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Ernest Cline

Player One
Romanzo

Traduzione Laura Spini
Direzione editoriale: Massimo Coppola
Editor: Mario Bonaldi
Redazione: Antonio Benforte, Linda Fava
Diritti e redazione: Sara Sedehi
Comunicazione: Valentina Ferrara, Giulia Osnaghi
Grafica: Alice Beniero
© 2011 by Dark All Day, Inc.
© 2011 Isbn Edizioni S.r.l., Milano
Titolo originale: Ready Player One

Il mondo è un brutto posto. Wade ha diciotto anni e trascorre le sue giornate in un
universo virtuale chiamato OASIS, dove si fa amicizia, ci si innamora – si fa ciò che ormai
è impossibile fare nel mondo reale, oppresso da guerre e carestie. Ma un giorno James
Halliday, geniale creatore di OASIS, muore senza eredi. L’unico modo per salvare OASIS
da una spietata multinazionale è metterlo in palio tra i suoi abitanti: a ereditarlo sarà il
vincitore della più incredibile gara mai immaginata. Wade risolve quasi per caso il primo
enigma, diventando di colpo, insieme ad alcuni amici, l’unica speranza dell’umanità. Sarà
solo la prima di tante prove: recitare a memoria le battute di Wargames, penetrare nella
Tyrell Corporation di Blade Runner, giocare la partita perfetta a Pac–Man, sfidare
giganteschi robot giapponesi e così via, in una strabiliante rassegna di missioni di ogni
tipo, ambientate nell’immaginario pop degli anni ‘80, a cui OASIS è ispirato. Un romanzo
da leggere tutto d’un fiato, un nuovo classico dell’avventura che presto diventerà un
megafilm prodotto da Warner Bros.
Ernest Cline ha fatto il sottocuoco, ha pulito il pesce, donato il plasma, è stato un
commesso snob di videoteca, e ha svolto lavori di bassa manovalanza tecnologica. Ma ha
sempre trascurato tutte queste promettenti carriere per dedicarsi a tempo pieno al suo
amore per la cultura pop in tutte le sue forme, prima attraverso la poesia orale, poi come
sceneggiatore. Ha scritto un film, Fanboys (2008), che è diventato un fenomeno di culto,
con suo grande stupore. Oggi vive a Austin, Texas, con moglie, figlia e un’immensa
collezione di videogiochi d’epoca. Player One è il suo primo romanzo.
Per Susan e Libby.
Perché non c’è una mappa per il posto in cui stiamo andando.

L’autore
Ernest Cline ha fatto il sottocuoco, ha pulito il pesce, donato il plasma, è stato un
commesso snob di videoteca, e ha svolto lavori di bassa manovalanza tecnologica. Ma ha
sempre trascurato tutte queste promettenti carriere per dedicarsi a tempo pieno al suo
amore per la cultura pop in tutte le sue forme, prima attraverso la poesia orale, poi come
sceneggiatore. Ha scritto un film, Fanboys (2008), che è diventato un fenomeno di culto,
con suo grande stupore. Oggi vive a Austin, Texas, con moglie, figlia e un’immensa
collezione di videogiochi d’epoca. Player One è il suo primo romanzo.

0000
Chiunque abbia la mia età ricorda bene dove si trovava e cosa stava facendo nel preciso
momento in cui, per la prima volta, sentì parlare della gara. Io ero seduto nel mio
nascondiglio e guardavo i cartoni animati quando il notiziario fece irruzione sullo
schermo, annunciando che James Halliday era morto nel corso della notte.
Naturalmente, avevo già sentito parlare di Halliday. Come chiunque, del resto. Era
l’ideatore di videogiochi che aveva creato OASIS, il gioco multiplayer online con milioni di
utenti che si era gradualmente evoluto fino a diventare la realtà virtuale, connessa su scala
globale, che la maggior parte dell’umanità usava ormai quotidianamente. Il successo senza
precedenti di OASIS aveva reso Halliday uno degli uomini più ricchi del mondo.
Sulle prime non riuscivo a capire perché i media avessero tanto a cuore la morte del
miliardario. In fondo, gli abitanti del Pianeta Terra avevano altro a cui pensare.
L’inarrestabile crisi energetica. I catastrofici mutamenti climatici. Le carestie e la fame, la
povertà, le malattie. Una mezza dozzina di guerre. La solita storia: «Cani e gatti che
vivono insieme… isteria di massa!». Generalmente i notiziari non interrompevano mai la
visione di sitcom e soap interattive a meno che non fosse accaduto qualcosa di grosso.
Come lo scoppio di un’epidemia letale o la distruzione di un’altra grande città, inghiottita
da un fungo atomico. Cose così, importanti. Per quanto Halliday fosse importante, la sua
morte avrebbe dovuto guadagnarsi solamente uno spezzoncino durante il telegiornale
della sera, giusto per far sì che le masse scuotessero le loro testoline plebee con invidia,
quando i telecronisti avessero annunciato la quantità vergognosa di denaro che sarebbe
stata elargita agli eredi.
Ma era quello il problema. James Halliday non aveva eredi.
Era morto a sessantasette anni, scapolo, senza parenti e, a quanto dicevano in molti, senza
un solo amico. Aveva trascorso gli ultimi quindici anni della sua vita in un isolamento
autoimposto, durante il quale (se le voci erano attendibili) aveva perso completamente la
ragione.
Perciò la notizia che, quella mattina di gennaio, lasciò tutti a bocca aperta, la notizia che
lasciò, da Toronto a Tokyo, tutti di stucco davanti alla ciotola di cereali, riguardava il
contenuto delle ultime volontà e del testamento di Halliday, e il destino delle sue vaste
fortune.
Halliday aveva preparato un breve videomessaggio, corredato dalla raccomandazione che
fosse distribuito ai media di tutto il mondo al momento della sua morte. Aveva anche fatto
in modo che una copia del video fosse inviata per email a ogni singolo utente OASIS
quella mattina stessa. Ricordo ancora il momento in cui il messaggio raggiunse la mia
casella di posta elettronica e io sentii il trillo a me tanto familiare, pochi secondi dopo aver
visto quel primo notiziario.
Il suo videomessaggio era in realtà un cortometraggio meticolosamente costruito e
intitolato L’invito di Anorak. Notoriamente eccentrico, per tutta la vita Halliday aveva
nutrito un’ossessione per gli anni ottanta, il decennio della sua adolescenza: L’invito di
Anorak era strapieno di riferimenti semisconosciuti alla cultura pop degli anni ottanta,
riferimenti che riuscii a cogliere solo in minima parte quando guardai il filmato per la
prima volta.
L’intero video era poco più lungo di cinque minuti e, durante i giorni e le settimane che
seguirono, sarebbe diventato il segmento più minuziosamente esaminato della storia;
superò addirittura le riprese di Zapruder quanto al numero di scrupolose analisi
fotogramma–per-fotogramma che subì. Tutta la mia generazione finì per imparare a
memoria ogni secondo del messaggio di Halliday.
L’invito di Anorak si apre con un suono di trombe, l’attacco di una vecchia canzone
intitolata Dead Man’s Party.
Il brano va avanti a schermo nero per i primi secondi e il momento in cui alle trombe si
unisce una chitarra è anche quello in cui compare Halliday. Ma non è un sessantasettenne
intaccato dal tempo e dalla malattia. Il suo aspetto è uguale a quello che aveva sulla
copertina del Time nel 2014: un uomo appena quarantenne, alto, magro, in salute,
spettinato, con i suoi tipici occhiali dalla montatura di corno. Inoltre, veste gli stessi abiti
che aveva nella fotografia del Time: jeans scoloriti e una maglietta vintage di Space
Invaders.
Halliday si trova a un ballo del liceo, in una grande palestra. È circondato da adolescenti le
cui capigliature, così come gli abiti e i passi di danza, suggeriscono che ci troviamo alla
fine degli anni ottanta.1 Ma Halliday non ha una compagna per il ballo. Sta, come direbbe
qualcuno, ballando da solo.
Alcune righe di testo appaiono brevemente in basso a sinistra, segnalando il nome del
gruppo, il titolo della canzone, l’etichetta discografica e l’anno di uscita, come si trattasse
di un vecchio video musicale trasmesso da MTV: Dead Man’s Party, Oingo Boingo, MCA
Records, 1985.
Non appena iniziano a cantare, anche Halliday comincia a cantare in playback, sempre
1 Un’attenta analisi della scena rivela che tutti i ragazzini dietro a Halliday sono in realtà comparse digitalmente
ritagliate da teen movie di John Hughes e incollate all’interno del video.
volteggiando: «All dressed up and nowhere to go. Walking with a dead man over my
shoulder. Don’t run away, it’s only me…».
Poi improvvisamente smette di ballare e, con un gesto secco della mano destra, interrompe
la musica. In quello stesso momento, i ragazzi che ballano sullo sfondo, spariscono, così
come la palestra, e la scena cambia all’improvviso.
Ora Halliday si trova davanti a una camera mortuaria, accanto a una bara aperta. 2
Un
altro Halliday, molto più vecchio, giace all’interno della bara, con il corpo emaciato e
devastato dal cancro. Due quarti di dollaro scintillano sulle sue palpebre. 3
Halliday,
quello giovane, osserva dall’alto il suo cadavere invecchiato simulando tristezza, poi si
rivolge ai partecipanti in lutto. 4 Halliday schiocca le dita e nella sua mano destra appare
una pergamena. La apre con ostentazione, e quella si srotola al suolo, lungo il corridoio
davanti a lui. Quindi Halliday rompe la quarta parete: si rivolge agli spettatori e comincia
a leggere.
«Io, James Donovan Halliday, nel pieno possesso delle mie facoltà di intendere e di volere,
con il presente messaggio stabilisco, pubblico e dichiaro che questo documento costituirà
le mie ultime volontà e il mio testamento, e revoco ogni testamento di qualsivoglia natura
redatto da me in precedenza…» Poi continua a leggerlo, sempre più velocemente,
sciorinando molti altri paragrafi in fitto gergo giuridico, finché non arriva a parlare tanto
in fretta che le sue parole diventano incomprensibili. Quindi, si ferma bruscamente.
«Lasciamo stare» dice. «Anche a questa velocità, ci impiegherei un mese a leggere tutta
questa roba. Mi spiace dirlo, ma non ho tanto tempo.» Lascia cadere la pergamena, che
scompare in una pioggia di polvere d’oro. «Facciamo che vi illustro i punti chiave.» La
camera mortuaria scompare e la scena cambia di nuovo. Halliday ora si trova di fronte
all’immensa porta del caveau di una banca. «Tutti i miei beni, compresa la maggioranza
delle azioni della mia compagnia, la Gregarious Simulation Systems, saranno congelati
finché non verrà soddisfatta l’unica condizione che ho imposto nel mio testamento. Il
primo individuo che soddisferà tale condizione erediterà tutte le mie fortune, al momento
valutate per eccesso in duecentoquaranta miliardi di dollari.» La porta si spalanca, e
Halliday entra nel caveau. L’interno è enorme e contiene una smisurata pila di lingotti
d’oro, la cui mole arriva pressapoco a eguagliare quella di una casa piuttosto grossa. «Ecco
la grana che vi metto a disposizione» dice Halliday con un largo sorriso. «Che cavolo. Non
è facile da trasportare, dico bene?» Halliday si appoggia al cumulo di lingotti e
l’inquadratura stringe sul suo volto. «Ora, sono sicuro che vi starete già domandando, cosa
dovete fare per mettere le mani su tutto il gruzzolo? Be’, cari miei, una cosa alla volta. Ci
sto arrivando…» Fa una pausa teatrale e la sua espressione cambia e diventa quella di un
ragazzino che sta per rivelare un gran segreto.
Halliday schiocca di nuovo le dita e il caveau scompare. In quello stesso istante, Halliday
diventa più piccolo e si trasforma in un bambino, con pantaloni in velluto marrone e una
maglietta sbiadita del Muppet Show.5 Il piccolo Halliday si trova in un salotto
disordinato con una moquette arancione scuro, le pareti ricoperte da pannelli di legno, e
un arredamento kitsch fine anni settanta.
2 Ciò che lo circonda in realtà è preso da una scena di Schegge di follia, film del 1989. Pare che Halliday abbia
ricreato digitalmente il set della camera mortuaria e si sia inserito al suo interno.
3 Un’analisi ad alta risoluzione ci rivela che entrambe le monete sono state coniate nel 1984.
4 Questi, di fatto, sono attori e comparse presi da quella stessa scena del funerale di Schegge di follia. Tra gli astanti è
possibile riconoscere chiaramente, seduti in fondo, Winona Ryder e Christian Slater.
