la loro attività online di significato, appartenenza e identità”56. Le “comunità online” sono gruppi di persone che si incontrano virtualmente, grazie agli strumenti offerti dalla Rete, per perseguire obiettivi comuni o perché condividono interessi, caratteristiche o esperienze, guidate nelle loro interazioni da precisi codici di condotta57. “Gli ‘interessi comuni’ sono l’unica ragione per cui le persone comunicano tra di loro online [...] Molte persone hanno interessi abbastanza specializzati e per trovare persone con interessi simili, spesso hanno bisogno di interagire con una larga base di persone anziché con i pochi individui che si possono trovare nell'ambiente fisico circostante. E questo piace alle persone che hanno numerosi interessi perché non devono passare da un club all'altro della città per incontrare e conversare con gente interessata a temi specifici come andare in barca o la lettura. Ci si può spostare per la città senza alzarsi.58 Chi partecipa a una comunità, nel mondo reale come in quello virtuale, prova sensazioni di appartenenza, di prossimità agli altri membri e di interesse verso le attività del gruppo. 56 B. Wellman, Physical Place and Cyberplace: the Rise of Personalized Networking, "International Journal of Urban and Regional Research", vol. 25, n. 2, giugno 2001, pp. 227-252 57 T. L. Tuten, M. R. Solomon, op. cit. 58 J. Coate, Cyberspace Innkeeping: Building Online Community, 1998, <http://www.cervisa.com/innkeeping.html> (ultima consultazione: 22 settembre 2015)
  • 33. 33 Grazie alle comunità sociali, le persone soddisfano i loro bisogni di affiliazione, acquisizione e condivisione di risorse, svago e informazione. Il grado di attività e il vigore di una community si misura in base al livello di partecipazione e interazione dei suoi membri. Se ai tempi del Web 1.0 non esistevano vere e proprie community online (gli utenti internet si procuravano contenuti consultando molti siti, in un flusso di informazioni monodirezionale), il Web 2.0 ha offerto una serie di strumenti interattivi che ne hanno consentito il proliferare59. Le caratteristiche principali delle community online sono: 1. conversazioni: la comunicazione è una condizione indispensabile per la creazione di una community. Per la natura ibrida delle conversazioni digitali, scambiando messaggi scritti con altri utenti online, si ha l’impressione di aver effettivamente conversato con loro; 2. presenza: frequentando questi spazi virtuali, sembra di trovarsi in un luogo ben preciso, si avverte un senso di presenza; 3. democrazia: il modello politico vigente nelle comunità virtuali è quasi sempre democratico, data la natura orizzontale dei social media. Vengono nominati leader coloro che riescono a guadagnarsi un’ottima reputazione presso gli altri membri del gruppo, con la loro costante partecipazione alle attività della community, la qualità dei loro contributi e la 59 T. L. Tuten, M. R. Solomon, op. cit.
  • 34. 34 loro capacità di aggiungere valore alla comunità e di favorirne la crescita; 4. standard di comportamento: il buon funzionamento di una comunità online dipende dall’esistenza e dal rispetto di una serie di regole di comportamento, che possono essere dichiarate esplicitamente in specifici “termini di servizio” (una sorta di contratto sociale stipulato tra l’host o l’organo di governo e gli utenti) o rimanere implicite. Queste norme servono a evitare i casi di “flaming” (l’infiammarsi della conversazione, con l’invio di messaggi volutamente ostili e provocatori da parte di qualche utente e la successiva reazione degli altri membri della community), a proteggere la privacy dei membri o la proprietà intellettuale dei contenuti postati o a evitare comportamenti scorretti. Queste barriere si abbassano nei siti ad accesso libero, dove chiunque può partecipare mantenendo il proprio anonimato; 5. livello di partecipazione: la vita di una comunità online dipende dalla partecipazione dei suoi utenti, che non può limitarsi alle attività di pochi membri. Una comunità online di successo come Facebook è in grado di mantenere alta l’attività dei suoi membri offrendo loro molteplici modalità di partecipazione (status update, commenti, social game, quiz, creazione di eventi, caricamento di foto e video, condivisione di note e link)60. Le risorse che le persone accumulano e scambiano nelle loro relazioni di comunità costituiscono un “capitale sociale”61, vale a dire 60 Ibidem; J. Coate, op. cit. 61 J. S. Coleman, Social Capital in the Creation of Human Capital, "American Journal of Sociology", vol. 94, 1988, pp. 95-120
  • 35. 35 una risorsa cumulata il cui valore è il risultato di un patrimonio di relazioni. Può consistere per esempio in conoscenze, particolari capacità o supporto emotivo. Una comunità si caratterizza anche per la sua cultura, vale a dire per un set di norme, linguaggi, conoscenze e interessi. Sono parte di questa cultura i “memi”62, vale a dire frammenti di informazioni culturali che si trasmettono da persona a persona fino a diventare patrimonio collettivo. Si tratta di contenuti di vario tipo, come frasi, idee, canzoni, immagini, mode, comportamenti, parole in gergo. La particolarità di questi contenuti è la loro replicabilità all’infinito, cioè la possibilità data agli utenti di creare innumerevoli varianti a partire da questi format. Ne sono un esempio le migliaia di versioni del motto “Keep calm and carry on”63 (figura 2.2), prodotte grazie ad appositi generatori 62 Il termine “meme” fu introdotto dal biologo evoluzionista inglese Richard Dawkins nel 1976 per descrivere l’equivalente culturale del gene: così come i geni si diffondono nel “pool genico” passando da un corpo all’altro tramite gli spermatozoi e le cellule uovo, i memi si trasmettono nel “pool memico” saltando da un cervello all’altro attraverso un processo di “imitazione” (R. Dawkins, 1976, Il gene egoista, Zanichelli, Bologna, 1979) 63 “Keep calm and carry on” (“mantieni la calma e vai avanti”) nasce da un vecchio manifesto prodotto e diffuso durante la Seconda Guerra Mondiale dal governo britannico, che aveva lo scopo di esortare il popolo a non scoraggiarsi di fronte alla prospettiva di tempi duri e alla minaccia di continui bombardamenti notturni da parte dell’aviazione nazista. Una copia del manifesto fu ritrovata nel 2000 in una storica libreria della regione di Northumberland, in Inghilterra, la Barter Books. I proprietari della Barter Books pensarono di incorniciarla e appenderla in uno dei locali della libreria e, solo in seguito alle richieste dei visitatori, di stamparne delle riproduzioni e diffonderne sul Web delle versioni digitali. Di condivisione in condivisione, il successo di “Keep calm…”, con la sua grafica essenziale, i colori accesi, la corona stilizzata e il suo riecheggiare un modo di fare tutto
