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Federico Giannini
Federico Barocci
eBook per l'Arte
un'iniziativa
© 2011 eBook per l'Arte – Federico Giannini
Prima Edizione 2011
Licenza
Creative Commons 3.0 – Attribuzione - Non commerciale – No opere deri-
vate
http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/
In copertina
Federico Barocci, Deposizione
Perugia, Cattedrale di San Lorenzo
I titoli di opere d'arte sottolineati e colorati in blu sono cliccabili: si aprirà
l'immagine dell'opera (necessaria connessione a internet).
Ci aveva visto molto bene Michelangelo quando, ormai alla fine
della sua carriera e della sua esistenza, a Roma notò un Federico
Barocci poco più che ventenne che disegnava in compagnia di Taddeo
Zuccari, e dopo aver visto quegli schizzi lo lodò inanimandolo a
proseguire gli studi incominciati, come racconta Giovan Pietro Bello-
ri. Non poteva esserci inizio migliore per la carriera di quel giovane
che lasciò presto la capitale dello Stato Pontificio per ritirarsi nella
sua patria, Urbino, in una sorta di autoisolamento che tuttavia non
gli impedì di ottenere fama in tutta Europa e di diventare uno dei
pittori più influenti del suo tempo.
Non si sa bene per quale motivo se ne sia partito in tutta fretta da
Roma: lui sosteneva di essere stato avvelenato da colleghi invidiosi.
Chissà se fu davvero così o se erano soltanto le paure di un uomo dal
carattere molto fragile: non si sa ancora niente di sicuro. Ma certo è
che anche agli occhi dei suoi contemporanei e dei suoi biografi, Fede-
rico Barocci doveva apparire come una persona estremamente sensi-
bile, dal temperamento difficile, chiuso e solitario. Un temperamento
che condizionò anche il suo lavoro, perché è diventata famosa la
quasi proverbiale lentezza con cui conduceva a termine i suoi dipinti
e a causa della quale faceva aspettare anche diversi anni i committen-
ti: lentezza dovuta in parte alle asperità del suo carattere, ma in parte
anche all'elevatissima cura che dedicava a ogni singola composizione,
e la grande quantità di disegni che di lui ci è rimasta è lì a testimonia-
re questo aspetto della sua arte.
Ma nonostante tutto ciò fu un uomo buono, altruista e fortemente
stimato da tutti coloro con cui si trovò a intrattenere rapporti di lavo-
ro. Non però si guidò mai con l'avarizia, ma solo faceva stima della
sua riputazione; dipingeva nobilmente per l'onore, non mancando a
studio o fatica […]. Circa li costumi non avresti ripreso in lui cosa
minima alcuna; era principalmente caritativo verso i poveri, bene-
fico con tutti, affabile ed umile nel conversare. Così lo descriveva
ancora Giovan Pietro Bellori, che nelle sue Vite dedica una sezione
molto ampia a Federico Barocci: un'ulteriore attestazione di quanto
importante fosse la sua personalità.
Federico Barocci è passato alla storia dell'arte come il maggior
interprete della pittura controriformistica. Ma si tratta di una defini-
4
zione piuttosto riduttiva, perché non dà idea del fascino che esercita-
no le sue meravigliose opere d'arte sugli osservatori. La sua produzio-
ne è costituita quasi esclusivamente da temi a soggetto sacro e, se si
escludono i ritratti, l'unico dipinto a soggetto profano è la Fuga di
Enea da Troia. Ma la bellezza, la raffinatezza, il lirismo delle compo-
sizioni baroccesche fanno apparire i personaggi della sfera religiosa
sotto una luce diversa: la Madonna dell'Annunciazione della Pinaco-
teca Vaticana o della Basilica di Santa Maria degli Angeli ci sembra
una ragazzina timida, le Maddalene sono sempre bellissime e delica-
te, la Sacra Famiglia della Madonna del gatto o della Madonna delle
ciliegie sembra quasi non aver niente di sacro tanta è la dimensione
di quotidianità e intimità che caratterizza queste scene. E a far da
contorno a questi personaggi troviamo in molte opere un'umanità
viva, colta in una grande varietà di pose e di espressioni: è il caso, per
esempio, della Madonna del popolo, dove è proprio il popolo a otte-
nere il ruolo di protagonista principale del dipinto, ancor più dei
personaggi appartenenti al mondo ultraterreno. È un'arte che suscita
emozioni, che colpisce, e in certi momenti si ha quasi l'impressione di
dimenticare che quelle a cui si assiste sono scene tratte dal repertorio
della religione, tanta è la meraviglia che si prova davanti a questi
capolavori.
E come tralasciare i ritratti di Federico Barocci, così realistici e
naturali, così eleganti e accurati? Studiando le opere di Tiziano che
abbellivano le sale del Palazzo Ducale, Federico creava ritratti splen-
didi, che ci dànno un'ulteriore idea della sua sapienza e della sua
immensa abilità tecnica. E un'altra presenza costante nella sua arte è
proprio il Palazzo Ducale di Urbino, raffigurato in moltissime opere
così come il pittore lo vedeva dalla finestra della sua casa, sullo sfon-
do delle colline marchigiane: rappresentazioni che più di ogni scritto
e più di ogni documento forniscono prove di quello stretto rapporto
che Federico Barocci aveva con la sua città natale.
E infine, tutti coloro che osservano le opere di Federico Barocci,
anche per la prima volta, rimangono colpiti dai suoi colori: non è un
caso se la grande mostra monografica che si è tenuta a Siena tra la
fine del 2009 e gli inizi del 2010 definiva, nel titolo, la pittura di
Federico Barocci come “l'incanto del colore”. Sono proprio quei bril-
lanti, vivaci e luminosi colori di derivazione correggesca una delle
5
peculiarità salienti dell'arte di Federico Barocci: le sue opere sono un
tripudio di gialli, arancioni, azzurrini, verdi, violetti declinati sempre
diversamente e declinati in modo da stupire e da coinvolgere in modo
sempre più avvincente l'osservatore.
Un coinvolgimento che diventa assoluto quando si osserva la
Deposizione di Perugia, dipinto che più di ogni altro cattura chi lo
ammira con le sue incredibile variazioni cromatiche, con la sua lumi-
nosità, con il suo dinamismo. È impossibile pensare ad altro quando
si osserva la Deposizione di Federico Barocci, e per provare queste
sensazioni è necessario osservare dal vivo questa grandiosa tela. Un
dipinto emozionante, una sinfonia di colori che avvolge l'osservatore
come una straordinaria e magica melodia.
Sì, perché per Federico Barocci pittura e musica si equivalgono: il
pittore è come un musicista, accosta i toni come il musicista esegue
gli accordi, e dal momento che l'udito trae diletto ascoltando una
bella melodia, così anche la vista deve trarre piacere dall'armonia dei
colori e dei lineamenti. Bellori racconta che un giorno, mentre dipin-
geva, gli si accostò il suo mecenate Guidobaldo II Della Rovere, duca
di Urbino, e gli chiese cosa stesse facendo. E facendogli vedere il
quadro, Federico rispose: “sto accordando questa musica”.
6
Indice
I. Profilo biografico 9
II. Le opere 29
III. L'eredità di Federico Barocci 90
IV. Bibliografia di riferimento 97
I. Profilo biografico
Potrebbe risultare difficile pensare che un pittore che non si mosse
quasi mai dalla sua città natale sarebbe poi diventato uno degli artisti
più influenti della sua epoca: così è per Federico Barocci, che trascor-
se pressoché tutta la sua esistenza a Urbino, dove nacque tra il secon-
do e il terzo decennio del Cinquecento.
La data di nascita è stata a lungo oggetto di dibattito tra gli studio-
si, perché il suo primo biografo importante, Giovan Pietro Bellori
(1613 – 1696), indica il 1528 come anno in cui il pittore vede la luce.
Ne consegue che altri che in seguito scrissero su Barocci presero per
buona questa come data di nascita. Studi risalenti al Novecento e
condotti, tra gli altri, da Harald Olsen, Edmund Pillsbury e Andrea
Emiliani, spostano la data al 1535, in seguito alla scoperta di un
importante documento: Francesco Maria II Della Rovere, duca di
Urbino che, come vedremo nel prosieguo della trattazione, diventò
un punto di riferimento importante per l'arte di Barocci, annotava in
un suo diario la scomparsa del pittore, avvenuta nel 1612, scrivendo
che il pittore aveva all'epoca settantasette anni. Al giorno d'oggi
sembra essere proprio questa la data di nascita più corretta, in ragio-
ne del fatto che la fonte da cui la data viene tratta risulta di gran
lunga più attendibile rispetto all'altra.
Ma non è solo la data di nascita a creare qualche piccolo problema:
c'è anche il cognome del pittore. Proprio sul cognome c'è grande con-
fusione, perché nelle fonti l'artista viene citato come “Federico Baroc-
ci” ma spesso anche come “Federico Fiori”, quindi al giorno d'oggi,
anche navigando sul web, si può constatare come molti siti e molti
libri parlano di “Federico Barocci detto il Fiori” e tanti altri parlano di
“Federico Fiori detto il Barocci”. C'è da notare che il pittore spesso
firmava i suoi dipinti, ed era solito farlo con la dicitura FEDERICUS
BAROCIUS URBINAS FACIEBAT, seguita dalla data. Sempre Olsen, uno dei
più autorevoli studiosi novecenteschi di Federico Barocci, dice che il
vero nome era proprio Barocci e che la dicitura “Fiori” era totalmente
sconosciuta ai contemporanei dal momento che appare soltanto a
partire da documenti settecenteschi.
La famiglia di Federico era di origini lombarde, e sappiamo che un
suo antenato, Ambrogio Barocci, di professione scultore, si era trasfe-
rito nel piccolo ducato negli anni Settanta del Quattrocento, forse at-
tratto dalle prospettive di guadagno che la corte di Urbino poteva of-
10
frire. Troviamo questa notizia ancora nelle Vite di Giovan Pietro Bel-
lori: stando alla ricostruzione dello storico romano, Ambrogio sareb-
be stato il bisnonno di Federico, e il padre del nostro artista si chia-
mava anch'egli Ambrogio. Quest'ultimo svolgeva la professione di
modellatore, occupandosi di rilievo, modelli, sigilli, ed astrolabi.
Nell'anno in cui nacque Federico Barocci, il ducato di Urbino era
retto da Francesco Maria I Della Rovere (1490 – 1538): questi era
salito al potere nel 1508, dopo che il suo predecessore, Guidobaldo I
da Montefeltro (1472 – 1508), figlio di quel Federico III (1422 –
1482) noto per essere stato uno dei più grandi mecenati del Rinasci-
mento e per essere stato ritratto da Piero della Francesca, era scom-
parso senza lasciare eredi e facendo estinguere la famiglia dei Monte-
feltro. Francesco fu indicato come suo successore proprio da Guido-
baldo, che era suo zio, e governò fino al 1538, fatta eccezione per una
breve interruzione tra il 1516 e il 1521: nel 1516 infatti Lorenzo II de'
Medici, noto per essere il dedicatario del Principe di Niccolò Machia-
velli, riuscì a spodestare il Della Rovere, che recuperò il ducato solo
qualche anno dopo, in seguito alla scomparsa di papa Leone X Medi-
ci, che aveva favorito Lorenzo II durante le lotte per la conquista di
Urbino.
Nel 1539 Francesco scomparve e lasciò il ducato nelle mani di
Guidobaldo II Della Rovere: ci troviamo negli anni della formazione
di Federico Barocci, e il ducato di Urbino, dopo le lotte del secondo
decennio del Cinquecento, conosce un rinnovato periodo di splendo-
re culturale. In seguito all'esperienza quattrocentesca dei Montefeltro
(soprattutto di Federico III), i Della Rovere vollero porre le basi per
fare di nuovo di Urbino uno dei poli artistici e intellettuali più impor-
tanti della penisola. La piccola corte marchigiana tornava a vivere gli
splendori del primo Rinascimento, frequentata da artisti e letterati
(un nome su tutti: Baldassarre Castiglione), diventando così un ecce-
zionale centro di cultura umanistica, forte anche dei rapporti che il
ducato aveva con lo Stato Pontificio: non bisogna dimenticare che tra
il 1503 e il 1513 il papa fu Giulio II, al secolo Giuliano Della Rovere.
Un'importanza culturale sancita anche dalla nascita, nel 1506, dell'U-
niversità: il primo nucleo fu istituito per merito di Guidobaldo da
Montefeltro, e negli anni successivi, sotto il dominio dei Della Rove-
re, furono ampliate le prerogative del nuovo ateneo, che andò così
11
acquistando sempre maggior prestigio.
Per quanto riguarda l'arte, sarebbe quasi sufficiente dire che a
Urbino nacque, nel 1483, Raffaello: il suo genio fu stimolato dall'at-
mosfera raffinata che poteva respirare alla corte, per la quale lavora-
va il padre Giovanni, nonché dalle grandi opere realizzate dai maestri
che operarono per i Montefeltro nel Quattrocento. Ma parlare solo di
Raffaello sarebbe riduttivo, perché furono moltissimi gli artisti che
ebbero i natali nelle terre del ducato o che nel corso della loro carrie-
ra si trovarono ad aver a che fare con la corte urbinate.
Tra gli artisti molto legati ai Della Rovere troviamo Tiziano (1488
ca. – 1576), che ricevette diverse commissioni da parte di Francesco
Maria prima e da Guidobaldo poi: il ritratto più famoso di Francesco
Maria, quello conservato agli Uffizi che ritrae il duca in armatura, fu
realizzato proprio dal pittore cadorino, che sempre per Francesco
eseguì anche altri dipinti tra cui il ritratto della moglie Eleonora
Gonzaga e il Cristo conservato a Palazzo Pitti. Per Guidobaldo invece
realizzò nel 1538 quello che forse è uno dei dipinti più famosi e
discussi del mondo, la Venere di Urbino, che arrivò a Firenze nel 1631
insieme a Vittoria Della Rovere (1622 – 1694), discendente dei duchi
di Urbino, andata in sposa nel 1634 (all'età di dodici anni) a Ferdi-
nando II de' Medici (1610 – 1670): in seguito alla scomparsa, proprio
nel 1631, dell'ultimo duca Francesco Maria II (1549 – 1631), il ducato
si estinse e fu annesso allo Stato Pontificio, ma le collezioni artistiche
furono lasciate a Vittoria. Si spiega così perché oggi troviamo nei
musei fiorentini moltissime delle opere realizzate per la corte di Urbi-
no.
Tra gli altri artisti che, in un modo o nell'altro, furono legati ai
Della Rovere è necessario citare il Bronzino (1503 – 1572), che duran-
te gli anni della sua formazione soggiornò per un breve periodo nel
Ducato e di cui si ricorda il famoso ritratto di Guidobaldo II, conser-
vato a Palazzo Pitti, e Dosso Dossi (1486 – 1542), che per Francesco
Maria I affrescò la Camera delle Cariatidi nella Villa Imperiale di
Pesaro, città che i Della Rovere avevano fatto diventare una seconda
capitale del ducato e dove programmarono diversi interventi urbani-
stici e culturali, vista anche la posizione sul mare della città, più favo-
revole ai rapporti commerciali con gli altri stati.
Infine è necessario citare tre artisti dai nomi meno famosi ma che
12
furono decisivi per l'iniziale formazione di Federico Barocci: Girola-
mo Genga, Francesco Menzocchi e Battista Franco. Il primo, nato a
Urbino (1476 – 1551), fu non soltanto pittore ma anche scultore e
architetto, ed è interessante notare che la sua famiglia era legata ai
Barocci da vincoli di parentela. Il figlio di Girolamo, Bartolomeo
(1518 – 1558), era infatti lo zio di Federico Barocci, e nel 1551 diventò
responsabile delle fabbriche ducali, un ruolo di grande prestigio che
ricoprì fino al 1558, anno della sua scomparsa. Francesco Menzocchi
(1502 – 1574), pittore di origini romagnole (nacque a Forlì), lavorò
nei primi anni della sua carriera nella città natale, e in seguito, tra la
fine degli anni Venti e l'inizio degli anni Trenta del Cinquecento, si
trasferì a Pesaro per lavorare presso la già citata Villa Imperiale e
tornò poi nel Ducato più avanti nel corso della sua carriera.
Battista Franco (1498 – 1561) proveniva invece da Venezia ed è
noto per essere stato, oltre a un importante pittore manierista, anche
il più grande e fedele “ammiratore” di Michelangelo: dopo aver cono-
sciuto a Roma le opere del genio di Caprese ne rimase impressionato
a tal punto da dedicare una buona parte delle sue energie alla copia
delle opere del Buonarroti. È famosa la frase di Giorgio Vasari su
Battista Franco, che dà un'idea della carica di “venerazione” del pitto-
re nei confronti di Michelangelo: non rimase schizzo, bozza o cosa
non che altro stata ritratta da Michelagnolo, che egli non disegnas-
se. Battista Franco arrivò a Urbino negli anni Quaranta del Cinque-
cento, grazie all'intercessione di Bartolomeo Genga che lo raccoman-
dò a Guidobaldo Della Rovere: il pittore veneziano fu incaricato di
eseguire alcuni affreschi all'interno del Duomo di Urbino.
Furono questi gli artisti, come detto, importanti per la formazione
di Federico Barocci, e bisogna aggiungere il fatto che anche la sua era
una famiglia di artisti: un particolare di non poco conto, visto che
grazie alla famiglia compì i suoi primi passi in ambito artistico.
Tuttavia è necessario sottolineare che a oggi non conosciamo con
sicurezza l'esatto iter della formazione di Federico Barocci e ci sono
ancora molti aspetti da chiarire, perché sulla sua produzione giovani-
le le ombre prevalgono sulle luci. Stando a quanto ci racconta ancora
Giovan Pietro Bellori, il suo primo maestro dovrebbe essere stato
Francesco Menzocchi, informazione che possiamo accettare con un
certo margine di certezza: secondo Bellori, il pittore forlivese prese
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ferma speranza del giovinetto, e l'esortò ad applicarsi tutto alla
Pittura. Menzocchi era un pittore piuttosto famoso al suo tempo, e
anche se in seguito alla sua scomparsa la sua fortuna andò scemando,
di recente si sta assistendo a una rivalutazione della sua figura. Pitto-
re dallo stile elegante e raffinato, debitore nei confronti del classici-
smo raffaellesco che ebbe modo di osservare dal vivo durante un
soggiorno a Roma, Francesco Menzocchi ebbe un ruolo di un certo
peso nell'avviare Federico Barocci a quella pittura aggraziata e delica-
ta che avrebbe contraddistinto la sua personalità anche negli anni a
venire. In seguito al ritorno di Francesco Manzocchi in patria, Federi-
co Barocci fu mandato a bottega da Battista Franco: anche se era un
pittore veneziano, Franco si era trasferito a Roma da giovanissimo,
quindi possiamo inserirlo a pieno titolo tra gli esponenti del Manieri-
smo romano, una cultura che l'artista, possiamo ipotizzare, cercò di
trasmettere al suo giovane allievo.
L'esperienza accanto a Battista Franco è certa ma fu di breve dura-
ta, perché l'artista lasciò dopo poco tempo Urbino e Federico si
trasferì dallo zio Bartolomeo Genga, che era in ottimi rapporti con il
duca Guidobaldo: Federico aveva così la ghiottissima opportunità di
studiare i dipinti della collezione del duca, esperienza per lui molto
importante. Bartolomeo Genga aveva ricevuto una formazione di alto
livello dal momento che da giovane aveva studiato a Firenze prima
con Bartolomeo Ammannati (1511 – 1592) e poi con Giorgio Vasari
(1511 – 1574), quindi si trasferì a Roma e poi ancora a Verona,
entrando a contatto con l'attivo ambiente artistico romano ma rice-
vendo suggestioni anche dal Veneto: ed è proprio grazie allo zio che
Federico Barocci cominciò ad “aprirsi” verso culture figurative diver-
se da quella della città natale.
Culture figurative diverse con le quali ebbe modo di entrare in
contatto durante un soggiorno a Roma che secondo molti studiosi è
da collocare tra il 1553 e il 1555. Lo zio Bartolomeo Genga, a seguito
dell'elezione del nuovo papa Giulio III, era stato chiamato nella capi-
tale dello Stato Pontificio per progettare alcune opere militari, e si
ipotizza che a Roma l'architetto abbia introdotto il giovane Federico
Barocci presso il cardinale Giulio Della Rovere (1532 – 1578), fratello
del duca Guidobaldo, anche se alcuni studiosi tendono a minimizzare
il ruolo dello zio. Possiamo dire che Giulio Della Rovere fu il primo
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mecenate di Federico Barocci, e il rapporto tra i due continuò anche
negli anni successivi.
A questi anni, e più precisamente al 1555, risale la prima opera
nota di Federico Barocci, la Santa Cecilia tra i santi Giovanni, Maria
Maddalena, Paolo e Caterina (nota anche come Estasi di Santa Ceci-
lia, n. 1 della sezione “Le opere”). Risale invece al 1557-1558 il Marti-
rio di san Sebastiano (n. 2), opera conservata presso la Cattedrale di
Urbino, come la precedente. Queste due tele furono realizzate al
ritorno di Federico Barocci da Roma: qui lo scultore aveva avuto
modo di studiare da vicino le grandi opere dei maestri del Rinasci-
mento, a cominciare dal suo concittadino Raffaello, l'incontro con il
quale fu determinante per il prosieguo della sua carriera e per l'elabo-
razione del suo stile. In quegli anni la città stava vivendo l'affermazio-
ne del Manierismo romano, e di lì a poco si sarebbero imposte le
personalità di grandi artisti come gli Zuccari, Taddeo (1529 – 1566) e
Federico (1539 - 1609), che peraltro erano originari del ducato di
Urbino e si erano trasferiti a Roma da giovanissimi, come Niccolò
Circignani noto anche come il Pomarancio (1530 – 1597), che lavorò
nella capitale dello stato pontificio all'inizio degli anni Sessanta del
Cinquecento, e come Santi di Tito (1536 – 1603), fiorentino, trasferi-
tosi a Roma a metà degli anni Cinquanta. Non bisogna poi dimentica-
re che in quell'epoca era ancora attivo Michelangelo, che scomparve
nel 1564 e la sua personalità esercitava una grandissima influenza sui
giovani artisti. E tra l'altro pare che lo stesso Michelangelo nutrisse
una particolare ammirazione nei confronti del giovane e molto
promettente Federico Barocci.
È un aneddoto che ci racconta Giovan Pietro Bellori e che è già
stato anticipato nell'introduzione: Federico si trovava in compagnia
di Taddeo Zuccari (che fu un po' una “guida” per lui in quel di Roma)
a ricopiare una facciata di un palazzo eseguita da Polidoro da Cara-
vaggio, e avvenne che Michelangelo si trovò a passare cavalcando
una muletta, com'era suo costume davanti a quel palazzo. Gli altri
giovani pittori si precipitavano dal grande maestro per mostrargli i
loro dipinti, e pare che Federico non si fosse mosso, per timidezza:
Taddeo gli avrebbe quindi preso i disegni e li avrebbe portati a
Michelangelo, che lodò Federico Barocci inanimandolo a proseguire
gli studi incominciati.
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Nel frattempo Bartolomeo Genga, nel 1558, moriva a Malta, dove
si era recato per progettare alcune fortificazioni per rafforzare le dife-
se dell'isola, che in quegli anni era minacciata dai turchi: famoso è
l'assedio del 1565, dal quale i Cavalieri di Malta uscirono vincitori.
Andrea Emiliani ipotizza che, in seguito al ritorno da Roma, Fede-
rico Barocci compì anche altri due viaggi, uno a Parma e uno a Vene-
zia, entrambi comunque nel 1559: potrebbe spiegarsi così la grande
affinità che lega Federico Barocci al Correggio (1489 – 1534) e che
troverebbe quindi maggiore riscontro sapendo che l'artista ebbe
modo di vedere da vicino le opere di Antonio Allegri che si trovavano
nella città ducale. Così come il viaggio a Venezia aiuterebbe a spiega-
re meglio i punti di contatto tra l'artista urbinate e i pittori veneti, in
particolare Tiziano, benché sia necessario sottolineare che Federico
ha avuto modo di studiare in modo approfondito le opere di Tiziano
presenti nelle collezioni del ducato di Urbino. Un rapporto, quello tra
Federico Barocci e Tiziano, che si può notare già nelle sue opere
giovanili, come l'Estasi di santa Cecilia citata in precedenza.
Il pittore compì il suo secondo e ultimo viaggio a Roma nel 1561:
era stato incaricato di partecipare alle decorazioni ad affresco del
Casino di papa Pio IV in Vaticano. Si tratta di una villa che fu proget-
tata da Pirro Ligorio (1510 – 1583) inizialmente per Paolo IV: alla
scomparsa di papa Carafa, nel 1559, i lavori continuarono sotto il
neoeletto Giovanni Angelo Medici di Marignano che, per la decora-
zione, scelse alcuni artisti all'epoca molto giovani ma destinati a
diventare tra i più grandi esponenti del Manierismo. L'edificio aveva
una doppia natura in quanto doveva essere luogo di svago ma anche
palazzo di rappresentanza: per questo motivo, per le decorazioni, i
pittori si cimentarono non soltanto in temi aulici e solenni, ma anche
in temi rustici. Tra gli artisti che parteciparono agli affreschi si distin-
sero, oltre a Federico Barocci, i già citati Taddeo e Federico Zuccari e
Santi di Tito.