5 Halliday ora è identico a come appare in una foto scattata a scuola nel 1980, quando aveva otto anni.
Poco distante, un televisore Zenith a 21 pollici a cui è attaccato un’Atari 2600.
«Questa è la prima console per videogiochi che abbia mai avuto» dice Halliday, con la
voce di un bambino. «È un’Atari 2600. Me l’hanno regalato per Natale, nel 1979.» Si lascia
cadere di fronte all’Atari, raccoglie un joystick e comincia a giocare. «Questo era il mio
gioco preferito» dice, indicando lo schermo del televisore, sul quale un quadratino sta
attraversando una serie di labirinti piuttosto semplici. «Si chiamava Adventure. Come
molti altri vecchi videogiochi, Adventure era stato progettato e programmato da una sola
persona. Ma, al tempo, la Atari si rifiutava di riconoscere i meriti ai propri programmatori,
perciò il nome di chi aveva creato un videogioco non compariva da nessuna parte sulla
confezione.» Sullo schermo, vediamo che Halliday sta usando una spada per uccidere un
drago rosso – anche se, a causa della rudimentale grafica a bassa risoluzione, si ha più
l’impressione che un quadrato stia usando una freccia per pugnalare un’anatra deforme.
«E così, il creatore di Adventure, un tale di nome Warren Robinett, decise di celare il suo
nome direttamente nel gioco. Nascose una chiave all’interno di uno dei labirinti. Una volta
trovata questa chiave, un puntino grigio grande quanto un pixel, potevi usarla per
accedere a una stanza segreta dove Robinett aveva nascosto il proprio nome.» Halliday
conduce il suo protagonista, il quadrato, all’interno della stanza segreta del gioco finché, al
centro dello schermo, non compaiono le parole Creato da Warren Robinett.
«Questo» dice Halliday, indicando lo schermo con sincera venerazione «è stato il primo
Easter Egg nel mondo dei videogiochi. Robinett l’aveva nascosto nel codice del gioco
senza che nessuno ne fosse a conoscenza e la Atari ha prodotto in serie Adventure e l’ha
distribuito in tutto il mondo senza sapere della stanza segreta. Ne rimasero all’oscuro fino
a qualche mese dopo, quando i ragazzini, ovunque, iniziarono a scoprire l’Easter Egg. Io
ero uno di questi ragazzini, e trovare l’Easter Egg di Robinett per la prima volta fu una
delle esperienze più grandiose della mia vita di videogiocatore.» Il giovane Halliday
abbandona il joystick e si rialza. Mentre lo fa, il salotto comincia a scomparire, e la scena
cambia di nuovo. Ora Halliday si trova in una grotta buia, sulle cui pareti umide trema la
luce di alcune torce. Simultaneamente, cambia anche il suo aspetto, Halliday si trasforma
nel famoso avatar che usava su OASIS: Anorak, un mago alto e togato con un volto che è
la versione vagamente più attraente (e senza occhiali) di Halliday da adulto. Anorak
indossa la tipica tunica nera che, su entrambe le maniche, ha ricamato l’emblema del suo
avatar (una grande A ben disegnata).
«Prima di morire» dice quindi Anorak, con un tono molto più cupo «ho creato il mio
personale Easter Egg e l’ho nascosto all’interno del mio videogioco più famoso: OASIS. Il
primo che troverà l’Easter Egg erediterà i miei beni nella loro totalità.» Altra pausa
teatrale.
«È difficile da trovare. Non l’ho semplicemente nascosto da qualche parte, dietro un sasso.
Presumo si possa dire che è chiuso dentro una cassaforte sepolta in una camera segreta
che, a sua volta, è nascosta al centro di un labirinto situato da qualche parte…» Solleva il
braccio a picchiettarsi la fronte. «Qui dentro.»
«Ma non preoccupatevi. Ho lasciato qualche indizio in giro, per mettervi sulla buona
strada. Ecco il primo.» Anorak fa un cenno pomposo con la mano destra e subito
compaiono tre chiavi che roteano in aria, proprio di fronte a lui, e sembrerebbero fatte di
rame, giada e cristallo. Mentre le chiavi continuano a roteare, Anorak comincia a recitare
la strofa di una poesia e ogni verso compare, per pochi istanti, come un sottotitolo
fiammeggiante in fondo allo schermo: Tre chiavi, ognuna una porta aprirà
Che
il
valor dei viandanti proverà
Chi l’ardue prove superar saprà Giunto alla Fine, il
premio otterrà
Al concludersi di questi versi, la Chiave di Giada e quella di cristallo
svaniscono; rimane soltanto la Chiave di Rame, ora appesa con una catenina al collo di
Anorak.
La macchina da presa segue Anorak che si volta e continua a camminare lungo la caverna.
Pochi secondi dopo, raggiunge una massiccia porta di legno a due battenti, incassata nella
parete rocciosa.
La porta è rivestita in acciaio e, incisi sulla superficie, appaiono scudi e draghi. «Questo
gioco non ho potuto testarlo, quindi la mia preoccupazione è che potrei aver nascosto il
mio Easter Egg talmente bene da renderlo introvabile. Non lo so per certo. Anche se fosse,
ora è comunque troppo tardi per cambiare qualcosa. Perciò staremo a vedere.» Anorak
spalanca la porta rivelando una smisurata stanza del tesoro, ricolma di monete d’oro
scintillante e calici tempestati di gioielli.6 Poi oltrepassa la soglia e si rivolge agli spettatori,
allargando le braccia per tenere aperta la porta.7
«E quindi, senza altri indugi»
annuncia Anorak «che la caccia all’Easter Egg di Halliday abbia inizio!» Poi scompare in
un lampo di luce, lasciando lo spettatore a guardare gli abbaglianti cumuli di tesori al di là
della porta aperta.
Poi parte una dissolvenza al nero.
Alla fine del video, Halliday aveva allegato un link al suo sito personale, che era cambiato
radicalmente la mattina della sua morte. Per più di un decennio, l’unico elemento presente
sul sito era stata una breve animazione in loop che mostrava il suo avatar, Anorak, seduto
in una biblioteca medievale, ricurvo, intento a mescolare pozioni e concentrato su alcuni
libri di incantesimi sopra un tavolo da lavoro consumato dal tempo. Sulla parete dietro di
lui si vedeva un grande dipinto che raffigurava un drago nero.
Ma ora quell’animazione non c’era più e, al suo posto, si poteva vedere una classifica dei
punteggi più alti, simile a quelle che si trovavano nei vecchi videogiochi a gettone. La lista
presentava dieci posizioni, occupate tutte dalle iniziali JDH – James Donovan Halliday –
seguite da un punteggio a sei zeri. Tale lista fu presto denominata il «Segnapunti».
Sotto il Segnapunti, un’icona rappresentava un libricino rilegato in pelle, che linkava a una
copia, scaricabile gratuitamente, dell’Almanacco di Anorak, una raccolta di centinaia di
annotazioni tratte dal diario di Halliday e prive di data. L’Almanacco consisteva in più di
un migliaio di pagine, ma forniva pochi dettagli sulla vita privata di Halliday o sulle sue
attività quotidiane.
Perlopiù, si trattava di un flusso di coscienza con osservazioni riguardanti numerosi
classici del videogioco, romanzi fantasy e di fantascienza, fumetti, cultura pop degli anni
ottanta; il tutto mescolato con divertenti diatribe che denunciavano qualsiasi cosa, dalle
religioni organizzate alle bibite dietetiche.
La Caccia, come venne ribattezzata la gara, si diffuse in fretta per tutto il mondo. La
possibilità di trovare l’Easter Egg di Halliday divenne una fantasia diffusa, tra gli adulti e
tra i bambini, come quella di vincere alla lotteria. Si trattava di un gioco cui chiunque
6 Un’attenta analisi ci rivela decine di oggetti bizzarri nascosti tra i cumuli di ricchezze. Da segnalare: molti dei primi
personal computer (un Apple IIe, un Commodore 64, un’Atari 800XL, e un TRS-80 Color Computer 2), decine di
controller compatibili con una vasta gamma di sistemi, centinaia di dadi poliedrici, di quelli usati nei vecchi giochi
di ruolo da tavolo.
7 Il fermo-immagine della scena è praticamente identico a un dipinto di Jeff Easley che comparve sulla copertina di
Dungeon Master’s Guide, un libro di regole di Dungeons & Dragons pubblicato nel 1983.
poteva partecipare e, sulle prime, non sembrava ci fosse un approccio giusto o sbagliato.
L’unico indizio che l’Almanacco di Anorak sembrava suggerire era che la conoscenza più
o meno approfondita delle varie ossessioni di Halliday sarebbe stata imprescindibile per la
soluzione dell’enigma. Cosa che portò tutti ad appassionarsi sempre più alla cultura pop
degli anni ottanta. Cinquant’anni dopo, i film, la musica, i giochi e la moda di quel
decennio erano di nuovo all’ultimo grido. Dal 2041, i capelli a punta e i jeans scoloriti in
candeggina erano tornati di moda e le classifiche musicali erano dominate da band
contemporanee che suonavano cover dei successi pop degli ottanta. Tutti coloro che erano
stati ragazzini in quel decennio, ormai prossimi alla vecchiaia, stavano vivendo la strana
esperienza di vedere gli stili e le tendenze della loro giovinezza abbracciati dai nipotini.
Era nata una nuova sottocultura, composta dai milioni di individui che ora impiegavano il
loro tempo libero alla ricerca dell’Easter Egg di Halliday. Inizialmente venivano definiti,
abbastanza semplicemente, come Egg Hunters, ma presto il soprannome fu contratto in
Gunters.
Durante il primo anno della Caccia, essere un Gunter andava molto di moda e non c’era
utente OASIS che non si fregiasse di quel titolo.
Al primo anniversario della morte di Halliday, però, la frenesia che circondava la Caccia
iniziò ad affievolirsi. Era passato un anno intero, e nessuno aveva trovato nulla. Non una
chiave, non una porta. Parte del problema era legato all’estensione stessa di OASIS. Al suo
interno erano presenti più di mille mondi virtuali e la chiave poteva trovarsi in ognuno di
essi. Un Gunter avrebbe potuto impiegare anni per una ricerca approfondita anche solo in
un mondo.
Al di là di tutti i Gunter cosiddetti «professionisti» che ogni giorno, sui loro blog, si
vantavano di essere vicini a una svolta, la verità divenne via via più evidente: nessuno
aveva idea di cosa stesse cercando, né sapeva da dove cominciare.
Passò un altro anno.
E un altro ancora.
Niente.
Il grande pubblico perse interesse per la gara. Cominciò a diffondersi l’idea che fosse una
bufala inventata da un ricco stravagante. Altri credevano che, anche se l’Egg fosse esistito
veramente, nessuno lo avrebbe mai trovato. Al contrario, OASIS continuava a evolversi e a
diventare sempre più popolare e protetto sia dalle grinfie di coloro che volevano
acquisirne il controllo sia dalle controversie legali, grazie al testamento blindato di
Halliday e all’esercito di avvocati rabbiosi incaricati di occuparsi dei suoi beni.
L’Easter Egg di Halliday entrò lentamente a far parte delle leggende metropolitane e il
popolo dei Gunter, che sempre più si assottigliava, diventò oggetto di scherno. Ogni anno,
nel giorno della morte di Halliday, i telegiornali riportavano, sarcasticamente, la notizia
che non si era giunti ad alcun progresso. E ogni anno che passava, sempre più Gunter
gettavano la spugna, giunti alla conclusione che Halliday avesse davvero reso l’Easter Egg
impossibile da trovare.
E passò un altro anno.
E un altro ancora.
Poi, la sera dell’11 febbraio 2045, il nome di un avatar comparve in cima al Segnapunti, in
bella vista davanti a tutto il mondo. Dopo cinque lunghi anni, la Chiave di Rame era stata
trovata da un diciottenne che viveva in un parcheggio di case mobili alla periferia di
Oklahoma City.
Ero io.
Decine di libri, cartoni animati, film e miniserie hanno cercato di raccontare la storia di
tutto quello che accadde in seguito, ma nessuno l’ha fatto nella maniera giusta. È per
questo che voglio mettere le cose in chiaro, una volta per tutte.

LIVELLO UNO
«La condizione umana è uno schifo, per la maggior parte del tempo.
I videogiochi sono l’unica cosa che rende la vita sopportabile.»