  • 36. 36 automatici disponibili online64. La modalità con cui un meme si diffonde all’interno di una comunità ricorda il modo in cui si espandono i virus, per questo si attribuisce loro una natura “virale”65. Quando un meme viene condiviso e imitato, esso passa velocemente da una persona all’altra, diffondendosi con una progressione geometrica, proprio come un virus che infetta un numero sempre maggiore di persone fino a produrre un’epidemia66. britannico, sobrio e risoluto, è stato inarrestabile (E. Menietti, La storia di “Keep Calm and Carry On”, Il Post, 3 aprile 2012, <http://www.ilpost.it/2012/04/03/la-storia-di-keep-calm-and-carry-on/>, ultima consultazione: 23 settembre 2015) 64 Per una rassegna aggiornata di memi internazionali si rimanda al sito http://www.cheezburger.com/ 65 Il termine “virale” fu applicato per la prima volta al marketing nel 1995 per descrivere la rapida e massiccia diffusione del servizio di posta elettronica Hotmail. La compagnia riuscì a ottenere milioni di iscrizioni nel giro di pochi mesi solo grazie al passaparola, innescato dal trasferimento del messaggio di marketing “Get your free Web-based email at Hotmail”, posto automaticamente in fondo a ogni email inviata da un mittente che utilizzava già il servizio. L'espressione "marketing virale" rende conto, dunque, della strategia che ha comportato la rapida diffusione del servizio email tramite reti di passaparola (S. Jurvetson, T. Draper, Viral Marketing: Viral Marketing phenomenon explained, DFJ, 1997, <http://dfj.com/news/article_26.shtml>, ultima consultazione: 29 settembre 2015) 66 T. L. Tuten, M. R. Solomon, op. cit.
  • 37. 37 Figura 2.2 Copia del manifesto originale “Keep calm and carry on” e un esempio di rielaborazione del meme 2.2 Perché si condivide? “La qualità specifica di cui un messaggio necessita per avere successo è la capacità di ‘fare presa’, ovvero di attecchire per poi diffondersi”, per dirla con Malcolm Gladwell67. Il concetto di “fattore presa” (stickiness) si riferisce alla capacità di un messaggio, un film o un prodotto di fare presa, colpire ed essere memorabile al punto da determinare un cambiamento o spingere qualcuno all’azione. Il meccanismo con cui idee, prodotti, comportamenti e messaggi si 67 M. Gladwell, 2000, Il punto critico. I grandi effetti dei piccoli cambiamenti, BUR Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2006, p. 110
  • 38. 38 diffondono somiglia a quello con cui si espandono le epidemie e segue pertanto gli stessi principi che sono alla base della diffusione dei virus: a. la contagiosità; b. il fatto che piccoli cambiamenti possono produrre grandi effetti; c. il fatto che il cambiamento non avviene in modo graduale, ma in un momento ben preciso: il cosiddetto “punto critico”. Il punto critico di un’epidemia dipende dalle persone che causano il contagio, dall’agente stesso dell’infezione e dall’ambiente in cui tale contagio avviene. Allo stesso modo, un determinato cambiamento si verifica per effetto di almeno uno di questi tre fattori, definiti rispettivamente “legge dei pochi”, “fattore presa” e “potere del contesto”. Per la legge dei pochi, le epidemie sociali si scatenano in seguito agli sforzi di un piccolo gruppo di persone “fuori dell’ordinario”, che si distinguono dalla massa per la loro straordinaria capacità di connessione e per il loro grado di socievolezza, sagacia, entusiasmo, energia e influenza all’interno del gruppo. Si tratta dei cosiddetti “connettori”, persone che possiedono innumerevoli connessioni sociali. Quanto più un’idea o un prodotto incontrano il consenso di un connettore, tanto maggiore saranno il loro successo e la loro diffusione, grazie all’innesco di meccanismi di “passaparola”, i quali sono in grado di esercitare elevati livelli di persuasione. Il successo di un’epidemia sociale non dipende solo dai connettori, ma anche da persone particolarmente influenti, perché detentrici di informazioni su tantissimi prodotti, prezzi e posti e fortemente
  • 39. 39 motivate a rendere gli altri partecipi di queste loro conoscenze: queste figure si definiscono “esperti di mercato”, detentori di opinioni disinteressate e competenti. Oltre agli esperti di mercato, che rappresentano delle vere e proprie banche dati perché forniscono il messaggio, e ai connettori, i quali fungono da collante in quanto diffondono questo messaggio, nelle dinamiche di contagio entra in gioco una terza figura, quella dei “venditori”, persone con personalità forte e doti di persuasione. Potremmo ricondurre gli esperti di mercato e i venditori alla categoria degli opinion leader (anche detti influencer)68. Fondamentali nelle epidemie sociali sono 68 Gli “opinion leader” sono persone in grado di influenzare gli atteggiamenti o i comportamenti degli altri, in quanto fonti di informazioni di enorme valore. Queste persone possiedono un potere sociale, consistente in particolari competenze tecniche, conoscenze di prodotti (scaturite da attente valutazioni e selezioni o dall’esperienza diretta), elevato numero di connessioni sociali, posizione di leadership, potere referente (in loro i consumatori si riconoscono in quanto a valori e convinzioni), status e livello di istruzione leggermente superiore. Gli opinion leader sono spesso i primi ad acquistare e a provare i nuovi prodotti e, non essendo legati a nessun interesse, i loro giudizi, positivi o negativi, risultano più credibili rispetto alle comunicazioni ufficiali delle aziende, le quali si limitano a esaltare le qualità dei prodotti (T. L. Tuten, M. R. Solomon, op. cit.). Il concetto di “opinion leader” fu introdotto al termine di una ricerca condotta, in una contea degli Stati Uniti durante la campagna presidenziale del 1940, allo scopo di studiare l’impatto sugli elettori dei messaggi elettorali trasmessi dai media (P. F. Lazarsfeld, B. Berelson, H. Gaudet, The People’s Choice, New York, Duell, Sloan & Pearce, 1944). Il risultato di questo progetto di ricerca fu la formulazione di una nuova prospettiva teorica sul processo delle comunicazioni di massa, che prese il nome di “flusso di comunicazione a due stadi” (“two-step flow of communication”). Questo modello individua due stadi basilari nel passaggio di informazioni dai media agli elettori: un primo stadio va dai mezzi di comunicazione di massa agli individui direttamente esposti ai loro messaggi; il secondo passaggio avviene, attraverso i canali interpersonali, da queste persone, gli opinion leader, ad altre non esposte ai