In questo contesto, Federico si dimostra particolarmente attratto
dall'arte degli Zuccari, come si nota osservando le due volte decorate
dal pittore (n. 4 e n. 5).
Il secondo soggiorno a Roma si protrasse fino al 1563, come ci
testimoniano i documenti relativi al pagamento dei lavori eseguiti da
Federico: tuttavia il suo brillante periodo romano terminò in maniera
16
non chiara e sono diversi i punti oscuri, perché pare che sia stato
addirittura avvelenato da non meglio specificati colleghi invidiosi. O
almeno questo era il timore di Federico Barocci, che dovette comun-
que lasciare la città in preda a problemi di salute che lo avrebbero
accompagnato per tutto il resto della sua esistenza (anche se non
conosciamo bene quale sia stata questa malattia: forse un'ulcera
duodenale). Bellori racconta addirittura di una “merenda” alla quale
Federico sarebbe stato invitato da alcuni pittori, e continua dicendo
che l'artista di Urbino avrebbe consumato insalata avvelenata.
Racconta ancora Bellori che il cardinale Della Rovere, per cercare di
far ritornare presto in salute il suo protetto, chiamò i migliori medici
della città, ma questi non poterono far altro che consigliargli di torna-
re a Urbino per ritemprarsi. Quello che è certo è che l'artista trascorse
due anni di inattività cercando un rimedio alla sua malattia, tuttavia
senza trovarlo. Una malattia che spesso diventava anche una giustifi-
cazione ai continui ritardi nel consegnare le opere d'arte ai commit-
tenti: Federico Barocci del resto ha anche la fama di pittore molto
lento, ma questo forse più che alla sua malattia si deve all'estrema
meticolosità con la quale progettava i suoi dipinti. A testimonianza di
ciò abbiamo una mole davvero poderosa di disegni eseguiti da Federi-
co Barocci, a fronte di un corpus di opere non vastissimo: l'ingente
quantità di disegni che ci sono rimasti certifica in modo inequivocabi-
le quanto fosse approfondito lo studio di ogni singola opera.
Secondo alcuni studiosi però l'episodio dell'avvelenamento sareb-
be nient'altro che un aneddoto, e la malattia che accompagnò Federi-
co Barocci per il resto della sua vita non sarebbe dovuta a cause dolo-
se ma semplicemente, come anticipato poco sopra, all'insorgere di
un'ulcera. Secondo altri, la causa del suo allontanamento frettoloso
da Roma fu una profonda crisi esistenziale. Possiamo anche ipotizza-
re che l'artista crollasse sotto il peso dell'eccessiva pressione a cui era
sottoposto lavorando a Roma, una città con un ambiente artistico
molto diverso e molto lontano rispetto a quello della città natale. Al
giorno d'oggi sembra comunque che la maggior parte degli studiosi
sia portata a considerare l'episodio dell'avvelenamento alla stregua di
un aneddoto privo di fondamento.
Ad ogni modo, avvelenato o no, la manifestazione della malattia
segnò profondamente la vita del pittore: già timido, introverso e
17
molto sensibile per carattere, decise di non lasciare più la città natale,
ritenendo che fosse l'unico luogo dove avrebbe potuto trovare confor-
to e svolgere al meglio il suo lavoro, lontano dalle gelosie dei rivali.
Il 1563 è un anno importante non solo perché coincide con il ritor-
no di Federico Barocci a Urbino, ma anche perché è l'anno in cui si
conclude il Concilio di Trento, che si era aperto nel 1545 sotto il
pontificato di Paolo III.
Il Concilio di Trento ebbe importanti ripercussioni anche sulle arti
figurative e di fatto pose le basi per la nascita del Barocco: l'arte
prodotta in questi anni, nella seconda metà del Cinquecento, è nota
anche come “arte della Controriforma” (altri addirittura la chiamano
“arte tridentina”, a sottolineare la profonda influenza che il Concilio
esercitò sugli artisti), e gli studiosi tendono a collocare Federico
Barocci proprio in questo contesto storico culturale. Con il Concilio di
Trento e in particolare con il famoso decreto sulle immagini sacre,
promulgato nel dicembre del 1563, la Chiesa poneva le basi per detta-
re le regole anche in campo artistico.
Contrariamente alle idee proposte dai riformatori protestanti, su
tutti Giovanni Calvino e Huldrych Zwingli (Lutero riteneva quello
delle immagini sacre un problema minore), la Chiesa affermava non
solo la liceità, ma anche l'utilità delle immagini sacre: tuttavia non
disponeva a quali esplicite regole dovessero attenersi i pittori,
lasciando quindi ai singoli membri del clero la facoltà di interpretare
il decreto come meglio avessero ritenuto. Era però ovvio l'indirizzo
dettato dal decreto, in base al quale veniva bandito ogni tipo di ecces-
so (“eccesso” ovviamente in riferimento alla morale del particolare e
delicato contesto storico), e in particolare non si tolleravano dipinti
che invitassero alla lascivia.
La Chiesa quindi non dettava regole strette, ma di fatto dettava i
programmi iconografici condizionando in modo pesante l'operato
degli artisti, anche perché chi non si atteneva alle regole, in un
momento di forte religiosità che spesso sfociava nel fanatismo, e di
accesa lotta nei confronti di ogni tipo di eresia, poteva davvero
rischiare grosso. Il caso più celebre è quello di Paolo Veronese (1528
– 1588), che nel 1573 venne processato dall'Inquisizione per una sua
Ultima cena che secondo il tribunale ecclesiastico affrontava il tema
sacro con troppa licenziosità: il pittore si difese pronunciando la
18
famosa frase “nui pittori ci pigliamo la licenzia che si pigliano i poeti
e i matti”, ma fu comunque costretto a modificare alcuni particolari
del dipinto e a cambiare il titolo (da Ultima cena a Cena in casa di
Levi).
Nel tentativo di interpretare il decreto e di regolare in modo più
ferreo la produzione di arte, alcuni importanti esponenti della Chiesa
scrissero negli anni successivi famosi trattati: sono del 1577 le
Instructiones fabricae et suppellectilis ecclesiasticae di Carlo Borro-
meo e risale invece al 1582 il celeberrimo Discorso intorno le imma-
gini sacre e profane di Gabriele Paleotti, forse il trattato destinato ad
avere più influenza sui pittori. E a proposito di Gabriele Paleotti, è
interessante notare che ci fu anche un rapporto diretto tra il cardinale
e Federico Barocci: parte infatti che Paleotti abbia commissionato
all'artista, nel 1586, un dipinto da porre nella cappella di famiglia
all'interno della cattedrale di San Pietro a Bologna. Il dipinto doveva
raffigurare la Madonna con il Bambino insieme ai santi Petronio e
Francesco, ma l'opera non vide mai la nascita.
Tornando a parlare più nello specifico di Federico Barocci, Giovan
Pietro Bellori ci racconta che, finito il periodo di inattività (che lo
storico fa durare quattro anni), l'artista realizzò un'opera raffigurante
una Madonna con il Bambino che benedice san Giovanni Evangelista
per darla in voto ai frati cappuccini di Crocicchia, una località poco
distante da Urbino (oggi fa parte del comune): l'opera oggi è nota con
il nome di Madonna di san Giovanni (n. 6), fu realizzata nel 1565 e
attualmente è conservata presso la Galleria Nazionale delle Marche.
La critica è pressoché unanime nel ritenere la Madonna di san
Giovanni la prima opera realizzata da Federico in seguito al ritorno
da Roma.
Subito dopo arrivò una commissione molto importante per Federi-
co Barocci: il Nobile Collegio della Mercanzia di Perugia voleva infatti
che il pittore realizzasse una tela da collocare nella cattedrale della
città umbra, per la precisione nella cappella di San Bernardino.
Raccontano le fonti che nel novembre del 1567 il capitano Raniero
Consoli giunse a capo di una delegazione di gentiluomini perugini
per discutere della realizzazione del dipinto. Quest'ultimo fu conse-
gnato nel 1569: si tratta della Deposizione (n. 9), una delle opere più
importanti del pittore urbinate, ancora oggi conservata nella sua sede
19
originaria. Pressoché contemporaneo (risale a un periodo compreso
tra il 1570 e il 1573) è il Riposo dalla fuga in Egitto noto anche come
Madonna delle ciliegie (n. 11) e conservato nella Pinacoteca Vaticana.
È del 1575 invece un altro dei dipinti più famosi dell'artista, la
Madonna del gatto (n. 15) conservata alla National Gallery di Londra
(che non deve essere confusa con la Madonna della gatta, n.30, che
fu realizzata a cavallo tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicen-
to e che oggi è conservata agli Uffizi).
Nel frattempo, nel 1574, Guidobaldo II Della Rovere moriva e
prendeva il suo posto Francesco Maria II, venticinquenne che era
stato educato negli anni Sessanta alla corte di Spagna. Il nuovo duca,
tra l'altro, si era fatto ritrarre due anni prima da Federico Barocci: il
dipinto che lo raffigura è conservato agli Uffizi. Francesco Maria II fu,
dei duchi di Urbino, quello con cui forse Federico Barocci intrattenne
rapporti più stretti: esiste un prezioso documento, il Diario di Fran-
cesco Maria II che non è utile solo per ricostruire il legame tra il duca
e il pittore, ma è utile anche per saperne di più circa la personalità di
Federico.
Emerge quindi il ritratto di un uomo insicuro, dal carattere diffici-
le e molto introverso, ma connotato anche da una forte religiosità e
da una fede piuttosto accesa. Ci rimangono anche alcune lettere che i
due si scrissero, e l'epistolario conferma tutte le debolezze dell'uomo
Barocci. C'è però da dire che, malgrado il ritratto che traspare dalle
fonti, noi non possiamo conoscere a fondo la personalità di Federico
Barocci e non possiamo esprimere giudizi tassativi, anche per il fatto
che dagli scritti che ci sono rimasti non riusciamo a comprendere
quali erano i pensieri di Federico Barocci sull'arte, e quindi possiamo
dedurlo solo da ciò che abbiamo e, ovviamente, dallo stile delle sue
realizzazioni.
Sulla base di tutto ciò si deve anche contestualizzare il rapporto tra
Federico Barocci e la Controriforma, di cui si è parlato prima: un
dibattito, quello che cerca di indagare gli aspetti che legano il pittore
al movimento antiriformato, che impegna in modo costante gli
studiosi. A detta di molti Federico Barocci è uno dei più grandi inter-
preti del programma iconografico della Controriforma: diversi suoi
dipinti sembrerebbero testimoniare l'influenza diretta che i temi del
Concilio di Trento, del decreto sulle immagini sacre e dei trattati
20
sull'iconografia religiosa esercitano sul pittore. Questo appare se si
osservano dipinti come la stessa Deposizione, un'opera dai toni piut-
tosto drammatici, oppure la Sepoltura di Cristo (n. 18), un importan-
te capolavoro che Federico realizzò tra il 1579 e il 1582 per la chiesa
della Confraternita del Santissimo Sacramento e Croce di Senigallia,
oppure dipinti più tardi come le Stimmate di san Francesco (n. 28) o
l'Istituzione dell'Eucarestia (n. 43), di cui si parlerà più avanti.
Accanto a dipinti che sembrano caratterizzati da una tragicità di
fondo e da un acceso misticismo o che trattano temi prettamente
controriformistici come, appunto, l'istituzione dell'Eucarestia, ne
troviamo invece altri che ci testimoniano una dimensione molto più
intima e forse anche più sentita: per parlare di dipinti già citati si può
far riferimento alla Madonna di san Giovanni e alla Madonna delle
ciliegie. Dipinti che dimostrerebbero una religiosità sincera e intima,
in contrasto con i dipinti più “grandiosi”. Come collocare dunque la
produzione di Federico Barocci nel contesto della Controriforma?
Scendendo nei particolari è possibile guardare anche più lontano e
tornare al dettaglio all'apparenza ininfluente ma in realtà piuttosto
importante della formazione di Francesco Maria II Della Rovere
presso la corte di Spagna. Negli anni Sessanta del Cinquecento, perio-
do del soggiorno del futuro duca all'Escorial, il re di Spagna era Filip-
po II, ed è quindi lecito supporre che fu il sovrano spagnolo il model-
lo a cui il giovane Francesco Maria dovette ispirarsi. Filippo II era
uno dei più ferventi sostenitori della Controriforma e proponeva un
ideale di sovrano che governa quasi per mandato divino e che si dedi-
ca alla strenua difesa della fede.
Quindi, a causa della formazione di Francesco Maria II e dei suoi
conseguenti stretti rapporti con lo Stato Pontificio, testimoniati
anche dalle diverse opere che da Roma venivano richieste a Federico
Barocci, risulta evidente che i temi della Controriforma non dovettero
avere difficoltà a penetrare nel Ducato di Urbino, che, a detta di molti
storici, con Francesco Maria II va incontro a un periodo di decadenza
e di perdita di prestigio che avrebbe poi portato alla fine del Ducato
stesso, nonostante i grandi sforzi del duca.
Ci sono pertanto tutti i presupposti perché si possa attribuire a
Federico Barocci la fama di acceso sostenitore della Controriforma o,
quantomeno, di pittore che si fa carico di dare forma nei suoi dipinti
21
ai temi della Controriforma in modo fedele ai dettami della Chiesa.
È indubbio che Federico Barocci sia stato un pittore della Contro-
riforma (e per certi versi ne anticipò i dettami), ma è anche vero che è
stato un pittore capace di interpretare in modo personale e intelligen-
te i principî sanciti dal movimento: questo perché, particolare molto
importante, i dipinti di Federico sono quasi sempre frutto del suo
sentire. Anche quando il tema potrebbe portare l'artista a realizzare
un dipinto dai toni fortemente drammatici, ed è il caso della Deposi-
zione, Federico sceglie di mitigare il tutto restituendo quindi compo-
sizioni che sono sempre molto raffinate ed eleganti, che conciliano
“poesia e fede” come ha avuto a scrivere Andrea Emiliani, che sono
connotate da una tenerezza, che derivava dallo studio delle opere del
Correggio, unita a un colorismo di suggestione veneta. Colori incante-
voli che fanno apparire liriche e delicate anche le rappresentazioni
più drammatiche.
Predominano gli azzurrini, i rossi tenui, i gialli, i violetti, i rosa:
colori che all'apparenza rimandano all'arte manierista in un periodo,
quello tra gli anni Ottanta del Cinquecento e gli anni Dieci del Seicen-
to, in cui il Manierismo dapprima viveva i suoi ultimi momenti e poi
scompariva per lasciare spazio all'arte barocca (i rapporti tra Federi-
co Barocci e l'arte barocca saranno oggetto di una esposizione più
dettagliata nell'ultima sezione di questa trattazione). È indubbio che,
se è strettamente necessario affibbiare un'etichetta a Federico Baroc-
ci, quella che gli sta meglio è forse quella di “manierista”, ma se
Barocci fu un manierista seppe tenere alte le sorti di un movimento
che stava andando incontro alla fine e soprattutto seppe declinare il
Manierismo con grandissima originalità e personalità.
C'è anche chi mette in relazione gli episodi più intimi della produ-
zione di Federico Barocci con i dettami della Controriforma, nel
senso che i dipinti più lirici sarebbero visti come un tentativo di far
entrare il divino in una dimensione molto vicina all'uomo. Quello che
è certo è che esiste in Barocci una volontà di creare dipinti che abbia-
no una elevata efficacia comunicativa: per fare questo il pittore deci-
de di spogliare le sue opere di ogni inutile orpello retorico, facendo
apparire quasi “quotidiana” la sfera in cui vengono ambientate certe
opere (è il caso della succitata Madonna del gatto), oppure conferen-
do un'eccezionale bellezza e grazia ai soggetti di dipinti dal tema
22
tragico (e qui è il caso della Deposizione di Perugia). Ancora Andrea
Emiliani parla di “poetica degli affetti” nella pittura di Federico
Barocci: il modo, del tutto personale, di Federico Barocci di interpre-
tare la Controriforma. E forse è anche a questo suo particolare modo
di coniugare esigenze controriformistiche e lirismo e delicatezza che
contribuì a procurargli fama negli anni a venire. Quella di Federico
Barocci è insomma una religiosità né ufficiale né solenne, ma natura-
le, emozionale e quasi quotidiana.
Gli anni Ottanta coincidono con l'inizio della fase matura del pitto-
re, e risalgono a questi anni alcuni capolavori come la già citata
Sepoltura di Cristo, la Visitazione (n. 22), la Chiamata di sant'An-
drea (n. 20) e il Martirio di san Vitale (n. 21). La Visitazione fu
realizzata tra il 1583 e il 1586 per la chiesa di Santa Maria in Vallicella
di Roma, nota anche come Chiesa Nuova, dove si trova ancora oggi,
su commissione dei padri oratoriani della Vallicella (ovvero i membri
della congregazione dell'Oratorio di San Filippo Neri, che gestivano la
chiesa) : è un dipinto importante anche perché sembra che san Filip-
po Neri era solito pregare davanti all'opera di Barocci, come testimo-
niano alcune fonti agiografiche.
Il Martirio di san Vitale e la Chiamata di sant'Andrea risalgono
entrambe al 1583-1584. Per quanto riguarda il primo dipinto, sappia-
mo che fu commissionato dalla chiesa di San Vitale a Ravenna: oggi
invece si trova alla Pinacoteca di Brera, dove giunse all'epoca delle
spoliazioni napoleoniche. Lo stesso destino toccò alla Chiamata di
sant'Andrea, che però non è più rientrata in Italia e oggi è conservata
ai Musées Royaux des Beaux-Arts di Bruxelles. Bellori ci dice che fu
realizzato per la Confraternita di sant'Andrea di Pesaro: lo storico ci
fa anche sapere che l'opera piacque così tanto al duca Francesco
Maria II che decise di farne realizzare allo stesso pittore una copia
per inviarla in dono a Filippo II di Spagna. Il dipinto fu completato
nel 1588 e ancora oggi è conservato all'Escorial.
Non si trattò dell'unica volta in cui Francesco Maria II si servì di
Federico Barocci per inviare doni a un altro sovrano, e su questo
aspetto del rapporto tra il duca e il pittore è stato scritto molto (esem-
plificativi a tal proposito sono gli studi del già citato Harald Olsen e
quelli dello statunitense Stuart Lingo). Ci troviamo in un periodo,
quello a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del Cinquecento,
23
durante il quale Federico Barocci stava diventando uno dei più grandi
protagonisti dell'arte sulla scena europea nonché uno dei pittori più
influenti, e il fatto che non volle mai lasciare Urbino fu per il duca un
grandissimo vantaggio, perché poteva avere a sua completa disposi-
zione uno dei migliori, più apprezzati e più famosi artisti in circola-
zione. Un vantaggio che il duca seppe sfruttare nel migliore dei modi,
e soprattutto un vantaggio che poteva dare prestigio e risalto a un
ducato il cui equilibrio era ormai diventato molto fragile.
Questo aspetto del rapporto tra i due è tuttavia piuttosto comples-
so ed è stato molto studiato, perché, tra l'altro, il duca non fu soltanto
un committente per il pittore, ma spesso svolgeva anche la funzione
di intermediario tra Federico Barocci e committenti esterni: uno degli
esempi più noti è dato dalla Crocifissione conservata presso la Catte-
drale di San Lorenzo di Genova (n. 33), che fu commissionata al
pittore dal senatore (poi doge tra il 1595 e il 1597) Matteo Senarega
per la propria cappella. Francesco Maria II si trovò a fare da interme-
diario e a facilitare i rapporti tra il pittore e l'importante politico
genovese.
Si trattava di un legame, quello tra Federico Barocci e il duca di
Urbino, che era utile sia al primo che al secondo (malgrado i dipinti
di Federico difficilmente venissero chiesti da Francesco Maria per
abbellire i suoi palazzi). Francesco Maria, come si è già detto, sfrutta-
va la maestria e la fama di Federico Barocci per far accrescere il
prestigio del ducato in modo “indiretto”, ovvero inviando doni alle
potenze straniere (abbiamo già citato Filippo II di Spagna, ma la lista
è composta da diverse personalità a cominciare dal papa e dall'impe-
ratore Rodolfo II, per il quale Federico Barocci dipinse intorno al
1586 la Fuga di Enea da Troia, oggi perduta, che rappresenta la
prima versione del dipinto oggi conservato presso la Galleria Borghe-
se di Roma, n. 35) oppure facendo in modo che dall'estero arrivassero
a Urbino richieste per dipinti realizzati da Federico Barocci. Questo
spiega anche per quale motivo Francesco Maria II difficilmente
commissionava al pittore opere per abbellire il ducato: voleva impie-
gare le energie del pittore per acquisire importanza nelle relazioni
con gli altri stati, quindi non è azzardato dire che il duca facesse un
uso “politico” di Federico Barocci. Questo ruolo di intermediario da
parte del duca doveva essere dettato anche dal carattere dell'artista:
24
del resto si è più volte ribadito, nel corso della trattazione, quanto
difficile e chiuso fosse Federico Barocci.
Dall'altro lato, il pittore traeva ovvi vantaggi dal rapporto con il
duca per il fatto che grazie a questa opera di intermediazione, i suoi
capolavori giungevano presso tutte le più importanti corti d'Europa,
così che la sua pittura riuscì a diffondersi in ogni dove, e non è un
caso se la personalità di Federico Barocci è una delle più influenti del
suo tempo: si vedrà poi nell'ultima sezione di questo lavoro in quanti
centri arrivò l'arte di Federico Barocci e quanti artisti riuscì a sugge-
stionare.
Agli anni Novanta risale un nucleo importante della produzione di
Federico Barocci, con alcuni grandissimi capolavori: il primo di
questi è l'Ultima cena (n. 26) che oggi si trova nella Cattedrale di
Urbino e che fu realizzata tra il 1590 e il 1599. L'opera gli fu commis-
sionata dal duca, che fu il finanziatore della cappella del Santissimo
Sacramento, dove l'opera doveva essere posta e dove può ancora oggi
essere ammirata. Al 1596 invece risale l'Annunciazione (n. 31), un
altro grande capolavoro su cui però pendono alcuni dubbi, nel senso
che non sappiamo se sia interamente opera di Federico Barocci, se sia
un'opera di bottega o se sia una copia con varianti della famosa
Annunciazione (n. 19) eseguita negli anni Ottanta sempre per Fran-
cesco Maria II Della Rovere, che voleva l'opera per la propria cappella
nella Basilica di Loreto. L'Annunciazione del 1596 oggi si trova nella
Basilica di Santa Maria degli Angeli e gli fu commissionata, stando a
ciò che testimoniano i documenti, da Laura Coli Pontani per la
cappella di famiglia all'interno della Basilica stessa.
Tra gli altri capolavori è doveroso menzionare la Crocifissione
realizzata per Matteo Senarega e di cui si è parlato poco fa, risalente
al 1596, nonché la Fuga di Enea da Troia, anch'essa citata in prece-
denza: come anticipato, è la copia di quella realizzata per Rodolfo II
d'Asburgo, fu eseguita nel 1598 e oggi è conservata a Roma presso la
Galleria Borghese. Stando a ciò che ci dice Giovan Pietro Bellori,
questa Fuga di Enea da Troia fu realizzata per monsignor Giuliano
Della Rovere (omonimo del Giuliano Della Rovere che era stato papa
Giulio II): ben presto però passò nelle collezioni di Scipione Borghese
(lo attesta lo stesso Bellori), ma non sappiamo bene in che modo il
potente cardinale riuscì a entrare in possesso del dipinto. È probabi-
25
le, ma non sicuro, che dovette trattarsi di un dono fatto dal Della
Rovere a Scipione Borghese. Lo stesso cardinale Della Rovere si era
fatto ritrarre nel 1595 circa dal pittore, e il dipinto che lo raffigura
oggi è conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna (n. 29).
Rimanendo nell'ambito della ritrattistica, secondo gli studiosi è
alla fine degli anni Novanta che risale il celeberrimo Autoritratto (n.
32) di Federico Barocci conservato agli Uffizi, con il quale il pittore dà
prova di grande naturalismo e fornisce notevoli spunti agli studiosi
per abbinare al suo ritratto “fisico” anche un ritratto “interiore”.
Infine, l'ultima opera da citare per quanto riguarda gli anni Novan-
ti è quella nota come le Stimmate di san Francesco (n. 28) che risale
al 1594-95 ed è conservata presso la Galleria Nazionale delle Marche
di Urbino: il dipinto gli fu commissionato da Francesco Maria II
Della Rovere per una chiesa di Urbino.
Le Stimmate di san Francesco offrono anche lo spunto per riflette-
re sul legame tra Federico Barocci e il francescanesimo. Il pittore
stesso era terziario francescano, ovvero apparteneva all'ordine seco-
lare, costituito da laici che si impegnano a vivere secondo i dettami
della regola di san Francesco.
Oltre alle opere a tema francescano (le appena citate Stimmate di
san Francesco e il Perdono di Assisi, n. 13, realizzato tra il 1574 e il
1576 per la chiesa di San Francesco di Urbino, sono solo le più famo-
se), sono diversi i dipinti eseguiti per i francescani, come la Madon-
na di san Giovanni (n. 6), che, come detto, fu consegnata ai cappuc-
cini di Crocicchia come ex voto, o l'Immacolata concezione (n. 16),
che fu realizzata anch'essa per la chiesa di San Francesco di Urbino,
gestita dall'ordine dall'Ordine dei Frati Minori Conventuali.
