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Il Segretario Generale
Roma, 12 aprile 2018
Prot. N. 100/2018
Alla cortese attenzione della
Prof.ssa Annamaria Ajello
Presidente Invalsi
Gentile Presidente,
un recente comunicato stampa della Flc Cgil ha creato qualche sconcerto e qualche polemica sull’Invalsi,
sulla sua funzione, e sul suo futuro. Per fugare dubbi, equivoci, ed evitare ulteriori strumentalizzazioni
vorrei rendere più esplicite le motivazioni delle nostre preoccupazioni sulle tendenze del nostro sistema
nazionale di valutazione che sono il vero oggetto di quel comunicato. Ritengo infatti prioritario discutere
degli obiettivi della valutazione perché se è sempre più importante avere informazioni precise che
possano evidenziare anche le tendenze della nostra scuola, il loro utilizzo non è indifferente. Un ente di
ricerca riconosciuto, autonomo dal decisore politico con una comunità scientifica interna viva e partecipe
delle sue scelte, come lo è l’Invalsi, è per noi il più prezioso degli alleati. In questi anni abbiamo
contribuito in modo determinante per fare passi in avanti in questa direzione. Continueremo a farlo anche
nei prossimi a prescindere dal colore dei governi.
Parto da un presupposto. La scuola italiana non sta affatto bene. Gli episodi di violenza degli ultimi giorni
lo confermano. Non sono casi isolati, ormai. È venuta meno da tempo, la distinzione che pure fonda i
sistemi dell'istruzione: da un lato la costruzione dei limiti educativi da parte delle famiglie che
consegnavano alle scuole bambini e adolescenti abituati al no e al rispetto delle regole; dall'altro lato la
funzione centrale della scuola identificata correttamente e prioritariamente come agenzia di acquisizione
dei saperi e della conoscenza.
Ma la scuola non sta affatto bene perché non sta affatto bene la nostra società.
Il fatto che le disuguaglianze in questi anni siano cresciute insieme ai divari territoriali è incontestabile.
Non è un fenomeno che caratterizza solo il nostro Paese ma possiamo dire che da noi l’accelerazione di
questo processo è avvenuta maggiormente negli anni della crisi anche a causa delle nostre specificità, a
partire dalla frattura tra Nord e Sud. L’indice di Gini e le sue variazioni lo dimostrano chiaramente.
Se la vera emergenza della nostra epoca sono le disuguaglianze sociali che rilevano diversamente nel
territorio nazionale allora per contrastarle bisogna investire sull’istruzione che insieme al rafforzamento
dei nostri sistemi di welfare, alla creazione di lavoro e a politiche redistributive rappresenta il primo
argine alla deriva attuale.
Ma in che modo investire e con quali finalità? Quale deve essere oggi la missione della scuola italiana? A
quale modello di società deve guardare? Le riforme degli ultimi 20 anni a che modello di scuola e di
società hanno guardato?
La pedagogia democratica degli anni ’60 cambiò la scuola italiana soprattutto quella dell’infanzia e delle
elementari. Basta pensare che sulla base di quella spinta la nostra scuola primaria, nonostante i tagli, è
ancora oggi una delle migliori del mondo, il primo presidio dell’accoglienza e dell’integrazione che grazie
alle nostre maestre e ai nostri pochi maestri (sul loro esiguo numero molto avremmo da dire ma non è
questa la sede) costruisce davvero la cittadinanza democratica di tutte e tutti. Quel prezioso sapere
pedagogico non voleva il mondo così com’è, cristallizzato nelle sue ingiustizie ma voleva cambiarlo
partendo dalla scuola. Da quell’epoca sono passati molti anni, le domande che la società pone alla scuola
sono in parte diverse ma c’è un tratto che accomuna il 1968 al 2018: dopo un periodo in cui la forbice
Il Segretario Generale
sociale si era ridotta, oggi siamo molto più vicini alla società classista che le riforme della scuola di
quell’epoca puntavano a mettere in discussione.