  • 40. 40 anche i piccoli cambiamenti di contesto, relativi cioè all’ambiente circostante e ai gruppi di appartenenza: le idee si diffondono più facilmente quando le condizioni sono adatte. Per rendere contagioso un messaggio e scatenare un’epidemia sociale, è necessario che tale messaggio possieda il fattore presa, cioè che abbia la capacità di avere un forte impatto, di attecchire, di “incollarsi” letteralmente nella testa di chi lo riceve. Occorre dunque agire sul modo in cui si struttura e si presenta l’informazione, al fine di renderla irresistibile, garantendone l’impatto69. Il successo di un contenuto dipende però in larga parte anche dall’attività delle audience, vale a dire dai processi di diffondibilità a cui sono sottoposti i contenuti online per effetto dell’azione degli utenti. Ciò significa che i creatori di contenuti, per assicurarsi il successo dei loro prodotti, oltre a creare testi mediali capaci di coinvolgere le persone, devono tenere conto di alcuni fattori determinanti nelle dinamiche di diffondibilità, che sono legati a processi di apprezzamento sociale e alla partecipazione attiva delle audience coinvolte. Bisogna quindi chiedersi quali sono le motivazioni che spingono i partecipanti a condividere informazioni e a innescarne la messaggi originali dei media, che dipendono dalle prime per informarsi. Il nome “leader d’opinione” si riferisce al fatto che non si tratta di semplici trasmettitori di informazioni, bensì di persone capaci di svolgere un’”influenza personale”, fornendo proprie interpretazioni dei messaggi e contribuendo a formare le intenzioni di voto di coloro a cui passano le informazioni (M. L. DeFleur, S. J. Ball-Rokeach, 1989, Teorie delle comunicazioni di massa, Il Mulino, Bologna 1995) 69 M. Gladwell, op. cit.
  • 41. 41 circolazione70. Una ricerca condotta dal Customer Insight Group del New York Times, dal titolo “The Psychology of Sharing: Why do People Share Online?” (La Psicologia della Condivisione: Perché le Persone Condividono Online?)71, indaga i motivi alla base della condivisione di contenuti sul Web. I ricercatori del New York Times partono dal presupposto che condividere fa parte della natura umana, trattandosi di un’attività che risponde a bisogni fisiologici, di sicurezza, di amore e appartenenza, di stima e di autorealizzazione72; nell’era dell’informazione quest’attività risulta amplificata, perché condividiamo più contenuti, da più fonti, con più persone, più spesso e più velocemente. 70 H. Jenkins, S. Ford, J. Green, op. cit. 71 The New York Times Customer Insight Group, The Psychology of Sharing: Why do People Share Online?, The New York Times Company, 2011, <http://nytmarketing.whsites.net/mediakit/pos/> (ultima consultazione: 11 settembre 2015) 72 La gerarchia dei bisogni, elaborata dallo psicologo statunitense Abraham Harold Maslow, dal quale prende il nome di “piramide di Maslow”, rappresenta un modello esplicativo generale delle motivazioni alla base dei comportamenti di consumo e un’interessante prospettiva per la psicologia pubblicitaria. Maslow indica una lista di motivi la cui realizzazione segue una scala di priorità, per cui i bisogni più in alto nella piramide (posti gerarchicamente a un livello di priorità inferiore) si formulano e possono essere soddisfatti solo dopo che sono stati soddisfatti quelli con un livello più alto di impellenza. Alla base della piramide si trovano i bisogni fisiologici, i più impellenti in assoluto, la cui soddisfazione è prioritaria rispetto a quella degli altri bisogni (A. H. Maslow, Motivation and Personality, Harper and Raw, New York, 1954; G. Fabris, 1992, La pubblicità teorie e prassi, FrancoAngeli, Milano, 2002)
  • 42. 42 La ricerca ha individuato cinque motivazioni fondamentali che spiegano perché si condivide online: 1. per aiutare gli altri, trasmettendo loro notizie utili, interessanti o divertenti; 2. per presentare e coltivare un’immagine di sé e dei propri interessi; 3. per alimentare e nutrire le relazioni sociali (condividere mantiene le persone connesse, rafforzando legami o creando nuovi contatti tra persone con interessi simili); 4. per la soddisfazione che deriva dal sentirsi utili e importanti per gli altri; 5. per sostenere le cause o i brand che ci stanno a cuore. Dallo studio risulta inoltre che condividere i contenuti e leggere le risposte degli altri utenti ha un impatto positivo sul modo in cui gestiamo, comprendiamo ed elaboriamo informazioni ed eventi. Finalità identitarie e relazionali, dunque, che raramente operano isolatamente e sfociano tutte nei rapporti che gli utenti hanno gli uni con gli altri: “sharing is all about relationships” (“condividere è tutta una questione di relazioni”)73. Si condividono materiali online, quindi, per definire la propria identità (esprimendo i propri gusti e consumi culturali), per rafforzare legami sociali (trasmettendo determinate informazioni ai contatti che potrebbero essere interessati a esse), per esprimere un parere personale su un determinato contenuto mediale, per acquisire notorietà o ampliare la propria rete di contatti, per tenere attiva una 73 Ibidem
  • 43. 43 comunità d’interesse o come ispirazione per creare contenuti originali. I contenuti si diffondono se sono in grado di alimentare conversazioni già attive tra le audience. Prima di procedere alla condivisione di un contenuto mediatico, le audience ne valutano attentamente il valore e scelgono di condividerlo se prevedono che anche gli altri ne apprezzeranno il valore. I contenuti vengono valutati dunque non solo in base agli standard personali degli utenti, ma anche in funzione del valore percepito per la loro cerchia sociale74. In un’ottica di “economia del dono”, quando si segnala qualcosa a qualcuno, lo si fa per alimentare un legame, come si fa con i regali. Oltre che per dire qualcosa di sé, si condivide per ristabilire o alimentare una relazione. Alla base del meccanismo della condivisione ci sono dunque le emozioni: sono le emozioni a muoversi tra i social network quando un’idea si diffonde e contagia75. Si tratta principalmente di una condivisione di energia affettiva, una condivisione di emozioni che alimentano relazioni e identità personali e collettive. Possiamo dire che virale è la condivisione sociale delle emozioni. Alimentare un legame sociale con gli altri e definire una identità comune attraverso il dono di un’emozione è il motivo profondo per cui le persone si scambiano contenuti. Le storie virali si diffondono perché sono in grado di rinforzare il legame sociale fra le persone, quasi fossero un dono. Un dono che il 74 H. Jenkins, S. Ford, J. Green, op. cit. 75 M. Pallera, Create! Progettare idee contagiose (e rendere il mondo migliore), Sperling & Kupfer, Milano, 2012