Al ritorno da Roma, Federico si era avvicinato al mondo della
spiritualità francescana, entrando a diretto contatto con i frati delle
congregazioni: questo tipo di spiritualità era particolarmente radicato
nei territori del Montefeltro, anche perché il fondatore dell'Ordine
dei Frati Minori Cappuccini, Matteo da Bascio, proveniva da queste
zone (Bascio, che oggi fa parte del comune di Pennabilli, non è lonta-
na da Urbino). Marchigiano era anche Ludovico da Fossombrone, che
faceva parte, insieme a Matteo da Bascio e ad altri, del gruppo che
ottenne nel 1528 da Clemente VII (con la bolla Religionis zelus) l'ap-
provazione della regola che sanciva ufficialmente la nascita dell'ordi-
26
ne.
È dal contatto e dalla vicinanza con i frati francescani che Federico
Barocci arriva a quella spiritualità sincera e forte e a quella religiosità
che in certe opere arriva a sfiorare il misticismo e la drammaticità.
Una vicinanza che si nota soprattutto nelle opere realizzate negli anni
che seguirono il ritorno da Roma del pittore. È del resto noto che i
frati francescani propongono un ideale religioso molto fedele al detta-
to evangelico e quindi votato alla preghiera, alla povertà, al ritiro e
alla meditazione. Valori che Federico Barocci cerca di trasferire nei
suoi dipinti.
Il nuovo secolo si apre con alcune importanti committenze, in
particolare due dipinti realizzati per il Duomo di Milano: Sant'Am-
brogio perdona Teodosio (n. 38), che il pittore realizzò tra il 1600 e il
1603 avvalendosi dell'aiuto della bottega e che ancora oggi è conser-
vato nell'altare di sant'Ambrogio all'interno del Duomo, e il grande
capolavoro, l'incompiuto Compianto sul Cristo morto (n. 39) che
Federico Barocci iniziò nel 1600 ma non ebbe modo di terminare.
Oggi fa parte delle raccolte d'arte comunali di Bologna ed è conserva-
to presso la Biblioteca dell'Archiginnasio. Fin dal 1592 il capitolo del
Duomo di Milano aveva tentato di ottenere dipinti di Federico Baroc-
ci e si dette quindi molto da fare per avviare i contatti con il pittore:
oltre a questi due dipinti Barocci realizzò per la cattedrale milanese
nel 1597 anche un Presepe di cui però non si hanno più notizie.
Tra gli altri capolavori di questo periodo conclusivo della carriera e
della vita di Federico Barocci è necessario citare due tele che oggi
sono conservate a Roma: la Presentazione della Vergine al Tempio
(n. 40), che si trova nella chiesa di Santa Maria in Vallicella, e l'Istitu-
zione dell'Eucarestia (n. 43), che invece si trova nella basilica di
Santa Maria Sopra Minerva. Per la prima delle due chiese, Federico
Barocci aveva già realizzato la Visitazione, così che gli oratoriani deci-
sero di affidargli anche l'incarico di realizzare la pala destinata alla
cappella del transetto sinistro dell'edificio sacro: il dipinto fu conse-
gnato nel 1603.
L'Istituzione dell'Eucarestia è uno degli ultimi capolavori di Fede-
rico Barocci: gli fu commissionata direttamente da papa Clemente
VIII, Ippolito Aldobrandini, per la cappella di famiglia all'interno
della basilica di Santa Maria sopra Minerva dove si trova ancora oggi:
27
è probabile che questa commissione fu facilitata dalla visita di
Clemente VIII a Urbino avvenuta nel 1598, occasione durante la
quale si ipotizza che il pontefice abbia conosciuto il pittore. Bellori
dice che durante la visita Francesco Maria II regalò al papa un'acqua-
santiera d'oro dipinta da Federico Barocci con un Gesù Bambino
benedicente. L'Istituzione dell'Eucarestia fu consegnata nel 1611 e
rappresenta uno dei dipinti più controriformistici di Federico Baroc-
ci.
Tra gli ultimi dipinti è necessario poi citare l'Ecce Homo della
Pinacoteca di Brera (n. 45), che Federico lasciò incompiuto all'anno
della sua scomparsa, il 1612, e che fu completato dall'allievo Ventura
Mazza, e poi il Crocifisso del 1604 conservato al Prado (n. 41).
Questa è una delle ultime opere in cui appare il profilo del Palazzo
Ducale di Urbino, e in particolare Federico dipinge la facciata dei
“torricini”, ovvero il profilo del palazzo così come lo vedeva dalla
propria abitazione, che esiste ancora oggi.
Il legame tra Federico Barocci e Urbino fu un legame molto
profondo: il pittore era continuamente ispirato dalla sua città, città
che amava molto e dalla quale, dopo il ritorno da Roma, non volle
mai separarsi. Motivo per cui pensò di rappresentarla spesso nelle
sue opere inserendo in moltissimi dipinti il profilo del Palazzo che
Luciano Laurana progettò nel Quattrocento per Federico da Monte-
feltro.
Un rapporto stretto quello tra il pittore e la sua terra, e la piena
comprensione dell'arte di Federico Barocci non può prescindere dalla
comprensione dell'importanza che Urbino aveva per lui. Una città in
cui si era consumata quasi tutta l'esistenza di un pittore destinato a
diventare uno degli artisti più influenti del suo tempo.
28
II. Le opere
1. Estasi di santa Cecilia
Urbino, Cattedrale
1555 circa
Olio su tela, 200 x 145 cm
Immagine
Si tratta della prima opera nota di Federico Barocci, realizzata
durante gli anni Cinquanta del Cinquecento e attualmente conservata
presso la cattedrale della sua città natale.
La santa è al centro della composizione, in estasi, mentre rivolge lo
sguardo verso l'alto osservando gli angeli che suonano strumenti
musicali. Al suo fianco troviamo quattro santi, da sinistra santa
Maria Maddalena (con in mano il vaso di unguento, suo classico attri-
buto iconografico), san Giovanni, con i consueti tratti somatici effe-
minati e con il Vangelo in mano, san Paolo, che regge tra le mani la
spada, e santa Caterina d'Alessandria che poggia il piede sulla ruota,
strumento del suo martirio.
A terra vediamo inoltre gli strumenti musicali rotti, segno che la
santa non è più attratta dalla musica terrena ma soltanto da quella
celeste, rappresentata dagli angeli.
Non sappiamo bene per quale motivo santa Cecilia si associata alla
musica (tanto che oggi è la santa patrona della musica). Forse il tutto
deriva da un inno in latino il cui testo recita Cantantibus organis
Caecilia virgo in corde suo soli Domino decantabat (“mentre suona-
vano gli strumenti, la giovane Cecilia nel suo cuore cantava solo per il
Signore”).
La composizione deriva con evidenza dall'Estasi di santa Cecilia di
Raffaello attualmente conservata alla Pinacoteca Nazionale di Bolo-
gna: un richiamo notato anche da Giovan Pietro Bellori, che parla di
una Santa Cecilia imitata da Rafaelle. Tuttavia è molto probabile che
Federico Barocci non abbia osservato direttamente il dipinto, e che lo
abbia quindi conosciuto attraverso stampe e incisioni come quelle di
Marcantonio Raimondi. Gli studiosi hanno infatti riscontrato che
l'Estasi di santa Cecilia di Federico Barocci mostra maggiori debiti
nei confronti dei disegni di Raimondi che non nei confronti della pala
di Raffaello, dunque è quasi sicuro che il pittore non ebbe conoscenza
30
diretta del dipinto realizzato dal suo grande concittadino.
L'opera conservata nella cattedrale di Urbino dimostra le iniziali
influenze dello stile di Battista Franco e di Francesco Menzocchi sul
pittore, ma anche il notevole studio dell'arte di Tiziano, che Federico
può aver appreso osservando i dipinti del pittore veneziano presenti
nelle collezioni del ducato di Urbino: la testa di san Paolo infatti è
pressoché identica a quella dell'apostolo che si trova alla destra di
Gesù nell'Ultima cena di Tiziano conservata presso la Galleria Nazio-
nale delle Marche di Urbino.
31
2. Martirio di san Sebastiano
Urbino, Cattedrale
1557-1558
Olio su tela, 405 x 225 cm
Immagine
Il protagonista di questa pala centinata è al centro della scena,
sereno, mentre osserva i suoi carnefici. Uno di questi, incredibilmen-
te vicino, sta per scoccare una freccia: notiamo che una si è già confic-
cata nel corpo del santo, che tuttavia sembra quasi non soffrire e non
avvertire il dolore. In alto, sopra le nuvole, la Madonna con Gesù
Bambino e gli angeli osservano il martirio di san Sebastiano, sullo
sfondo di un cielo che mostra ancora chiare suggestioni tizianesche.
Da Tiziano sembrerebbe derivare anche la posa della Madonna con il
Bambino, in particolare dalla cosiddetta Pala Gozzi, che rappresenta
la Madonna insieme ai santi Francesco e Biagio e al donatore Luigi
Gozzi ed è conservata presso il Museo Civico di Ancona.
La posa di san Sebastiano e del suo carnefice invece rimanda a
Michelangelo, studiato direttamente a Roma e indirettamente attra-
verso il primo maestro Battista Franco. Le gambe dei due protagoni-
sti del dipinto hanno identica posizione: la gamba sinistra avanzata,
la destra arretrata con il tallone sollevato. Tuttavia lo stile sembra già
allontanarsi da quello di Battista Franco e, al contrario, avvicinarsi a
quello di Tiziano. La delicatezza nella resa degli incarnati (soprattutto
il corpo, in primo piano, di san Sebastiano) avrebbe infatti qualche
debito nei confronti del pittore cadorino.
L'opera fu commissionata a Federico Barocci nel novembre del
1557 per la cappella di San Sebastiano all'interno della Cattedrale di
Urbino: è ancora lì che oggi la si può ammirare.
32
3. Ritratto di Antonio Galli
Copenaghen, Statens Museum for Kunst
1558-1560
Olio su tela, 108 x 84 cm
Immagine
Antonio Galli era un intellettuale umanista nonché poeta attivo
presso la corte dei Della Rovere, e durante gli anni Cinquanta fu
“ajo”, ovvero precettore, del futuro duca Francesco Maria II: in
questo particolare ruolo era succeduto a un altro grande umanista
che fu attivo a Urbino, Girolamo Muzio.
Il ritratto che raffigura Antonio Galli è un altro esempio di quanto
in questo periodo Federico Barocci fosse interessato allo studio della
pittura di Tiziano.
Quindi vediamo i frutti di questo studio anche nella ritrattistica, e
sappiamo che presso la corte di Urbino c'erano ottimi esempi di
ritrattistica tizianesca: si è parlato in precedenza del Ritratto di
Francesco Maria I Della Rovere e del Ritratto di Eleonora Gonzaga,
moglie di Francesco Maria I. Entrambi i dipinti si trovano oggi agli
Uffizi e volevano un po' ispirarsi al doppio ritratto di Federico da
Montefeltro e Battista Sforza realizzato da Piero della Francesca.
Un rapporto, quello tra Federico Barocci e Tiziano, che qui notia-
mo non soltanto nella tecnica di realizzazione e nelle scelte cromati-
che, ma anche nella rappresentazione di alcuni particolari, come
l'orologio da tavolo che vediamo sulla destra nel ritratto di Antonio
Galli e che notiamo anche nel ritratto di Eleonora Gonzaga di Tizia-
no, sulla sinistra, vicino al cane. Il modo in cui il giovane Federico
raffigura capelli e barba del poeta richiamano invece il ritratto di
Francesco Maria I.
Una vicinanza che ha portato anche alcuni studiosi in passato ad
attribuire questo ritratto allo stesso Tiziano e si deve, tra gli altri, ad
Harald Olsen il merito di aver riassegnato il dipinto a Federico Baroc-
ci.
33
4. Sacra Famiglia
Città del Vaticano, Casino di Pio IV
1561-1563
Affresco
Immagine
Si tratta dell'affresco che decora una delle due stanze che furono
affrescate da Federico Barocci. L'opera è importante anche perché il
pittore si cimenta qui per la prima e ultima volta con la tecnica
dell'affresco, quindi la stanza della Sacra Famiglia assieme a quella
dell'Annunciazione sono le uniche testimonianze che abbiamo di
affreschi realizzati da Federico Barocci.
L'ambientazione è molto intima, quasi quotidiana: i personaggi si
trovano all'interno di una casa, arredata in modo molto semplice. La
Madonna tiene il Bambino sul grembo mentre san Giovannino si
inginocchia davanti a loro e in primo piano sant'Anna (che Bellori
riconosce come santa Elisabetta) assiste alla scena e san Giuseppe
rivolge invece lo sguardo verso l'osservatore.
Sono molti i particolari che ci portano in una dimensione molto
familiare: vediamo stoviglie, una cesta, un cagnolino vicino ai piedi di
san Giuseppe. Questo modo di rappresentare le scene sacre, soprat-
tutto quelle che hanno per tema la Sacra Famiglia, tornerà molto
spesso nell'arte di Federico Barocci e diventerà quasi un tratto distin-
tivo della sua pittura.
In questo periodo della sua carriera, Federico Barocci si avvicina
all'arte degli Zuccari, Taddeo e Federico, che lavorarono con lui alla
decorazione del Casino di Pio IV in Vaticano.
Nella stessa stanza, ai quattro angoli, appaiono le figure di quattro
virtù: laetitia, felicitas, virtus e tranquillitas.
34
5. Annunciazione
Città del Vaticano, Casino di Pio IV
1561-1563
Affresco
Immagine
L'Annunciazione è l'affresco che decora la volta della seconda stan-
za decorata da Federico Barocci nel Casino di Pio IV.
Anche questa, al pari della precedente, è una composizione dal
tono piuttosto familiare, con l'arcangelo Gabriele che irrompe da
destra nella scena e distoglie Maria dalla lettura: la Vergine, ancora
con il libro davanti a sé aperto, si volta indietro per osservare l'angelo
in modo molto naturale.
Il modo raffinato con il quale Federico Barocci delinea i tratti dei
due personaggi potrebbe far pensare a suggestioni correggesche: l'ar-
tista potrebbe essere entrato con il Correggio durante un viaggio a
Parma, che gli studiosi ipotizzano possa essere stato compiuto prima
del secondo soggiorno a Roma, per la precisione intorno al 1559.
Le figure di Maria e dell'arcangelo furono apprezzate anche da
Bellori, che le descrisse, rispetto a quelle della prima stanza, come
figure più picciole, ma raramente condotte.
In seguito all'Annunciazione, Federico Barocci iniziò a decorare
un'ulteriore stanza con il tema delle Storie di Mosè, ma non terminò
il lavoro in quanto nel 1563 lasciò in fretta Roma per i motivi che
sono stati discussi nella prima sezione della trattazione.
35
6. Madonna di san Giovanni
Urbino, Galleria Nazionale delle Marche
1565 circa
Olio su tela, 151 x 115 cm
Immagine
La Madonna di san Giovanni, così chiamata per la presenza dell'e-
vangelista inginocchiato davanti alla Vergine con il Bambino, è il
primo dipinto realizzato da Federico Barocci dopo il suo ritorno da
Roma, in seguito a un paio di anni di inattività.
L'opera, come testimonia Giovan Pietro Bellori, fu realizzata come
ex voto e regalata ai frati cappuccini di Crocicchia, località nei pressi
di Urbino: sentendosi però alquanto meglio, fece un quadretto con
la Vergine, e 'l figliuolo Gesù, che benedice San Giovanni fanciullo; e
lo diede in voto ai Padri Cappuccini di Crocicchia, due miglia fuori
d'Urbino; là dove egli soleva trattenersi in suo podere. Il dipinto
testimonia anche i primi contatti tra Federico Barocci e il francesca-
nesimo, per un rapporto che diventerà molto stretto negli anni a
venire. Si trattava dunque di un dipinto “privato”, intimo, e l'atmosfe-
ra della composizione ci suggerisce del resto come la Madonna di san
Giovanni sia un frutto del sentire personale dell'artista. San Giovanni
è raffigurato con i soliti tratti giovanili, quasi effeminati, e di partico-
lare efficacia espressiva è il particolare del Bambino che dona un fiore
all'evangelista.
Federico Barocci dimostra ancora una notevole base correggesca,
che si evince non soltanto dalla delicatezza dei lineamenti dei perso-
naggi, ma anche dall'utilizzo della tecnica dello sfumato, che il pittore
adottò anche nelle decorazioni del Casino di Pio IV. Le suggestioni
derivano anche dall'arte di Raffaello: la posa della Madonna che tiene
il Bambino per un piede ricorda infatti quella della Madonna di
Orléans di Raffaello, attualmente conservata al Musée Condé di
Chantilly. Come altre opere di Federico Barocci, la Madonna di san
Giovanni (che si trovava all'epoca nel convento dei cappuccini) fu
coinvolta nelle spoliazioni napoleoniche e fu condotta a Brera nel
1811: il dipinto fu poi recuperato nel 1826 e oggi è conservato presso
la Galleria Nazionale delle Marche.
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7. Crocifissione
Urbino, Galleria Nazionale delle Marche
1566-1567
Olio su tela, 288 x 161 cm
Immagine
Nota anche come Crocifissione con i dolenti, l'opera fu dipinta per
il conte Pietro Bonarelli di Ancona, che faceva parte della corte di
Guidobaldo II Della Rovere, e doveva essere posta nella chiesa del
Crocifisso Miracoloso di Urbino: questa è la notizia che ci dà Giovan
Pietro Bellori circa il dipinto.
Per l'idea generale della composizione, Federico Barocci potrebbe
essersi ispirato, ancora una volta, a Tiziano, e in particolare alla
Crocifissione conservata presso la chiesa di San Domenico di Ancona:
si ipotizza che il pittore urbinate abbia studiato il dipinto di Tiziano
vista anche la provenienza del committente.
Ci sono però notevoli differenze tra la pala di Barocci e quella di
Tiziano: oltre all'ovvia assenza, nella Crocifissione di Barocci, di san
Domenico (che in Tiziano troviamo ad abbracciare la croce), notiamo
innanzitutto linee molto più dolci e delicate in Barocci. La Crocifis-
sione di Tiziano risale al 1558, ovvero a un periodo in cui lo stile del
pittore veneto si fa più aspro.
Vediamo poi che le pose e soprattutto le espressioni dei due dolen-
ti (la Madonna e san Giovanni) sono diverse, osserviamo due angeli
alla destra e alla sinistra di Cristo (assenti in Tiziano) e infine notia-
mo come sullo sfondo Barocci inserisca il paesaggio urbinate: si tratta
della prima volta nella sua produzione in cui la città di Urbino fa da
sfondo a un dipinto, e questa peculiarità andrà a caratterizzare molti
altri suoi capolavori.
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8. Madonna di san Simone
Urbino, Galleria Nazionale delle Marche
1567 circa
Olio su tela, 283 x 190 cm
Immagine
La tela fu realizzata nel 1567, forse prima che Federico Barocci
ricevette l'incarico di realizzare la Deposizione (n. 9) di Perugia, come
suggerisce Bellori. L'opera fu eseguita per la chiesa di San Francesco
a Urbino e affronta il tema della sacra conversazione, ovvero il tema
in base al quale la Madonna con il Bambino si trova al centro della
scena circondata da santi, che in questo caso sono san Simone (che
dà il nome al dipinto) sulla destra e san Taddeo sulla sinistra. Secon-
do le agiografie, Simone (noto anche come “Simone il Cananeo” o
“Simone lo Zelota” per distinguerlo da Simon Pietro) e Taddeo
condussero assieme la propria attività di predicazione in Mesopota-
mia: per questo motivo i due santi sono spesso associati. Simone
viene rappresentato con la sega in quanto la sega fu, secondo la tradi-
zione, lo strumento del suo martirio: è lo stesso motivo per cui
Taddeo viene raffigurato con una lancia tra le mani.
Sopra ai due personaggi principali troviamo un angioletto in volo,
che arriva per porre una corona di fiori sul capo della Madonna, e in
basso sulla destra troviamo i donatori, un uomo e una donna, di cui
tuttavia non conosciamo l'identità: possiamo solo ipotizzare che si
trattasse di personaggi facoltosi, dal momento che possedevano una
cappella all'interno della chiesa.
La scena ha un'ambientazione piuttosto umile, rurale, e ci colpi-
scono ancora i colori brillanti che caratterizzano le vesti dei perso-
naggi nonché la delicatezza con la quale vengono resi i loro incarnati:
una delicatezza ancora memore delle soluzioni adottate dal Correg-
gio.
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9. Deposizione
Perugia, Cattedrale di San Lorenzo
1567-1569
Olio su tela, 412 x 232 cm
Immagine
La Deposizione di Perugia è uno dei più importanti e più famosi
capolavori di Federico Barocci. La grandiosa pala gli fu commissiona-
ta nel 1567 dal Nobile Collegio della Mercanzia di Perugia per la
cappella di San Bernardino all'interno della cattedrale (dove si trova
ancora al giorno d'oggi), e fu consegnata dal pittore nel 1569. Tuttavia
non è ancora stato stabilito con certezza se il pittore, come era solito
fare, abbia realizzato il dipinto a Urbino e lo abbia poi spedito a Peru-
gia o se compiuto un viaggio nella città umbra, come lascerebbe
supporre Giovan Pietro Bellori (capitarono in Urbino alcuni genti-
luomini Perugini […] fecero risoluzione di condurre il Barocci nella
patria loro; né passò molto tempo, che lo chiamarono a Perugia,
dove egli stesso volle trasferirsi a dipingere quell'opera). Lo stesso
Bellori dimostrò di apprezzare fortemente questo capolavoro, dedi-
candogli una sezione della sua Vita di Federico Barocci e definendola
come un'opera che rende Federico Barocci glorioso fra i pittori di
maggior fama.
Durante il periodo delle spoliazioni napoleoniche la Deposizione fu
portata a Parigi ed esposta al Louvre, per poi essere restituita alla
Cattedrale di Perugia nel 1815.
L'opera è stata restaurata di recente, nel 2009, in occasione della
mostra monografica “Federico Barocci. L'incanto del colore – Una
lezione per due secoli” che si è svolta a Siena tra la fine del 2009 e gli
inizi del 2010: il restauro ha contribuito a donare alla tela la sua
luminosità e il suo cromatismo originari.
La Deposizione è una composizione di grande respiro, che colpisce
l'osservatore per la sua teatralità e per la sua drammaticità, che
comunque il pittore stempera grazie all'utilizzo dello sfumato correg-
gesco che contribuisce a rendere la composizione molto delicata
dando così il senso di una tragicità composta. Le linee contribuiscono
a convogliare lo sguardo dell'osservatore verso Cristo, la cui rappre-
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sentazione accresce il senso di sofferenza che si evince dall'opera
perché viene raffigurato appeso per un solo braccio alla croce. Da
notare poi alcune finezze, per esempio le vesti e i capelli del giovane
sulla scala a sinistra che sembrano mossi dal vento (così come la
chioma, in basso, di san Giovanni che regge Gesù per i piedi) oppure
la fibbia che orna la manica di Giuseppe di Arimatea, che sta sulla
destra e si regge a uno dei bracci della croce, o ancora la decorazione
delle vesti e l'acconciature delle tre donne (la Maddalena, Maria di
Cleofa e una terza dall'identità sconosciuta) che sorreggono Maria e
che secondo il Vangelo di Matteo e quello di Marco assistettero alla
Crocifissione. Il personaggio che vediamo sulla destra che osserva la
scena è san Bernardino, titolare della cappella all'interno della quale
l'opera doveva essere posta.
La composizione è molto studiata, come ci testimonia l'elevato
numero di disegni, e soprattutto è altamente innovativa perché
propone un dinamismo e un senso del movimento uniti a una efficace
stesura cromatica (prevalgono toni luminosi: rossi, azzurri, gialli
arancioni) che insieme contribuiscono a rendere questa pala uno dei
più grandi capolavori non solo di Federico Barocci ma di tutto il
Cinquecento.
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10. Autoritratto
Firenze, Galleria degli Uffizi
1570-1575 circa
Olio su carta, 31 x 23 cm
Immagine
Questo autoritratto conservato presso la Galleria degli Uffizi, in un
inventario del Settecento veniva attribuito ad Ambrogio Barocci, ma
l'assegnazione giusta è quella che vuole il dipinto eseguito da Federi-
co. In questo inventario, redatto da Giovanni Francesco Bianchi tra il
1704 e il 1714, si parla di un dipinto alto braccia 1 soldi 6 e largo
braccia 1, dipintovi su la tela di sua mano il ritratto di Ambrogio
Baroccio d'Urbino, con pochi capelli e barba nera, con collarino
piccolo aggiuntovi sopra l'asse parte del campo et un fregio attorno
a rabeschi di color di pietra, con ornamento simile ai suddetti.
La datazione non è sicura ma si può desumere dall'età che il pitto-
re sembra dimostrare, quindi possiamo ipotizzare che sia stato realiz-
zato negli anni Settanta del Cinquecento.
Come l'Autoritratto eseguito in tarda età e risalente al 1596-1600
circa (n. 32) anche questo dipinto era presente nelle collezioni del
cardinale Leopoldo de' Medici ed è annotato in un inventario redatto
nel 1676 come il ritratto del Baroccio di mezz'età con barba nera e
pochi capelli simili, collare piccolo a lattughe et il giubbone abboz-
zato, con adornamento simile.
Il dipinto si trovava in condizioni di conservazione piuttosto preca-
rie e ha subito un restauro nel corso degli anni Settanta del Novecen-
to, a quattrocento anni esatti dalla sua realizzazione.