Oggi serve ancora di più comprendere che il sapere è il presupposto per la costruzione di una cittadinanza
democratica, per realizzare l’obiettivo di una società aperta e inclusiva capace di accrescere le capacità di
ciascuno per dirla con Amartya Sen. Lo studio, la scuola, l’università sono parte del riscatto sociale, sono
strumenti indispensabili per la comprensione del mondo, di socializzazione democratica, perché educano
al sapere critico. La scuola non deve educare il capitale umano, non è un luogo di addestramento al
lavoro così com’è; non può sottrarsi alla missione di costruire esperienze di apprendimento per la vita
conoscitiva e per la libera intelligenza degli studenti; deve impegnarsi a superare le diseguaglianze e non
a moltiplicarle. Bisognerebbe, quindi, porsi innanzitutto il problema di come intervenire sulle criticità vere
della scuola; quelle, ad esempio, delle transizioni difficili che richiederebbero sì, un ripensamento dei cicli
ma nell’ottica di rafforzare il raccordo tra i diversi ordini di scuole riaprendo una vera discussione sul ciclo
unico di base, e non della riduzione della durata dei licei. Oppure sui tassi altissimi di dispersione e di
abbandoni del mezzogiorno che richiederebbero un investimento straordinario nel tempo scuola perché i
bambini e le bambine devono avere gli stessi diritti ovunque a prescindere da dove nascono. Sulla
necessità di ripensare la stessa scuola delle discipline in un mondo dove i saperi più importanti sono quelli
interdisciplinari. Ma la scuola ha anche bisogno di riflettere su stessa, di recuperare il gusto della
discussione pedagogica, di interrogarsi autenticamente su come rispondere alle domande di una
generazione nativa di una società dove i linguaggi sono totalmente diversi da quella in cui noi siamo
cresciuti e ci siamo formati. Perché la scuola così com’è non va bene e va cambiata.
Questo è solo un punto di vista su quello che servirebbe alla scuola italiana.
Tuttavia, a prescindere dai punti di vista, le politiche sulla scuola per essere credibili devono fondarsi sulla
conoscenza della scuola, su informazioni, dati. Dopo anni difficili, sulla conoscenza della scuola si è
iniziato a fare un investimento partendo dall’INVALSI. Come è avvenuto anche in altri paesi, l’utilizzo dei
sistemi di valutazione da parte del decisore politico non è neutro, come neutre non sono le metodologie
che si utilizzano nei processi di valutazione. Si può decidere che la valutazione serve per individuare e
raccontare le debolezze della nostra scuola e per correggerle nell’ottica che proponevo oppure si può
optare, come avvenuto in altri paesi, per modelli che puntano ad offrire informazioni utili alle famiglie per
scegliere la scuola a loro più affine come in quelli della school choice. Modelli che aggravano le
disuguaglianze, come dimostrano anche in questi giorni le imponenti e inedite mobilitazioni degli
insegnanti e degli studenti in molti stati degli USA e in UK.
L’impressione è che nel nostro paese in molti stiano silenziosamente puntando su questo modello.
L’esempio del Rav è emblematico. Più volte abbiamo ribadito (da ultimo, in un lungo articolo pubblicato
da Huffington Post l’8 aprile scorso) in modo netto la nostra posizione, che qui sintetizzo: le scuole
avrebbero dovuto fare un uso del Rapporto di autovalutazione (RAV) di tipo diagnostico, per individuare
obiettivi e priorità d'azione. Dunque, utilizzarlo come punto di partenza per definire un piano di
miglioramento. E farne un uso solo interno. Invece, com'è noto, è diventato uno strumento di
"rendicontazione" come si chiama in gergo. Infatti, attraverso il Portale scuola in chiaro è possibile, con
una ricerca per nome, accedere a molte informazioni su una scuola specifica, oltre a leggere il Rav e gli
indicatori a esso connessi. Tale scelta che va nella direzione dell'utilizzo all'esterno di queste informazioni
non ha molti eguali. Di fatto, si tratta della school choice.
Questo è il problema che noi poniamo. Non solo non mettiamo in dubbio la necessità di un ente di ricerca
come l’Invalsi ma evidenziamo che serve, semmai, un ente con un più alto grado di autonomia nei
confronti del Ministero e in particolare del suo apparato amministrativo.
Il fatto che le prove siano poi diventate così significative, diventando la parte più corposa della
certificazione delle competenze al termine del primo ciclo di istruzione è una scelta che consideriamo
totalmente sbagliata, perché tende a svuotare la scuola di una delle sue funzioni principali in una
stagione in cui il ruolo e la dignità sociale degli insegnanti andrebbero rafforzati, come i fatti di cronaca
dimostrano.