  • 44. 44 mittente fa al ricevente, che dice qualcosa di loro, che rinforza i loro legami sulla base di un’emozione condivisa.76 Nel suo Saggio sul dono77, Marcel Mauss afferma che è tramite lo scambio di un dono che si instaurano relazioni, si costruiscono e alimentano legami sociali. Il motivo del dono non è economico, bensì sociale, in quanto invita alla reciprocità e lo fa non per mezzo di obblighi contrattuali, ma attraverso qualcosa di spirituale, che coinvolge l’onore sia del donatore che di colui che riceve il dono. È come se nel donare si trasmettesse anche una parte di sé: questo crea un legame tra le persone coinvolte nello scambio, dando origine a una condizione di mutua interdipendenza e solidarietà tra le persone. L’economia del dono – insieme alla qualità delle relazioni tra le persone, alla discussione critica sulle informazioni e al controllo sulle principali notizie che circolano sul Web – è uno dei valori che emergono nel pubblico dei nuovi media, come testimoniato dal grande successo riscosso da blog e social network site. Le persone hanno bisogno di esprimersi e connettersi e pertanto preferiscono collaborare anziché competere. Espressione e connessione, persone e rete, sono le due funzioni fondamentali alla base del sistema dei network sociali78. Il pubblico attivo della rete regala a se stesso e agli altri il proprio tempo. Le persone donano idee e lavoro in cambio della possibilità di esprimersi con la propria voce e di 76 Ivi, pp. 84-85 77 M. Mauss, 1950, Saggio sul dono: forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino, 2002 78 L. De Biase, Economia della felicità. Dalla blogosfera al valore del dono e oltre, Serie Bianca Feltrinelli, Milano, 2007
  • 45. 45 ascoltare quella dei pari, ottenendo un riconoscimento della propria identità e una nuova esperienza delle relazioni con altri. I media del dono sono preziosi. L’economia del gratuito che pervade questi progetti editoriali partecipati, sostanzialmente informali o più o meno abilmente controllati, non funziona in base allo scambio monetario. È piuttosto fondata sulla coltivazione delle relazioni tra le persone: la vera materia prima – e ultima – dell’economia del dono. Arrivando a costruire enormi giacimenti di risorse scarse come il tempo, appunto, l’attenzione e la fiducia.79 Questo network di persone che parlano pubblicamente costituisce un nuovo medium molto potente, che sta acquistando credibilità, attenzione e dedizione da parte dei pubblici, a svantaggio dei media tradizionali, che a poco a poco perdono, o mantengono a fatica, queste preziose risorse80. Un approccio eccessivamente pubblicitario e commerciale da parte delle aziende risulta poco opportuno in un contesto pervaso da queste dinamiche. Rischia anzi di risultare controproducente81. Al brand non resta che entrare nei processi psicologici e nelle dinamiche sociali dei consumatori, divenire parte di una comunità e ottenerne il rispetto o porsi alla sua guida, facendosi portatore dei sogni e dei bisogni su cui essa si fonda, aiutando le persone a rafforzare le loro identità e le loro motivazioni, supportando i loro progetti con la sua comunicazione o attuando strategie di marketing che facciano leva su narrazioni ed emozioni universali. 79 Ivi, p. 47 80 Ibidem 81 M. Pallera, op. cit.
  • 46. 46 Un’idea ha ottime possibilità di diventare contagiosa se fa leva su una “tensione” che attraversa la società o che interessa il percorso esistenziale delle persone in un dato momento. Le aziende devono dunque identificare le tensioni psico-culturali che interessano le proprie audience e le comunità online di riferimento, individuando visioni del mondo e conflitti manifesti o latenti, di carattere psicologico, sociale o culturale. I prodotti e le marche, con le loro narrazioni, sono in grado di alleviare questi conflitti, cavalcando queste tensioni e rispondendo alle necessità ideologiche ed esistenziali delle persone82. 2.3 Pubblici attivi e cultura partecipativa Una cultura partecipativa è una cultura con barriere relativamente basse all'espressione artistica e all'impegno civico, forte sostegno alle attività di produzione e alla condivisione delle creazioni, e una sorta di mentorship informale in cui partecipanti esperti trasmettono conoscenza ai principianti. In una cultura partecipativa, i membri sono anche convinti che i loro contributi siano importanti e si sentono in qualche modo connessi gli uni con gli altri (o, quantomeno, sono interessati alle opinioni degli altri in merito alle loro creazioni).83 La cultura partecipativa è il risultato della possibilità, data ai consumatori dalla diffusione massiccia delle tecnologie digitali, di 82 Ibidem 83 H. Jenkins et al., Confronting the Challenges of Participatory Culture. Media Education for the 21st Century, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 2009, p. XI (traduzione e corsivo miei)
  • 47. 47 "archiviare, annotare, appropriarsi e rimettere in circolo i contenuti dei media in nuovi e potenti modi"84. La cultura partecipativa comprende forme di partecipazione che possono consistere in affiliazioni (partecipazione a comunità online, come Facebook, Instagram, piattaforme di gioco), espressioni (produzione di nuovi contenuti, come parodie, “fan fiction”, “song vid”, “mash-up”85), problem solving collaborativo (lavorare in gruppo per sviluppare conoscenze o raggiungere obiettivi, ad esempio attraverso Wikipedia o attività di spoiling, che consistono nell’anticipare trame di serie tv o l'evolversi dei reality show), 84 Ivi, p. 8 85 Le “fan fiction” sono produzioni amatoriali in cui i fan immaginano nuovi svolgimenti della trama di un contenuto broadcast (nel caso dei reality show si parla di “reality fiction”), a partire da personaggi e ambientazioni del prodotto originale. Si tratta spesso di creazioni collettive, frutto della fantasia delle comunità dei fan. I “song vid” (video sonori) sono per la maggior parte produzioni delle comunità femminili di fan e consistono nel montaggio di scene di film o programmi televisivi con brani di musica pop: si tratta di contenuti dal tono sentimentale, che esplorano aspetti emozionali dei personaggi o suggeriscono interpretazioni inedite delle storie e intrecci alternativi, soffermandosi su sottotesti non sviluppati nei prodotti originali. I “mash-up” sono materiali digitali mixati e modificati, prodotti dagli utenti mescolando all’interno delle proprie creazioni materiali trovati online, come testi, immagini e canzoni. Queste appropriazioni grassroots dei contenuti mediali che caratterizzano la “cultura di rete” non sono nate con le nuove tecnologie digitali, ma da esse hanno ricevuto un’enorme spinta, che ne ha determinato la crescita esponenziale. Tali pratiche sociali e culturali affondano le loro radici nella “fan culture” e in altre pratiche di consumo consolidate, come la cultura dei ritagli da quotidiani e periodici, tipica delle donne americane del diciannovesimo secolo (H. Jenkins, Cultura Convergente, cit.; H. Jenkins, S. Ford, J. Green, op. cit.; L. Rainie, B. Wellman, op. cit.)