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11. Madonna delle ciliegie
Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana
1570-1573
Olio su tela, 133 x 130 cm
Immagine
La Madonna delle ciliegie è l'altro nome con cui è noto il Riposo
durante la fuga in Egitto conservato presso la Pinacoteca Vaticana: è
infatti quest'ultimo il tema del dipinto, mentre le ciliegie sono quelle
che san Giuseppe sta passando, con aria divertita, a Gesù Bambino
che accetta sorridendo. La Madonna invece sta riempendo una
scodella con l'acqua di un ruscello che scorre sulla sinistra, e vicino
vediamo una serie di oggetti, tra cui una bisaccia da cui spunta un
tozzo di pane e un cappello di paglia (che ritorna spesso nelle compo-
sizioni di Barocci), che contribuiscono a dare un tono molto semplice
e molto familiare alla scena.
Il particolare della Madonna che riempie una scodella sembrereb-
be quasi essere un omaggio al Correggio e a uno dei suoi dipinti più
noti, la Madonna della scodella conservata alla Galleria Nazionale di
Parma, una tela che, come la Madonna delle ciliegie, affronta il tema
del riposo durante la fuga in Egitto.
Le ciliegie sono un particolare importante perché costituiscono
una variazione al tema classico: secondo la tradizione infatti è la
palma la pianta sotto alla quale la Sacra Famiglia si ristora durante la
fuga, e Federico Barocci decide di sostituirla con un ciliegio. Un'opera
molto suggestiva, caratterizzata da una resa degli affetti molto
profonda e sentita, per un risultato molto intimo e delicato.
La Madonna delle ciliegie deriva da un originale che Federico
Barocci realizzò per il duca Guidobaldo: quest'ultimo, con ogni
probabilità, donò il dipinto alla nuora Lucrezia d'Este in occasione
del matrimonio con Francesco Maria II.
Si trattò, con evidenza, di un'opera che godette di grande fortuna
visto che altri committenti la fecero replicare, per non parlare delle
diverse stampe di epoche successive che la riproducono.
La versione della Pinacoteca Vaticana fu commissionata da un
collezionista di nome Simonetto Anastagi, che forse era uno dei
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gentiluomini Perugini, citati da Bellori, che fecero visita al pittore per
chiedergli di realizzare la Deposizione da collocare nella Cattedrale di
Perugia. Il committente ricevette l'opera nell'ottobre del 1573, e alla
sua scomparsa la Madonna delle ciliegie entrò nella chiesa del Gesù
di Perugia: a seguito della soppressione dell'ordine dei Gesuiti nel
1773, la tela entrò nel Palazzo del Quirinale e quindi nella Pinacoteca
Vaticana.
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12. Ritratto di Francesco Maria II Della Rovere
Firenze, Galleria degli Uffizi
1572
Olio su tela, 113 x 93 cm
Immagine
È il ritratto forse più famoso di Federico Barocci quello che raffigu-
ra Francesco Maria II Della Rovere, futuro duca di Urbino, nel 1572
all'età di ventitré anni (sarebbe diventato duca due anni più tardi). Il
dipinto fu eseguito al ritorno del giovane dalla vittoriosa battaglia di
Lepanto, alla quale aveva partecipato l'anno prima come Capitano
Generale dell'esercito del Ducato di Urbino, che si era imbarcato per
supportare la Lega Santa guidata da Don Giovanni d'Austria.
Anche per questo ritratto il paragone è con Tiziano, i cui esempi
nell'ambito della ritrattistica presenti alla corte di Urbino sono stati
menzionati in precedenza: in particolare il confronto, in questo caso,
è con il Ritratto di Francesco Maria I Della Rovere, il nonno di Fran-
cesco Maria II.
Il ventitreenne futuro duca è ritratto in una elegantissima armatu-
ra, finemente decorata, a cui Federico dedica una elevata attenzione
descrivendo i dettagli con altissima precisione e aggiungendo una
nota accesa con la fascia rossa che solca il petto del giovane condot-
tiero. La mano sinistra è poggiata sul fianco, mentre la destra regge
l'elmo: quest'ultimo gesto potrebbe far pensare a una conoscenza del
Ritratto di Filippo II, sempre di Tiziano, conservato al Prado. Alcuni
disegni preparatori testimoniano un certo studio da parte del pittore
per quanto riguarda la rappresentazione dello scorcio delle mani.
Federico Barocci dedica poi una grande cura anche alla raffigura-
zione del volto di Francesco Maria II. La pelle bianca con un lieve
arrossamento sulle guance, la barba composta che cela le labbra sotti-
li, gli occhi espressivi che guardano verso l'osservatore: tutti partico-
lari attraverso i quali l'artista ha voluto esprimere l'orgoglio di Fran-
cesco Maria e che insieme a tutto il resto del dipinto contribuiscono a
rendere questo ritratto uno dei più naturali e realistici di tutto il
Cinquecento.
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13. Perdono di Assisi
Urbino, San Francesco
1574-76
Olio su tela, 427 x 236 cm
Immagine
Altro dipinto realizzato per la chiesa di San Francesco di Urbino, il
Perdono di Assisi affronta un tema del repertorio francescano: il
momento in cui san Francesco, inginocchiato a pregare all'interno
della propria chiesetta (la Porziuncola, oggi all'interno della Basilica
di Santa Maria degli Angeli), chiede a Gesù e alla Madonna il perdono
dei peccati per tutti coloro che, nei tempi futuri, avrebbero visitato la
sua cappella.
Il dipinto fu commissionato da un certo Nicolò Ventura, che fece
anche inserire, sulla destra, la figura di san Nicola al posto di quella
di santa Chiara, che compariva nei primi disegni di questo dipinto.
La composizione ricorda la Trasfigurazione di Raffaello nella sua
impostazione divisa su due registri, il più alto dei quali occupato al
centro dall'apparizione della figura di Cristo, ma ci sono analogie
anche con un dipinto di Tiziano che si trovava in una chiesa di Urbi-
no, la Resurrezione oggi conservata sempre nella stessa città ma
presso la Galleria Nazionale delle Marche.
Tuttavia la figura più interessante sembra essere quella di san
Francesco, che viene scorciato in un modo piuttosto ardito: uno scor-
cio che ricorda il san Francesco della Madonna di Foligno di Raffael-
lo ma che ricorda anche una soluzione già adottata dallo stesso
Barocci, ovvero il san Giovanni che compare nella Crocifissione
commissionata dal conte Pietro Bonarelli (n. 7). È interessante anche
notare come la testa del santo non faccia parte della tela: è stata infat-
ti realizzata a parte e quindi incollata, si nota uno stacco molto netto,
ed è ipotizzabile pertanto che l'artista fosse più soddisfatto del
bozzetto che della realizzazione finale e abbia quindi deciso di sosti-
tuire la testa del santo. Molto efficace è poi il particolare della porta
sullo sfondo che si apre e lascia intravedere all'osservatore l'interno
della chiesetta, dove vediamo un “dipinto nel dipinto” che raffigura
una crocifissione.
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L'opera ebbe grande successo, come testimonia il numero di stam-
pe e incisioni tratte da questo lavoro. Lo stesso Bellori ha dedicato
un'ampia sezione della sua Vita di Federico Barocci al Perdono di
Assisi, descrivendo minuziosamente ogni dettaglio di questo impor-
tante capolavoro.
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14. Ritratto di fanciulla
Firenze, Galleria degli Uffizi
1570-1575 circa
Olio su carta incollata su tela, 45 x 33 cm
Immagine
Non conosciamo l'identità della ragazza ritratta in questo dipinto:
per lungo tempo si è pensato che potesse essere Lavinia Della Rovere
(1558 – 1632), sorella di Francesco Maria II, vista anche l'età compa-
tibile con la cronologia del dipinto (non conosciamo comunque con
esattezza la data di realizzazione) e vista la somiglianza somatica con
il duca (n. 12). Questa ipotesi fu lanciata per la prima volta da Harald
Olsen, che datò il dipinto alla prima metà degli anni Settanta viste
anche le somiglianze con la Madonna del gatto (n. 15). L'ipotesi
sembrerebbe essere avvalorata anche da quanto scrive Bellori: fece il
ritratto del medesimo Duca, della marchesa del Vasto, del Marchese
e di Monsignor della Rovere (la marchesa del Vasto era Lavinia Della
Rovere).
Nel 2001 però lo storico dell'arte Luciano Arcangeli ha preferito
rifiutare l'identificazione della giovane con Lavinia Della Rovere e la
critica recente si è attestata su questa posizione. Si tratta tuttavia di
una ragazzina che con tutta probabilità faceva parte della corte di
Urbino.
La datazione non è accettata in modo unanime da parte della criti-
ca: c'è, per esempio, chi la considera come un'opera degli anni
Novanta e chi invece preferisce collocarla ai primi anni del XVII seco-
lo.
È uno dei rari ritratti femminili eseguiti da Federico Barocci, e ci
colpisce per il vivo naturalismo con cui viene raffigurato il giovane
volto dall'aria fresca e delicata.
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15. Madonna del gatto
Londra, National Gallery
1575 circa
Olio su tela, 112 x 92 cm
Immagine
Per questo signore dipinse un altro scherzo; la Vergine sedente in
una camera col Bambino in seno, a cui addita un gatto, che si slan-
cia ad una rondinella tenuta da San Giovannino, legata in alto col
filo, e dietro si appoggia San Giuseppe con la mano ad un tavolino,
e si fa avanti per vedere. Il “signore” è il conte Antonio Brancaleoni,
e la descrizione è di Giovan Pietro Bellori. Lo stesso conte aveva
commissionato a Federico Barocci una replica della Madonna delle
ciliegie (n. 11) che oggi è conservata a Piobbico, in provincia di Pesa-
ro-Urbino, presso la chiesa di Santo Stefano.
La Madonna del gatto (da non confondersi con la Madonna della
gatta, n.30) è uno dei dipinti più gioiosi e familiari e quindi più
apprezzati di Federico Barocci, e prende il nome dal gatto bianco a
macchie rosse che si alza sulle zampe posteriori e osserva, in modo
molto naturale, il cardellino (simbolo della Passione) tenuto in mano
da san Giovannino. Quest'ultimo viene sorretto dalla Madonna, che
con l'altra mano regge il Bambino e alza i piedi quasi a voler provoca-
re il gatto, mentre da dietro san Giuseppe osserva divertito la scena
sorridendo. Nelle suole consunte delle calzature della Madonna, alcu-
ni vedono quasi una sorta di anticipazione della Madonna dei
pellegrini di Caravaggio, perché il particolare sarebbe assimilabile ai
piedi in primo piano del pellegrino inginocchiato di fronte alla
Madonna nella tela di Michelangelo Merisi.
Gesù sembra essere talmente preso a osservare il gatto che quasi si
dimentica della mammella della madre, dalla quale con tutta eviden-
za stava succhiando il latte e dalla quale distoglie lo sguardo.
Si ha quasi l'impressione di vedere non la famiglia di Gesù, ma una
normale famiglia “terrena” in una scena di vita quotidiana: una
composizione che quindi si contraddistingue per la sua grande spen-
sieratezza e per la sua atmosfera serena e rilassata. Ad accrescere
questa sensazione, l'ambientazione domestica con oggetti della vita
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quotidiana, come la cesta che appare in basso e dentro alla quale
notiamo un cuscino.
Il dipinto, durante il Settecento, entrò a far parte delle raccolte di
un collezionista perugino per poi passare, nell'Ottocento, presso due
collezionisti inglesi, l'ultimo dei quali, William Holwell Carr, cedette
la Madonna del gatto alla National Gallery di Londra dove ancora
oggi si può ammirare.
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16. Immacolata concezione
Urbino, Galleria Nazionale delle Marche
1575 circa
Olio su tela, 217 x 144 cm
Immagine
Un'altra pala destinata alla chiesa di San Francesco di Urbino,
questa volta commissionata dalla Compagnia della Concezione. La
datazione che farebbe risalire l'opera al 1575 circa, in assenza di
documenti certi, si deve a un disegno conservato agli Uffizi all'interno
del quale si vede uno studio della testa del Gesù Bambino della
Madonna del gatto (n. 15) e un altro delle mani della bambina che si
trova in basso a destra nell'Immacolata concezione.
Il tema era particolarmente caro all'ambiente francescano, ma era
tuttavia, a quel tempo, al centro di polemiche, tanto che si dovrà
attendere fino al 1854 con Pio IX la definizione ufficiale del dogma
dell'Immacolata concezione da parte della Chiesa. Federico Barocci,
con questa tela, rivisita la tradizionale iconografia che voleva la
Madonna in cielo con il capo coronato di dodici stelle e con il piede
poggiato sopra alla luna e al drago: si tratta di un'iconografia che
deriva in parte da un passo del libro dell'Apocalisse (12, 1). Un esem-
pio simile di questo modo di rappresentare il tema, più o meno coevo
a Federico Barocci ma rispetto a lui più tradizionale, si può ravvisare
nell'Immacolata concezione di Francesco Vanni (circa 1588), pittore
senese la cui arte presenta diverse suggestioni baroccesche (come del
resto risulta evidente da questo dipinto).
L'artista urbinate propone una sorta di “misto” tra il tema dell'Im-
macolata concezione e quello della Madonna della Misericordia,
ovvero il tema in base al quale la Madonna viene rappresentata
mentre apre il suo manto per accogliere i fedeli, che solitamente si
dispongono attorno a lei a semicerchio. Notiamo infatti l'assenza del
drago (la luna invece c'è) e al contempo la presenza di alcuni fedeli
(forse i membri della confraternita che ha commissionato il dipinto)
che si dispongono attorno ai piedi di Maria e guardano tutti verso di
lei: il modo in cui la veste della Vergine viene mossa dal vento e il
modo in cui apre le braccia ricordano un po' il tema della Madonna
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della Misericordia.
Il dipinto viene citato anche nella Vita di Federico Barocci di
Bellori: nella chiesa di San Francesco su l'Altare della Compagnia
della Concezione vi è l'immagine della Vergine in piedi sopra la
Luna con le braccia aperte, e sotto raccoglie uomini e donne della
Compagnia in divozione.
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17. Madonna del popolo
Firenze, Galleria degli Uffizi
1575-1579
Olio su tela, 359 x 272 cm
Immagine
La pala è tra le più celebri di Federico Barocci ed è anche tra quelle
con la composizione più studiata, come testimonia l'elevato numero
di disegni preparatori e di schizzi che sono rimasti.
La scena si sviluppa su due registri: in quello superiore vediamo
Cristo e la Madonna che sono seduti sulle nuvole in compagnia di
alcuni angeli, e nel registro inferiore vediamo il popolo che dà il nome
al dipinto raffigurato in una vasta e interessantissima varietà di pose
e di espressioni. È proprio la parte con il popolo quella più interes-
sante perché offre molti spunti di riflessione, a cominciare dalla
precisione anatomica della pittura di Federico Barocci testimoniata
dall'uomo a torso nudo che si trova semisdraiato in basso al centro.
Precisione che riscontriamo anche nella raffigurazione del cane in
basso a destra e precisione unita a delicatezza e tenerezza che trovia-
mo nella rappresentazione delle espressioni gioiose dei bambini.
Federico Barocci, come anticipato, fornisce con questa sua impres-
sionante pala una grande varietà di espressioni, tutte attentamente
studiate: vediamo quindi la madre, sulla sinistra, che invita i bambini
a pregare indicando l'apparizione delle divinità, vediamo ancora a
sinistra un bambino curioso che sfoglia le pagine del libro della
madre, persone che si stupiscono vedendo Gesù e Maria, il musicista
cieco sulla destra e sopra di lui un bambino in braccio alla madre che
si mette le dita in bocca. Ed è curioso notare come l'unico personag-
gio che rivolge lo sguardo verso l'osservatore sia il cagnolino, partico-
lare questo che tornerà anche nell'Ultima cena della Cattedrale di
Urbino (n. 26).
Gli uomini sulla destra forse potrebbero rappresentare i membri
della confraternita che commissionò questo dipinto al pittore urbina-
te. L'opera doveva essere inizialmente eseguita da Giorgio Vasari, ma
l'artista aretino scomparve nel 1574, così la Pia Confraternita dei
Laici di Santa Maria della Misericordia decise di rivolgersi a Federico
52
Barocci per la realizzazione della pala da porre nel proprio altare
all'interno della Pieve di Santa Maria di Arezzo. Non sappiamo
perché la confraternita decise di rivolgersi proprio a Federico Baroc-
ci, la cui fama nel 1574 era ancora piuttosto limitata: è possibile che la
scelta si debba al grande successo che riscosse la Deposizione di
Perugia (n. 9), che fu una delle opere che contribuirono a lanciare il
nome di Federico Barocci anche al di fuori dei confini della patria. Il
dipinto fu poi consegnato nel giugno del 1579, in seguito a numerosi
ritardi testimoniati anche dalle lettere tra il pittore e i membri della
confraternita.
53
18. Sepoltura di Cristo
Senigallia, Chiesa della Croce
1579-1582
Olio su tela, 295 x 187 cm
Immagine
La Sepoltura di Cristo fu commissionata al pittore urbinate dalla
confraternita del Sacramento e della Croce di Senigallia per la propria
chiesa, dove si trova ancora oggi.
La realizzazione del dipinto durò tre anni, dal 1579 al 1582, anche
perché la composizione fu, come al solito, studiatissima. Il corpo di
Cristo, uno dei particolari più luminosi della scena, occupa il centro
della pala e viene trasportato verso il sepolcro da Nicodemo, Giusep-
pe di Arimatea e san Giovanni, le cui fattezze ricordano quelle del san
Giovanni della Deposizione (n. 9) e della Madonna di san Giovanni
(n. 6). La figura di san Giovanni che, come scrive Bellori, tenendo il
lenzuolo a' piedi di Cristo, esprime la fatica e la gravezza del peso,
per via del suo naturalismo è una delle più interessanti della compo-
sizione. Molto tenera e delicata è invece la figura della Maddalena,
che troviamo in basso a destra e che si contraddistingue per i bellissi-
mi capelli biondi: la santa esprime un dolore composto, inginocchiata
di fronte all'ingresso del sepolcro con le mani giunte. Ritroviamo la
stessa compostezza e lo stesso gesto nella Madonna, che invece occu-
pa una posizione più defilata in secondo piano, in compagnia di due
donne, una delle quali si asciuga le lacrime con un velo.
Motivo di interesse in questo dipinto è anche il paesaggio: sulla
cima della collina del Calvario vediamo le tre croci, con i due ladroni
ancora inchiodati, e con il particolare di due uomini che stanno
portando via le scale dalla croce di Gesù. Sulla destra vediamo inol-
tre, illuminati dalla luce del tramonto, i “Torricini” del Palazzo Duca-
le di Urbino, particolare che tornerà spesso nelle composizioni di
Barocci: la vista del Palazzo è quella di cui Barocci godeva dalla fine-
stra di casa sua.
La composizione ricorda a tratti la Deposizione di Raffaello, che
Federico con tutta evidenza conosceva e che qui rivisita in modo
molto personale e suggestivo.
54
19. Annunciazione
Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana
1582-1584
Olio su tela, 248 x 170 cm
Immagine
La bellissima tela, che fu poi replicata con qualche rivisitazione per
il meraviglioso capolavoro della basilica di Santa Maria degli Angeli
(n. 31), fu commissionata dal duca Francesco Maria II Della Rovere
per la propria cappella nella basilica di Loreto. Bellori dice che il duca
Francesco Maria II era divoto alla Santissima Annunziata tanto da
dedicarle una cappella all'interno della basilica. Da qui la tela, nel
1781, fu trasferita a Roma ed esposta nel Palazzo Apostolico e quindi
requisita durante le spoliazioni napoleoniche nel 1797 e spedita a
Parigi, dove rimase fino al 1815 in esposizione al Louvre. Il dipinto
rientrò poi in Italia in seguito alla Restaurazione e oggi si può ammi-
rare nella Pinacoteca Vaticana. Durante il viaggio verso Parigi la tela
ha subito diversi danni, in parte riparati a seguito di opere di restauro
ma che si notano ancora soprattutto osservando la base del dipinto.
L'Annunciazione eseguita per il duca godette di grande fortuna, e
la replica con varianti conservata in Umbria è soltanto una delle tante
che Barocci e soprattutto la sua scuola eseguirono.
È un'opera dall'intenso lirismo, i due protagonisti sono realizzati
in modo molto delicato e aggraziato e compaiono alcuni particolari,
come il gattino addormentato in basso a sinistra, che contribuiscono
a dare un tono familiare alla scena. Dietro ai due protagonisti notia-
mo che una tenda si discosta per farci vedere, al di là della finestra,
ancora la facciata dei torricini del Palazzo Ducale di Urbino.
Sempre Bellori, che offre una descrizione molto particolareggiata
del dipinto, dice che il duca fu entusiasta di quest'opera e per questo
rimunerò liberalissimamente l'arte ingegnosa, riconoscendo Federi-
co Barocci tra gli uomini più insigni della sua corte.
55
20. Chiamata di sant'Andrea
Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique
1583
Olio su tela, 315 x 235 cm
Immagine
La Chiamata di sant'Andrea fu realizzata nel 1583, su richiesta
della duchessa di Urbino Lucrezia d'Este, per l'oratorio della Confra-
ternita di Sant'Andrea di Pesaro, come attesta anche Bellori. L'opera
fu consegnata l'anno successivo e piacque a Francesco Maria II al
punto che il duca ne chiese una replica, realizzata tra il 1586 e il 1588,
per inviarla in dono a Filippo II di Spagna e ricevere in cambio l'Ordi-
ne del Toson d'Oro (di cui sant'Andrea è protettore). Risulta errata la
notizia di Bellori secondo la quale l'esemplare inviato all'Escorial è
quello inizialmente realizzato per la chiesa di Sant'Andrea e secondo
cui Federico Barocci, in sostituzione, avrebbe realizzato per la chiesa
una replica. Il dipinto, come anticipato nel profilo biografico, fu
anch'esso vittima delle spoliazioni napoleoniche: portato prima a
Parigi nel 1797, fu quindi inviato a Bruxelles per far parte del locale
Museo di Belle Arti, dove si trova ancora oggi.
Si tratta di un quadro singolare per la sua atmosfera suggestiva,
con la nebbia del lago che avvolge i particolari della scena resa con un
uso sapiente dello sfumato e con un colorismo piuttosto tenue. La
figura di Cristo è in piedi, solenne, mentre sant'Andrea si trova ingi-
nocchiato ai suoi piedi, a braccia aperte, mentre riceve la chiamata:
sembra quasi di immaginare il dialogo. A queste due figure fa un po'
da contraltare san Pietro, che vediamo sulla destra mentre in modo
naturalistico spinge la barca sulla riva dopo il termine della pesca,
aiutato da un pescatore che ferma l'imbarcazione con il remo.
56
21. Martirio di san Vitale
Milano, Pinacoteca di Brera
1583
Olio su tela, 392 x 269 cm
Immagine
Secondo le agiografie, san Vitale era un soldato romano che doveva
accompagnare un giudice da Milano a Ravenna, dove un medico di
origini liguri, sant'Ursicino, era stato condannato a morte per la sua
fede cristiana. Vitale, assistendo Ursicino, rese manifesta la propria
fede nel cristianesimo e per questo venne fatto arrestare, torturare e
quindi giustiziare dallo stesso giudice che aveva accompagnato a
Ravenna, città di cui il santo è diventato protettore e dove il suo culto
è particolarmente vivo.
Si tratta di uno dei dipinti più tumultuosi di Federico Barocci: il
santo è al centro, nudo, fatta eccezione per un velo che gli copre la
vita, e sta subendo il martirio a opera dei soldati che lo circondano. Il
tutto sotto gli occhi del giudice, che alza la sua mano per ordinare il
supplizio, e mentre un angelo arriva in volo a portare la palma del
martirio. È interessante notare come Barocci dipinga le espressioni di
partecipazione e anche di curiosità nei soldati in secondo piano.
Molto naturalistici sono i volti del primo soldato a sinistra e di quello
che si trova in corrispondenza della mano del giudice: si stanno spor-
gendo oltre le persone che li precedono per vedere meglio la scena. La
donna sulla sinistra, la madre con i bambini, è la stessa che notiamo,
sempre nella stessa posizione, nella Madonna del popolo (n. 17) e che
comparirà con qualche variante anche in Sant'Ambrogio perdona
Teodosio (n. 38). Anche con questo dipinto, Federico si rivela un otti-
mo osservatore del quotidiano. Inoltre, molto studiato è il colorismo
della scena: i toni accesi dei protagonisti della scena, che spiccano sul
grigiore del cielo nuvoloso, portano l'osservatore a focalizzare su di
loro l'attenzione.
Il dipinto fu eseguito per la chiesa di San Vitale di Ravenna, che lo
commissionò nel 1580, e come molte altre tele di Federico Barocci fu
coinvolto nelle spoliazioni napoleoniche ma non andò in Francia: si
fermò a Milano a Brera, dove è conservata ancora oggi.
57
22. Visitazione
Roma, Santa Maria in Vallicella
1583-1586
Olio su tela, 285 x 187 cm
Immagine
La Visitazione fu commissionata nel 1582 dai padri oratoriani
della Vallicella, che volevano l'opera per la loro chiesa di Roma (nota
anche come “Chiesa Nuova”). Il dipinto arrivò a Roma nell'estate del
1586, fu molto apprezzato sia dai committenti che dal pubblico e,
come raccontano le agiografie, ma anche la letteratura artistica (su
tutti sempre Bellori), san Filippo Neri era solito pregare e meditare
davanti a questo dipinto. L'opera fu apprezzata anche nell'ambiente
artistico come dimostrano le diverse riproduzioni a stampa e le copie
che ne furono tratte.