Almanacco di Anorak, Capitolo 91, Versi 1-2

0001

Mi svegliò di soprassalto il rumore di una sparatoria nelle vicinanze. Agli spari seguì
qualche minuto di grida soffocate, poi il silenzio.
Le sparatorie non erano insolite, nel parcheggio, ma ne rimasi comunque scosso. Sapevo
bene che probabilmente non sarei riuscito a riaddormentarmi, perciò decisi di ammazzare
il tempo che mi separava dall’alba rispolverando qualche classico a gettoni. Galaga,
Defender, Asteroids. Questi giochi erano obsoleti dinosauri digitali, ed erano diventati
pezzi da museo già molto tempo prima che io nascessi. Ma ero un Gunter, e per me non si
trattava solo di eccentrici pezzi d’antiquariato a bassa risoluzione. Per me erano reliquie
da venerare. Pilastri del pantheon. Quando giocavo ai classici, lo facevo con risoluta
reverenza.
Ero raggomitolato in un vecchio sacco a pelo, incastrato nello spazio tra il muro e
l’asciugatrice, nell’angolo della minuscola zona lavanderia del container. Mia zia non
gradiva che stessi nella sua stanza, al di là del corridoio, e a me la cosa stava più che bene.
Preferivo in ogni caso sistemarmi nella lavanderia. Lì si stava al calduccio, mi potevo
permettere una quantità discreta di privacy e la ricezione wireless non era troppo debole.
Altro vantaggio, la stanza odorava di detersivo liquido e ammorbidente. Il resto della casa
sapeva di piscio di gatto e povertà totale.
Solitamente, dormivo nel mio nascondiglio. Ma, durante le notti precedenti, la
temperatura era scesa sotto lo zero e, per quanto detestassi stare da mia zia, era comunque
meglio che morire congelati.
Nella casa mobile di mia zia viveva un totale di quindici persone. Lei dormiva nella più
piccola delle tre stanze. I Deppert vivevano nella stanza accanto alla sua e i Miller
occupavano la camera matrimoniale in fondo al corridoio. Erano in sei e pagavano una
grossa fetta dell’affitto. Il nostro trailer non era affollato come altri che si trovavano nel
parcheggio. Era una casa a due blocchi. C’era un mucchio di spazio per tutti.
Tirai fuori il mio computer portatile e lo accesi. Era un bestione ingombrante e
pesantissimo, vecchio di quasi dieci anni. L’avevo trovato in una discarica dietro al centro
commerciale abbandonato, dall’altra parte dell’autostrada. Ero riuscito a riportarlo in vita
rimpiazzando la sua memoria di sistema e reinstallando il suo sistema operativo
primordiale. Per gli standard attuali, il processore era più lento di un bradipo, ma per
quello che mi serviva andava benissimo. Il laptop era la mia biblioteca portatile, la mia
sala giochi, il mio cinema privato. Il disco fisso traboccava di vecchi libri, film, episodi di
serie tv, file musicali e quasi ogni videogioco prodotto nel Ventesimo secolo.
Avviai il mio emulatore e selezionai Robotron: 2084, uno dei miei giochi preferiti di tutti i
tempi. Avevo sempre amato il suo ritmo frenetico, la sua brutale semplicità. Robotron si
basava interamente sull’istinto e sui riflessi. Giocare ai vecchi videogiochi mi permetteva,
ogni volta, di schiarirmi la mente e sentirmi a mio agio. Se ero giù di morale, o mi sentivo
frustrato per la vita che vivevo, dovevo solo dare un colpetto al pulsante Player One, e
tutte le angosce mi abbandonavano, via via che la mente si concentrava sull’incessante
assalto di pixel nello schermo davanti ai miei occhi. La vita era semplice, nell’universo
bidimensionale del gioco: tu contro la macchina, e basta. Ti sposti con la mano sinistra,
spari con la destra, cerchi di sopravvivere più che puoi.
Trascorsi qualche ora a dare addosso a ondate su ondate di Brains, Spheroids, Quarks e
Hulks, nella mia eterna lotta per Salvare l’Ultima Famiglia del Genere Umano! Ma dopo
un po’ le mie dita iniziarono a intorpidirsi e persi il ritmo. Quando arrivavo a questo
punto, la situazione peggiorava in fretta. Bruciai a vuoto tutte le vite che avevo, e sullo
schermo apparvero le due parole che amavo di meno: GAME OVER.
Spensi l’emulatore e cominciai a spulciare tra i miei file video. Nel corso di cinque anni
avevo scaricato ogni singolo film, serie tv e cartone animato che fosse citato
nell’Almanacco di Anorak. Non che li avessi già guardati tutti, naturalmente. Avrei
impiegato decenni.
Selezionai un episodio di Casa Keaton, sitcom degli anni ottanta che parla di una famiglia
borghese dell’Ohio centrale. L’avevo scaricata perché era tra le preferite di Halliday e
pensavo fosse possibile che almeno un episodio contenesse qualche indizio utile per la
Caccia. Mi ero immediatamente appassionato allo show, e avevo ormai guardato più volte
tutti i centottanta episodi. Non me ne stancavo mai.
Seduto al buio, guardando la serie sullo schermo del computer, finivo per immaginare che
fossi proprio io a vivere in quella casa accogliente e ben illuminata, e che tutte quelle
persone sorridenti e comprensive fossero la mia famiglia. Che non ci fosse niente al mondo
di così sbagliato da non poter essere risolto in trenta minuti di episodio (o, al limite, nel
tempo di un episodio in due parti, nel caso di faccende serissime).
La mia vita non aveva mai assomigliato neanche lontanamente a quella ritratta in Casa
Keaton, e questo probabilmente era il motivo per cui la serie mi piaceva tanto. Ero figlio
unico, i miei genitori erano due adolescenti che si erano incontrati nella baraccopoli in cui
ero cresciuto. Mio padre non me lo ricordo. Avevo un paio di mesi quando gli spararono
mentre cercava di derubare una drogheria, durante un blackout. L’unica cosa che sapevo
di lui è che amava i fumetti. Una volta trovai moltissime penne USB in una scatola che
conteneva le sue cose, e al loro interno c’erano serie complete di Amazing Spider–Man, X–
Men e Lanterna Verde. Una volta la mamma mi disse che mio padre aveva deciso di darmi
un nome allitterante – Wade Watts – perché pensava suonasse come quello dell’identità
segreta di un supereroe. Come Peter Parker, come Clark Kent. Scoprirlo mi portò a
pensare che probabilmente era in gamba, nonostante il modo in cui era morto. Mia madre,
Loretta, si era trovata a crescermi da sola. Avevamo vissuto per un po’ in un piccolo
camper, in un’altra parte della baraccopoli. Aveva due lavori a tempo pieno su OASIS:
faceva l’operatrice di telemarketing e l’accompagnatrice in un bordello online. Di notte mi
obbligava a mettere i tappi per le orecchie perché non la sentissi mentre, nella stanza
accanto, diceva zozzerie a tipacci dall’altra parte del mondo. Ma i tappi non funzionavano
bene, perciò io mi sedevo a guardare vecchi film tenendo il volume al massimo.
Feci la conoscenza di OASIS quando ero ancora molto piccolo: mia madre lo usava come
baby–sitter virtuale. Quando crebbi abbastanza da poter indossare un visore e un paio di
guanti aptici, la mamma mi diede una mano a creare il mio primo avatar su OASIS. Poi mi
piazzò in un angolo e se ne tornò al lavoro lasciandomi solo, a esplorare un mondo
completamente nuovo, totalmente diverso da quello che avevo conosciuto fino ad allora.
Da quel momento, a educarmi furono i programmi interattivi pedagogici di OASIS: ogni
bambino poteva accedervi gratis. Passai un bel pezzo della mia infanzia a spassarmela in
una simulazione virtuale di Sesame Street, a cantare insieme a Muppet gentili, a giocare
con programmi interattivi che mi insegnavano a camminare, parlare, sommare e sottrarre,
leggere, scrivere, condividere. Una volta padroneggiate queste abilità, non impiegai molto
tempo a scoprire che OASIS era la biblioteca pubblica più vasta del mondo, un luogo in
cui anche un ragazzino squattrinato come me poteva avere accesso a ogni libro mai scritto,
a ogni canzone mai registrata, a ogni film, serie televisiva, videogioco e opera d’arte che
fosse mai stato creato. Una collezione di tutto il sapere, di tutta l’arte e gli svaghi della
civiltà umana era proprio lì, ad aspettarmi. Ma avere accesso a tutte quelle informazioni si
dimostrò una benedizione soltanto in parte. Perché fu proprio allora che scoprii la verità.
Non saprei, forse avete vissuto un’esperienza diversa dalla mia. Ma, per quanto mi
riguarda, diventare un essere umano adulto sul Pianeta Terra durante il Ventunesimo
secolo è stato un vero e proprio calcio nei denti. Esistenzialmente parlando.
La cosa più brutta, da bambino, è che nessuno voleva dirmi la verità sulla mia situazione.
A pensarci bene, facevano l’esatto contrario. E, come è ovvio, io ci credevo, perché ero
soltanto un bambino e non sapevo cavarmela meglio di così. Gesù, il mio cervello non si
era nemmeno formato del tutto, come diavolo potevo intuire le volte in cui gli adulti mi
stavano prendendo per il culo?
E così, finivo per ingoiare tutte le assurdità da Medioevo che mi propinavano. Passò del
tempo. Divenni un po’ grande e iniziai a rendermi conto che più o meno chiunque mi
aveva mentito su più o meno qualunque cosa dal momento in cui ero spuntato dall’utero
di mia madre.
Fu una rivelazione angosciante.
Mi causò problemi di fiducia, in seguito, nella vita.
Cominciai a scoprire la cruda verità non appena iniziai a esplorare le biblioteche gratuite
di OASIS. Tutte le verità, i fatti comprovati, erano lì ad aspettarmi, nascosti in vecchi libri
scritti da persone che non avevano paura di essere oneste. Artisti, scienziati, filosofi e
poeti, la maggior parte dei quali era morta da molto tempo. Leggendo le parole che
avevano lasciato, iniziai finalmente a comprendere la situazione in prima persona. La mia
situazione. La nostra situazione. Quella che quasi tutti definiscono «la condizione umana».
Nessuna buona notizia.
Vorrei che qualcuno mi avesse detto la verità senza mezzi termini, non appena fossi
cresciuto abbastanza da comprenderla. Vorrei che qualcuno mi avesse detto: «Ecco il
punto della situazione, Wade. Tu sei una cosa chiamata “essere umano”. Si tratta di un
animale molto sveglio. Come tutti gli altri animali del pianeta, discendiamo da un
organismo unicellulare vissuto milioni di anni fa. Il tutto è avvenuto per via di un
processo chiamato evoluzione, ma di questo verrai a sapere più avanti. Comunque,
dammi retta, è il modo in cui siamo arrivati qui. Se ne trovano prove ovunque. E quella
storia che hai sentito? Su come siamo stati tutti creati da un tale superpotente che si
chiama Dio e vive in cielo? Stronzata suprema. Tutta quella storia su Dio in realtà è
un’antica favola che la gente si racconta da migliaia di anni. L’abbiamo inventata noi.
Come Babbo Natale, o il coniglietto pasquale.
«Oh, e per tua informazione… né Babbo Natale né il coniglietto pasquale esistono.
Stronzate anche quelle. Mi dispiace, ragazzo. Fattene una ragione.
«Probabilmente ti starai chiedendo cosa sia successo prima che arrivassi tra noi. Un sacco
di cose, a dir la verità. Quando ci siamo evoluti fino a diventare umani, la storia si è fatta
interessante. Abbiamo capito come coltivare il cibo e addomesticare gli animali, per non
passare tutto il tempo a cacciare. Le nostre tribù si sono ingrandite sempre più, e ci siamo
sparsi sull’intero pianeta in modo inarrestabile, come un virus. Quindi, dopo aver
combattuto gli uni contro gli altri per il territorio, per le risorse, e per i nostri dèi inventati
a tavolino, siamo riusciti a organizzare tutte le nostre tribù in una «civiltà globale».
Comunque, a essere onesti, non era granché organizzata, né civile, e abbiamo continuato a
farci guerra a vicenda. Ma siamo riusciti anche a capire come funzionava la scienza, il che
ci ha aiutato a sviluppare la tecnologia. Se consideri che siamo un mucchio di scimmie
senza pelo, siamo riusciti a inventare roba abbastanza incredibile. I computer. La
medicina. I laser. I forni a microonde. I cuori artificiali. Le bombe atomiche. Abbiamo
mandato anche un paio di tizi sulla luna, e poi li abbiamo riportati a casa. Abbiamo anche
creato una rete globale di comunicazione che ci permette di parlarci in ogni momento, in
qualsiasi parte del mondo ci troviamo. Sorprendente, vero?