  • 48. 48 circolazioni (dare forma al flusso dei media, ad esempio contribuendo a blog o pubblicando podcast)86. Nell'attuale panorama dei media sta emergendo un particolare trend sociale per cui le persone utilizzano i tool disponibili online per connettersi le une con le altre e per ottenere dagli altri utenti ciò che desiderano, come informazioni, prodotti, pareri, supporto o idee. Fanno dunque affidamento sulle relazioni sociali piuttosto che dipendere dalle istituzioni tradizionali per soddisfare i propri bisogni. Questo fenomeno viene definito "groundswell" (letteralmente "onda anomala"). Ad esempio è possibile acquistare qualcosa da altre persone tramite eBay anziché in un negozio, oppure si può trovare lavoro utilizzando LinkedIn invece di recarsi presso un ufficio di collocamento87. Forrester Research ha individuato sette categorie di consumatori digitali, ordinate in base al loro livello di coinvolgimento social, dai creatori veri e propri di contenuti originali ai semplici consumatori, che formano la cosiddetta “scala dei social technographics” (figura 2.3). Si possono distinguere dunque sette modalità di partecipazione al social Web: 1. creatori: utenti che producono contenuti originali, come blog, pagine web, articoli, racconti, video, audio, musica, che possono essere fruiti e condivisi da altri (si tratta dei cosiddetti “user-generated content”, o UGC); 2. conversatori: persone che, postando aggiornamenti sui loro profili social e commentando quelli dei loro contatti, 86 H. Jenkins et al., Confronting the Challenges of Participatory Culture, cit. 87 J. Bernoff, C. Li, Groundswell. Winning in a World Transformed by Social Technologies, Harvard Business Review Press, Boston, 2011
  • 49. 49 intessono delle conversazioni con i loro network (ad esempio tramite tweet, post su Facebook e foto su Instagram) 3. critici: utenti che reagiscono ai contenuti più che crearli, attivi nel recensire prodotti o servizi (ad esempio su Yelp o TripAdvisor), commentare post di blog altrui, scrivere sui forum online, editare e modificare contenuti wiki; 4. collezionisti: si distinguono per capacità organizzativa ed efficienza e sono utili alle comunità social perché aiutano a classificare i contenuti del Web, utilizzando aggregatori (feed RSS), bookmark, aggiungendo “tag” (etichette), votando pagine web e segnalando contenuti di rilievo; 5. socievoli: utenti che hanno un profilo su uno o più social network site e frequentano regolarmente questi siti; 6. spettatori: anche detti “lurker” (guardoni), sono quelle persone che si limitano a consumare contenuti di altre persone, spesso nascondendo la propria identità. Non partecipano e non aggiungono valore alle comunità online, ma si comportano come farebbero con i media tradizionali, leggendo blog, forum e recensioni, “spiando” i tweet e gli altri aggiornamenti social della loro rete, guardando video o ascoltando podcast; 7. inattivi: utilizzano Internet senza però frequentare gli ambienti social88. 88 Ibidem; J. Bernoff, Social Technographics: Conversationalists get onto the ladder, Forrester Research, 2010, <http://forrester.typepad.com/groundswell/2010/01/conversationalists-get- onto-the-ladder.html> (ultima consultazione: 30 settembre 2015). Va aggiunta la categoria dei “troll”: quegli utenti che pubblicano volutamente, all'interno delle comunità virtuali, post offensivi, provocatori, irritanti o che contraddicono il senso comune, al fine di disturbare la comunicazione online, fomentare gli animi e scatenare un ampio numero di
  • 50. 50 Figura 2.3 Scala dei social technographics Dai dati di Forrester Reasearch si evince che i più attivi sulle piattaforme social costituiscono una piccolissima percentuale del totale degli utenti del Web 2.0, con il 24% di utenti statunitensi classificabili come “creatori” e il 70% facenti parte della categoria inutili risposte da parte dei membri delle community (Indiana University Knowledge Base, What is a troll?, Indiana University, 2013, <https://kb.iu.edu/d/afhc>, ultima consultazione: 8 ottobre 2015)
  • 51. 51 “spettatori”89. Anche i dati relativi all’utenza italiana riflettono lo stesso fenomeno: il 23% degli internauti italiani sono attivi online come “creatori”, mentre la percentuale degli “spettatori” è del 52%90. Dunque la maggior parte degli utenti guarda o scarica contenuti forniti da altri. Ma la modalità di partecipazione degli utenti meno attivi, vale a dire le attività di valutazione, apprezzamento, critica e ricircolazione dei contenuti, non va considerata meno importante degli atti di produzione mediale. La sola consapevolezza della possibilità di partecipare alla conversazione che avviene sui media e di contribuire alla produzione mediale rende infatti gli spettatori del Web 2.0 osservatori meno passivi. Inoltre quelli che vengono definiti i “guardoni dei media sociali” conferiscono valore a chi condivide o produce contenuti, perché ne ampliano l’audience e ne motivano il lavoro. I creatori di contenuti ricevono beneficio anche dai critici e dai collezionisti, i quali si aiutano anche reciprocamente, poiché i collezionisti ricevono dai critici idee su quali contenuti considerare rilevanti e al contempo facilitano loro l’accesso a tali contenuti91. Le “audience attive” partecipano direttamente alla creazione di senso nel nuovo panorama mediale, per questo, secondo Jenkins, non è giusto attribuire il successo di un contenuto alla semplice 89 Dati relativi al 2010 (ibidem) 90 Dati relativi al 2010 (What's The Social Technographics Profile Of Your Customers?, Forrester Research, 2010, <http://empowered.forrester.com/tool_consumer.html>, ultima consultazione: 30 settembre 2015) 91 H. Jenkins, S. Ford, J. Green, op. cit.