Il tema è quello classico dell'incontro tra la Madonna e sua cugina
santa Elisabetta subito dopo l'Annunciazione: le due donne sono
raffigurate al centro della scena mentre si scambiano una robusta
stretta di mano, quasi mascolina. I due mariti, rispettivamente san
Giuseppe e san Zaccaria, si dispongono su una linea diagonale che
percorre tutto il dipinto e che ha al centro proprio le due donne. Sulla
destra osserviamo invece una serva che in mano ha una cesta con due
galline, che a livello “letterale” possono essere intese come un dono
per la visita ma che a livello metaforico possono essere forse un'allu-
sione al fatto che l'uovo è il simbolo dell'Immacolata concezione,
tema a cui rimanda questo dipinto. Si tratta comunque di un aspetto
del dipinto che evoca una dimensione quotidiana, così come l'asino
che vediamo spuntare sulla sinistra e che viene condotto da san
Giuseppe.
La finestra sullo sfondo si apre su un paesaggio collinare. Da un
disegno preparatorio conservato a Copenaghen, risulta che inizial-
mente Federico Barocci aveva pensato a un'ambientazione urbana
per questo dipinto, e gli studiosi, in tale ambientazione, individuano
uno scorcio della città natale del pittore.
58
Federico Barocci Autore: Federico Giannini
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  • 2. Federico Giannini Federico Barocci eBook per l'Arte un'iniziativa
  • 3. © 2011 eBook per l'Arte – Federico Giannini Prima Edizione 2011 Licenza Creative Commons 3.0 – Attribuzione - Non commerciale – No opere deri- vate http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/ In copertina Federico Barocci, Deposizione Perugia, Cattedrale di San Lorenzo I titoli di opere d'arte sottolineati e colorati in blu sono cliccabili: si aprirà l'immagine dell'opera (necessaria connessione a internet).
  • 4. Ci aveva visto molto bene Michelangelo quando, ormai alla fine della sua carriera e della sua esistenza, a Roma notò un Federico Barocci poco più che ventenne che disegnava in compagnia di Taddeo Zuccari, e dopo aver visto quegli schizzi lo lodò inanimandolo a proseguire gli studi incominciati, come racconta Giovan Pietro Bello- ri. Non poteva esserci inizio migliore per la carriera di quel giovane che lasciò presto la capitale dello Stato Pontificio per ritirarsi nella sua patria, Urbino, in una sorta di autoisolamento che tuttavia non gli impedì di ottenere fama in tutta Europa e di diventare uno dei pittori più influenti del suo tempo. Non si sa bene per quale motivo se ne sia partito in tutta fretta da Roma: lui sosteneva di essere stato avvelenato da colleghi invidiosi. Chissà se fu davvero così o se erano soltanto le paure di un uomo dal carattere molto fragile: non si sa ancora niente di sicuro. Ma certo è che anche agli occhi dei suoi contemporanei e dei suoi biografi, Fede- rico Barocci doveva apparire come una persona estremamente sensi- bile, dal temperamento difficile, chiuso e solitario. Un temperamento che condizionò anche il suo lavoro, perché è diventata famosa la quasi proverbiale lentezza con cui conduceva a termine i suoi dipinti e a causa della quale faceva aspettare anche diversi anni i committen- ti: lentezza dovuta in parte alle asperità del suo carattere, ma in parte anche all'elevatissima cura che dedicava a ogni singola composizione, e la grande quantità di disegni che di lui ci è rimasta è lì a testimonia- re questo aspetto della sua arte. Ma nonostante tutto ciò fu un uomo buono, altruista e fortemente stimato da tutti coloro con cui si trovò a intrattenere rapporti di lavo- ro. Non però si guidò mai con l'avarizia, ma solo faceva stima della sua riputazione; dipingeva nobilmente per l'onore, non mancando a studio o fatica […]. Circa li costumi non avresti ripreso in lui cosa minima alcuna; era principalmente caritativo verso i poveri, bene- fico con tutti, affabile ed umile nel conversare. Così lo descriveva ancora Giovan Pietro Bellori, che nelle sue Vite dedica una sezione molto ampia a Federico Barocci: un'ulteriore attestazione di quanto importante fosse la sua personalità. Federico Barocci è passato alla storia dell'arte come il maggior interprete della pittura controriformistica. Ma si tratta di una defini- 4
  • 5. zione piuttosto riduttiva, perché non dà idea del fascino che esercita- no le sue meravigliose opere d'arte sugli osservatori. La sua produzio- ne è costituita quasi esclusivamente da temi a soggetto sacro e, se si escludono i ritratti, l'unico dipinto a soggetto profano è la Fuga di Enea da Troia. Ma la bellezza, la raffinatezza, il lirismo delle compo- sizioni baroccesche fanno apparire i personaggi della sfera religiosa sotto una luce diversa: la Madonna dell'Annunciazione della Pinaco- teca Vaticana o della Basilica di Santa Maria degli Angeli ci sembra una ragazzina timida, le Maddalene sono sempre bellissime e delica- te, la Sacra Famiglia della Madonna del gatto o della Madonna delle ciliegie sembra quasi non aver niente di sacro tanta è la dimensione di quotidianità e intimità che caratterizza queste scene. E a far da contorno a questi personaggi troviamo in molte opere un'umanità viva, colta in una grande varietà di pose e di espressioni: è il caso, per esempio, della Madonna del popolo, dove è proprio il popolo a otte- nere il ruolo di protagonista principale del dipinto, ancor più dei personaggi appartenenti al mondo ultraterreno. È un'arte che suscita emozioni, che colpisce, e in certi momenti si ha quasi l'impressione di dimenticare che quelle a cui si assiste sono scene tratte dal repertorio della religione, tanta è la meraviglia che si prova davanti a questi capolavori. E come tralasciare i ritratti di Federico Barocci, così realistici e naturali, così eleganti e accurati? Studiando le opere di Tiziano che abbellivano le sale del Palazzo Ducale, Federico creava ritratti splen- didi, che ci dànno un'ulteriore idea della sua sapienza e della sua immensa abilità tecnica. E un'altra presenza costante nella sua arte è proprio il Palazzo Ducale di Urbino, raffigurato in moltissime opere così come il pittore lo vedeva dalla finestra della sua casa, sullo sfon- do delle colline marchigiane: rappresentazioni che più di ogni scritto e più di ogni documento forniscono prove di quello stretto rapporto che Federico Barocci aveva con la sua città natale. E infine, tutti coloro che osservano le opere di Federico Barocci, anche per la prima volta, rimangono colpiti dai suoi colori: non è un caso se la grande mostra monografica che si è tenuta a Siena tra la fine del 2009 e gli inizi del 2010 definiva, nel titolo, la pittura di Federico Barocci come “l'incanto del colore”. Sono proprio quei bril- lanti, vivaci e luminosi colori di derivazione correggesca una delle 5
  • 6. peculiarità salienti dell'arte di Federico Barocci: le sue opere sono un tripudio di gialli, arancioni, azzurrini, verdi, violetti declinati sempre diversamente e declinati in modo da stupire e da coinvolgere in modo sempre più avvincente l'osservatore. Un coinvolgimento che diventa assoluto quando si osserva la Deposizione di Perugia, dipinto che più di ogni altro cattura chi lo ammira con le sue incredibile variazioni cromatiche, con la sua lumi- nosità, con il suo dinamismo. È impossibile pensare ad altro quando si osserva la Deposizione di Federico Barocci, e per provare queste sensazioni è necessario osservare dal vivo questa grandiosa tela. Un dipinto emozionante, una sinfonia di colori che avvolge l'osservatore come una straordinaria e magica melodia. Sì, perché per Federico Barocci pittura e musica si equivalgono: il pittore è come un musicista, accosta i toni come il musicista esegue gli accordi, e dal momento che l'udito trae diletto ascoltando una bella melodia, così anche la vista deve trarre piacere dall'armonia dei colori e dei lineamenti. Bellori racconta che un giorno, mentre dipin- geva, gli si accostò il suo mecenate Guidobaldo II Della Rovere, duca di Urbino, e gli chiese cosa stesse facendo. E facendogli vedere il quadro, Federico rispose: “sto accordando questa musica”. 6
  • 7. Indice I. Profilo biografico 9 II. Le opere 29 III. L'eredità di Federico Barocci 90 IV. Bibliografia di riferimento 97
  • 8.
  • 10. Potrebbe risultare difficile pensare che un pittore che non si mosse quasi mai dalla sua città natale sarebbe poi diventato uno degli artisti più influenti della sua epoca: così è per Federico Barocci, che trascor- se pressoché tutta la sua esistenza a Urbino, dove nacque tra il secon- do e il terzo decennio del Cinquecento. La data di nascita è stata a lungo oggetto di dibattito tra gli studio- si, perché il suo primo biografo importante, Giovan Pietro Bellori (1613 – 1696), indica il 1528 come anno in cui il pittore vede la luce. Ne consegue che altri che in seguito scrissero su Barocci presero per buona questa come data di nascita. Studi risalenti al Novecento e condotti, tra gli altri, da Harald Olsen, Edmund Pillsbury e Andrea Emiliani, spostano la data al 1535, in seguito alla scoperta di un importante documento: Francesco Maria II Della Rovere, duca di Urbino che, come vedremo nel prosieguo della trattazione, diventò un punto di riferimento importante per l'arte di Barocci, annotava in un suo diario la scomparsa del pittore, avvenuta nel 1612, scrivendo che il pittore aveva all'epoca settantasette anni. Al giorno d'oggi sembra essere proprio questa la data di nascita più corretta, in ragio- ne del fatto che la fonte da cui la data viene tratta risulta di gran lunga più attendibile rispetto all'altra. Ma non è solo la data di nascita a creare qualche piccolo problema: c'è anche il cognome del pittore. Proprio sul cognome c'è grande con- fusione, perché nelle fonti l'artista viene citato come “Federico Baroc- ci” ma spesso anche come “Federico Fiori”, quindi al giorno d'oggi, anche navigando sul web, si può constatare come molti siti e molti libri parlano di “Federico Barocci detto il Fiori” e tanti altri parlano di “Federico Fiori detto il Barocci”. C'è da notare che il pittore spesso firmava i suoi dipinti, ed era solito farlo con la dicitura FEDERICUS BAROCIUS URBINAS FACIEBAT, seguita dalla data. Sempre Olsen, uno dei più autorevoli studiosi novecenteschi di Federico Barocci, dice che il vero nome era proprio Barocci e che la dicitura “Fiori” era totalmente sconosciuta ai contemporanei dal momento che appare soltanto a partire da documenti settecenteschi. La famiglia di Federico era di origini lombarde, e sappiamo che un suo antenato, Ambrogio Barocci, di professione scultore, si era trasfe- rito nel piccolo ducato negli anni Settanta del Quattrocento, forse at- tratto dalle prospettive di guadagno che la corte di Urbino poteva of- 10
  • 11. frire. Troviamo questa notizia ancora nelle Vite di Giovan Pietro Bel- lori: stando alla ricostruzione dello storico romano, Ambrogio sareb- be stato il bisnonno di Federico, e il padre del nostro artista si chia- mava anch'egli Ambrogio. Quest'ultimo svolgeva la professione di modellatore, occupandosi di rilievo, modelli, sigilli, ed astrolabi. Nell'anno in cui nacque Federico Barocci, il ducato di Urbino era retto da Francesco Maria I Della Rovere (1490 – 1538): questi era salito al potere nel 1508, dopo che il suo predecessore, Guidobaldo I da Montefeltro (1472 – 1508), figlio di quel Federico III (1422 – 1482) noto per essere stato uno dei più grandi mecenati del Rinasci- mento e per essere stato ritratto da Piero della Francesca, era scom- parso senza lasciare eredi e facendo estinguere la famiglia dei Monte- feltro. Francesco fu indicato come suo successore proprio da Guido- baldo, che era suo zio, e governò fino al 1538, fatta eccezione per una breve interruzione tra il 1516 e il 1521: nel 1516 infatti Lorenzo II de' Medici, noto per essere il dedicatario del Principe di Niccolò Machia- velli, riuscì a spodestare il Della Rovere, che recuperò il ducato solo qualche anno dopo, in seguito alla scomparsa di papa Leone X Medi- ci, che aveva favorito Lorenzo II durante le lotte per la conquista di Urbino. Nel 1539 Francesco scomparve e lasciò il ducato nelle mani di Guidobaldo II Della Rovere: ci troviamo negli anni della formazione di Federico Barocci, e il ducato di Urbino, dopo le lotte del secondo decennio del Cinquecento, conosce un rinnovato periodo di splendo- re culturale. In seguito all'esperienza quattrocentesca dei Montefeltro (soprattutto di Federico III), i Della Rovere vollero porre le basi per fare di nuovo di Urbino uno dei poli artistici e intellettuali più impor- tanti della penisola. La piccola corte marchigiana tornava a vivere gli splendori del primo Rinascimento, frequentata da artisti e letterati (un nome su tutti: Baldassarre Castiglione), diventando così un ecce- zionale centro di cultura umanistica, forte anche dei rapporti che il ducato aveva con lo Stato Pontificio: non bisogna dimenticare che tra il 1503 e il 1513 il papa fu Giulio II, al secolo Giuliano Della Rovere. Un'importanza culturale sancita anche dalla nascita, nel 1506, dell'U- niversità: il primo nucleo fu istituito per merito di Guidobaldo da Montefeltro, e negli anni successivi, sotto il dominio dei Della Rove- re, furono ampliate le prerogative del nuovo ateneo, che andò così 11
  • 12. acquistando sempre maggior prestigio. Per quanto riguarda l'arte, sarebbe quasi sufficiente dire che a Urbino nacque, nel 1483, Raffaello: il suo genio fu stimolato dall'at- mosfera raffinata che poteva respirare alla corte, per la quale lavora- va il padre Giovanni, nonché dalle grandi opere realizzate dai maestri che operarono per i Montefeltro nel Quattrocento. Ma parlare solo di Raffaello sarebbe riduttivo, perché furono moltissimi gli artisti che ebbero i natali nelle terre del ducato o che nel corso della loro carrie- ra si trovarono ad aver a che fare con la corte urbinate. Tra gli artisti molto legati ai Della Rovere troviamo Tiziano (1488 ca. – 1576), che ricevette diverse commissioni da parte di Francesco Maria prima e da Guidobaldo poi: il ritratto più famoso di Francesco Maria, quello conservato agli Uffizi che ritrae il duca in armatura, fu realizzato proprio dal pittore cadorino, che sempre per Francesco eseguì anche altri dipinti tra cui il ritratto della moglie Eleonora Gonzaga e il Cristo conservato a Palazzo Pitti. Per Guidobaldo invece realizzò nel 1538 quello che forse è uno dei dipinti più famosi e discussi del mondo, la Venere di Urbino, che arrivò a Firenze nel 1631 insieme a Vittoria Della Rovere (1622 – 1694), discendente dei duchi di Urbino, andata in sposa nel 1634 (all'età di dodici anni) a Ferdi- nando II de' Medici (1610 – 1670): in seguito alla scomparsa, proprio nel 1631, dell'ultimo duca Francesco Maria II (1549 – 1631), il ducato si estinse e fu annesso allo Stato Pontificio, ma le collezioni artistiche furono lasciate a Vittoria. Si spiega così perché oggi troviamo nei musei fiorentini moltissime delle opere realizzate per la corte di Urbi- no. Tra gli altri artisti che, in un modo o nell'altro, furono legati ai Della Rovere è necessario citare il Bronzino (1503 – 1572), che duran- te gli anni della sua formazione soggiornò per un breve periodo nel Ducato e di cui si ricorda il famoso ritratto di Guidobaldo II, conser- vato a Palazzo Pitti, e Dosso Dossi (1486 – 1542), che per Francesco Maria I affrescò la Camera delle Cariatidi nella Villa Imperiale di Pesaro, città che i Della Rovere avevano fatto diventare una seconda capitale del ducato e dove programmarono diversi interventi urbani- stici e culturali, vista anche la posizione sul mare della città, più favo- revole ai rapporti commerciali con gli altri stati. Infine è necessario citare tre artisti dai nomi meno famosi ma che 12
  • 13. furono decisivi per l'iniziale formazione di Federico Barocci: Girola- mo Genga, Francesco Menzocchi e Battista Franco. Il primo, nato a Urbino (1476 – 1551), fu non soltanto pittore ma anche scultore e architetto, ed è interessante notare che la sua famiglia era legata ai Barocci da vincoli di parentela. Il figlio di Girolamo, Bartolomeo (1518 – 1558), era infatti lo zio di Federico Barocci, e nel 1551 diventò responsabile delle fabbriche ducali, un ruolo di grande prestigio che ricoprì fino al 1558, anno della sua scomparsa. Francesco Menzocchi (1502 – 1574), pittore di origini romagnole (nacque a Forlì), lavorò nei primi anni della sua carriera nella città natale, e in seguito, tra la fine degli anni Venti e l'inizio degli anni Trenta del Cinquecento, si trasferì a Pesaro per lavorare presso la già citata Villa Imperiale e tornò poi nel Ducato più avanti nel corso della sua carriera. Battista Franco (1498 – 1561) proveniva invece da Venezia ed è noto per essere stato, oltre a un importante pittore manierista, anche il più grande e fedele “ammiratore” di Michelangelo: dopo aver cono- sciuto a Roma le opere del genio di Caprese ne rimase impressionato a tal punto da dedicare una buona parte delle sue energie alla copia delle opere del Buonarroti. È famosa la frase di Giorgio Vasari su Battista Franco, che dà un'idea della carica di “venerazione” del pitto- re nei confronti di Michelangelo: non rimase schizzo, bozza o cosa non che altro stata ritratta da Michelagnolo, che egli non disegnas- se. Battista Franco arrivò a Urbino negli anni Quaranta del Cinque- cento, grazie all'intercessione di Bartolomeo Genga che lo raccoman- dò a Guidobaldo Della Rovere: il pittore veneziano fu incaricato di eseguire alcuni affreschi all'interno del Duomo di Urbino. Furono questi gli artisti, come detto, importanti per la formazione di Federico Barocci, e bisogna aggiungere il fatto che anche la sua era una famiglia di artisti: un particolare di non poco conto, visto che grazie alla famiglia compì i suoi primi passi in ambito artistico. Tuttavia è necessario sottolineare che a oggi non conosciamo con sicurezza l'esatto iter della formazione di Federico Barocci e ci sono ancora molti aspetti da chiarire, perché sulla sua produzione giovani- le le ombre prevalgono sulle luci. Stando a quanto ci racconta ancora Giovan Pietro Bellori, il suo primo maestro dovrebbe essere stato Francesco Menzocchi, informazione che possiamo accettare con un certo margine di certezza: secondo Bellori, il pittore forlivese prese 13
  • 14. ferma speranza del giovinetto, e l'esortò ad applicarsi tutto alla Pittura. Menzocchi era un pittore piuttosto famoso al suo tempo, e anche se in seguito alla sua scomparsa la sua fortuna andò scemando, di recente si sta assistendo a una rivalutazione della sua figura. Pitto- re dallo stile elegante e raffinato, debitore nei confronti del classici- smo raffaellesco che ebbe modo di osservare dal vivo durante un soggiorno a Roma, Francesco Menzocchi ebbe un ruolo di un certo peso nell'avviare Federico Barocci a quella pittura aggraziata e delica- ta che avrebbe contraddistinto la sua personalità anche negli anni a venire. In seguito al ritorno di Francesco Manzocchi in patria, Federi- co Barocci fu mandato a bottega da Battista Franco: anche se era un pittore veneziano, Franco si era trasferito a Roma da giovanissimo, quindi possiamo inserirlo a pieno titolo tra gli esponenti del Manieri- smo romano, una cultura che l'artista, possiamo ipotizzare, cercò di trasmettere al suo giovane allievo. L'esperienza accanto a Battista Franco è certa ma fu di breve dura- ta, perché l'artista lasciò dopo poco tempo Urbino e Federico si trasferì dallo zio Bartolomeo Genga, che era in ottimi rapporti con il duca Guidobaldo: Federico aveva così la ghiottissima opportunità di studiare i dipinti della collezione del duca, esperienza per lui molto importante. Bartolomeo Genga aveva ricevuto una formazione di alto livello dal momento che da giovane aveva studiato a Firenze prima con Bartolomeo Ammannati (1511 – 1592) e poi con Giorgio Vasari (1511 – 1574), quindi si trasferì a Roma e poi ancora a Verona, entrando a contatto con l'attivo ambiente artistico romano ma rice- vendo suggestioni anche dal Veneto: ed è proprio grazie allo zio che Federico Barocci cominciò ad “aprirsi” verso culture figurative diver- se da quella della città natale. Culture figurative diverse con le quali ebbe modo di entrare in contatto durante un soggiorno a Roma che secondo molti studiosi è da collocare tra il 1553 e il 1555. Lo zio Bartolomeo Genga, a seguito dell'elezione del nuovo papa Giulio III, era stato chiamato nella capi- tale dello Stato Pontificio per progettare alcune opere militari, e si ipotizza che a Roma l'architetto abbia introdotto il giovane Federico Barocci presso il cardinale Giulio Della Rovere (1532 – 1578), fratello del duca Guidobaldo, anche se alcuni studiosi tendono a minimizzare il ruolo dello zio. Possiamo dire che Giulio Della Rovere fu il primo 14
  • 15. mecenate di Federico Barocci, e il rapporto tra i due continuò anche negli anni successivi. A questi anni, e più precisamente al 1555, risale la prima opera nota di Federico Barocci, la Santa Cecilia tra i santi Giovanni, Maria Maddalena, Paolo e Caterina (nota anche come Estasi di Santa Ceci- lia, n. 1 della sezione “Le opere”). Risale invece al 1557-1558 il Marti- rio di san Sebastiano (n. 2), opera conservata presso la Cattedrale di Urbino, come la precedente. Queste due tele furono realizzate al ritorno di Federico Barocci da Roma: qui lo scultore aveva avuto modo di studiare da vicino le grandi opere dei maestri del Rinasci- mento, a cominciare dal suo concittadino Raffaello, l'incontro con il quale fu determinante per il prosieguo della sua carriera e per l'elabo- razione del suo stile. In quegli anni la città stava vivendo l'affermazio- ne del Manierismo romano, e di lì a poco si sarebbero imposte le personalità di grandi artisti come gli Zuccari, Taddeo (1529 – 1566) e Federico (1539 - 1609), che peraltro erano originari del ducato di Urbino e si erano trasferiti a Roma da giovanissimi, come Niccolò Circignani noto anche come il Pomarancio (1530 – 1597), che lavorò nella capitale dello stato pontificio all'inizio degli anni Sessanta del Cinquecento, e come Santi di Tito (1536 – 1603), fiorentino, trasferi- tosi a Roma a metà degli anni Cinquanta. Non bisogna poi dimentica- re che in quell'epoca era ancora attivo Michelangelo, che scomparve nel 1564 e la sua personalità esercitava una grandissima influenza sui giovani artisti. E tra l'altro pare che lo stesso Michelangelo nutrisse una particolare ammirazione nei confronti del giovane e molto promettente Federico Barocci. È un aneddoto che ci racconta Giovan Pietro Bellori e che è già stato anticipato nell'introduzione: Federico si trovava in compagnia di Taddeo Zuccari (che fu un po' una “guida” per lui in quel di Roma) a ricopiare una facciata di un palazzo eseguita da Polidoro da Cara- vaggio, e avvenne che Michelangelo si trovò a passare cavalcando una muletta, com'era suo costume davanti a quel palazzo. Gli altri giovani pittori si precipitavano dal grande maestro per mostrargli i loro dipinti, e pare che Federico non si fosse mosso, per timidezza: Taddeo gli avrebbe quindi preso i disegni e li avrebbe portati a Michelangelo, che lodò Federico Barocci inanimandolo a proseguire gli studi incominciati. 15
  • 16. Nel frattempo Bartolomeo Genga, nel 1558, moriva a Malta, dove si era recato per progettare alcune fortificazioni per rafforzare le dife- se dell'isola, che in quegli anni era minacciata dai turchi: famoso è l'assedio del 1565, dal quale i Cavalieri di Malta uscirono vincitori. Andrea Emiliani ipotizza che, in seguito al ritorno da Roma, Fede- rico Barocci compì anche altri due viaggi, uno a Parma e uno a Vene- zia, entrambi comunque nel 1559: potrebbe spiegarsi così la grande affinità che lega Federico Barocci al Correggio (1489 – 1534) e che troverebbe quindi maggiore riscontro sapendo che l'artista ebbe modo di vedere da vicino le opere di Antonio Allegri che si trovavano nella città ducale. Così come il viaggio a Venezia aiuterebbe a spiega- re meglio i punti di contatto tra l'artista urbinate e i pittori veneti, in particolare Tiziano, benché sia necessario sottolineare che Federico ha avuto modo di studiare in modo approfondito le opere di Tiziano presenti nelle collezioni del ducato di Urbino. Un rapporto, quello tra Federico Barocci e Tiziano, che si può notare già nelle sue opere giovanili, come l'Estasi di santa Cecilia citata in precedenza. Il pittore compì il suo secondo e ultimo viaggio a Roma nel 1561: era stato incaricato di partecipare alle decorazioni ad affresco del Casino di papa Pio IV in Vaticano. Si tratta di una villa che fu proget- tata da Pirro Ligorio (1510 – 1583) inizialmente per Paolo IV: alla scomparsa di papa Carafa, nel 1559, i lavori continuarono sotto il neoeletto Giovanni Angelo Medici di Marignano che, per la decora- zione, scelse alcuni artisti all'epoca molto giovani ma destinati a diventare tra i più grandi esponenti del Manierismo. L'edificio aveva una doppia natura in quanto doveva essere luogo di svago ma anche palazzo di rappresentanza: per questo motivo, per le decorazioni, i pittori si cimentarono non soltanto in temi aulici e solenni, ma anche in temi rustici. Tra gli artisti che parteciparono agli affreschi si distin- sero, oltre a Federico Barocci, i già citati Taddeo e Federico Zuccari e Santi di Tito. In questo contesto, Federico si dimostra particolarmente attratto dall'arte degli Zuccari, come si nota osservando le due volte decorate dal pittore (n. 4 e n. 5). Il secondo soggiorno a Roma si protrasse fino al 1563, come ci testimoniano i documenti relativi al pagamento dei lavori eseguiti da Federico: tuttavia il suo brillante periodo romano terminò in maniera 16