«Ma è qui che arrivano le cattive notizie. La nostra civiltà globale ci è costata molto. Per
costruirla, avevamo bisogno di un sacco di energia, e quell’energia siamo riusciti a
ottenerla bruciando i combustibili fossili che derivano dalle piante morte e dagli animali
seppelliti nel terreno, a grande profondità. Abbiamo usato la maggior parte del
combustibile prima che tu arrivassi, e ora che ci sei non ne abbiamo quasi più. Questo vuol
dire che non abbiamo più energia sufficiente per gestire la nostra civiltà come un tempo.
Abbiamo dovuto fare dei tagli. Bel risultato. Noi la chiamiamo crisi energetica globale, e
va avanti ormai da un bel po’.
«In aggiunta, è venuto fuori che tutto quel bruciare combustibili fossili aveva anche effetti
collaterali piuttosto fastidiosi. Per esempio, l’innalzarsi della temperatura del pianeta e il
totale incasinamento dell’ambiente. Le calotte artiche si stanno sciogliendo, i livelli del
mare si innalzano, il clima è un unico grande disastro. Piante e animali si estinguono a
ritmo di record e migliaia di persone sono affamate e senza una casa. E ancora ci facciamo
la guerra a vicenda, usando le poche risorse che ci rimangono.
«In pratica, ragazzo, il significato di tutto questo è che la vita è molto più dura di quanto
non fosse in passato, «nei bei tempi andati», prima che tu nascessi. Le cose allora erano
grandiose, ma oggi sono abbastanza terrificanti. In tutta onestà, non vedo un futuro
troppo roseo. Sei nato in un momento storico piuttosto schifoso. E pare che le cose
vogliano solo peggiorare, ormai. La civiltà umana è in “declino”. C’è chi dice che sta
“collassando” su se stessa».
«Probabilmente ti starai domandando cosa ti succederà. Semplice. A te succederà la stessa
cosa che è successa a ogni altro essere umano che sia mai vissuto. Morirai. Moriamo tutti.
È così che stanno le cose.
«Cosa accade quando muori? Be’, non ne siamo troppo certi. Ma le prove suggeriscono che
non succede niente. Muori e basta, il tuo cervello smette di funzionare, e a quel punto non
vai più in giro a fare domande fastidiose. Ah, e quelle storie che hai sentito sull’andare in
un posto meraviglioso chiamato “paradiso”, dove non c’è dolore o morte e vivi all’infinito
in uno stato di perpetua felicità? Altra stronzata suprema. Come tutta quella roba su Dio.
Non c’è una vera testimonianza del paradiso, e non c’è mai stata. Abbiamo inventato
anche quello. Pensiero positivo. Quindi, d’ora in poi dovrai passare il resto della tua vita
con la certezza che un giorno morirai e scomparirai per sempre.
«Mi spiace.»
D’accordo, a pensarci meglio, forse quella dell’onestà non è la miglior politica. Forse non è
una bella idea dire a un essere umano nuovo di pacca che è nato in un mondo di caos,
dolore e povertà, che è appena in tempo per godersi lo spettacolo del crollo totale. Io ho
scoperto tutto questo nel corso di molti anni e, nonostante la gradualità delle informazioni,
ogni volta sentivo il bisogno di buttarmi da un ponte.
Fortunatamente, ebbi modo di accedere a OASIS, che mi si presentò come la via di fuga
verso una realtà migliore. OASIS mi impedì di impazzire. Diventò il mio campo giochi e la
mia scuola materna, un luogo magico dove tutto era possibile.
È OASIS lo sfondo dei miei ricordi d’infanzia più felici. Quando la mamma non doveva
lavorare, ci collegavamo insieme e giocavamo, o ci imbarcavamo nelle avventure
interattive dei libri di fiabe. Ogni sera, puntualmente, mi obbligava a sconnettermi, dato
che io non volevo mai ritornare nel mondo reale. Perché il mondo reale era uno schifo.
Non ho mai incolpato mia madre dello stato delle cose. Era una vittima del destino e delle
circostanze crudeli, come tutti. La sua generazione aveva vissuto il peggio. Era nata in un
mondo di abbondanza, giusto in tempo per vederselo svanire davanti agli occhi. Mi
ricordo, soprattutto, che ero dispiaciuto per lei. Era costantemente depressa, e la droga era
la sola cosa che riuscisse a tenerla su di morale. Chiaramente, fu quella a ucciderla. Avevo
undici anni, lei si sparò nel braccio una partita scadente di qualcosa e morì in questo
modo, sul nostro logoro divano letto, mentre ascoltava musica dal vecchio lettore mp3 che
avevo riparato e le avevo regalato per Natale.
Fu allora che fui costretto a trasferirmi dalla sorella di mia madre, Alice. La zia Alice non
mi accolse per gentilezza o per un senso di responsabilità familiare. Lo fece per ottenere
dal governo più buoni pasto mensili. Quasi sempre, ero io a dovermi cercare il cibo. In
genere non era un grosso problema, avevo talento nel trovare e aggiustare vecchi
computer e console OASIS rotte, che poi rivendevo al banco dei pegni o scambiavo con
buoni pasto. Guadagnavo abbastanza da non fare la fame: era ben più di quanto potessero
vantare molti dei miei vicini.
L’anno in cui morì la mamma passai molto tempo a crogiolarmi nella disperazione e
nell’autocommiserazione. Cercavo di guardare il lato positivo, di tenere bene a mente che,
orfano o meno, stavo comunque meglio di quasi tutti i bambini dell’Africa. E dell’Asia. E
anche del Nord America. Avevo sempre avuto un tetto sulla testa, avevo cibo a
sufficienza. E avevo OASIS. La mia vita non era poi così male. Se non altro, è quello che
continuavo a ripetermi, in un vano tentativo di alleviare quella tragica solitudine in cui mi
ero trovato immerso.
Poi ebbe inizio la Caccia all’Easter Egg di Halliday. E fu quella a salvarmi, credo.
Improvvisamente, avevo trovato qualcosa che valesse la pena fare. Un sogno da inseguire.
Da cinque anni, la Caccia mi dava uno scopo, un obiettivo. Una ricerca da portare a
termine. Un motivo per alzarmi la mattina. Qualcosa da attendere con ansia.
Fu esattamente quando cominciai a cercare l’Easter Egg che il futuro non mi sembrò più
tanto tetro.
Ero a metà del quarto episodio della mia maratona di Casa Keaton quando la porta della
lavanderia cigolò ed entrò zia Alice, arpia malnutrita in una vestaglia lacera, con in braccio
una cesta di vestiti sporchi. Sembrava più lucida del solito, il che in genere era di per sé
una cattiva notizia. Quando era fatta era molto più gestibile.
Mi lanciò uno sguardo rapido, sdegnoso come al solito, e iniziò a caricare i vestiti nella
lavatrice. Poi la sua espressione mutò, e si mise a sbirciare dietro all’asciugatrice per
osservarmi meglio. Sgranò gli occhi quando mi vide con il portatile. Io lo richiusi
rapidamente e tentai di infilarlo alla meglio nello zaino, ma sapevo che ormai era troppo
tardi.
«Da’ qui, Wade» mi ordinò, cercando di afferrarlo. «Posso impegnarlo. Con i soldi ci
paghiamo un po’ di affitto.»
«No!» gridai cercando di svincolarmi dalla sua presa. «Dài, zia Alice. Ne ho bisogno per la
scuola.»
«L’unica cosa di cui hai veramente bisogno è di mostrare un po’ di gratitudine!» mi abbaiò
contro. «Tutti qui devono pagare l’affitto. Sono stanca di farmi succhiare il sangue da te!»
«Ma tu ti tieni tutti i miei buoni pasto. Con quelli copro abbondantemente la mia quota
d’affitto.»
«Fesserie!» Cercò di sfilarmi il computer di mano, ma io lo tenni stretto. A un certo punto
si voltò e sciabattò verso la sua stanza. Sapevo quale sarebbe stata la sua prossima mossa,
perciò diedi al mio laptop un comando per bloccare la tastiera e cancellare il disco fisso.
Zia Alice tornò qualche secondo più tardi insieme al suo ragazzo, Rick, ancora mezzo
addormentato. Rick era costantemente a torso nudo perché amava sfoggiare la sua
sorprendente collezione di tatuaggi da carcerato. Senza dire una parola, mi si avvicinò e
mi mostrò il pugno minacciosamente. Io trasalii e gli consegnai il laptop. Quindi, lui e zia
Alice se ne andarono, discutendo di quanto il computer avrebbe potuto fruttare al banco
dei pegni.
Perdere il laptop non era poi così grave. Nel mio nascondiglio ne conservavo altri due. Ma
non erano altrettanto veloci, e avrei dovuto trasportare lì il mio intero archivio di file,
salvato su dischi fissi di riserva. Una totale rottura di coglioni. Ma era tutta colpa mia.
Conoscevo bene i rischi che correvo portando cose di valore in quel posto.
La luce blu scuro dell’alba iniziava a trapelare dalla finestra della lavanderia. Decisi che
forse era una buona idea uscire e andare a scuola un po’ prima del solito.
Mi vestii rapidamente e in silenzio, mettendomi addosso un maglione sformato, un
cappotto troppo largo e ciò che rimaneva dei miei pantaloni in velluto: l’intero mio
guardaroba invernale. Misi lo zaino in spalla e mi arrampicai sulla lavatrice. Infilai i guanti
e aprii la finestra ricoperta di brina. L’aria gelida del mattino mi ferì le guance mentre
osservavo, all’esterno, quel mare confuso di tetti prefabbricati.
La casa di mia zia si trovava in cima a una «catasta» di ventidue case mobili, ed era più
alta di un piano o due rispetto alla maggior parte dei caseggiati che la circondava. I
container che si trovavano al livello più basso erano a contatto con il terreno, o poggiavano
su fondamenta in cemento, quelli accatastati sopra erano sospesi su un’impalcatura
componibile rinforzata, un agglomerato di tralicci in metallo che era stato assemblato alla
spicciolata, nel corso degli anni.
Vivevamo nelle cataste di Portland Avenue, nei tentacoli di un alveare brulicante di
scatole di latta scolorite e lasciate ad arrugginire sulle sponde dell’Interstatale 40, a ovest
del centro di Oklahoma City e dei suoi grattacieli in rovina. Era un agglomerato composto
da più di cinquecento singole cataste, connesse l’una all’altra da una rete raffazzonata di
tubature, travi, pilastri e ponticelli. Le cime di una decina di antiche gru (che all’epoca
erano state usate per impilare le case) si ergevano intorno al perimetro esterno
dell’insediamento, che era in continua espansione.
Il piano più alto, il «tetto» dei caseggiati, era ricoperto da un mosaico di vecchi pannelli
solari che fornivano energia integrativa alle case dei livelli più bassi. Un intricato fascio di
tubi di gomma si snodava su e giù per ogni catasta e garantiva acqua a ciascuna
abitazione, oltre a far defluire gli scarichi fognari (un lusso non sempre presente in altre
cataste sparse per la città). Non molta luce raggiungeva il livello più basso (noto anche
come «piano terra»). Nelle vie strette e oscure che si diramavano tra i cumuli di case erano
ammassati gli scheletri di vecchie auto e camion abbandonati, i loro serbatoi svuotati, i
loro sportelli bloccati già da molto tempo.
Il signor Miller, uno dei nostri coinquilini, mi aveva spiegato che i parcheggi come il
nostro consistevano, un tempo, in un paio di decine di case mobili, sistemate sul terreno in
file ordinate. Ma con il crollo del petrolio e l’inizio della crisi energetica, le grandi città
erano state sommerse da rifugiati provenienti dalle aree periferiche e rurali circostanti. Il
tutto aveva provocato un’enorme crisi degli alloggi urbani. I lotti più vicini al centro delle
grandi città avevano raggiunto un valore troppo alto perché ci si potesse permettere case
mobili a un solo piano, e in quell’occasione qualcuno se ne uscì con la brillante idea, come
disse il signor Miller, di «accatastare quelle figlie di puttana» per sfruttare al massimo lo
spazio. L’idea attecchì rapidamente, ottenne un immenso successo e in tutto il paese
parcheggi come il mio si espansero fino a diventare «cataste» come quella in cui vivevo,
un bizzarro ibrido tra le baraccopoli, le abitazioni abusive e i campi profughi. Ormai le
cataste si trovavano ai confini di ogni grande città, e ciascuna brulicava di zotici sradicati
come i miei genitori che, alla ricerca disperata di lavoro, di cibo, di elettricità e di un
accesso stabile a OASIS, avevano lasciato le loro piccole e morenti città d’origine e avevano
usato le ultime scorte di benzina (o le loro bestie da soma) per trascinare le famiglie, i
camper o le case mobili verso la metropoli più vicina.