  • 52. 52 trasmissione di un virus tra i membri di una platea passiva e inconsapevole. Al concetto di “viralità” è invece da preferirsi quello di “diffondibilità” (“spreadability”), dato che, quando fanno circolare i contenuti mediatici, le persone prendono decisioni attive ed esprimono giudizi e apprezzamenti, aggiungendo di volta in volta valore ai messaggi che trasferiscono. Di fronte a queste audience attive, le aziende non possono pensare di produrre contenuti che “infettino” i pubblici: devono piuttosto progettare contenuti che abbiano maggiori probabilità di diffondersi, domandandosi cosa spinga i partecipanti a condividere informazioni e a relazionarsi con le loro community92. La partecipazione è entrata di diritto nel marketing mix, “l’insieme degli strumenti di marketing utilizzati dall’azienda per perseguire i propri obiettivi di marketing nel mercato considerato”93. Alle “4 P”94 tradizionali del marketing (prodotto, prezzo, promozione e punto vendita, o distribuzione) si aggiunge la P di “partecipazione”, 92 Ibidem 93 P. Kotler, 2003, Marketing Management, 11a edizione, Pearson Education Italia, Milano, 2004, p. 21 94 Per completezza va chiarito che gli stessi Kotler e Keller hanno recentemente aggiunto alle celebri 4 P del marketing mix teorizzate da McCarthy quattro nuove categorie, che afferiscono all’approccio da essi definito del “marketing olistico”: “persone” (inteso sia come attenzione ai dipendenti che ai clienti, considerati persone in senso ampio e non più consumatori), “processi” (necessari all’implementazione delle idee e dei concetti di marketing, oltre che allo sviluppo di prodotti e servizi innovativi), “programmi” (tutte le attività di pianificazione descritte dalle vecchie 4P e intese in senso integrato) e “performance” (il monitoraggio dei risultati in termini sia finanziari che di brand e customer equity, e relativi all’impatto che l’organizzazione stessa ha al suo esterno, nel contesto sociale in cui è inserita). P. Kotler, K. L. Keller, Marketing Management, 14a edizione, Pearson Education, Upper Saddle River, 2012
  • 53. 53 aspetto su cui si concentra il lavoro del social media marketing95. Ne parleremo più approfonditamente nel quarto capitolo del presente lavoro. 95 L. Tuten, M. Solomon, op. cit.
  • 54. 54 3. La tenuta della brand identity e della brand reputation sulla nuova scena mediatica 3. 1 Verso nuove regole di marketing Secondo i dati Censis-Ucsi relativi al 2015, il 60,4% degli utenti Internet italiani utilizza il Web per la ricerca di strade e località; la seconda funzione pratica di Internet maggiormente sfruttata nel quotidiano è la ricerca di informazioni su aziende, prodotti e servizi (lo fa il 56% degli utenti Internet); seguono l’home banking (46,2%) e l’ascolto di musica (il 43,9% del totale della popolazione e il 69,9% dei giovani). 15 milioni di Italiani fanno acquisti sul Web (il 43,5% degli utenti Internet), il 25,9% guarda film online (percentuale che sale al 46% tra i giovani), il 18,4% cerca lavoro in Rete, il 16,2% telefona via Skype o altri servizi VoIP, il 13,9% prenota viaggi. Il Dodicesimo Rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione96 utilizza l’espressione “disintermediazione digitale”97 per descrivere il fenomeno per cui gli utenti utilizzano sempre più le nuove 96 Censis-Ucsi, 12° Rapporto sulla comunicazione. L’economia della disintermediazione digitale, FrancoAngeli, Milano, 2015 97 Morcellini parla di "dismediazione": "come la scuola, anche la politica e il giornalismo, luoghi sociali in cui tradizionalmente veniva costruita un'interazione tra i soggetti, in cui venivano formate figure di mediazione sociale professionalmente deputate a essere in mezzo tra un soggetto e l'altro, o tra un soggetto e le istituzioni, entrano in crisi. Nella misura in cui i soggetti sembrano voler fare a meno della mediazione, le sue figure caratterizzanti entrano in crisi, personalmente, professionalmente e collettivamente, cioè in termini di visibilità pubblica" (C. Ruggiero, La crisi della mediazione politica e "quinto potere" alla prova dell'identità, in M. Morcellini (a cura di), Multigiornalismi, Mondadori, Milano, 2011, pp. 31-32)
  • 55. 55 tecnologie per entrare in contatto con gli interlocutori e i servizi di loro interesse, evitando l’intermediazione di altri soggetti. I consumatori attivi, grazie agli strumenti offerti dal Web, cercano le opinioni degli altri consumatori su prodotti e servizi, inviano le loro lamentele direttamente alle aziende oppure comunicano pareri e suggerimenti ai membri delle community con cui condividono gusti e interessi. Dunque sul Web il consumo diventa condivisione di stili di vita e si pone in una logica orizzontale rispetto alla comunicazione d'impresa. Il 36,6% degli Italiani entra in contatto con le aziende attraverso i seguenti canali online: ● sito web dell'azienda: 19,9%; ● e-mail dell'azienda: 11,7%; ● pagina Facebook dell'azienda: 8,2%; ● pagina Facebook creata dagli utenti: 5,2%; ● blog o forum tematici (recensioni, commenti, ecc.): 3,4%; ● canale YouTube creato dagli utenti (videotutorial, videorecensioni, ecc.): 2,5%; ● canale YouTube dell'azienda: 1,2%98. Per promuovere i loro prodotti, servizi, idee, persone o luoghi, gli operatori di marketing hanno oggi a disposizione tre tipi di media (figura 3.1): a. paid media (media a pagamento): spazi pubblicitari a pagamento, vale a dire annunci televisivi, radiofonici, 98 Dati relativi al 2013 (Censis-Ucsi, 11° Rapporto sulla comunicazione. L'evoluzione digitale della specie, FrancoAngeli, Milano, 2013)