  • 17. non chiara e sono diversi i punti oscuri, perché pare che sia stato addirittura avvelenato da non meglio specificati colleghi invidiosi. O almeno questo era il timore di Federico Barocci, che dovette comun- que lasciare la città in preda a problemi di salute che lo avrebbero accompagnato per tutto il resto della sua esistenza (anche se non conosciamo bene quale sia stata questa malattia: forse un'ulcera duodenale). Bellori racconta addirittura di una “merenda” alla quale Federico sarebbe stato invitato da alcuni pittori, e continua dicendo che l'artista di Urbino avrebbe consumato insalata avvelenata. Racconta ancora Bellori che il cardinale Della Rovere, per cercare di far ritornare presto in salute il suo protetto, chiamò i migliori medici della città, ma questi non poterono far altro che consigliargli di torna- re a Urbino per ritemprarsi. Quello che è certo è che l'artista trascorse due anni di inattività cercando un rimedio alla sua malattia, tuttavia senza trovarlo. Una malattia che spesso diventava anche una giustifi- cazione ai continui ritardi nel consegnare le opere d'arte ai commit- tenti: Federico Barocci del resto ha anche la fama di pittore molto lento, ma questo forse più che alla sua malattia si deve all'estrema meticolosità con la quale progettava i suoi dipinti. A testimonianza di ciò abbiamo una mole davvero poderosa di disegni eseguiti da Federi- co Barocci, a fronte di un corpus di opere non vastissimo: l'ingente quantità di disegni che ci sono rimasti certifica in modo inequivocabi- le quanto fosse approfondito lo studio di ogni singola opera. Secondo alcuni studiosi però l'episodio dell'avvelenamento sareb- be nient'altro che un aneddoto, e la malattia che accompagnò Federi- co Barocci per il resto della sua vita non sarebbe dovuta a cause dolo- se ma semplicemente, come anticipato poco sopra, all'insorgere di un'ulcera. Secondo altri, la causa del suo allontanamento frettoloso da Roma fu una profonda crisi esistenziale. Possiamo anche ipotizza- re che l'artista crollasse sotto il peso dell'eccessiva pressione a cui era sottoposto lavorando a Roma, una città con un ambiente artistico molto diverso e molto lontano rispetto a quello della città natale. Al giorno d'oggi sembra comunque che la maggior parte degli studiosi sia portata a considerare l'episodio dell'avvelenamento alla stregua di un aneddoto privo di fondamento. Ad ogni modo, avvelenato o no, la manifestazione della malattia segnò profondamente la vita del pittore: già timido, introverso e 17
  • 18. molto sensibile per carattere, decise di non lasciare più la città natale, ritenendo che fosse l'unico luogo dove avrebbe potuto trovare confor- to e svolgere al meglio il suo lavoro, lontano dalle gelosie dei rivali. Il 1563 è un anno importante non solo perché coincide con il ritor- no di Federico Barocci a Urbino, ma anche perché è l'anno in cui si conclude il Concilio di Trento, che si era aperto nel 1545 sotto il pontificato di Paolo III. Il Concilio di Trento ebbe importanti ripercussioni anche sulle arti figurative e di fatto pose le basi per la nascita del Barocco: l'arte prodotta in questi anni, nella seconda metà del Cinquecento, è nota anche come “arte della Controriforma” (altri addirittura la chiamano “arte tridentina”, a sottolineare la profonda influenza che il Concilio esercitò sugli artisti), e gli studiosi tendono a collocare Federico Barocci proprio in questo contesto storico culturale. Con il Concilio di Trento e in particolare con il famoso decreto sulle immagini sacre, promulgato nel dicembre del 1563, la Chiesa poneva le basi per detta- re le regole anche in campo artistico. Contrariamente alle idee proposte dai riformatori protestanti, su tutti Giovanni Calvino e Huldrych Zwingli (Lutero riteneva quello delle immagini sacre un problema minore), la Chiesa affermava non solo la liceità, ma anche l'utilità delle immagini sacre: tuttavia non disponeva a quali esplicite regole dovessero attenersi i pittori, lasciando quindi ai singoli membri del clero la facoltà di interpretare il decreto come meglio avessero ritenuto. Era però ovvio l'indirizzo dettato dal decreto, in base al quale veniva bandito ogni tipo di ecces- so (“eccesso” ovviamente in riferimento alla morale del particolare e delicato contesto storico), e in particolare non si tolleravano dipinti che invitassero alla lascivia. La Chiesa quindi non dettava regole strette, ma di fatto dettava i programmi iconografici condizionando in modo pesante l'operato degli artisti, anche perché chi non si atteneva alle regole, in un momento di forte religiosità che spesso sfociava nel fanatismo, e di accesa lotta nei confronti di ogni tipo di eresia, poteva davvero rischiare grosso. Il caso più celebre è quello di Paolo Veronese (1528 – 1588), che nel 1573 venne processato dall'Inquisizione per una sua Ultima cena che secondo il tribunale ecclesiastico affrontava il tema sacro con troppa licenziosità: il pittore si difese pronunciando la 18
  • 19. famosa frase “nui pittori ci pigliamo la licenzia che si pigliano i poeti e i matti”, ma fu comunque costretto a modificare alcuni particolari del dipinto e a cambiare il titolo (da Ultima cena a Cena in casa di Levi). Nel tentativo di interpretare il decreto e di regolare in modo più ferreo la produzione di arte, alcuni importanti esponenti della Chiesa scrissero negli anni successivi famosi trattati: sono del 1577 le Instructiones fabricae et suppellectilis ecclesiasticae di Carlo Borro- meo e risale invece al 1582 il celeberrimo Discorso intorno le imma- gini sacre e profane di Gabriele Paleotti, forse il trattato destinato ad avere più influenza sui pittori. E a proposito di Gabriele Paleotti, è interessante notare che ci fu anche un rapporto diretto tra il cardinale e Federico Barocci: parte infatti che Paleotti abbia commissionato all'artista, nel 1586, un dipinto da porre nella cappella di famiglia all'interno della cattedrale di San Pietro a Bologna. Il dipinto doveva raffigurare la Madonna con il Bambino insieme ai santi Petronio e Francesco, ma l'opera non vide mai la nascita. Tornando a parlare più nello specifico di Federico Barocci, Giovan Pietro Bellori ci racconta che, finito il periodo di inattività (che lo storico fa durare quattro anni), l'artista realizzò un'opera raffigurante una Madonna con il Bambino che benedice san Giovanni Evangelista per darla in voto ai frati cappuccini di Crocicchia, una località poco distante da Urbino (oggi fa parte del comune): l'opera oggi è nota con il nome di Madonna di san Giovanni (n. 6), fu realizzata nel 1565 e attualmente è conservata presso la Galleria Nazionale delle Marche. La critica è pressoché unanime nel ritenere la Madonna di san Giovanni la prima opera realizzata da Federico in seguito al ritorno da Roma. Subito dopo arrivò una commissione molto importante per Federi- co Barocci: il Nobile Collegio della Mercanzia di Perugia voleva infatti che il pittore realizzasse una tela da collocare nella cattedrale della città umbra, per la precisione nella cappella di San Bernardino. Raccontano le fonti che nel novembre del 1567 il capitano Raniero Consoli giunse a capo di una delegazione di gentiluomini perugini per discutere della realizzazione del dipinto. Quest'ultimo fu conse- gnato nel 1569: si tratta della Deposizione (n. 9), una delle opere più importanti del pittore urbinate, ancora oggi conservata nella sua sede 19
  • 20. originaria. Pressoché contemporaneo (risale a un periodo compreso tra il 1570 e il 1573) è il Riposo dalla fuga in Egitto noto anche come Madonna delle ciliegie (n. 11) e conservato nella Pinacoteca Vaticana. È del 1575 invece un altro dei dipinti più famosi dell'artista, la Madonna del gatto (n. 15) conservata alla National Gallery di Londra (che non deve essere confusa con la Madonna della gatta, n.30, che fu realizzata a cavallo tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicen- to e che oggi è conservata agli Uffizi). Nel frattempo, nel 1574, Guidobaldo II Della Rovere moriva e prendeva il suo posto Francesco Maria II, venticinquenne che era stato educato negli anni Sessanta alla corte di Spagna. Il nuovo duca, tra l'altro, si era fatto ritrarre due anni prima da Federico Barocci: il dipinto che lo raffigura è conservato agli Uffizi. Francesco Maria II fu, dei duchi di Urbino, quello con cui forse Federico Barocci intrattenne rapporti più stretti: esiste un prezioso documento, il Diario di Fran- cesco Maria II che non è utile solo per ricostruire il legame tra il duca e il pittore, ma è utile anche per saperne di più circa la personalità di Federico. Emerge quindi il ritratto di un uomo insicuro, dal carattere diffici- le e molto introverso, ma connotato anche da una forte religiosità e da una fede piuttosto accesa. Ci rimangono anche alcune lettere che i due si scrissero, e l'epistolario conferma tutte le debolezze dell'uomo Barocci. C'è però da dire che, malgrado il ritratto che traspare dalle fonti, noi non possiamo conoscere a fondo la personalità di Federico Barocci e non possiamo esprimere giudizi tassativi, anche per il fatto che dagli scritti che ci sono rimasti non riusciamo a comprendere quali erano i pensieri di Federico Barocci sull'arte, e quindi possiamo dedurlo solo da ciò che abbiamo e, ovviamente, dallo stile delle sue realizzazioni. Sulla base di tutto ciò si deve anche contestualizzare il rapporto tra Federico Barocci e la Controriforma, di cui si è parlato prima: un dibattito, quello che cerca di indagare gli aspetti che legano il pittore al movimento antiriformato, che impegna in modo costante gli studiosi. A detta di molti Federico Barocci è uno dei più grandi inter- preti del programma iconografico della Controriforma: diversi suoi dipinti sembrerebbero testimoniare l'influenza diretta che i temi del Concilio di Trento, del decreto sulle immagini sacre e dei trattati 20
  • 21. sull'iconografia religiosa esercitano sul pittore. Questo appare se si osservano dipinti come la stessa Deposizione, un'opera dai toni piut- tosto drammatici, oppure la Sepoltura di Cristo (n. 18), un importan- te capolavoro che Federico realizzò tra il 1579 e il 1582 per la chiesa della Confraternita del Santissimo Sacramento e Croce di Senigallia, oppure dipinti più tardi come le Stimmate di san Francesco (n. 28) o l'Istituzione dell'Eucarestia (n. 43), di cui si parlerà più avanti. Accanto a dipinti che sembrano caratterizzati da una tragicità di fondo e da un acceso misticismo o che trattano temi prettamente controriformistici come, appunto, l'istituzione dell'Eucarestia, ne troviamo invece altri che ci testimoniano una dimensione molto più intima e forse anche più sentita: per parlare di dipinti già citati si può far riferimento alla Madonna di san Giovanni e alla Madonna delle ciliegie. Dipinti che dimostrerebbero una religiosità sincera e intima, in contrasto con i dipinti più “grandiosi”. Come collocare dunque la produzione di Federico Barocci nel contesto della Controriforma? Scendendo nei particolari è possibile guardare anche più lontano e tornare al dettaglio all'apparenza ininfluente ma in realtà piuttosto importante della formazione di Francesco Maria II Della Rovere presso la corte di Spagna. Negli anni Sessanta del Cinquecento, perio- do del soggiorno del futuro duca all'Escorial, il re di Spagna era Filip- po II, ed è quindi lecito supporre che fu il sovrano spagnolo il model- lo a cui il giovane Francesco Maria dovette ispirarsi. Filippo II era uno dei più ferventi sostenitori della Controriforma e proponeva un ideale di sovrano che governa quasi per mandato divino e che si dedi- ca alla strenua difesa della fede. Quindi, a causa della formazione di Francesco Maria II e dei suoi conseguenti stretti rapporti con lo Stato Pontificio, testimoniati anche dalle diverse opere che da Roma venivano richieste a Federico Barocci, risulta evidente che i temi della Controriforma non dovettero avere difficoltà a penetrare nel Ducato di Urbino, che, a detta di molti storici, con Francesco Maria II va incontro a un periodo di decadenza e di perdita di prestigio che avrebbe poi portato alla fine del Ducato stesso, nonostante i grandi sforzi del duca. Ci sono pertanto tutti i presupposti perché si possa attribuire a Federico Barocci la fama di acceso sostenitore della Controriforma o, quantomeno, di pittore che si fa carico di dare forma nei suoi dipinti 21
  • 22. ai temi della Controriforma in modo fedele ai dettami della Chiesa. È indubbio che Federico Barocci sia stato un pittore della Contro- riforma (e per certi versi ne anticipò i dettami), ma è anche vero che è stato un pittore capace di interpretare in modo personale e intelligen- te i principî sanciti dal movimento: questo perché, particolare molto importante, i dipinti di Federico sono quasi sempre frutto del suo sentire. Anche quando il tema potrebbe portare l'artista a realizzare un dipinto dai toni fortemente drammatici, ed è il caso della Deposi- zione, Federico sceglie di mitigare il tutto restituendo quindi compo- sizioni che sono sempre molto raffinate ed eleganti, che conciliano “poesia e fede” come ha avuto a scrivere Andrea Emiliani, che sono connotate da una tenerezza, che derivava dallo studio delle opere del Correggio, unita a un colorismo di suggestione veneta. Colori incante- voli che fanno apparire liriche e delicate anche le rappresentazioni più drammatiche. Predominano gli azzurrini, i rossi tenui, i gialli, i violetti, i rosa: colori che all'apparenza rimandano all'arte manierista in un periodo, quello tra gli anni Ottanta del Cinquecento e gli anni Dieci del Seicen- to, in cui il Manierismo dapprima viveva i suoi ultimi momenti e poi scompariva per lasciare spazio all'arte barocca (i rapporti tra Federi- co Barocci e l'arte barocca saranno oggetto di una esposizione più dettagliata nell'ultima sezione di questa trattazione). È indubbio che, se è strettamente necessario affibbiare un'etichetta a Federico Baroc- ci, quella che gli sta meglio è forse quella di “manierista”, ma se Barocci fu un manierista seppe tenere alte le sorti di un movimento che stava andando incontro alla fine e soprattutto seppe declinare il Manierismo con grandissima originalità e personalità. C'è anche chi mette in relazione gli episodi più intimi della produ- zione di Federico Barocci con i dettami della Controriforma, nel senso che i dipinti più lirici sarebbero visti come un tentativo di far entrare il divino in una dimensione molto vicina all'uomo. Quello che è certo è che esiste in Barocci una volontà di creare dipinti che abbia- no una elevata efficacia comunicativa: per fare questo il pittore deci- de di spogliare le sue opere di ogni inutile orpello retorico, facendo apparire quasi “quotidiana” la sfera in cui vengono ambientate certe opere (è il caso della succitata Madonna del gatto), oppure conferen- do un'eccezionale bellezza e grazia ai soggetti di dipinti dal tema 22
  • 23. tragico (e qui è il caso della Deposizione di Perugia). Ancora Andrea Emiliani parla di “poetica degli affetti” nella pittura di Federico Barocci: il modo, del tutto personale, di Federico Barocci di interpre- tare la Controriforma. E forse è anche a questo suo particolare modo di coniugare esigenze controriformistiche e lirismo e delicatezza che contribuì a procurargli fama negli anni a venire. Quella di Federico Barocci è insomma una religiosità né ufficiale né solenne, ma natura- le, emozionale e quasi quotidiana. Gli anni Ottanta coincidono con l'inizio della fase matura del pitto- re, e risalgono a questi anni alcuni capolavori come la già citata Sepoltura di Cristo, la Visitazione (n. 22), la Chiamata di sant'An- drea (n. 20) e il Martirio di san Vitale (n. 21). La Visitazione fu realizzata tra il 1583 e il 1586 per la chiesa di Santa Maria in Vallicella di Roma, nota anche come Chiesa Nuova, dove si trova ancora oggi, su commissione dei padri oratoriani della Vallicella (ovvero i membri della congregazione dell'Oratorio di San Filippo Neri, che gestivano la chiesa) : è un dipinto importante anche perché sembra che san Filip- po Neri era solito pregare davanti all'opera di Barocci, come testimo- niano alcune fonti agiografiche. Il Martirio di san Vitale e la Chiamata di sant'Andrea risalgono entrambe al 1583-1584. Per quanto riguarda il primo dipinto, sappia- mo che fu commissionato dalla chiesa di San Vitale a Ravenna: oggi invece si trova alla Pinacoteca di Brera, dove giunse all'epoca delle spoliazioni napoleoniche. Lo stesso destino toccò alla Chiamata di sant'Andrea, che però non è più rientrata in Italia e oggi è conservata ai Musées Royaux des Beaux-Arts di Bruxelles. Bellori ci dice che fu realizzato per la Confraternita di sant'Andrea di Pesaro: lo storico ci fa anche sapere che l'opera piacque così tanto al duca Francesco Maria II che decise di farne realizzare allo stesso pittore una copia per inviarla in dono a Filippo II di Spagna. Il dipinto fu completato nel 1588 e ancora oggi è conservato all'Escorial. Non si trattò dell'unica volta in cui Francesco Maria II si servì di Federico Barocci per inviare doni a un altro sovrano, e su questo aspetto del rapporto tra il duca e il pittore è stato scritto molto (esem- plificativi a tal proposito sono gli studi del già citato Harald Olsen e quelli dello statunitense Stuart Lingo). Ci troviamo in un periodo, quello a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del Cinquecento, 23
  • 24. durante il quale Federico Barocci stava diventando uno dei più grandi protagonisti dell'arte sulla scena europea nonché uno dei pittori più influenti, e il fatto che non volle mai lasciare Urbino fu per il duca un grandissimo vantaggio, perché poteva avere a sua completa disposi- zione uno dei migliori, più apprezzati e più famosi artisti in circola- zione. Un vantaggio che il duca seppe sfruttare nel migliore dei modi, e soprattutto un vantaggio che poteva dare prestigio e risalto a un ducato il cui equilibrio era ormai diventato molto fragile. Questo aspetto del rapporto tra i due è tuttavia piuttosto comples- so ed è stato molto studiato, perché, tra l'altro, il duca non fu soltanto un committente per il pittore, ma spesso svolgeva anche la funzione di intermediario tra Federico Barocci e committenti esterni: uno degli esempi più noti è dato dalla Crocifissione conservata presso la Catte- drale di San Lorenzo di Genova (n. 33), che fu commissionata al pittore dal senatore (poi doge tra il 1595 e il 1597) Matteo Senarega per la propria cappella. Francesco Maria II si trovò a fare da interme- diario e a facilitare i rapporti tra il pittore e l'importante politico genovese. Si trattava di un legame, quello tra Federico Barocci e il duca di Urbino, che era utile sia al primo che al secondo (malgrado i dipinti di Federico difficilmente venissero chiesti da Francesco Maria per abbellire i suoi palazzi). Francesco Maria, come si è già detto, sfrutta- va la maestria e la fama di Federico Barocci per far accrescere il prestigio del ducato in modo “indiretto”, ovvero inviando doni alle potenze straniere (abbiamo già citato Filippo II di Spagna, ma la lista è composta da diverse personalità a cominciare dal papa e dall'impe- ratore Rodolfo II, per il quale Federico Barocci dipinse intorno al 1586 la Fuga di Enea da Troia, oggi perduta, che rappresenta la prima versione del dipinto oggi conservato presso la Galleria Borghe- se di Roma, n. 35) oppure facendo in modo che dall'estero arrivassero a Urbino richieste per dipinti realizzati da Federico Barocci. Questo spiega anche per quale motivo Francesco Maria II difficilmente commissionava al pittore opere per abbellire il ducato: voleva impie- gare le energie del pittore per acquisire importanza nelle relazioni con gli altri stati, quindi non è azzardato dire che il duca facesse un uso “politico” di Federico Barocci. Questo ruolo di intermediario da parte del duca doveva essere dettato anche dal carattere dell'artista: 24
  • 25. del resto si è più volte ribadito, nel corso della trattazione, quanto difficile e chiuso fosse Federico Barocci. Dall'altro lato, il pittore traeva ovvi vantaggi dal rapporto con il duca per il fatto che grazie a questa opera di intermediazione, i suoi capolavori giungevano presso tutte le più importanti corti d'Europa, così che la sua pittura riuscì a diffondersi in ogni dove, e non è un caso se la personalità di Federico Barocci è una delle più influenti del suo tempo: si vedrà poi nell'ultima sezione di questo lavoro in quanti centri arrivò l'arte di Federico Barocci e quanti artisti riuscì a sugge- stionare. Agli anni Novanta risale un nucleo importante della produzione di Federico Barocci, con alcuni grandissimi capolavori: il primo di questi è l'Ultima cena (n. 26) che oggi si trova nella Cattedrale di Urbino e che fu realizzata tra il 1590 e il 1599. L'opera gli fu commis- sionata dal duca, che fu il finanziatore della cappella del Santissimo Sacramento, dove l'opera doveva essere posta e dove può ancora oggi essere ammirata. Al 1596 invece risale l'Annunciazione (n. 31), un altro grande capolavoro su cui però pendono alcuni dubbi, nel senso che non sappiamo se sia interamente opera di Federico Barocci, se sia un'opera di bottega o se sia una copia con varianti della famosa Annunciazione (n. 19) eseguita negli anni Ottanta sempre per Fran- cesco Maria II Della Rovere, che voleva l'opera per la propria cappella nella Basilica di Loreto. L'Annunciazione del 1596 oggi si trova nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e gli fu commissionata, stando a ciò che testimoniano i documenti, da Laura Coli Pontani per la cappella di famiglia all'interno della Basilica stessa. Tra gli altri capolavori è doveroso menzionare la Crocifissione realizzata per Matteo Senarega e di cui si è parlato poco fa, risalente al 1596, nonché la Fuga di Enea da Troia, anch'essa citata in prece- denza: come anticipato, è la copia di quella realizzata per Rodolfo II d'Asburgo, fu eseguita nel 1598 e oggi è conservata a Roma presso la Galleria Borghese. Stando a ciò che ci dice Giovan Pietro Bellori, questa Fuga di Enea da Troia fu realizzata per monsignor Giuliano Della Rovere (omonimo del Giuliano Della Rovere che era stato papa Giulio II): ben presto però passò nelle collezioni di Scipione Borghese (lo attesta lo stesso Bellori), ma non sappiamo bene in che modo il potente cardinale riuscì a entrare in possesso del dipinto. È probabi- 25
  • 26. le, ma non sicuro, che dovette trattarsi di un dono fatto dal Della Rovere a Scipione Borghese. Lo stesso cardinale Della Rovere si era fatto ritrarre nel 1595 circa dal pittore, e il dipinto che lo raffigura oggi è conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna (n. 29). Rimanendo nell'ambito della ritrattistica, secondo gli studiosi è alla fine degli anni Novanta che risale il celeberrimo Autoritratto (n. 32) di Federico Barocci conservato agli Uffizi, con il quale il pittore dà prova di grande naturalismo e fornisce notevoli spunti agli studiosi per abbinare al suo ritratto “fisico” anche un ritratto “interiore”. Infine, l'ultima opera da citare per quanto riguarda gli anni Novan- ti è quella nota come le Stimmate di san Francesco (n. 28) che risale al 1594-95 ed è conservata presso la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino: il dipinto gli fu commissionato da Francesco Maria II Della Rovere per una chiesa di Urbino. Le Stimmate di san Francesco offrono anche lo spunto per riflette- re sul legame tra Federico Barocci e il francescanesimo. Il pittore stesso era terziario francescano, ovvero apparteneva all'ordine seco- lare, costituito da laici che si impegnano a vivere secondo i dettami della regola di san Francesco. Oltre alle opere a tema francescano (le appena citate Stimmate di san Francesco e il Perdono di Assisi, n. 13, realizzato tra il 1574 e il 1576 per la chiesa di San Francesco di Urbino, sono solo le più famo- se), sono diversi i dipinti eseguiti per i francescani, come la Madon- na di san Giovanni (n. 6), che, come detto, fu consegnata ai cappuc- cini di Crocicchia come ex voto, o l'Immacolata concezione (n. 16), che fu realizzata anch'essa per la chiesa di San Francesco di Urbino, gestita dall'ordine dall'Ordine dei Frati Minori Conventuali. Al ritorno da Roma, Federico si era avvicinato al mondo della spiritualità francescana, entrando a diretto contatto con i frati delle congregazioni: questo tipo di spiritualità era particolarmente radicato nei territori del Montefeltro, anche perché il fondatore dell'Ordine dei Frati Minori Cappuccini, Matteo da Bascio, proveniva da queste zone (Bascio, che oggi fa parte del comune di Pennabilli, non è lonta- na da Urbino). Marchigiano era anche Ludovico da Fossombrone, che faceva parte, insieme a Matteo da Bascio e ad altri, del gruppo che ottenne nel 1528 da Clemente VII (con la bolla Religionis zelus) l'ap- provazione della regola che sanciva ufficialmente la nascita dell'ordi- 26