Tutte le cataste del nostro parcheggio raggiungevano, per altezza, un minimo di quindici
prefabbricati ciascuna (comparivano anche, a dare un tocco di varietà, alcuni occasionali
camper o container da spedizione, roulotte in alluminio o furgoncini Volkswagen). Negli
ultimi anni, le cataste si erano innalzate fino ad arrivare a venti o più unità. Questo fatto
preoccupava molte persone. Spesso le cataste crollavano e, se i ponteggi di supporto si
inclinavano dalla parte sbagliata, l’effetto domino arrivava a coinvolgere quattro o cinque
cataste confinanti.
Casa nostra era situata all’estremità settentrionale del complesso, che raggiungeva un
fatiscente cavalcavia sull’autostrada. Dalla mia posizione strategica, la finestra della
lavanderia, potevo vedere una scia sottile di veicoli elettrici che strisciavano, sull’asfalto
squarciato, per portare in città merci e lavoratori. Osservavo la cupa linea dell’orizzonte,
quando una lama di sole fece capolino in lontananza. Mi dedicai a un esercizio mentale:
ogni volta che vedevo il sole, mi convincevo che stavo solo guardando una stella. Un’unica
stella su cento miliardi e più che appartengono alla nostra galassia. Una galassia che è solo
una su un miliardo di galassie presenti nell’universo osservabile. Questo mi aiutava a
mantenere le cose nella giusta prospettiva. Avevo cominciato a farlo dopo aver visto un
programma scientifico dei primi anni ottanta che si intitolava Cosmo.
Scavalcai la finestra cercando di fare meno rumore possibile e, tenendomi aggrappato al
davanzale, scivolai lungo la parete fredda della casa. La piattaforma in acciaio su cui
poggiava la nostra abitazione era poco più larga e più lunga dell’abitazione stessa. Il
cornicione, quindi, misurava appena una quarantina di centimetri: con attenzione mi calai
finché i miei piedi non lo toccarono, poi sollevai un braccio e richiusi la finestra alle mie
spalle. Afferrai un pezzo di corda che avevo precedentemente fissato in quel punto, ad
altezza della vita, per usarlo come appiglio, poi iniziai a dirigermi, passo dopo passo,
verso l’angolo della piattaforma. Da lì riuscivo a scendere seguendo il profilo dei ponteggi,
che somigliava a quello di una scala. Prendevo quasi sempre questa strada quando uscivo
o rientravo a casa di mia zia. Una scala pericolante era stata fissata su un lato della catasta,
ma traballava e colpiva i ponteggi, quindi non potevo usarla senza tradire la mia presenza.
Brutta cosa. Tra le cataste era meglio evitare di essere uditi o visti, se possibile. In giro si
trovavano persone pericolose e pronte a tutto: gente che avrebbe potuto derubarti,
stuprarti e poi vendere i tuoi organi al mercato nero.
Scendere lungo quella rete di travi metalliche mi ricordava sempre i videogiochi a
piattaforme come Donkey Kong o BurgerTime. L’idea mi era venuta qualche anno prima,
quando avevo progettato il mio primo gioco per Atari 2600 (rito di passaggio per ogni
Gunter, l’equivalente di uno Jedi che costruisce la sua prima spada laser). Il gioco era una
scopiazzatura di Pitfall! e si intitolava The Stacks, «le cataste», lo scopo era navigare in un
labirinto verticale di case mobili, raccogliendo vecchi computer, accumulando Punti Vita
grazie ai buoni pasto, ed evitando i tossici e i pedofili che ti si paravano davanti sulla
strada verso la scuola. Il mio gioco era molto più divertente della realtà.
Durante la discesa, mi fermai accanto alla roulotte Airstream in alluminio che si trovava
tre piani sotto di noi. Al suo interno abitava una mia amica, la signora Gilmore. Era una
dolce vecchina di oltre settant’anni che si svegliava sempre terribilmente presto. Sbirciai
dalla finestra e la vidi armeggiare in cucina. Si stava preparando la colazione. Si accorse
della mia presenza dopo pochi secondi e i suoi occhi si illuminarono.
«Wade!» disse, spalancando la finestra. «Buongiorno, ragazzo mio.»
«Buongiorno signora G.» dissi. «Spero di non averla spaventata.»
«Per nulla» disse. Si strinse addosso la vestaglia per ripararsi dagli spifferi. «Si gela là
fuori. Perché non entri a fare colazione? Ho un po’ di bacon alla soia. E queste uova in
polvere non sono malissimo, se ci metti un bel po’ di sale…»
«Grazie, signora G., ma oggi non posso. Devo andare a scuola.»
«D’accordo. Vale per la prossima volta, comunque.» Mi mandò un bacio e si apprestò a
chiudere la finestra. «Cerca di non spezzarti il collo mentre fai le tue scalate, va bene,
Uomo Ragno?»
«Sarà fatto. A più tardi, signora G.» Le feci un cenno di saluto e continuai a scendere.
La signora Gilmore era assolutamente adorabile. Mi permetteva, quando ne avevo
bisogno, di dormire sul suo divano, anche se per me era difficile per via di tutti i suoi gatti.
La signora G. era estremamente religiosa e passava la maggior parte del suo tempo su
OASIS, seduta nella congregazione di una di quelle gigantesche chiese online. Cantava
inni, ascoltava sermoni, faceva viaggi virtuali in Terra Santa.
Io le sistemavo la sua console antidiluviana tutte le volte che si guastava. In cambio, lei
rispondeva alle mie innumerevoli domande su come fosse stato crescere negli anni
ottanta. Raccontava aneddoti preziosissimi di quel periodo – informazioni che non si
potevano apprendere dai libri o dai film. Inoltre, pregava sempre per me. Cercava in tutti i
modi di salvare la mia anima. Non ebbi mai il cuore di dirle che per me la religione
organizzata era un’idiozia totale. Era una piacevole fantasia che le dava speranza e le
permetteva di andare avanti: esattamente ciò che la Caccia era per me. Per citare
l’Almanacco: «Chi non è nella posizione di giudicare, chiuda quella cazzo di bocca».
Quando raggiunsi il piano terra, saltai giù dai ponteggi e mi lasciai cadere per i pochi
centimetri che mi separavano dal suolo. I miei stivali di gomma scricchiolarono sul fango
ghiacciato. C’era ancora molto buio, lì sotto, così accesi la mia torcia elettrica e mi diressi a
est, facendomi strada attraverso l’oscurità di quel labirinto, cercando con tutte le mie forze
di rendermi invisibile e, al tempo stesso, evitando di incespicare in carrelli della spesa,
monoblocchi o altri tipi di cianfrusaglie disseminati tra i corridoi angusti delle cataste. Solo
di rado vedevo qualcuno a quest’ora del mattino. I furgoncini per i pendolari passavano
solo un paio di volte al giorno, e chi era abbastanza fortunato da avere un lavoro
probabilmente era già alla fermata dell’autobus, sull’autostrada. Quasi tutti lavoravano a
giornata nelle enormi aziende agricole che circondavano la città.
Dopo aver camminato per un chilometro, raggiunsi una montagna di automobili e
camioncini, ammucchiati senza troppa cura lungo il confine settentrionale delle cataste.
Decenni fa, le gru avevano ripulito l’intera area dai veicoli abbandonati, così da lasciare
più spazio per altre cataste. Poi, li avevano ammassati lungo il perimetro
dell’insediamento, formando pile come questa. Alcune pile raggiungevano, in altezza, le
cataste stesse.
Mi arrampicai fino al margine della pila, mi guardai intorno per accertarmi che nessuno
mi stesse osservando o seguendo, poi mi voltai per infilarmi nello spazio tra una carcassa
d’auto e l’altra. Da lì, mi chinai e mi inerpicai nelle profondità della montagna pericolante
di lamiere schiacciate, finché non raggiunsi un piccolo spiazzo sul retro di un furgone.
Soltanto la parte posteriore del furgone era visibile. Il resto era nascosto dagli altri veicoli
accatastati ai lati. Due pick–up giacevano, rovesciati, sul tetto del furgone, ma il loro peso
veniva sostenuto dalle altre auto ammassate ai lati. Si era creata, così, una sorta di arco
protettivo: in tal modo il furgone non poteva essere schiacciato dalle automobili che lo
sovrastavano.
Sfilai la catenina che portavo al collo, alla quale avevo appeso una chiave. La prima volta
che avevo scoperto il furgone, avevo avuto la fortuna di trovare la chiave ancora infilata
nel quadro. Molti veicoli funzionavano ancora quando erano stati abbandonati. I
proprietari non potevano più permettersi la benzina, perciò li avevano parcheggiati da
qualche parte e se n’erano andati per sempre.
Misi in tasca la torcia e aprii lo sportello posteriore del furgone. Si socchiuse quel tanto da
permettermi di entrare. Richiusi il portellone e lo bloccai dall’interno. Sul retro, il furgone
non aveva finestrini, e per un istante rimasi rannicchiato nell’oscurità, finché non tastai la
presa elettrica che avevo montato con il nastro adesivo sul tetto dell’abitacolo. Diedi un
colpetto all’interruttore, e una vecchia lampada da tavolo inondò di luce lo spazio ridotto
in cui mi trovavo.
Il tettuccio verde e ammaccato di un’utilitaria ricopriva per intero lo spazio in cui un
tempo si trovava il parabrezza, ma la parte anteriore del furgone non era ulteriormente
danneggiata. L’interno era rimasto intatto. Qualcuno aveva portato via tutti i sedili
(probabilmente per riciclarli come poltrone da salotto). Quel che restava era una
minuscola «stanza» alta un metro, larga un metro e lunga tre.
Questo era il mio nascondiglio.
L’avevo scoperto quattro anni prima, mentre ero a caccia di componenti di computer. La
prima volta che aprii lo sportello e diedi un’occhiata all’interno buio del furgone, capii
subito che avevo appena trovato una cosa di inestimabile valore: la privacy. Era un luogo
che nessun altro conosceva, in cui non avrei dovuto preoccuparmi degli assilli o delle
sberle di mia zia e di tutti i suoi fidanzati sfigati. Qui potevo tenere le mie cose senza aver
paura che me le rubassero. E, cosa ancora più importante, era un luogo in cui potevo
accedere a OASIS in santa pace.
Il furgone era il mio rifugio. La mia batcaverna. La mia fortezza della solitudine. È qui che
andavo a scuola, facevo i compiti, leggevo libri, guardavo film, giocavo ai videogiochi. È
qui, inoltre, che conducevo la mia ostinata ricerca dell’Easter Egg di Halliday.
Per insonorizzare il furgone, ne avevo ricoperto le pareti, il fondo e il tetto con il polistirolo
delle confezioni di uova e con piccoli ritagli di tappezzeria. In un angolo avevo messo
alcune scatole di cartone che contenevano computer rotti e pezzi di ricambio. Accanto,
giaceva un cesto di vecchie batterie d’auto e una cyclette che avevo ritoccato perché
funzionasse da generatore. L’unico pezzo di arredamento che avevo portato era una sedia
pieghevole.
Mi tolsi lo zaino, mi scrollai di dosso il cappotto e montai sulla cyclette.
L’unico tipo di esercizio fisico che facevo ogni giorno era quello di caricare le batterie.
Pedalai finché il contatore non arrivò al massimo, poi mi spostai sulla sedia e accesi la
piccola stufa elettrica che avevo sistemato ai miei piedi. Mi tolsi i guanti e strofinai le mani
davanti alla serpentina, che si stava colorando di un arancione brillante. Non potevo
lasciare la stufa accesa troppo a lungo per non esaurire la batteria.
Scoperchiai la scatola di metallo a prova di topo in cui conservavo le provviste di cibo:
presi una bottiglia d’acqua e una confezione di latte in polvere. Li mescolai in una
scodella, poi mi versai una generosa porzione di cereali alla frutta. Divorai tutto; dal
cruscotto mezzo rotto del furgone recuperai un cestino per il pranzo di Star Trek. Al suo
interno conservavo tutti gli oggetti che la scuola mi aveva donato: una console OASIS, i
guanti aptici e il visore. Erano le cose più preziose che possedevo. Troppo preziose perché
potessi permettermi di portarle con me dappertutto.