  • 56. 56 inserzioni su riviste e quotidiani, i vari tipi di advertising su Internet, compreso il “search engine marketing” (SEM), consistente in una forma di marketing online volta ad aumentare la visibilità dell’URL di un sito nei risultati dei motori di ricerca; b. owned media (media di proprietà): si tratta dei canali controllati da una marca, come i siti aziendali, i siti di e- commerce, i blog aziendali, gli advergame e gli ARG (Alternate Reality Gaming)99; c. earned media (media guadagnati): messaggi che circolano al di fuori del controllo dell’azienda e senza l’impiego di costi diretti da parte di questa. Sono rappresentati da comunicazioni via passaparola, fan, follower, like, commenti, 99 Gli advergame rappresentano una modalità di utilizzo del gioco come strumento pubblicitario. “La parola advergame è una crasi tra advertising e game/gaming. Si tratta di giochi interattivi, sviluppati dal 1998 negli Usa, utilizzati per veicolare messaggi pubblicitari, accrescere la brand awareness e generare traffico verso i siti di tipo consumer. Gli advergame sono quindi un’alternativa ai banner e alle forme tradizionali di pubblicità online e permettono di raggiungere, a costi relativamente bassi, milioni di persone, creando esperienze potenzialmente coinvolgenti” (P. Panarese, Quel che resta della pubblicità. La comunicazione di marketing nell’epoca post spot, Fausto Lupetti Editore, Bologna, 2010, p. 241). “Si definisce alternate reality game un’esperienza a carattere ludico o promozionale che crea una realtà alternativa utilizzando diverse piattaforme e richiami sui media tradizionali e digitali” (M. Giovagnoli, Transmedia. Storytelling e comunicazione, Apogeo, Milano, 2013, p. 16). Si tratta di “giochi cross-mediali che mescolano l’esperienza del videogioco con la vita reale in una specie di caccia al tesoro a base di interattività, multimedia e entertainment, realtà e mondi virtuali” (B. Cova, A. Giordano, M. Pallera, Marketing non-convenzionale. Viral, Guerrilla, Tribal e i 10 principi fondamentali del marketing postmoderno, Il Sole 24 ORE, Milano, 2007, p. 245)
  • 57. 57 contenuti condivisi, conversazioni nelle community, link, recensioni, ecc. Figura 3.1 Il modello “Converged Media” di Altimeter Group Nei social media la maggior parte del valore promozionale per le aziende deriva dagli earned e dagli owned media. In generale, è importante che le aziende stabiliscano la comunicazione con il nuovo consumatore connesso adottando un approccio convergente, in cui i messaggi sui diversi tipi di canali (online ma anche tradizionali) siano coerenti e integrati tra loro100. 100 R. Lieb, The Converged Media Imperative: How Brands Will Combine Paid, Owned and Earned Media, Altimeter Group, 2012
  • 58. 58 Le marche acquistano valore sui social media quando riescono a coinvolgere i consumatori (attraverso strategie di marketing relazionale) e quando incoraggiano i consumatori a interagire con loro e a condividere queste interazioni con altri potenziali consumatori. Considerato il potere degli endorsement personalizzati e dei meccanismi del passaparola, quando gli utenti condividono online opinioni positive sui brand, le aziende risultano notevolmente avvantaggiate in termini di “earned reach” (ampiezza e qualità dei contatti con gli utenti). Con le nostre opinioni online su beni e servizi, siamo in grado di influenzare i membri del nostro network nelle loro decisioni d’acquisto. Le conversazioni online sui brand generano le cosiddette “influence impression”101, dalle quali le marche possono trarre giovamento al pari delle impression pubblicitarie. <http://www.altimetergroup.com/2012/07/the-converged-media- imperative/> (ultima consultazione: 23 novembre 2015) 101 I concetti di “influence impression” e “influence post” sono stati introdotti da Forrester Research. Un “influence post” si ha quando un utente condivide un commento su un prodotto o servizio sui social media, che sia un giudizio positivo o una lamentela. Il termine “influence impression” (da “impression”, che nel linguaggio della pubblicità sta per visualizzazione o esposizione al messaggio) indica l’esposizione al brand che avviene attraverso un’altra persona: si verifica quando gli altri vedono o hanno accesso a un influence post. Se una persona ha 500 follower su Twitter e posta un tweet riguardo a un prodotto, quel post ha 500 influence impression potenziali. Questo tipo di impression ha molto valore perché i consumatori si fidano e si lasciano influenzare molto più dalle informazioni che ricevono dai loro conoscenti piuttosto che dai messaggi pubblicitari (A. Ray, Peer Influence Analysis: What It Is & How Marketers Use It, Forrester Research, 20 aprile 2010,
  • 59. 59 Il modello di comunicazione predominante nei mercati attuali appare lontano da quello che abbiamo conosciuto finora, incentrato sul paradigma pubblicitario: i nuovi media e i cambiamenti culturali da essi indotti spingono verso una forma di “mercato post- pubblicitario”, in cui la comunicazione acquista sempre maggiore valore e la pubblicità, pur restando centrale come forma di comunicazione di marketing, sta man mano perdendo la sua posizione dominante. I nuovi media basati sull’interattività costituiscono una minaccia concreta per quel tipo di pubblicità affermatosi per decenni, essendo l’interattività stessa incompatibile con esso102. Il nuovo scenario mediale è pervaso da mezzi e forme comunicative che Marshall McLuhan definirebbe “freddi”103, vale a dire tali da esigere un’elevata partecipazione e un alto grado di coinvolgimento <http://blogs.forrester.com/augie_ray/10-04-20- peer_influence_analysis_what_it_how_marketers_use_it>, ultima consultazione: 28 ottobre 2015) 102 R. Brognara, M. Del Curto, New media & comunicazione di marketing. Verso i mercati post-pubblicitari, FrancoAngeli, Milano, 2009 103 Il concetto di temperatura dei media introdotto da Marshall McLuhan è legato al grado di partecipazione che un mezzo di comunicazione richiede ai suoi fruitori. In tal senso, si definiscono "media caldi" quelli che non esigono una partecipazione attiva da parte di chi li utilizza, mentre i "media freddi" presuppongono una maggiore partecipazione e un più elevato grado di coinvolgimento da parte dei fruitori. Sulla temperatura di un medium incidono il numero dei canali sensoriali impegnati nella sua fruizione e il livello d'intensità o definizione con cui sono costruiti i messaggi. La televisione rappresenta dunque un medium freddo, partecipazionale, mentre la radio è un medium caldo, che può anche fungere da rumore di fondo (M. McLuhan, 1964, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1967)