  • 27. ne. È dal contatto e dalla vicinanza con i frati francescani che Federico Barocci arriva a quella spiritualità sincera e forte e a quella religiosità che in certe opere arriva a sfiorare il misticismo e la drammaticità. Una vicinanza che si nota soprattutto nelle opere realizzate negli anni che seguirono il ritorno da Roma del pittore. È del resto noto che i frati francescani propongono un ideale religioso molto fedele al detta- to evangelico e quindi votato alla preghiera, alla povertà, al ritiro e alla meditazione. Valori che Federico Barocci cerca di trasferire nei suoi dipinti. Il nuovo secolo si apre con alcune importanti committenze, in particolare due dipinti realizzati per il Duomo di Milano: Sant'Am- brogio perdona Teodosio (n. 38), che il pittore realizzò tra il 1600 e il 1603 avvalendosi dell'aiuto della bottega e che ancora oggi è conser- vato nell'altare di sant'Ambrogio all'interno del Duomo, e il grande capolavoro, l'incompiuto Compianto sul Cristo morto (n. 39) che Federico Barocci iniziò nel 1600 ma non ebbe modo di terminare. Oggi fa parte delle raccolte d'arte comunali di Bologna ed è conserva- to presso la Biblioteca dell'Archiginnasio. Fin dal 1592 il capitolo del Duomo di Milano aveva tentato di ottenere dipinti di Federico Baroc- ci e si dette quindi molto da fare per avviare i contatti con il pittore: oltre a questi due dipinti Barocci realizzò per la cattedrale milanese nel 1597 anche un Presepe di cui però non si hanno più notizie. Tra gli altri capolavori di questo periodo conclusivo della carriera e della vita di Federico Barocci è necessario citare due tele che oggi sono conservate a Roma: la Presentazione della Vergine al Tempio (n. 40), che si trova nella chiesa di Santa Maria in Vallicella, e l'Istitu- zione dell'Eucarestia (n. 43), che invece si trova nella basilica di Santa Maria Sopra Minerva. Per la prima delle due chiese, Federico Barocci aveva già realizzato la Visitazione, così che gli oratoriani deci- sero di affidargli anche l'incarico di realizzare la pala destinata alla cappella del transetto sinistro dell'edificio sacro: il dipinto fu conse- gnato nel 1603. L'Istituzione dell'Eucarestia è uno degli ultimi capolavori di Fede- rico Barocci: gli fu commissionata direttamente da papa Clemente VIII, Ippolito Aldobrandini, per la cappella di famiglia all'interno della basilica di Santa Maria sopra Minerva dove si trova ancora oggi: 27
  • 28. è probabile che questa commissione fu facilitata dalla visita di Clemente VIII a Urbino avvenuta nel 1598, occasione durante la quale si ipotizza che il pontefice abbia conosciuto il pittore. Bellori dice che durante la visita Francesco Maria II regalò al papa un'acqua- santiera d'oro dipinta da Federico Barocci con un Gesù Bambino benedicente. L'Istituzione dell'Eucarestia fu consegnata nel 1611 e rappresenta uno dei dipinti più controriformistici di Federico Baroc- ci. Tra gli ultimi dipinti è necessario poi citare l'Ecce Homo della Pinacoteca di Brera (n. 45), che Federico lasciò incompiuto all'anno della sua scomparsa, il 1612, e che fu completato dall'allievo Ventura Mazza, e poi il Crocifisso del 1604 conservato al Prado (n. 41). Questa è una delle ultime opere in cui appare il profilo del Palazzo Ducale di Urbino, e in particolare Federico dipinge la facciata dei “torricini”, ovvero il profilo del palazzo così come lo vedeva dalla propria abitazione, che esiste ancora oggi. Il legame tra Federico Barocci e Urbino fu un legame molto profondo: il pittore era continuamente ispirato dalla sua città, città che amava molto e dalla quale, dopo il ritorno da Roma, non volle mai separarsi. Motivo per cui pensò di rappresentarla spesso nelle sue opere inserendo in moltissimi dipinti il profilo del Palazzo che Luciano Laurana progettò nel Quattrocento per Federico da Monte- feltro. Un rapporto stretto quello tra il pittore e la sua terra, e la piena comprensione dell'arte di Federico Barocci non può prescindere dalla comprensione dell'importanza che Urbino aveva per lui. Una città in cui si era consumata quasi tutta l'esistenza di un pittore destinato a diventare uno degli artisti più influenti del suo tempo. 28
  • 30. 1. Estasi di santa Cecilia Urbino, Cattedrale 1555 circa Olio su tela, 200 x 145 cm Immagine Si tratta della prima opera nota di Federico Barocci, realizzata durante gli anni Cinquanta del Cinquecento e attualmente conservata presso la cattedrale della sua città natale. La santa è al centro della composizione, in estasi, mentre rivolge lo sguardo verso l'alto osservando gli angeli che suonano strumenti musicali. Al suo fianco troviamo quattro santi, da sinistra santa Maria Maddalena (con in mano il vaso di unguento, suo classico attri- buto iconografico), san Giovanni, con i consueti tratti somatici effe- minati e con il Vangelo in mano, san Paolo, che regge tra le mani la spada, e santa Caterina d'Alessandria che poggia il piede sulla ruota, strumento del suo martirio. A terra vediamo inoltre gli strumenti musicali rotti, segno che la santa non è più attratta dalla musica terrena ma soltanto da quella celeste, rappresentata dagli angeli. Non sappiamo bene per quale motivo santa Cecilia si associata alla musica (tanto che oggi è la santa patrona della musica). Forse il tutto deriva da un inno in latino il cui testo recita Cantantibus organis Caecilia virgo in corde suo soli Domino decantabat (“mentre suona- vano gli strumenti, la giovane Cecilia nel suo cuore cantava solo per il Signore”). La composizione deriva con evidenza dall'Estasi di santa Cecilia di Raffaello attualmente conservata alla Pinacoteca Nazionale di Bolo- gna: un richiamo notato anche da Giovan Pietro Bellori, che parla di una Santa Cecilia imitata da Rafaelle. Tuttavia è molto probabile che Federico Barocci non abbia osservato direttamente il dipinto, e che lo abbia quindi conosciuto attraverso stampe e incisioni come quelle di Marcantonio Raimondi. Gli studiosi hanno infatti riscontrato che l'Estasi di santa Cecilia di Federico Barocci mostra maggiori debiti nei confronti dei disegni di Raimondi che non nei confronti della pala di Raffaello, dunque è quasi sicuro che il pittore non ebbe conoscenza 30
  • 31. diretta del dipinto realizzato dal suo grande concittadino. L'opera conservata nella cattedrale di Urbino dimostra le iniziali influenze dello stile di Battista Franco e di Francesco Menzocchi sul pittore, ma anche il notevole studio dell'arte di Tiziano, che Federico può aver appreso osservando i dipinti del pittore veneziano presenti nelle collezioni del ducato di Urbino: la testa di san Paolo infatti è pressoché identica a quella dell'apostolo che si trova alla destra di Gesù nell'Ultima cena di Tiziano conservata presso la Galleria Nazio- nale delle Marche di Urbino. 31
  • 32. 2. Martirio di san Sebastiano Urbino, Cattedrale 1557-1558 Olio su tela, 405 x 225 cm Immagine Il protagonista di questa pala centinata è al centro della scena, sereno, mentre osserva i suoi carnefici. Uno di questi, incredibilmen- te vicino, sta per scoccare una freccia: notiamo che una si è già confic- cata nel corpo del santo, che tuttavia sembra quasi non soffrire e non avvertire il dolore. In alto, sopra le nuvole, la Madonna con Gesù Bambino e gli angeli osservano il martirio di san Sebastiano, sullo sfondo di un cielo che mostra ancora chiare suggestioni tizianesche. Da Tiziano sembrerebbe derivare anche la posa della Madonna con il Bambino, in particolare dalla cosiddetta Pala Gozzi, che rappresenta la Madonna insieme ai santi Francesco e Biagio e al donatore Luigi Gozzi ed è conservata presso il Museo Civico di Ancona. La posa di san Sebastiano e del suo carnefice invece rimanda a Michelangelo, studiato direttamente a Roma e indirettamente attra- verso il primo maestro Battista Franco. Le gambe dei due protagoni- sti del dipinto hanno identica posizione: la gamba sinistra avanzata, la destra arretrata con il tallone sollevato. Tuttavia lo stile sembra già allontanarsi da quello di Battista Franco e, al contrario, avvicinarsi a quello di Tiziano. La delicatezza nella resa degli incarnati (soprattutto il corpo, in primo piano, di san Sebastiano) avrebbe infatti qualche debito nei confronti del pittore cadorino. L'opera fu commissionata a Federico Barocci nel novembre del 1557 per la cappella di San Sebastiano all'interno della Cattedrale di Urbino: è ancora lì che oggi la si può ammirare. 32
  • 33. 3. Ritratto di Antonio Galli Copenaghen, Statens Museum for Kunst 1558-1560 Olio su tela, 108 x 84 cm Immagine Antonio Galli era un intellettuale umanista nonché poeta attivo presso la corte dei Della Rovere, e durante gli anni Cinquanta fu “ajo”, ovvero precettore, del futuro duca Francesco Maria II: in questo particolare ruolo era succeduto a un altro grande umanista che fu attivo a Urbino, Girolamo Muzio. Il ritratto che raffigura Antonio Galli è un altro esempio di quanto in questo periodo Federico Barocci fosse interessato allo studio della pittura di Tiziano. Quindi vediamo i frutti di questo studio anche nella ritrattistica, e sappiamo che presso la corte di Urbino c'erano ottimi esempi di ritrattistica tizianesca: si è parlato in precedenza del Ritratto di Francesco Maria I Della Rovere e del Ritratto di Eleonora Gonzaga, moglie di Francesco Maria I. Entrambi i dipinti si trovano oggi agli Uffizi e volevano un po' ispirarsi al doppio ritratto di Federico da Montefeltro e Battista Sforza realizzato da Piero della Francesca. Un rapporto, quello tra Federico Barocci e Tiziano, che qui notia- mo non soltanto nella tecnica di realizzazione e nelle scelte cromati- che, ma anche nella rappresentazione di alcuni particolari, come l'orologio da tavolo che vediamo sulla destra nel ritratto di Antonio Galli e che notiamo anche nel ritratto di Eleonora Gonzaga di Tizia- no, sulla sinistra, vicino al cane. Il modo in cui il giovane Federico raffigura capelli e barba del poeta richiamano invece il ritratto di Francesco Maria I. Una vicinanza che ha portato anche alcuni studiosi in passato ad attribuire questo ritratto allo stesso Tiziano e si deve, tra gli altri, ad Harald Olsen il merito di aver riassegnato il dipinto a Federico Baroc- ci. 33
  • 34. 4. Sacra Famiglia Città del Vaticano, Casino di Pio IV 1561-1563 Affresco Immagine Si tratta dell'affresco che decora una delle due stanze che furono affrescate da Federico Barocci. L'opera è importante anche perché il pittore si cimenta qui per la prima e ultima volta con la tecnica dell'affresco, quindi la stanza della Sacra Famiglia assieme a quella dell'Annunciazione sono le uniche testimonianze che abbiamo di affreschi realizzati da Federico Barocci. L'ambientazione è molto intima, quasi quotidiana: i personaggi si trovano all'interno di una casa, arredata in modo molto semplice. La Madonna tiene il Bambino sul grembo mentre san Giovannino si inginocchia davanti a loro e in primo piano sant'Anna (che Bellori riconosce come santa Elisabetta) assiste alla scena e san Giuseppe rivolge invece lo sguardo verso l'osservatore. Sono molti i particolari che ci portano in una dimensione molto familiare: vediamo stoviglie, una cesta, un cagnolino vicino ai piedi di san Giuseppe. Questo modo di rappresentare le scene sacre, soprat- tutto quelle che hanno per tema la Sacra Famiglia, tornerà molto spesso nell'arte di Federico Barocci e diventerà quasi un tratto distin- tivo della sua pittura. In questo periodo della sua carriera, Federico Barocci si avvicina all'arte degli Zuccari, Taddeo e Federico, che lavorarono con lui alla decorazione del Casino di Pio IV in Vaticano. Nella stessa stanza, ai quattro angoli, appaiono le figure di quattro virtù: laetitia, felicitas, virtus e tranquillitas. 34
  • 35. 5. Annunciazione Città del Vaticano, Casino di Pio IV 1561-1563 Affresco Immagine L'Annunciazione è l'affresco che decora la volta della seconda stan- za decorata da Federico Barocci nel Casino di Pio IV. Anche questa, al pari della precedente, è una composizione dal tono piuttosto familiare, con l'arcangelo Gabriele che irrompe da destra nella scena e distoglie Maria dalla lettura: la Vergine, ancora con il libro davanti a sé aperto, si volta indietro per osservare l'angelo in modo molto naturale. Il modo raffinato con il quale Federico Barocci delinea i tratti dei due personaggi potrebbe far pensare a suggestioni correggesche: l'ar- tista potrebbe essere entrato con il Correggio durante un viaggio a Parma, che gli studiosi ipotizzano possa essere stato compiuto prima del secondo soggiorno a Roma, per la precisione intorno al 1559. Le figure di Maria e dell'arcangelo furono apprezzate anche da Bellori, che le descrisse, rispetto a quelle della prima stanza, come figure più picciole, ma raramente condotte. In seguito all'Annunciazione, Federico Barocci iniziò a decorare un'ulteriore stanza con il tema delle Storie di Mosè, ma non terminò il lavoro in quanto nel 1563 lasciò in fretta Roma per i motivi che sono stati discussi nella prima sezione della trattazione. 35
  • 36. 6. Madonna di san Giovanni Urbino, Galleria Nazionale delle Marche 1565 circa Olio su tela, 151 x 115 cm Immagine La Madonna di san Giovanni, così chiamata per la presenza dell'e- vangelista inginocchiato davanti alla Vergine con il Bambino, è il primo dipinto realizzato da Federico Barocci dopo il suo ritorno da Roma, in seguito a un paio di anni di inattività. L'opera, come testimonia Giovan Pietro Bellori, fu realizzata come ex voto e regalata ai frati cappuccini di Crocicchia, località nei pressi di Urbino: sentendosi però alquanto meglio, fece un quadretto con la Vergine, e 'l figliuolo Gesù, che benedice San Giovanni fanciullo; e lo diede in voto ai Padri Cappuccini di Crocicchia, due miglia fuori d'Urbino; là dove egli soleva trattenersi in suo podere. Il dipinto testimonia anche i primi contatti tra Federico Barocci e il francesca- nesimo, per un rapporto che diventerà molto stretto negli anni a venire. Si trattava dunque di un dipinto “privato”, intimo, e l'atmosfe- ra della composizione ci suggerisce del resto come la Madonna di san Giovanni sia un frutto del sentire personale dell'artista. San Giovanni è raffigurato con i soliti tratti giovanili, quasi effeminati, e di partico- lare efficacia espressiva è il particolare del Bambino che dona un fiore all'evangelista. Federico Barocci dimostra ancora una notevole base correggesca, che si evince non soltanto dalla delicatezza dei lineamenti dei perso- naggi, ma anche dall'utilizzo della tecnica dello sfumato, che il pittore adottò anche nelle decorazioni del Casino di Pio IV. Le suggestioni derivano anche dall'arte di Raffaello: la posa della Madonna che tiene il Bambino per un piede ricorda infatti quella della Madonna di Orléans di Raffaello, attualmente conservata al Musée Condé di Chantilly. Come altre opere di Federico Barocci, la Madonna di san Giovanni (che si trovava all'epoca nel convento dei cappuccini) fu coinvolta nelle spoliazioni napoleoniche e fu condotta a Brera nel 1811: il dipinto fu poi recuperato nel 1826 e oggi è conservato presso la Galleria Nazionale delle Marche. 36
  • 37. 7. Crocifissione Urbino, Galleria Nazionale delle Marche 1566-1567 Olio su tela, 288 x 161 cm Immagine Nota anche come Crocifissione con i dolenti, l'opera fu dipinta per il conte Pietro Bonarelli di Ancona, che faceva parte della corte di Guidobaldo II Della Rovere, e doveva essere posta nella chiesa del Crocifisso Miracoloso di Urbino: questa è la notizia che ci dà Giovan Pietro Bellori circa il dipinto. Per l'idea generale della composizione, Federico Barocci potrebbe essersi ispirato, ancora una volta, a Tiziano, e in particolare alla Crocifissione conservata presso la chiesa di San Domenico di Ancona: si ipotizza che il pittore urbinate abbia studiato il dipinto di Tiziano vista anche la provenienza del committente. Ci sono però notevoli differenze tra la pala di Barocci e quella di Tiziano: oltre all'ovvia assenza, nella Crocifissione di Barocci, di san Domenico (che in Tiziano troviamo ad abbracciare la croce), notiamo innanzitutto linee molto più dolci e delicate in Barocci. La Crocifis- sione di Tiziano risale al 1558, ovvero a un periodo in cui lo stile del pittore veneto si fa più aspro. Vediamo poi che le pose e soprattutto le espressioni dei due dolen- ti (la Madonna e san Giovanni) sono diverse, osserviamo due angeli alla destra e alla sinistra di Cristo (assenti in Tiziano) e infine notia- mo come sullo sfondo Barocci inserisca il paesaggio urbinate: si tratta della prima volta nella sua produzione in cui la città di Urbino fa da sfondo a un dipinto, e questa peculiarità andrà a caratterizzare molti altri suoi capolavori. 37
  • 38. 8. Madonna di san Simone Urbino, Galleria Nazionale delle Marche 1567 circa Olio su tela, 283 x 190 cm Immagine La tela fu realizzata nel 1567, forse prima che Federico Barocci ricevette l'incarico di realizzare la Deposizione (n. 9) di Perugia, come suggerisce Bellori. L'opera fu eseguita per la chiesa di San Francesco a Urbino e affronta il tema della sacra conversazione, ovvero il tema in base al quale la Madonna con il Bambino si trova al centro della scena circondata da santi, che in questo caso sono san Simone (che dà il nome al dipinto) sulla destra e san Taddeo sulla sinistra. Secon- do le agiografie, Simone (noto anche come “Simone il Cananeo” o “Simone lo Zelota” per distinguerlo da Simon Pietro) e Taddeo condussero assieme la propria attività di predicazione in Mesopota- mia: per questo motivo i due santi sono spesso associati. Simone viene rappresentato con la sega in quanto la sega fu, secondo la tradi- zione, lo strumento del suo martirio: è lo stesso motivo per cui Taddeo viene raffigurato con una lancia tra le mani. Sopra ai due personaggi principali troviamo un angioletto in volo, che arriva per porre una corona di fiori sul capo della Madonna, e in basso sulla destra troviamo i donatori, un uomo e una donna, di cui tuttavia non conosciamo l'identità: possiamo solo ipotizzare che si trattasse di personaggi facoltosi, dal momento che possedevano una cappella all'interno della chiesa. La scena ha un'ambientazione piuttosto umile, rurale, e ci colpi- scono ancora i colori brillanti che caratterizzano le vesti dei perso- naggi nonché la delicatezza con la quale vengono resi i loro incarnati: una delicatezza ancora memore delle soluzioni adottate dal Correg- gio. 38
  • 39. 9. Deposizione Perugia, Cattedrale di San Lorenzo 1567-1569 Olio su tela, 412 x 232 cm Immagine La Deposizione di Perugia è uno dei più importanti e più famosi capolavori di Federico Barocci. La grandiosa pala gli fu commissiona- ta nel 1567 dal Nobile Collegio della Mercanzia di Perugia per la cappella di San Bernardino all'interno della cattedrale (dove si trova ancora al giorno d'oggi), e fu consegnata dal pittore nel 1569. Tuttavia non è ancora stato stabilito con certezza se il pittore, come era solito fare, abbia realizzato il dipinto a Urbino e lo abbia poi spedito a Peru- gia o se compiuto un viaggio nella città umbra, come lascerebbe supporre Giovan Pietro Bellori (capitarono in Urbino alcuni genti- luomini Perugini […] fecero risoluzione di condurre il Barocci nella patria loro; né passò molto tempo, che lo chiamarono a Perugia, dove egli stesso volle trasferirsi a dipingere quell'opera). Lo stesso Bellori dimostrò di apprezzare fortemente questo capolavoro, dedi- candogli una sezione della sua Vita di Federico Barocci e definendola come un'opera che rende Federico Barocci glorioso fra i pittori di maggior fama. Durante il periodo delle spoliazioni napoleoniche la Deposizione fu portata a Parigi ed esposta al Louvre, per poi essere restituita alla Cattedrale di Perugia nel 1815. L'opera è stata restaurata di recente, nel 2009, in occasione della mostra monografica “Federico Barocci. L'incanto del colore – Una lezione per due secoli” che si è svolta a Siena tra la fine del 2009 e gli inizi del 2010: il restauro ha contribuito a donare alla tela la sua luminosità e il suo cromatismo originari. La Deposizione è una composizione di grande respiro, che colpisce l'osservatore per la sua teatralità e per la sua drammaticità, che comunque il pittore stempera grazie all'utilizzo dello sfumato correg- gesco che contribuisce a rendere la composizione molto delicata dando così il senso di una tragicità composta. Le linee contribuiscono a convogliare lo sguardo dell'osservatore verso Cristo, la cui rappre- 39
  • 40. sentazione accresce il senso di sofferenza che si evince dall'opera perché viene raffigurato appeso per un solo braccio alla croce. Da notare poi alcune finezze, per esempio le vesti e i capelli del giovane sulla scala a sinistra che sembrano mossi dal vento (così come la chioma, in basso, di san Giovanni che regge Gesù per i piedi) oppure la fibbia che orna la manica di Giuseppe di Arimatea, che sta sulla destra e si regge a uno dei bracci della croce, o ancora la decorazione delle vesti e l'acconciature delle tre donne (la Maddalena, Maria di Cleofa e una terza dall'identità sconosciuta) che sorreggono Maria e che secondo il Vangelo di Matteo e quello di Marco assistettero alla Crocifissione. Il personaggio che vediamo sulla destra che osserva la scena è san Bernardino, titolare della cappella all'interno della quale l'opera doveva essere posta. La composizione è molto studiata, come ci testimonia l'elevato numero di disegni, e soprattutto è altamente innovativa perché propone un dinamismo e un senso del movimento uniti a una efficace stesura cromatica (prevalgono toni luminosi: rossi, azzurri, gialli arancioni) che insieme contribuiscono a rendere questa pala uno dei più grandi capolavori non solo di Federico Barocci ma di tutto il Cinquecento. 40
  • 41. 10. Autoritratto Firenze, Galleria degli Uffizi 1570-1575 circa Olio su carta, 31 x 23 cm Immagine Questo autoritratto conservato presso la Galleria degli Uffizi, in un inventario del Settecento veniva attribuito ad Ambrogio Barocci, ma l'assegnazione giusta è quella che vuole il dipinto eseguito da Federi- co. In questo inventario, redatto da Giovanni Francesco Bianchi tra il 1704 e il 1714, si parla di un dipinto alto braccia 1 soldi 6 e largo braccia 1, dipintovi su la tela di sua mano il ritratto di Ambrogio Baroccio d'Urbino, con pochi capelli e barba nera, con collarino piccolo aggiuntovi sopra l'asse parte del campo et un fregio attorno a rabeschi di color di pietra, con ornamento simile ai suddetti. La datazione non è sicura ma si può desumere dall'età che il pitto- re sembra dimostrare, quindi possiamo ipotizzare che sia stato realiz- zato negli anni Settanta del Cinquecento. Come l'Autoritratto eseguito in tarda età e risalente al 1596-1600 circa (n. 32) anche questo dipinto era presente nelle collezioni del cardinale Leopoldo de' Medici ed è annotato in un inventario redatto nel 1676 come il ritratto del Baroccio di mezz'età con barba nera e pochi capelli simili, collare piccolo a lattughe et il giubbone abboz- zato, con adornamento simile. Il dipinto si trovava in condizioni di conservazione piuttosto preca- rie e ha subito un restauro nel corso degli anni Settanta del Novecen- to, a quattrocento anni esatti dalla sua realizzazione. 41