Mi infilai i guanti aptici e mi sgranchii le dita per assicurarmi che tutte le articolazioni
fossero sciolte. Poi presi la console OASIS, una specie di rettangolo nero e piatto grande
quanto un libro tascabile. Benché la console fossa dotata di un’antenna interna per il
wireless, la ricezione all’interno di un furgone seppellito sotto montagne di lamiera faceva
schifo. Avevo, pertanto, improvvisato un’antenna esterna, fissata sul cofano di un’auto in
cima alla pila. Il cavo dell’antenna passava per un foro che avevo ricavato nel pavimento
del furgone. Inserii il cavo in una presa sul lato della console, quindi indossai il visore, che
si adattava perfettamente ai miei occhi come un paio di occhialetti da piscina e impediva
alla luce esterna di penetrare. Sui lati del visore erano collocati piccoli auricolari che si
posizionavano automaticamente nelle mie orecchie. Il visore era dotato anche di due
microfoni vocali interni, con la funzione di recepire tutto ciò che dicevo.
Avviai la console e diedi inizio alla sequenza d’accesso. Un lampo rosso mi balenò negli
occhi mentre il visore eseguiva la scansione delle mie retine. Poi mi schiarii la voce e
pronunciai la mia password di login, articolandola con la massima attenzione: «Crom,
gran Dio dei monti».
La mia frase venne verificata, così come il mio campione vocale. Avevo effettuato
l’accesso. Al centro del display virtuale comparvero queste parole: Verifica identità
completata.
Benvenuto su oasis, Parzival!
Login Effettuato: 07:53:21 OST – 10.2.2045
La frase venne rimpiazzata da un breve
messaggio, di tre parole soltanto. Un messaggio che era stato incluso nella sequenza di
login dallo stesso James Halliday, al tempo in cui aveva progettato OASIS, per omaggiare i
diretti antenati della sua simulazione, ovvero i videogiochi a gettone della sua gioventù.
Queste tre parole erano l’ultima cosa che vedevano gli utenti OASIS prima di lasciare il
mondo reale per entrare nel mondo virtuale: READY PLAYER ONE
0002

Il mio avatar si materializzò di fronte al mio armadietto, al secondo piano del liceo: nello
stesso identico posto dove mi trovavo la sera prima, quando mi ero scollegato da OASIS.
Guardai a destra e a sinistra, lungo il corridoio. L’ambiente virtuale in cui mi trovavo
sembrava quasi (ma non del tutto) reale. Ogni cosa, su OASIS, veniva riprodotta alla
perfezione, in tre dimensioni. A meno che non ci si fermasse a zoomare, esaminando
l’ambiente con minuziosità, era facile dimenticarsi che tutto ciò che si vedeva era generato
da un computer. Persino con la scadente console OASIS che la scuola mi aveva fornito.
Avevo sentito dire che, se avessi preso parte alla simulazione con un tipo di attrezzatura
all’avanguardia, mi sarebbe stato impossibile distinguere OASIS dalla realtà.
Diedi un leggero colpo e la porta dell’armadietto si aprì con uno scatto sommesso.
L’interno era decorato a casaccio. Un’immagine della Principessa Leila che impugnava un
blaster. Una foto di gruppo dei Monty Python, in costume, sul set del Sacro Graal. La
copertina del Time con la foto di Halliday. Allungai un braccio verso lo scaffale più alto
dell’armadietto e diedi un colpetto a una pila di libri, che si dissolse e ricomparve subito
dopo nell’inventario del mio avatar.
Oltre ai libri, il mio avatar possedeva poco altro: una torcia, una spada medievale in ferro,
un piccolo scudo di bronzo e una corazza di cuoio intrecciato. Non erano oggetti magici e,
per giunta, erano di scarsa qualità, ma erano tutto quello che mi potevo permettere. Gli
oggetti, su OASIS, avevano lo stesso valore che avevano nella vita reale (a volte, anzi,
erano più preziosi), e non si potevano comprare con i buoni pasto. I crediti OASIS erano
l’unica moneta del regno e, in tempi bui come questi, si poteva dire con certezza che
fossero anche tra le valute più stabili del mondo.
Nell’armadietto avevo montato un piccolo specchio. Mentre chiudevo lo sportello,
incrociai il mio sguardo. Avevo progettato il volto e il corpo del mio avatar perché
somigliassero, grosso modo, ai miei. Il mio avatar aveva un naso leggermente più piccolo
ed era più alto. E un po’ più magro. E un po’ più muscoloso. E non aveva i brufoli. Al di là
dei dettagli, però, eravamo praticamente identici. Il regolamento della scuola imponeva
che tutti gli avatar degli studenti avessero sembianze umane, che avessero il medesimo
sesso e la stessa età dello studente. Non erano ammessi unicorni demoniaci ermafroditi
giganti con due teste. Non a scuola, ad ogni modo.
Era permesso battezzare il proprio avatar OASIS con qualunque nome, a patto che fosse
unico. In pratica, era d’obbligo scegliere un nome che non fosse già stato preso da qualcun
altro e che sarebbe poi servito come indirizzo email e username per la chat: perciò doveva
essere figo e facile da ricordare. Le celebrità erano disposte a sborsare enormi somme di
denaro per farsi vendere il nome avatar che desideravano dai cybernessuno che l’avevano
già creato.
Quando attivai il mio account OASIS, diedi al mio avatar il nome di Wade_il_Grande. Poi
continuai a cambiarlo di mese in mese, finendo (quasi sempre) per trovare nomi
altrettanto ridicoli. Ma ormai il mio avatar aveva lo stesso nome da più di cinque anni. Il
giorno che la Caccia ebbe inizio, il giorno in cui decisi di diventare un Gunter, chiamai il
mio avatar Parzival, in onore del cavaliere arturiano che aveva trovato il Santo Graal.
Parsifal e Percival, forme più note del nome del cavaliere, erano già state prese da altri
utenti. Ma a me piaceva di più Parzival. Suonava bene.
Solo in pochi usavano il proprio vero nome, online. Quello dell’anonimità era uno dei
benefici principali di OASIS. All’interno della simulazione, nessuno sapeva chi eri, a meno
che non fossi tu a volerlo. E gran parte della popolarità di OASIS derivava proprio da
questo. Ogni account OASIS archiviava i nomi reali delle persone, le impronte digitali, i
campioni retinei, ma la Gregarious Simulation Systems criptava queste informazioni e le
teneva riservate. Persino chi lavorava alla GSS non aveva accesso alla vera identità degli
avatar. Halliday era ancora a capo della compagnia, al tempo in cui una fondamentale
sentenza promulgata dalla Corte suprema concesse il diritto di mantenere privata
l’identità di ogni avatar.
Quando mi iscrissi alla scuola pubblica di OASIS, mi fu chiesto di segnalare il mio nome
reale, il nome del mio avatar, l’indirizzo di posta e il numero di previdenza sociale. Tutte
informazioni memorizzate nel mio profilo studente, alle quali solo il preside poteva
accedere. Nessuno dei miei insegnanti o dei miei compagni di classe sapeva chi fossi, e
viceversa.
Agli studenti non era permesso usare i nomi avatar, a scuola. Era, perlopiù, una maniera
per evitare agli insegnanti l’imbarazzo di dire cose tipo: «Pappone_Viscido, per favore, sta’
attento!» o «UccelloRovente69, puoi venire in cattedra a leggerci la tua relazione sul
libro?». Gli studenti erano tenuti a usare i loro nomi di battesimo seguiti da un numero che
li differenziasse dagli altri studenti con lo stesso nome. Quando mi iscrissi io, c’erano già
altri due studenti che si chiamavano Wade. A me, quindi, era stato dato il nome di Wade3,
che svolazzava sopra la testa del mio avatar quando mi trovavo a scuola.
Suonò la campanella. In un angolo del display comparve un avviso: mi segnalava che
mancavano quaranta minuti all’inizio della lezione. Accompagnai il mio avatar lungo il
corridoio, spostando appena le mani per gestirne le azioni e i movimenti. Quando avevo le
mani impegnate, per muoverlo potevo usare i comandi vocali.
Camminai verso l’aula dove si teneva la lezione di Storia mondiale. Sorridevo e salutavo i
volti familiari che incontravo. Ero certo che tutto questo mi sarebbe mancato, una volta
preso il diploma, di lì a pochi mesi. Non morivo dalla voglia di andarmene da scuola. Non
avevo soldi per il college, nemmeno su OASIS, e i miei voti non erano abbastanza alti da
garantirmi una borsa di studio. L’unico piano che avevo, dopo il diploma, era quello di
diventare un Gunter a tempo pieno. Non che avessi molta scelta. Vincere era l’unica via
d’uscita dalle cataste. A meno che non mi saltasse in mente di sottoscrivere un contratto
quinquennale da recluta con qualche corporation, il che mi allettava quanto l’idea di
rotolarmi in mezzo ai vetri rotti con il vestito buono.
Continuavo a camminare lungo il corridoio, mentre altri studenti si materializzavano di
fronte ai loro armadietti, apparizioni spettrali che rapidamente prendevano forma. Il
chiacchiericcio degli studenti echeggiava nel corridoio. Poco dopo, udii qualcuno che mi
lanciava un insulto.
«Ehi, ehi! Ma quello non è Wade3?» gridava una voce. Mi voltai e vidi Todd13, un avatar
insopportabile che avevo incrociato a lezione di Algebra ii. Era insieme ai suoi amici. «Bel
completo, signorino» mi disse. «Dove li hai trovati quei vestiti così belli?» Il mio avatar
indossava una T–shirt nera e un paio di jeans: una delle combinazioni che si potevano
selezionare gratuitamente una volta creato l’account. Come i suoi amici Cro–Magnon,
l’avatar di Todd13 era vestito di costosissimi capi firmati. Abiti che doveva aver pagato
profumatamente in qualche centro commerciale, su un altro pianeta.
«Me li ha comprati tua madre» replicai, continuando per la mia strada. «Ringraziala da
parte mia, quando passi da casa per ritirare la paghetta e farti la tua poppata.» Risposta
infantile, lo so bene. Ma, che fosse o meno virtuale, eravamo pur sempre a scuola: più un
insulto è infantile, più è efficace.
La mia risposta strappò qualche risata ai suoi amici e agli altri studenti nelle vicinanze.
Todd13 si rabbuiò e arrossì, evidentemente non si era preoccupato di disattivare
l’applicazione che mostrava le emozioni in tempo reale, funzione che permetteva a ogni
avatar di rispecchiare le vere espressioni facciali e il linguaggio del corpo di ciascuno.
Prima che avesse il tempo di rispondermi, gli tolsi l’audio, e quindi non sentii la sua
risposta. Sorrisi, e continuai a camminare.
Una delle cose che preferivo della scuola online era la possibilità di zittire i miei compagni
di scuola togliendo loro l’audio, e lo facevo quasi ogni giorno. Il meglio era che il tutto
veniva notificato a loro, che non potevano farci proprio niente. Non c’erano mai risse, a
scuola. Non lo permettevano. L’intero pianeta di Ludus era un’area non–PvP: non
venivano, cioè, ammessi i combattimenti player–versus-player. Nella mia scuola, le uniche
armi consentite erano le parole: perciò avevo imparato a brandirle con una certa abilità.
Fino alla prima media ero andato a scuola nel mondo reale. Non era stata un’esperienza
troppo piacevole. Ero un bambino tremendamente timido, mi sentivo a disagio, avevo
poca autostima e ancor meno talento nel socializzare, effetto collaterale del fatto che avevo
trascorso quasi tutta la mia infanzia all’interno di OASIS. Non avevo problemi a parlare
con la gente o a fare amicizia online. Ma, nel mondo reale, interagire con altri esseri umani,
e soprattutto con altri ragazzi della mia età, mi trasformava in un rottame di tic e
nervosismi. Non sapevo mai come comportarmi, né cosa dire, e quando raccoglievo il
coraggio per dire una cosa, sembrava sempre che fosse quella sbagliata.