  • 60. 60 da parte dei destinatari104. Dunque “una campagna che utilizza un mezzo interattivo trascurando di sollecitare la risposta del pubblico è miope e zoppa”105. La pubblicità si trova a operare in un contesto di gran lunga diverso da quello in cui è storicamente cresciuta e si è affermata, un contesto in cui si perdono i tradizionali standard tecnici e strategici della comunicazione di marketing. Basti pensare alla moltiplicazione dei mezzi, che comporta l’impossibilità di costruire e pianificare campagne seguendo logiche di linearità, volte a raggiungere “ipodermicamente”106 i consumatori attraverso uno o più canali. Le audience si moltiplicano e si disperdono su molti canali, diversi sia tra loro che rispetto al passato; ciò rende improponibile la trasmissione di un messaggio unico e indiscriminato. I nuovi pubblici, quelli che si aggregano nelle community online, risultano difficilmente omologabili in target pubblicitari vecchio 104 R. Brognara, M. Del Curto, op. cit. 105 Ivi, p. 18 106 La “teoria ipodermica” (chiamata anche “bullet theory”, teoria del proiettile magico) è la prima teoria elaborata nell’ambito della communication research, risale al periodo delle due guerre mondiali e coincide con la diffusione su larga scala delle comunicazioni di massa, Secondo questo modello, ogni membro del pubblico di massa costituisce un individuo isolato che viene “attaccato” singolarmente e direttamente dai messaggi dei media. La teoria ipodermica sostiene una connessione diretta tra esposizione ai messaggi dei media e comportamenti (in accordo con le contemporanee teorie psicologiche behavioriste dello “stimolo-risposta”), per cui, se un messaggio propagandistico raggiunge i singoli individui all’interno di una massa anonima, esso riuscirà a “inoculare” facilmente il suo contenuto persuasivo (M. Wolf, 1985, Teorie delle comunicazioni di massa, Strumenti Bompiani, Milano, 2001)
  • 61. 61 stampo e faticosamente raggiungibili attraverso gli strumenti di advertising tradizionali107. È l’era della “coda lunga”108, che vede il passaggio da un “mercato di massa” a una “massa di mercati”, o, più precisamente, di nicchie di mercato: [...] la nostra cultura e la nostra economia si stanno affrancando dall’importanza attribuita a un numero relativamente esiguo di hit (prodotti e mercati mainstream), posizionati sulla testa della curva di domanda, e si stanno spostando verso un largo numero di nicchie collocate sulla coda.109 La comunicazione di marca tradizionale si avvia, dunque, verso il tramonto: se per decenni, infatti, il suo approccio si è basato sulla persuasione del pubblico attraverso storie e messaggi accuratamente confezionati e trasmessi tramite i mezzi classici (televisione, radio, giornali, riviste e affissioni), con l’avvento del Web e dei social media le persone hanno dimostrato di non accontentarsi più delle comunicazioni unidirezionali e di non fidarsi più della solita pubblicità. Messaggi “one-way”, ripetitivi, che interrompono fastidiosamente il consumo di altre forme mediali, lasciano il posto, nei nuovi media, a forme di comunicazione multidirezionali, che non interrompono la fruizione di altri contenuti (non a caso si parla oggi di “interruption marketing” in relazione a questo approccio di marketing): per la prima volta, grazie ai nuovi strumenti, c’è la 107 Ibidem 108 C. Anderson, 2006, La coda lunga. Da un mercato di massa a una massa di mercati, Codice edizioni, Torino, 2010 109 Ivi, p. 45
  • 62. 62 possibilità che le comunicazioni di marca siano dialogiche e non intrusive. La sfiducia crescente verso la pubblicità classica si accompagna a una nuova consapevolezza da parte di utenti del Web e consumatori: quella di preferire parlare delle marche piuttosto che recepire automaticamente i loro discorsi. Non funzionano più, quindi, i messaggi intrusivi e declamatori vecchia maniera: a questi le persone preferiscono il parere dei propri amici o di altri consumatori con cui entrano in contatto in Rete. Nei social media è ritornata con nuova forza, dopo essere stata a lungo eclissata dai mezzi di comunicazione di massa, l’antica forma di comunicazione basata sul passaparola, che appare oggi la forma di conversazione privilegiata intorno alle marche. Potendo scegliere, i consumatori preferiscono le conversazioni libere e disinteressate con i propri pari ai tentativi della pubblicità tradizionale di utilizzarli come bersaglio. Anzi, essi sono interessati a discorrere con le marche, ma tale dialogo può funzionare solo se si sottrae alle vecchie regole del marketing110. In questo quadro, in cui il valore del messaggio è sempre più determinato dall’autorevolezza della fonte, è evidente che il discorso reputazionale diventa sempre più centrale per le marche. “Data la nuova realtà determinata dal Web, alle aziende si richiede sempre più di saper progettare, vendere e comunicare col loro pubblico in modi assai diversi dal passato”111. 110 J. Sassoon, Web Storytelling. Costruire storie di marca nei social media, FrancoAngeli, Milano, 2012 111 Ivi, p. 20