Il Segretario Generale
Rispetto alla critica che ho mosso al metodo censuario mi è stato fatto prontamente notare da alcuni
ricercatori Invalsi, che grazie alle prove a tappeto, è possibile evidenziare i divari. Quindi, chiedere le
prove a campione da parte nostra si porrebbe in contraddizione con uno degli obiettivi più importanti che
dichiariamo debba deve avere il sistema nazionale di valutazione: aiutare a costruire una scuola che
argini le disuguaglianze suggerendo dove intervenire al decisore politico. Siamo pronti a confrontarci su
questo punto. Sappiamo che per studiare la distribuzione della povertà si fa un campionamento.
Comprendiamo però anche la rilevanza che le prove somministrate censuariamente possano avere
nell’evidenziare i livelli che ciascuno studente raggiunge nelle competenze considerate fondamentali.
Possibile base per indurre il decisore politico ad intervenire, laddove questi livelli non fossero raggiunti,
attraverso azioni di discriminazione positiva. Se, quindi, si difende questa metodologia perché consente
una restituzione riflessiva alle scuole, questo significa che non può e non deve servire a costruire
classifiche tra scuole. Non solo non deve farlo il Miur ma nessun soggetto pubblico o privato. Oggi, dal
portale Scuole in chiaro senza neanche troppo sforzo, è possibile procedere ad una vera e propria
classifica. A mio avviso, di fronte ad una regressione alfabetica di ampie fasce della popolazione, al
persistere di elevatissimi tassi di dispersione e abbandono, alla difficoltà non risolta di tutte le transizioni
che colpiscono i più deboli, alla priorità assoluta di costruire inclusione, integrazione e nuova cittadinanza
dobbiamo tornare a porci una domanda di fondo, la stessa che si poneva ormai cinquanta anni fa la
pedagogia democratica, sulla spinta delle straordinarie e profetiche provocazioni di Don Milani: se il
sapere è solo quello dei libri, “chi ha tanti libri a casa sarà sempre più avanti di chi i libri non li ha mai
visti”. Anche oggi chi ha tanti libri in casa è quello che potrà sempre scegliere la scuola migliore sulla
base delle informazioni che riceve dalla “rendicontazione” dei risultati dei test e delle diverse forme di
valutazione. Non è questa la ricetta per la scuola italiana.
Distinti saluti.
Il Segretario generale FLC CGIL
Francesco Sinopoli

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P100 2018 flc cgil lettera invalsi

  • 1. Il Segretario Generale Roma, 12 aprile 2018 Prot. N. 100/2018 Alla cortese attenzione della Prof.ssa Annamaria Ajello Presidente Invalsi Gentile Presidente, un recente comunicato stampa della Flc Cgil ha creato qualche sconcerto e qualche polemica sull’Invalsi, sulla sua funzione, e sul suo futuro. Per fugare dubbi, equivoci, ed evitare ulteriori strumentalizzazioni vorrei rendere più esplicite le motivazioni delle nostre preoccupazioni sulle tendenze del nostro sistema nazionale di valutazione che sono il vero oggetto di quel comunicato. Ritengo infatti prioritario discutere degli obiettivi della valutazione perché se è sempre più importante avere informazioni precise che possano evidenziare anche le tendenze della nostra scuola, il loro utilizzo non è indifferente. Un ente di ricerca riconosciuto, autonomo dal decisore politico con una comunità scientifica interna viva e partecipe delle sue scelte, come lo è l’Invalsi, è per noi il più prezioso degli alleati. In questi anni abbiamo contribuito in modo determinante per fare passi in avanti in questa direzione. Continueremo a farlo anche nei prossimi a prescindere dal colore dei governi. Parto da un presupposto. La scuola italiana non sta affatto bene. Gli episodi di violenza degli ultimi giorni lo confermano. Non sono casi isolati, ormai. È venuta meno da tempo, la distinzione che pure fonda i sistemi dell'istruzione: da un lato la costruzione dei limiti educativi da parte delle famiglie che consegnavano alle scuole bambini e adolescenti abituati al no e al rispetto delle regole; dall'altro lato la funzione centrale della scuola identificata correttamente e prioritariamente come agenzia di acquisizione dei saperi e della conoscenza. Ma la scuola non sta affatto bene perché non sta affatto bene la nostra società. Il fatto che le disuguaglianze in questi anni siano cresciute insieme ai divari territoriali è incontestabile. Non è un fenomeno che caratterizza solo il nostro Paese ma possiamo dire