Il mio aspetto era, in parte, il problema. Ero sovrappeso da tempo immemorabile. La
fallimentare dieta a base di zuccheri e amidi che il governo mi somministrava
rappresentava uno dei fattori fondamentali. Oltre a questo, ero anche un OASIS–
dipendente, e per questa ragione l’unica forma di attività fisica che praticavo era scappare
dai bulli, prima e dopo le lezioni. A peggiorare il tutto, il mio limitatissimo guardaroba
consisteva in abiti di taglie improbabili, raccattati in negozi dell’usato o tra gli abiti della
beneficenza, il che a livello sociale era un po’ come avere un bersaglio disegnato in fronte.
In ogni caso, cercavo di adattarmi. Anno dopo anno, i miei occhi scansionavano la mensa
come se fossi un T-1000, in cerca di una compagnia che mi accettasse. Ma persino gli altri
emarginati non volevano avere a che fare con me. Ero strambo anche per gli strambi. E le
ragazze? Rivolgere la parola alle ragazze era fuori questione. Per me erano come una
specie esotica di alieni: bellissime e terrificanti. Ogni volta che mi capitava di trovarmene
una vicino, iniziavo a sudare freddo e perdevo l’abilità di pronunciare frasi di senso
compiuto.
La scuola, per me, era stato un esercizio darwiniano. Un ricettacolo quotidiano di
derisioni, abusi, isolamento. Quando entrai in prima media, iniziai a domandarmi se sarei
riuscito a mantenere la mia salute mentale almeno fino al momento del diploma, di lì a sei
lunghi anni.
Ma poi, quel glorioso giorno, il nostro preside annunciò che ogni studente che avesse una
media sufficiente per la promozione avrebbe potuto fare domanda per il trasferimento sul
nuovissimo sistema scolastico pubblico di OASIS. Il sistema scolastico del mondo reale,
quello gestito dal governo, ormai da decenni era una sovraffollata e inesorabile catastrofe
priva di fondi. Molte scuole versavano in condizioni così disastrose che, a qualsiasi
studente che fosse ancora in grado di intendere e di volere, veniva consigliato di seguire le
lezioni da casa. Rischiai di rompermi l’osso del collo correndo all’ufficio scolastico per
firmare la mia domanda, che fu accettata. Nel semestre successivo mi trasferii alla scuola
pubblica di OASIS numero 1873.
Prima del trasferimento, il mio avatar OASIS era sempre stato su Incipio, il pianeta al
centro del settore 1 in cui gli avatar venivano depositati al momento della loro creazione.
Su Incipio non si faceva molto: si chattava con gli altri novellini o si faceva shopping in
uno dei giganteschi grandi magazzini che affollavano il pianeta. Visitare luoghi più
interessanti significava pagare una tariffa di teletrasporto, che a sua volta significava
spendere soldi reali, che io non avevo. Il mio avatar, quindi, non poteva lasciare Incipio.
Questo finché la mia nuova scuola non mi spedì un buono che copriva il costo del
teletrasporto su Ludus, il pianeta dove si trovavano tutte le scuole pubbliche di OASIS.
Ludus brulicava di campus, centinaia di scuole disseminate su tutta la sua estensione. Le
scuole erano tutte identiche perché lo stesso codice strutturale veniva copincollato nei
luoghi in cui serviva una nuova scuola. E, dal momento che gli edifici erano solo tasselli
del software, i progetti non erano sottoposti a vincoli finanziari o alle leggi della fisica.
Ragion per cui ogni scuola era un grande, sfarzoso palazzo dell’apprendimento, con
corridoi in marmo lavorato, aule simili a cattedrali, palestre a gravità zero e biblioteche
virtuali che contenevano ogni volume che fosse mai stato scritto e approvato dal consiglio
scolastico.
Il primo giorno che passai alla SPO n. 1873, credetti di essere in paradiso. Ogni mattina,
anziché scansare il manipolo di bulli e drogati che avrei dovuto evitare per raggiungere la
scuola, andavo nel mio nascondiglio e ci passavo tutto il giorno. E inoltre, su OASIS
nessuno poteva sapere che ero grasso, che avevo i brufoli o che tutti i giorni portavo gli
stessi miseri vestiti. I bulli non potevano tartassarmi di sputi, tirarmi le mutande fin sopra
la testa, o prendermi a pugni nel parcheggio delle biciclette dopo la scuola. Non potevano
nemmeno toccarmi. Ero, finalmente, al sicuro.
Quando entrai nell’aula dove si sarebbe tenuta la lezione di Storia mondiale, notai che
molti studenti erano già ai loro posti. I loro avatar sedevano immobili, con gli occhi chiusi.
Questo indicava che erano «occupati», ovvero che al momento erano al telefono,
navigavano in rete o stavano chattando. Non era educato, su OASIS, cercare di conversare
con un avatar occupato: in genere saresti stato ignorato, per poi ricevere un messaggio
automatico che ti invitava a levarti dai piedi.
Mi sedetti al banco e premetti l’icona di «occupato» in cima al display. Le palpebre del mio
avatar si chiusero, ma potevo comunque guardarmi intorno. Premetti un’altra icona per
aprire la grande finestra di un browser, sospesa nell’aria di fronte ai miei occhi. Solo il mio
avatar vedeva queste finestre: così nessuno poteva spiare quello che facevo (a meno che
non attivassi l’opzione che lo consentiva).
La mia homepage predefinita era l’Incubatrice, uno dei forum di Gunter più famosi.
L’interfaccia del sito era stata progettata perché somigliasse e funzionasse come un BBS
dell’era pre–internet, con tanto di accompagnamento musicale (le fastidiose strida di un
modem a 300 baud) durante la sequenza di login. Bellissimo. Per qualche minuto diedi
un’occhiata ai messaggi più recenti, dedicandomi alle ultime notizie e ai pettegolezzi.
Anche se controllavo il forum ogni giorno, scrivevo di rado. Oggi non c’erano notizie
interessanti. Le solite lotte tra esaltati. Discussioni sull’interpretazione «corretta» di alcuni
passaggi criptici dell’Almanacco di Anorak. Avatar di alto livello che si vantavano degli
oggetti magici di cui si erano appena impossessati. Erano anni che queste fesserie
andavano avanti. In assenza di progressi concreti, la sottocultura Gunter aveva iniziato a
perdersi in un pantano di sbruffonate, inutili conflitti interni e stronzate di varia natura.
Era una situazione davvero deprimente.
I miei messaggi preferiti erano quelli in cui si attaccavano i Sixer. «Sixer» era il
soprannome spregiativo che i Gunter avevano affibbiato agli impiegati dell’Innovative
Online Industries. La IOI (pronuncia: eye–oh-eye) era un conglomerato specializzato nelle
comunicazioni globali ed era il più grande internet provider del mondo. Gran parte del
business della IOI consisteva nell’offrire accesso a OASIS e nel vendere beni e servizi
all’interno della simulazione. Per questo motivo, la IOI aveva tentato diverse scalate nei
confronti della Gregarious Simulation Systems. Neanche una era andata a buon fine. Ora
stavano cercando di assumere il controllo della GSS sfruttando qualche falla nel
testamento di Halliday.
Ora la compagnia aveva creato un nuovo dipartimento, che chiamava «Divisione Oologi».
(Un tempo la oologia era «lo studio delle uova deposte dagli uccelli» ma ora aveva assunto
un secondo significato: «la “scienza” della ricerca delle Easter Egg di Halliday».)
La
Divisione Oologi della IOI aveva un unico scopo: vincere la gara di Halliday ed entrare in
possesso di tutti i suoi beni, della compagnia e di OASIS.
Come quasi tutti i Gunter, inorridivo al pensiero che OASIS passasse sotto le grinfie della
IOI. L’enorme ingranaggio di pubbliche relazioni della compagnia aveva manifestato le
proprie intenzioni chiaramente. La IOI riteneva che Halliday non avesse mai monetizzato
la propria creazione adeguatamente, e adesso voleva rimediare. Avrebbero iniziato con
l’imposizione di una quota mensile per l’accesso a OASIS. Avrebbero tappezzato di
pubblicità ogni superficie visibile. L’anonimato degli utenti e la libertà di parola sarebbero
diventati parte del passato. Non appena la IOI ne avesse preso il controllo, OASIS avrebbe
smesso di essere l’utopia virtuale in cui ero cresciuto. Sarebbe diventata una distopia
controllata dalle corporation, un costosissimo parco a tema per ricconi elitari.
La IOI imponeva ai suoi cacciatori di uova, gli «Oologi», di dare ai propri avatar OASIS il
numero di matricola che avevano all’interno della compagnia. Erano numeri di sei cifre;
tutti iniziavano con il 6, ed è per questo che chiunque cominciò a chiamarli «Sixer». Anzi,
ormai i Gunter li avevano rinominati «Sux0rz» (perché, sì, facevano schifo).
Per diventare un Sixer, era d’obbligo firmare un contratto che, tra le altre cose, garantisse
all’azienda l’esclusiva proprietà del premio qualora l’Easter Egg fosse stato trovato. In
cambio, la IOI offriva uno stipendio bimestrale, cibo, alloggio, agevolazioni sull’assistenza
sanitaria e un ottimo piano pensionistico. Inoltre, la compagnia forniva a ogni avatar
un’armatura sofisticata, veicoli, armi e copriva il costo di tutti i teletrasporti. Entrare nei
Sixer era un po’ come entrare nell’esercito.
Non era difficile riconoscere un Sixer, erano tutti identici e costretti a usare lo stesso
enorme avatar maschio (indipendentemente dal fatto che il Sixer fosse uomo o donna):
capelli scuri rasati, tratti somatici predefiniti dal sistema. E tutti indossavano la stessa
uniforme blu. Per distinguerli non si poteva fare altro che leggere il numero di matricola
stampato sul petto, a destra, sotto il logo ufficiale della IOI.
Come ogni Gunter, disprezzavo i Sixer, ed ero disgustato dal solo fatto che esistessero.
Assumendo un esercito di cacciatori di uova a contratto, la IOI snaturava lo spirito iniziale
della gara. Naturalmente si sarebbe potuto obiettare che tutti i Gunter aggregati in clan
facevano la stessa cosa. Ormai i clan di Gunter erano centinaia, alcuni composti da
migliaia di membri, che collaboravano tutti tra di loro per trovare l’Egg. Ciascun clan era
vincolato da un accordo legale blindato in virtù del quale se un membro del clan avesse
vinto la gara avrebbe dovuto spartire il premio con tutti gli altri. Ai solitari come me non
importava granché dei clan, eppure li rispettavamo: erano dei Gunter come noi, a
differenza dei Sixer il cui unico scopo era quello di gettare OASIS in pasto a una
multinazionale che aveva tutte le intenzioni di condannarlo alla rovina.
La mia generazione non aveva mai conosciuto un mondo senza OASIS. Per tutti noi era
molto più di un gioco o una piattaforma di intrattenimento. Era stato parte integrante delle
nostre vite sin dai nostri primi ricordi. Il mondo in cui eravamo nati era un postaccio, e
OASIS era la nostra isola felice. L’idea della realtà virtuale privatizzata e omologata dalla
IOI ci terrorizzava; chiunque fosse nato prima dell’avvento di OASIS non poteva
comprendere. Era come se qualcuno minacciasse di portare via il sole, o di imporre una
tassa a chi volesse guardare il cielo.
Tutti i Gunter vedevano nei Sixer un nemico comune, e gettarsi all’attacco dei Sixer era il
passatempo preferito sui forum e sulle chat. Molti Gunter di alto livello seguivano una
rigida politica secondo la quale dovevano uccidere (o cercare di uccidere) ogni Sixer che
incrociassero. C’erano molti siti che si dedicavano a seguire le attività e i movimenti dei
Sixer, e qualche Gunter passava più tempo a cacciare i Sixer di quanto non ne passasse alla
ricerca dell’Egg. I clan più corposi si sfidavano in una gara annuale, dal nome Eighty–six
the Sux0rz,8 con un premio in palio per chi fosse riuscito a uccidere il maggior numero di
Sixer.
Dopo aver controllato un altro paio di forum di Gunter cercai, tra i preferiti, Arty’s
Missives, il blog di una Gunter di nome Art3mis. Lo avevo scoperto tre anni prima, e da
allora ero un lettore fedelissimo. Postava dei meravigliosi e sconclusionati articoli sulla sua
ricerca dell’Egg di Halliday, che chiamava «l’esasperante caccia al MacGuffin».
Scriveva in modo toccante e intelligente, i suoi interventi abbondavano di incisi beffardi e
arguti ed erano intrisi di umorismo autodenigratorio. Lì pubblicava le sue (spassosissime)
interpretazioni dei passaggi dell’Almanacco e rimandava a libri, film, serie tv e musica che
8 To eighty-six» è un’espressione gergale che sta per «fare piazza pulita.» [N.d.T.]
studiava nel corso della ricerca su Halliday. Avevo il sospetto che tutti i post fossero zeppi
di informazioni fuorvianti, se non false, ma li trovavo comunque esilaranti.