  • 42. 11. Madonna delle ciliegie Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana 1570-1573 Olio su tela, 133 x 130 cm Immagine La Madonna delle ciliegie è l'altro nome con cui è noto il Riposo durante la fuga in Egitto conservato presso la Pinacoteca Vaticana: è infatti quest'ultimo il tema del dipinto, mentre le ciliegie sono quelle che san Giuseppe sta passando, con aria divertita, a Gesù Bambino che accetta sorridendo. La Madonna invece sta riempendo una scodella con l'acqua di un ruscello che scorre sulla sinistra, e vicino vediamo una serie di oggetti, tra cui una bisaccia da cui spunta un tozzo di pane e un cappello di paglia (che ritorna spesso nelle compo- sizioni di Barocci), che contribuiscono a dare un tono molto semplice e molto familiare alla scena. Il particolare della Madonna che riempie una scodella sembrereb- be quasi essere un omaggio al Correggio e a uno dei suoi dipinti più noti, la Madonna della scodella conservata alla Galleria Nazionale di Parma, una tela che, come la Madonna delle ciliegie, affronta il tema del riposo durante la fuga in Egitto. Le ciliegie sono un particolare importante perché costituiscono una variazione al tema classico: secondo la tradizione infatti è la palma la pianta sotto alla quale la Sacra Famiglia si ristora durante la fuga, e Federico Barocci decide di sostituirla con un ciliegio. Un'opera molto suggestiva, caratterizzata da una resa degli affetti molto profonda e sentita, per un risultato molto intimo e delicato. La Madonna delle ciliegie deriva da un originale che Federico Barocci realizzò per il duca Guidobaldo: quest'ultimo, con ogni probabilità, donò il dipinto alla nuora Lucrezia d'Este in occasione del matrimonio con Francesco Maria II. Si trattò, con evidenza, di un'opera che godette di grande fortuna visto che altri committenti la fecero replicare, per non parlare delle diverse stampe di epoche successive che la riproducono. La versione della Pinacoteca Vaticana fu commissionata da un collezionista di nome Simonetto Anastagi, che forse era uno dei 42
  • 43. gentiluomini Perugini, citati da Bellori, che fecero visita al pittore per chiedergli di realizzare la Deposizione da collocare nella Cattedrale di Perugia. Il committente ricevette l'opera nell'ottobre del 1573, e alla sua scomparsa la Madonna delle ciliegie entrò nella chiesa del Gesù di Perugia: a seguito della soppressione dell'ordine dei Gesuiti nel 1773, la tela entrò nel Palazzo del Quirinale e quindi nella Pinacoteca Vaticana. 43
  • 44. 12. Ritratto di Francesco Maria II Della Rovere Firenze, Galleria degli Uffizi 1572 Olio su tela, 113 x 93 cm Immagine È il ritratto forse più famoso di Federico Barocci quello che raffigu- ra Francesco Maria II Della Rovere, futuro duca di Urbino, nel 1572 all'età di ventitré anni (sarebbe diventato duca due anni più tardi). Il dipinto fu eseguito al ritorno del giovane dalla vittoriosa battaglia di Lepanto, alla quale aveva partecipato l'anno prima come Capitano Generale dell'esercito del Ducato di Urbino, che si era imbarcato per supportare la Lega Santa guidata da Don Giovanni d'Austria. Anche per questo ritratto il paragone è con Tiziano, i cui esempi nell'ambito della ritrattistica presenti alla corte di Urbino sono stati menzionati in precedenza: in particolare il confronto, in questo caso, è con il Ritratto di Francesco Maria I Della Rovere, il nonno di Fran- cesco Maria II. Il ventitreenne futuro duca è ritratto in una elegantissima armatu- ra, finemente decorata, a cui Federico dedica una elevata attenzione descrivendo i dettagli con altissima precisione e aggiungendo una nota accesa con la fascia rossa che solca il petto del giovane condot- tiero. La mano sinistra è poggiata sul fianco, mentre la destra regge l'elmo: quest'ultimo gesto potrebbe far pensare a una conoscenza del Ritratto di Filippo II, sempre di Tiziano, conservato al Prado. Alcuni disegni preparatori testimoniano un certo studio da parte del pittore per quanto riguarda la rappresentazione dello scorcio delle mani. Federico Barocci dedica poi una grande cura anche alla raffigura- zione del volto di Francesco Maria II. La pelle bianca con un lieve arrossamento sulle guance, la barba composta che cela le labbra sotti- li, gli occhi espressivi che guardano verso l'osservatore: tutti partico- lari attraverso i quali l'artista ha voluto esprimere l'orgoglio di Fran- cesco Maria e che insieme a tutto il resto del dipinto contribuiscono a rendere questo ritratto uno dei più naturali e realistici di tutto il Cinquecento. 44
  • 45. 13. Perdono di Assisi Urbino, San Francesco 1574-76 Olio su tela, 427 x 236 cm Immagine Altro dipinto realizzato per la chiesa di San Francesco di Urbino, il Perdono di Assisi affronta un tema del repertorio francescano: il momento in cui san Francesco, inginocchiato a pregare all'interno della propria chiesetta (la Porziuncola, oggi all'interno della Basilica di Santa Maria degli Angeli), chiede a Gesù e alla Madonna il perdono dei peccati per tutti coloro che, nei tempi futuri, avrebbero visitato la sua cappella. Il dipinto fu commissionato da un certo Nicolò Ventura, che fece anche inserire, sulla destra, la figura di san Nicola al posto di quella di santa Chiara, che compariva nei primi disegni di questo dipinto. La composizione ricorda la Trasfigurazione di Raffaello nella sua impostazione divisa su due registri, il più alto dei quali occupato al centro dall'apparizione della figura di Cristo, ma ci sono analogie anche con un dipinto di Tiziano che si trovava in una chiesa di Urbi- no, la Resurrezione oggi conservata sempre nella stessa città ma presso la Galleria Nazionale delle Marche. Tuttavia la figura più interessante sembra essere quella di san Francesco, che viene scorciato in un modo piuttosto ardito: uno scor- cio che ricorda il san Francesco della Madonna di Foligno di Raffael- lo ma che ricorda anche una soluzione già adottata dallo stesso Barocci, ovvero il san Giovanni che compare nella Crocifissione commissionata dal conte Pietro Bonarelli (n. 7). È interessante anche notare come la testa del santo non faccia parte della tela: è stata infat- ti realizzata a parte e quindi incollata, si nota uno stacco molto netto, ed è ipotizzabile pertanto che l'artista fosse più soddisfatto del bozzetto che della realizzazione finale e abbia quindi deciso di sosti- tuire la testa del santo. Molto efficace è poi il particolare della porta sullo sfondo che si apre e lascia intravedere all'osservatore l'interno della chiesetta, dove vediamo un “dipinto nel dipinto” che raffigura una crocifissione. 45
  • 46. L'opera ebbe grande successo, come testimonia il numero di stam- pe e incisioni tratte da questo lavoro. Lo stesso Bellori ha dedicato un'ampia sezione della sua Vita di Federico Barocci al Perdono di Assisi, descrivendo minuziosamente ogni dettaglio di questo impor- tante capolavoro. 46
  • 47. 14. Ritratto di fanciulla Firenze, Galleria degli Uffizi 1570-1575 circa Olio su carta incollata su tela, 45 x 33 cm Immagine Non conosciamo l'identità della ragazza ritratta in questo dipinto: per lungo tempo si è pensato che potesse essere Lavinia Della Rovere (1558 – 1632), sorella di Francesco Maria II, vista anche l'età compa- tibile con la cronologia del dipinto (non conosciamo comunque con esattezza la data di realizzazione) e vista la somiglianza somatica con il duca (n. 12). Questa ipotesi fu lanciata per la prima volta da Harald Olsen, che datò il dipinto alla prima metà degli anni Settanta viste anche le somiglianze con la Madonna del gatto (n. 15). L'ipotesi sembrerebbe essere avvalorata anche da quanto scrive Bellori: fece il ritratto del medesimo Duca, della marchesa del Vasto, del Marchese e di Monsignor della Rovere (la marchesa del Vasto era Lavinia Della Rovere). Nel 2001 però lo storico dell'arte Luciano Arcangeli ha preferito rifiutare l'identificazione della giovane con Lavinia Della Rovere e la critica recente si è attestata su questa posizione. Si tratta tuttavia di una ragazzina che con tutta probabilità faceva parte della corte di Urbino. La datazione non è accettata in modo unanime da parte della criti- ca: c'è, per esempio, chi la considera come un'opera degli anni Novanta e chi invece preferisce collocarla ai primi anni del XVII seco- lo. È uno dei rari ritratti femminili eseguiti da Federico Barocci, e ci colpisce per il vivo naturalismo con cui viene raffigurato il giovane volto dall'aria fresca e delicata. 47
  • 48. 15. Madonna del gatto Londra, National Gallery 1575 circa Olio su tela, 112 x 92 cm Immagine Per questo signore dipinse un altro scherzo; la Vergine sedente in una camera col Bambino in seno, a cui addita un gatto, che si slan- cia ad una rondinella tenuta da San Giovannino, legata in alto col filo, e dietro si appoggia San Giuseppe con la mano ad un tavolino, e si fa avanti per vedere. Il “signore” è il conte Antonio Brancaleoni, e la descrizione è di Giovan Pietro Bellori. Lo stesso conte aveva commissionato a Federico Barocci una replica della Madonna delle ciliegie (n. 11) che oggi è conservata a Piobbico, in provincia di Pesa- ro-Urbino, presso la chiesa di Santo Stefano. La Madonna del gatto (da non confondersi con la Madonna della gatta, n.30) è uno dei dipinti più gioiosi e familiari e quindi più apprezzati di Federico Barocci, e prende il nome dal gatto bianco a macchie rosse che si alza sulle zampe posteriori e osserva, in modo molto naturale, il cardellino (simbolo della Passione) tenuto in mano da san Giovannino. Quest'ultimo viene sorretto dalla Madonna, che con l'altra mano regge il Bambino e alza i piedi quasi a voler provoca- re il gatto, mentre da dietro san Giuseppe osserva divertito la scena sorridendo. Nelle suole consunte delle calzature della Madonna, alcu- ni vedono quasi una sorta di anticipazione della Madonna dei pellegrini di Caravaggio, perché il particolare sarebbe assimilabile ai piedi in primo piano del pellegrino inginocchiato di fronte alla Madonna nella tela di Michelangelo Merisi. Gesù sembra essere talmente preso a osservare il gatto che quasi si dimentica della mammella della madre, dalla quale con tutta eviden- za stava succhiando il latte e dalla quale distoglie lo sguardo. Si ha quasi l'impressione di vedere non la famiglia di Gesù, ma una normale famiglia “terrena” in una scena di vita quotidiana: una composizione che quindi si contraddistingue per la sua grande spen- sieratezza e per la sua atmosfera serena e rilassata. Ad accrescere questa sensazione, l'ambientazione domestica con oggetti della vita 48
  • 49. quotidiana, come la cesta che appare in basso e dentro alla quale notiamo un cuscino. Il dipinto, durante il Settecento, entrò a far parte delle raccolte di un collezionista perugino per poi passare, nell'Ottocento, presso due collezionisti inglesi, l'ultimo dei quali, William Holwell Carr, cedette la Madonna del gatto alla National Gallery di Londra dove ancora oggi si può ammirare. 49
  • 50. 16. Immacolata concezione Urbino, Galleria Nazionale delle Marche 1575 circa Olio su tela, 217 x 144 cm Immagine Un'altra pala destinata alla chiesa di San Francesco di Urbino, questa volta commissionata dalla Compagnia della Concezione. La datazione che farebbe risalire l'opera al 1575 circa, in assenza di documenti certi, si deve a un disegno conservato agli Uffizi all'interno del quale si vede uno studio della testa del Gesù Bambino della Madonna del gatto (n. 15) e un altro delle mani della bambina che si trova in basso a destra nell'Immacolata concezione. Il tema era particolarmente caro all'ambiente francescano, ma era tuttavia, a quel tempo, al centro di polemiche, tanto che si dovrà attendere fino al 1854 con Pio IX la definizione ufficiale del dogma dell'Immacolata concezione da parte della Chiesa. Federico Barocci, con questa tela, rivisita la tradizionale iconografia che voleva la Madonna in cielo con il capo coronato di dodici stelle e con il piede poggiato sopra alla luna e al drago: si tratta di un'iconografia che deriva in parte da un passo del libro dell'Apocalisse (12, 1). Un esem- pio simile di questo modo di rappresentare il tema, più o meno coevo a Federico Barocci ma rispetto a lui più tradizionale, si può ravvisare nell'Immacolata concezione di Francesco Vanni (circa 1588), pittore senese la cui arte presenta diverse suggestioni baroccesche (come del resto risulta evidente da questo dipinto). L'artista urbinate propone una sorta di “misto” tra il tema dell'Im- macolata concezione e quello della Madonna della Misericordia, ovvero il tema in base al quale la Madonna viene rappresentata mentre apre il suo manto per accogliere i fedeli, che solitamente si dispongono attorno a lei a semicerchio. Notiamo infatti l'assenza del drago (la luna invece c'è) e al contempo la presenza di alcuni fedeli (forse i membri della confraternita che ha commissionato il dipinto) che si dispongono attorno ai piedi di Maria e guardano tutti verso di lei: il modo in cui la veste della Vergine viene mossa dal vento e il modo in cui apre le braccia ricordano un po' il tema della Madonna 50
  • 51. della Misericordia. Il dipinto viene citato anche nella Vita di Federico Barocci di Bellori: nella chiesa di San Francesco su l'Altare della Compagnia della Concezione vi è l'immagine della Vergine in piedi sopra la Luna con le braccia aperte, e sotto raccoglie uomini e donne della Compagnia in divozione. 51
  • 52. 17. Madonna del popolo Firenze, Galleria degli Uffizi 1575-1579 Olio su tela, 359 x 272 cm Immagine La pala è tra le più celebri di Federico Barocci ed è anche tra quelle con la composizione più studiata, come testimonia l'elevato numero di disegni preparatori e di schizzi che sono rimasti. La scena si sviluppa su due registri: in quello superiore vediamo Cristo e la Madonna che sono seduti sulle nuvole in compagnia di alcuni angeli, e nel registro inferiore vediamo il popolo che dà il nome al dipinto raffigurato in una vasta e interessantissima varietà di pose e di espressioni. È proprio la parte con il popolo quella più interes- sante perché offre molti spunti di riflessione, a cominciare dalla precisione anatomica della pittura di Federico Barocci testimoniata dall'uomo a torso nudo che si trova semisdraiato in basso al centro. Precisione che riscontriamo anche nella raffigurazione del cane in basso a destra e precisione unita a delicatezza e tenerezza che trovia- mo nella rappresentazione delle espressioni gioiose dei bambini. Federico Barocci, come anticipato, fornisce con questa sua impres- sionante pala una grande varietà di espressioni, tutte attentamente studiate: vediamo quindi la madre, sulla sinistra, che invita i bambini a pregare indicando l'apparizione delle divinità, vediamo ancora a sinistra un bambino curioso che sfoglia le pagine del libro della madre, persone che si stupiscono vedendo Gesù e Maria, il musicista cieco sulla destra e sopra di lui un bambino in braccio alla madre che si mette le dita in bocca. Ed è curioso notare come l'unico personag- gio che rivolge lo sguardo verso l'osservatore sia il cagnolino, partico- lare questo che tornerà anche nell'Ultima cena della Cattedrale di Urbino (n. 26). Gli uomini sulla destra forse potrebbero rappresentare i membri della confraternita che commissionò questo dipinto al pittore urbina- te. L'opera doveva essere inizialmente eseguita da Giorgio Vasari, ma l'artista aretino scomparve nel 1574, così la Pia Confraternita dei Laici di Santa Maria della Misericordia decise di rivolgersi a Federico 52
  • 53. Barocci per la realizzazione della pala da porre nel proprio altare all'interno della Pieve di Santa Maria di Arezzo. Non sappiamo perché la confraternita decise di rivolgersi proprio a Federico Baroc- ci, la cui fama nel 1574 era ancora piuttosto limitata: è possibile che la scelta si debba al grande successo che riscosse la Deposizione di Perugia (n. 9), che fu una delle opere che contribuirono a lanciare il nome di Federico Barocci anche al di fuori dei confini della patria. Il dipinto fu poi consegnato nel giugno del 1579, in seguito a numerosi ritardi testimoniati anche dalle lettere tra il pittore e i membri della confraternita. 53
  • 54. 18. Sepoltura di Cristo Senigallia, Chiesa della Croce 1579-1582 Olio su tela, 295 x 187 cm Immagine La Sepoltura di Cristo fu commissionata al pittore urbinate dalla confraternita del Sacramento e della Croce di Senigallia per la propria chiesa, dove si trova ancora oggi. La realizzazione del dipinto durò tre anni, dal 1579 al 1582, anche perché la composizione fu, come al solito, studiatissima. Il corpo di Cristo, uno dei particolari più luminosi della scena, occupa il centro della pala e viene trasportato verso il sepolcro da Nicodemo, Giusep- pe di Arimatea e san Giovanni, le cui fattezze ricordano quelle del san Giovanni della Deposizione (n. 9) e della Madonna di san Giovanni (n. 6). La figura di san Giovanni che, come scrive Bellori, tenendo il lenzuolo a' piedi di Cristo, esprime la fatica e la gravezza del peso, per via del suo naturalismo è una delle più interessanti della compo- sizione. Molto tenera e delicata è invece la figura della Maddalena, che troviamo in basso a destra e che si contraddistingue per i bellissi- mi capelli biondi: la santa esprime un dolore composto, inginocchiata di fronte all'ingresso del sepolcro con le mani giunte. Ritroviamo la stessa compostezza e lo stesso gesto nella Madonna, che invece occu- pa una posizione più defilata in secondo piano, in compagnia di due donne, una delle quali si asciuga le lacrime con un velo. Motivo di interesse in questo dipinto è anche il paesaggio: sulla cima della collina del Calvario vediamo le tre croci, con i due ladroni ancora inchiodati, e con il particolare di due uomini che stanno portando via le scale dalla croce di Gesù. Sulla destra vediamo inol- tre, illuminati dalla luce del tramonto, i “Torricini” del Palazzo Duca- le di Urbino, particolare che tornerà spesso nelle composizioni di Barocci: la vista del Palazzo è quella di cui Barocci godeva dalla fine- stra di casa sua. La composizione ricorda a tratti la Deposizione di Raffaello, che Federico con tutta evidenza conosceva e che qui rivisita in modo molto personale e suggestivo. 54
  • 55. 19. Annunciazione Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana 1582-1584 Olio su tela, 248 x 170 cm Immagine La bellissima tela, che fu poi replicata con qualche rivisitazione per il meraviglioso capolavoro della basilica di Santa Maria degli Angeli (n. 31), fu commissionata dal duca Francesco Maria II Della Rovere per la propria cappella nella basilica di Loreto. Bellori dice che il duca Francesco Maria II era divoto alla Santissima Annunziata tanto da dedicarle una cappella all'interno della basilica. Da qui la tela, nel 1781, fu trasferita a Roma ed esposta nel Palazzo Apostolico e quindi requisita durante le spoliazioni napoleoniche nel 1797 e spedita a Parigi, dove rimase fino al 1815 in esposizione al Louvre. Il dipinto rientrò poi in Italia in seguito alla Restaurazione e oggi si può ammi- rare nella Pinacoteca Vaticana. Durante il viaggio verso Parigi la tela ha subito diversi danni, in parte riparati a seguito di opere di restauro ma che si notano ancora soprattutto osservando la base del dipinto. L'Annunciazione eseguita per il duca godette di grande fortuna, e la replica con varianti conservata in Umbria è soltanto una delle tante che Barocci e soprattutto la sua scuola eseguirono. È un'opera dall'intenso lirismo, i due protagonisti sono realizzati in modo molto delicato e aggraziato e compaiono alcuni particolari, come il gattino addormentato in basso a sinistra, che contribuiscono a dare un tono familiare alla scena. Dietro ai due protagonisti notia- mo che una tenda si discosta per farci vedere, al di là della finestra, ancora la facciata dei torricini del Palazzo Ducale di Urbino. Sempre Bellori, che offre una descrizione molto particolareggiata del dipinto, dice che il duca fu entusiasta di quest'opera e per questo rimunerò liberalissimamente l'arte ingegnosa, riconoscendo Federi- co Barocci tra gli uomini più insigni della sua corte. 55
  • 56. 20. Chiamata di sant'Andrea Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique 1583 Olio su tela, 315 x 235 cm Immagine La Chiamata di sant'Andrea fu realizzata nel 1583, su richiesta della duchessa di Urbino Lucrezia d'Este, per l'oratorio della Confra- ternita di Sant'Andrea di Pesaro, come attesta anche Bellori. L'opera fu consegnata l'anno successivo e piacque a Francesco Maria II al punto che il duca ne chiese una replica, realizzata tra il 1586 e il 1588, per inviarla in dono a Filippo II di Spagna e ricevere in cambio l'Ordi- ne del Toson d'Oro (di cui sant'Andrea è protettore). Risulta errata la notizia di Bellori secondo la quale l'esemplare inviato all'Escorial è quello inizialmente realizzato per la chiesa di Sant'Andrea e secondo cui Federico Barocci, in sostituzione, avrebbe realizzato per la chiesa una replica. Il dipinto, come anticipato nel profilo biografico, fu anch'esso vittima delle spoliazioni napoleoniche: portato prima a Parigi nel 1797, fu quindi inviato a Bruxelles per far parte del locale Museo di Belle Arti, dove si trova ancora oggi. Si tratta di un quadro singolare per la sua atmosfera suggestiva, con la nebbia del lago che avvolge i particolari della scena resa con un uso sapiente dello sfumato e con un colorismo piuttosto tenue. La figura di Cristo è in piedi, solenne, mentre sant'Andrea si trova ingi- nocchiato ai suoi piedi, a braccia aperte, mentre riceve la chiamata: sembra quasi di immaginare il dialogo. A queste due figure fa un po' da contraltare san Pietro, che vediamo sulla destra mentre in modo naturalistico spinge la barca sulla riva dopo il termine della pesca, aiutato da un pescatore che ferma l'imbarcazione con il remo. 56
  • 57. 21. Martirio di san Vitale Milano, Pinacoteca di Brera 1583 Olio su tela, 392 x 269 cm Immagine Secondo le agiografie, san Vitale era un soldato romano che doveva accompagnare un giudice da Milano a Ravenna, dove un medico di origini liguri, sant'Ursicino, era stato condannato a morte per la sua fede cristiana. Vitale, assistendo Ursicino, rese manifesta la propria fede nel cristianesimo e per questo venne fatto arrestare, torturare e quindi giustiziare dallo stesso giudice che aveva accompagnato a Ravenna, città di cui il santo è diventato protettore e dove il suo culto è particolarmente vivo. Si tratta di uno dei dipinti più tumultuosi di Federico Barocci: il santo è al centro, nudo, fatta eccezione per un velo che gli copre la vita, e sta subendo il martirio a opera dei soldati che lo circondano. Il tutto sotto gli occhi del giudice, che alza la sua mano per ordinare il supplizio, e mentre un angelo arriva in volo a portare la palma del martirio. È interessante notare come Barocci dipinga le espressioni di partecipazione e anche di curiosità nei soldati in secondo piano. Molto naturalistici sono i volti del primo soldato a sinistra e di quello che si trova in corrispondenza della mano del giudice: si stanno spor- gendo oltre le persone che li precedono per vedere meglio la scena. La donna sulla sinistra, la madre con i bambini, è la stessa che notiamo, sempre nella stessa posizione, nella Madonna del popolo (n. 17) e che comparirà con qualche variante anche in Sant'Ambrogio perdona Teodosio (n. 38). Anche con questo dipinto, Federico si rivela un otti- mo osservatore del quotidiano. Inoltre, molto studiato è il colorismo della scena: i toni accesi dei protagonisti della scena, che spiccano sul grigiore del cielo nuvoloso, portano l'osservatore a focalizzare su di loro l'attenzione. Il dipinto fu eseguito per la chiesa di San Vitale di Ravenna, che lo commissionò nel 1580, e come molte altre tele di Federico Barocci fu coinvolto nelle spoliazioni napoleoniche ma non andò in Francia: si fermò a Milano a Brera, dove è conservata ancora oggi. 57
  • 58. 22. Visitazione Roma, Santa Maria in Vallicella 1583-1586 Olio su tela, 285 x 187 cm Immagine La Visitazione fu commissionata nel 1582 dai padri oratoriani della Vallicella, che volevano l'opera per la loro chiesa di Roma (nota anche come “Chiesa Nuova”). Il dipinto arrivò a Roma nell'estate del 1586, fu molto apprezzato sia dai committenti che dal pubblico e, come raccontano le agiografie, ma anche la letteratura artistica (su tutti sempre Bellori), san Filippo Neri era solito pregare e meditare davanti a questo dipinto. L'opera fu apprezzata anche nell'ambiente artistico come dimostrano le diverse riproduzioni a stampa e le copie che ne furono tratte. Il tema è quello classico dell'incontro tra la Madonna e sua cugina santa Elisabetta subito dopo l'Annunciazione: le due donne sono raffigurate al centro della scena mentre si scambiano una robusta stretta di mano, quasi mascolina. I due mariti, rispettivamente san Giuseppe e san Zaccaria, si dispongono su una linea diagonale che percorre tutto il dipinto e che ha al centro proprio le due donne. Sulla destra osserviamo invece una serva che in mano ha una cesta con due galline, che a livello “letterale” possono essere intese come un dono per la visita ma che a livello metaforico possono essere forse un'allu- sione al fatto che l'uovo è il simbolo dell'Immacolata concezione, tema a cui rimanda questo dipinto. Si tratta comunque di un aspetto del dipinto che evoca una dimensione quotidiana, così come l'asino che vediamo spuntare sulla sinistra e che viene condotto da san Giuseppe. La finestra sullo sfondo si apre su un paesaggio collinare. Da un disegno preparatorio conservato a Copenaghen, risulta che inizial- mente Federico Barocci aveva pensato a un'ambientazione urbana per questo dipinto, e gli studiosi, in tale ambientazione, individuano uno scorcio della città natale del pittore. 58