che da noi l’accelerazione di questo processo è avvenuta maggiormente negli anni della crisi anche a causa delle nostre specificità, a partire dalla frattura tra Nord e Sud. L’indice di Gini e le sue variazioni lo dimostrano chiaramente. Se la vera emergenza della nostra epoca sono le disuguaglianze sociali che rilevano diversamente nel territorio nazionale allora per contrastarle bisogna investire sull’istruzione che insieme al rafforzamento dei nostri sistemi di welfare, alla creazione di lavoro e a politiche redistributive rappresenta il primo argine alla deriva attuale. Ma in che modo investire e con quali finalità? Quale deve essere oggi la missione della scuola italiana? A quale modello di società deve guardare? Le riforme degli ultimi 20 anni a che modello di scuola e di società hanno guardato? La pedagogia democratica degli anni ’60 cambiò la scuola italiana soprattutto quella dell’infanzia e delle elementari. Basta pensare che sulla base di quella spinta la nostra scuola primaria, nonostante i tagli, è ancora oggi una delle migliori del mondo, il primo presidio dell’accoglienza e dell’integrazione che grazie alle nostre maestre e ai nostri pochi maestri (sul loro esiguo numero molto avremmo da dire ma non è questa la sede) costruisce davvero la cittadinanza democratica di tutte e tutti. Quel prezioso sapere pedagogico non voleva il mondo così com’è, cristallizzato nelle sue ingiustizie ma voleva cambiarlo partendo dalla scuola. Da quell’epoca sono passati molti anni, le domande che la società pone alla scuola sono in parte diverse ma c’è un tratto che accomuna il 1968 al 2018: dopo un periodo in cui la forbice
  • 2. Il Segretario Generale sociale si era ridotta, oggi siamo molto più vicini alla società classista che le riforme della scuola di quell’epoca puntavano a mettere in discussione. Oggi serve ancora di più comprendere che il sapere è il presupposto per la costruzione di una cittadinanza democratica, per realizzare l’obiettivo di una società aperta e inclusiva capace di accrescere le capacità di ciascuno per dirla con Amartya Sen. Lo studio, la scuola, l’università sono parte del riscatto sociale, sono strumenti indispensabili per la comprensione del mondo, di socializzazione democratica, perché educano al sapere critico. La scuola non deve educare il capitale umano, non è un luogo di addestramento al lavoro così com’è; non può sottrarsi alla missione di costruire esperienze di apprendimento per la vita conoscitiva e per la libera intelligenza degli studenti; deve impegnarsi a superare le diseguaglianze e non a moltiplicarle. Bisognerebbe, quindi, porsi innanzitutto il problema di come intervenire sulle criticità vere della scuola; quelle, ad esempio, delle transizioni difficili che richiederebbero sì, un ripensamento dei cicli ma nell’ottica di rafforzare il raccordo tra i diversi ordini di scuole riaprendo una vera discussione sul ciclo unico di base, e non della riduzione della durata dei licei. Oppure sui tassi altissimi di dispersione e di abbandoni del mezzogiorno che richiederebbero un investimento straordinario nel tempo scuola perché i bambini e le bambine devono avere gli stessi diritti ovunque a prescindere da dove nascono. Sulla necessità di ripensare la stessa scuola delle discipline in un mondo dove i saperi più importanti sono quelli interdisciplinari. Ma la scuola ha anche bisogno di riflettere su stessa, di recuperare il gusto della discussione pedagogica, di interrogarsi autenticamente su come rispondere alle domande di una generazione nativa di una società dove i linguaggi sono totalmente diversi da quella in cui noi siamo cresciuti e ci siamo formati. Perché la scuola così com’è non va bene e va cambiata. Questo è solo un punto di vista su quello che servirebbe alla scuola italiana. Tuttavia, a prescindere dai punti di vista, le politiche sulla scuola per essere credibili devono fondarsi sulla conoscenza della scuola, su informazioni, dati. Dopo anni difficili, sulla conoscenza della scuola si è iniziato a fare un investimento partendo dall’INVALSI. Come è avvenuto anche in altri paesi, l’utilizzo dei sistemi di valutazione da parte del decisore politico non è neutro, come neutre non sono le metodologie che si utilizzano nei processi di valutazione. Si può decidere che la valutazione serve per individuare e raccontare le debolezze della nostra scuola e per correggerle nell’ottica che proponevo oppure si può optare, come avvenuto in altri paesi, per modelli che puntano ad offrire informazioni utili alle famiglie per scegliere la scuola a loro più affine come in quelli della school choice. Modelli che aggravano le disuguaglianze, come dimostrano anche in questi giorni le imponenti e inedite mobilitazioni degli insegnanti e degli studenti in molti stati degli USA e in UK. L’impressione è che nel nostro paese in molti stiano silenziosamente puntando su questo modello. L’esempio del Rav è emblematico. Più volte abbiamo ribadito (da ultimo, in un lungo articolo pubblicato da Huffington Post l’8 aprile scorso) in modo netto la nostra posizione, che qui sintetizzo: le scuole avrebbero dovuto fare un uso del Rapporto di autovalutazione (RAV) di tipo diagnostico, per individuare obiettivi e priorità d'azione. Dunque, utilizzarlo come punto di partenza per definire un piano di miglioramento. E farne un uso solo interno. Invece, com'è noto, è diventato uno strumento di "rendicontazione" come si chiama in gergo. Infatti, attraverso il Portale scuola in chiaro è possibile, con una ricerca per nome, accedere a molte informazioni su una scuola specifica, oltre a leggere il Rav e gli indicatori a esso connessi. Tale scelta che va nella direzione dell'utilizzo all'esterno di queste informazioni non ha molti eguali. Di fatto, si tratta della school choice. Questo è il problema che noi poniamo. Non solo non mettiamo in dubbio la necessità di un ente di ricerca come l’Invalsi ma evidenziamo che serve, semmai, un ente con un più alto grado di autonomia nei confronti del Ministero e in particolare del suo apparato amministrativo. Il fatto che le prove siano poi diventate così significative, diventando la parte più corposa della certificazione delle competenze al termine del primo ciclo di istruzione è una scelta che consideriamo totalmente sbagliata, perché tende a svuotare la scuola di una delle sue funzioni principali in una stagione in cui il ruolo e la dignità sociale degli insegnanti andrebbero rafforzati, come i fatti di cronaca dimostrano.
  • 3. Il Segretario Generale Rispetto alla critica che ho mosso al metodo censuario mi è stato fatto prontamente notare da alcuni ricercatori Invalsi, che grazie alle prove a tappeto, è possibile evidenziare i divari. Quindi, chiedere le prove a campione da parte nostra si porrebbe in contraddizione con uno degli obiettivi più importanti che dichiariamo debba deve avere il sistema nazionale di valutazione: aiutare a costruire una scuola che argini le disuguaglianze suggerendo dove intervenire al decisore politico. Siamo pronti a confrontarci su questo punto. Sappiamo che per studiare la distribuzione della povertà si fa un campionamento. Comprendiamo però anche la rilevanza che le prove somministrate censuariamente possano avere nell’evidenziare i livelli che ciascuno studente raggiunge nelle competenze considerate fondamentali. Possibile base per indurre il decisore politico ad intervenire, laddove questi livelli non fossero raggiunti, attraverso azioni di discriminazione positiva. Se, quindi, si difende questa metodologia perché consente una restituzione riflessiva alle scuole, questo significa che non può e non deve servire a costruire classifiche tra scuole. Non solo non deve farlo il Miur ma nessun soggetto pubblico o privato. Oggi, dal portale Scuole in chiaro senza neanche troppo sforzo, è possibile procedere ad una vera e propria classifica. A mio avviso, di fronte ad una regressione alfabetica di ampie fasce della popolazione, al persistere di elevatissimi tassi di dispersione e abbandono, alla difficoltà non risolta di tutte le transizioni che colpiscono i più deboli, alla priorità assoluta di costruire inclusione, integrazione e nuova cittadinanza dobbiamo tornare a porci una domanda di fondo, la stessa che si poneva ormai cinquanta anni fa la pedagogia democratica, sulla spinta delle straordinarie e profetiche provocazioni di Don Milani: se il sapere è solo quello dei libri, “chi ha tanti libri a casa sarà sempre più avanti di chi i libri non li ha mai visti”. Anche oggi chi ha tanti libri in casa è quello che potrà sempre scegliere la scuola migliore sulla base delle informazioni che riceve dalla “rendicontazione” dei risultati dei test e delle diverse forme di valutazione. Non è questa la ricetta per la scuola italiana. Distinti saluti. Il Segretario generale FLC CGIL Francesco Sinopoli