Non c’è nemmeno bisogno di dirlo: avevo una devastante cybercotta per Art3mis.
Di tanto in tanto, pubblicava immagini del suo avatar dai capelli corvini, e qualche volta
(sempre) mi capitava di salvarle in una cartella, sul mio disco fisso. Il suo avatar aveva un
volto grazioso, ma non perfetto in maniera innaturale. Su OASIS era facile abituarsi a facce
decisamente troppo belle. I tratti di Art3mis non sembravano tirati fuori da un menu a
tendina nella sezione «estetica» di un programma per la creazione di avatar. Il suo volto
aveva davvero l’aspetto di una persona reale, come se fosse stato scansionato e poi
adattato al suo avatar. Grandi occhi color nocciola, zigomi tondi, mento a punta e un
sorrisetto ironico. Era insopportabilmente affascinante.
Il corpo di Art3mis era altrettanto fuori dal comune. Su OASIS, di solito si incappava
soltanto in un paio di modelli del corpo femminile: il fisico da super modella,
incredibilmente esile ma estremamente in voga, o quello tettuto, vitino di vespa da stellina
del porno, che su OASIS appariva ancora meno naturale di quanto non sembrasse nella
realtà. Ma Art3mis era bassa e rubensiana. Tutta curve.
Ero consapevole che la mia cotta per Art3mis fosse stupida e sconsiderata. Cosa sapevo, in
fondo, di lei? Non aveva certo mai rivelato la sua vera identità. O la sua età, o il luogo in
cui viveva nel mondo reale. Non c’era modo di capire quale fosse il suo vero aspetto.
Poteva essere una quindicenne come una cinquantenne. C’erano Gunter che si chiedevano
se fosse davvero una ragazza, ma io non ero uno di loro. Probabilmente perché non
sopportavo l’idea che una ragazza di cui ero virtualmente innamorato fosse in realtà un
signore di mezza età con i peli sulla schiena e la calvizie incipiente, di nome Chuck.
Quando avevo iniziato a leggerlo, Arty’s Missives stava diventando uno dei blog più
famosi di internet, con diversi milioni di visite al giorno. E Art3mis, ormai, era quasi una
celebrità, se non altro nei circoli di Gunter. Ma la fama non le aveva dato alla testa. Il suo
stile continuava a essere divertente e autoironico. Il suo ultimo post, Il blues di John
Hughes, era un dettagliato approfondimento in cui Art3mis discettava dei suoi sei teen
movie di John Hughes preferiti. Li aveva divisi in due trilogie: la trilogia delle «Fantasie
della liceale sfigata» (Un compleanno da ricordare, Bella in rosa, Un meraviglioso
batticuore) e la trilogia delle «Fantasie del liceale sfigato» (The Breakfast Club, La donna
esplosiva, Una pazza giornata di vacanza).
Avevo appena finito di leggerlo quando sul mio display comparve una finestra di
messaggio istantaneo. Era Aech, il mio migliore amico (bene, d’accordo, se proprio volete
fare i pignoli era il mio unico amico, se non si conta la signora Gilmore).
Aech: Ben svegliato, amigo

Parzival: Hola, compadre.

Aech: Che fai?
Parzival: Setaccio la rete. Tu?
Aech: Ho messo online la Cantina. Vieni a trovarmi lì prima di lezione, coglione.
Parzival: Ottimo! Un secondo e sono lì.
Richiusi la finestra dei messaggi istantanei e controllai l’orologio. Avevo ancora una
mezz’ora buona prima della lezione. Sorrisi e premetti la piccola icona a forma di porta in
un angolo del display, poi selezionai, tra i preferiti, la chatroom di Aech.
0003

Dopo aver verificato che fossi incluso nella lista della chat, il sistema mi consentì l’accesso.
L’aula si ridusse a una finestra in miniatura, in basso a destra sul mio display, perché
potessi sempre controllare ciò che succedeva di fronte al mio avatar. Il resto del mio
campo visivo era occupato dall’interno della chatroom di Aech. Il mio avatar si
materializzò all’«ingresso», una porta in cima a una scala ricoperta di moquette. La porta
non conduceva ad altre stanze. Non si apriva nemmeno. Questo perché la Cantina, con i
suoi contenuti, non era parte di OASIS. Le chatroom erano simulazioni a se stanti – spazi
virtuali temporanei cui gli avatar potevano accedere da qualunque luogo di OASIS. Il mio
avatar non era nella chatroom. Sembrava che lo fosse. Wade3/Parzival era ancora seduto a
occhi chiusi nell’aula dove si sarebbe tenuta la lezione di Storia mondiale. Connettersi a
una chatroom era come trovarsi in due luoghi nello stesso momento.
Aech aveva battezzato la sua chatroom la Cantina. L’aveva programmata perché
somigliasse a una tavernetta borghese dei tardi anni ottanta. Ovunque, sulle pareti in
legno, erano appesi vecchi poster di film e fumetti. Al centro della stanza, un vecchio
televisore RCA al quale erano collegati un videoregistratore Betamax, un registratore
laserdisc e diverse console d’annata. Sugli scaffali della parete di fondo erano impilati
giornaletti di giochi di ruolo e numeri arretrati di Dragon.
La gestione di una chatroom non era esattamente una cosa a buon mercato, ma Aech
poteva permetterselo. Aveva raccolto un bel gruzzolo prendendo parte, dopo la scuola e
nei fine settimana, ai combattimenti nelle arene player–versus-player che venivano
trasmessi in tv. Su OASIS, Aech era uno dei combattenti più quotati, sia nei campionati di
Deathmatch che in quelli di Capture the Flag. Era addirittura più famoso di Art3mis.
Nel corso degli ultimi anni, la Cantina era diventata un luogo di ritrovo altamente
esclusivo per i Gunter d’élite. Aech concedeva l’accesso soltanto alle persone che riteneva
meritevoli: essere invitati nella Cantina era un grande onore, tanto più per uno come me,
un signor nessuno di terzo livello.
Scendendo i gradini, vidi una ventina di Gunter che si aggiravano per la stanza, gli avatar
completamente diversi l’uno dall’altro. C’erano umani, cyborg, demoni, elfi oscuri,
vulcaniani, vampiri. Erano quasi tutti accalcati attorno alla pila di vecchi giochi arcade
appoggiata alla parete. Alcuni erano in piedi accanto all’antiquatissimo stereo (che al
momento stava passando, a tutto volume, Wild Boys dei Duran Duran) e sbirciavano tra la
collezione di musicassette di Aech.
Aech era stravaccato su uno dei tre divani della chatroom, disposti a ferro di cavallo
intorno alla tv. L’avatar di Aech era un uomo bianco, alto, con le spalle larghe, i capelli e
gli occhi scuri. Una volta gli chiesi se, nella realtà, somigliasse un po’ al suo avatar e lui,
scherzosamente, mi rispose «Sì. Ma nella vita reale sono ancora più bello.» Mentre mi
avvicinavo, alzò lo sguardo dal gioco a cui stava giocando sull’Intellivision e il volto gli si
aprì nel suo tipico ghigno da Stregatto, da un orecchio all’altro. «Z!» gridò. «Come butta,
amigo?» Allungò la mano destra per darmi il cinque, mentre io mi lasciavo cadere sul
divano, accanto a lui. Aech aveva iniziato a chiamarmi «Z» poco dopo che ci eravamo
conosciuti. Si divertiva a soprannominare la gente con una singola lettera. Il nome del suo
avatar, per esempio, lo pronunciava come la lettera H.
«Come butta, Humperdinck?» gli chiesi. Era un gioco che facevo con lui. Lo chiamavo
sempre con svariati nomi che iniziavano per H: Harry, Hubert, Henry, Hogan. Stavo
cercando di indovinare il suo vero nome che, a quanto mi aveva confessato una volta,
iniziava davvero con la lettera H.
Conoscevo Aech da poco più di tre anni. Anche lui studiava su Ludus, frequentava
l’ultimo anno della SPO n. 1172, che si trovava dalla parte opposta del pianeta rispetto alla
mia scuola. Ci eravamo incontrati su una chatroom pubblica di Gunter durante un fine
settimana e ci eravamo trovati subito, perché avevamo esattamente gli stessi interessi. Che,
in realtà, era un interesse: un’ossessione smodata, divorante, per Halliday e per il suo
Easter Egg. Non parlavamo che da pochi minuti, e sapevo già che Aech era un fuoriclasse,
un Gunter d’élite, una cazzutissima cintura nera della conoscenza. Conosceva alla
perfezione tutto quello che c’era da sapere sugli anni ottanta, non solo le informazioni
canoniche. Era un vero erudito di Halliday. E sembrava aver ritrovato queste stesse qualità
in me, perché mi aveva dato la sua contact card e mi aveva invitato a unirmi alla Cantina
quando volevo. Da allora era il mio migliore amico.
Nel corso degli anni, tra noi aveva preso piede una certa amichevole rivalità. Dicevamo un
sacco di stupidaggini su chi di noi due sarebbe comparso sul Segnapunti. Cercavamo
sempre di spiazzarci con la nostra erudizione da Gunter su argomenti semisconosciuti.
Di tanto in tanto procedevamo fianco a fianco nella nostra ricerca. Il che generalmente
consisteva nel guardare insieme, all’interno della chatroom, film scadenti e serie tv degli
anni ottanta. Naturalmente giocavamo anche ai videogiochi. Io ed Aech perdevamo ore e
ore davanti a classici a due giocatori come Contra, Golden Axe, Heavy Barrel, Smash tv e
Ikari Warriors. Aech era, dopo il sottoscritto, il miglior giocatore che avessi mai incontrato.
Eravamo allo stesso livello in quasi tutti i giochi, ma lui riusciva a battermi in alcuni,
specialmente quando si trattava di sparatutto in prima persona. In fondo, era il suo campo
di competenza.
Non sapevo nulla della vita reale di Aech, ma la mia impressione era che la sua routine
domestica non fosse un granché. Sembrava che, come me, trascorresse ogni momento di
veglia su OASIS. E, anche se non ci eravamo mai incontrati, più di una volta mi aveva
detto che ero il suo migliore amico, dal che deducevo che probabilmente era emarginato
quanto me.
«Cosa hai fatto dopo che te la sei squagliata, ieri sera?» mi chiese, lanciandomi l’altro
controller dell’Intellivision. La sera precedente avevamo passato qualche ora nella sua
chatroom, guardando vecchi film giapponesi di mostri.
«Nada» risposi. «Me ne sono andato a casa e ho dato una ripassata a un paio di giochi a
gettone.»
«Inutile.»
«Sì. Ma ne avevo voglia.» Non gli domandai cosa avesse fatto lui, né lui rivelò dettagli di
sua spontanea volontà. Probabilmente era andato su Gygax, o in qualche posto altrettanto
pazzesco, a finire velocemente qualche missione e a racimolare Punti Esperienza. Solo che
non voleva farmelo pesare. Aech poteva permettersi di passare un po’ di tempo sugli altri
mondi, seguendo tracce e andando in cerca della Chiave di Rame. Ma non mi sfotteva
perché non avevo abbastanza soldi per alcun tipo di teletrasporto e non metteva mai il
dito nella piaga. Né osava mai offendermi prestandomi qualche credito. Era una regola
non scritta tra i Gunter: se eri un solitario, significava che non volevi o non avevi bisogno
dell’aiuto di nessuno. I Gunter che cercavano aiuto si univano a un clan. Sia io che Aech
convenivamo che i clan fossero adatti ai leccaculo e a chi se la tirava. Entrambi ci eravamo
ripromessi che saremmo rimasti Gunter solitari a vita. Di tanto in tanto ci mettevamo a
parlare dell’Egg, ma si trattava sempre di conversazioni prudenti, e ci guardavamo bene
dall’entrare nello specifico.
Sconfissi Aech tre volte a Tron: Deadly Discs, e allora lui buttò il controller e raccolse da
terra una rivista. Era un vecchio numero di Starlog. Riconobbi subito Rutger Hauer sulla
copertina, in una foto promozionale di Ladyhawke.
«Starlog, eh?» dissi, in segno di approvazione.
«Esatto. Ho scaricato tutti i numeri dall’archivio dell’Incubatrice. Li sto ancora passando in
rassegna. Ho appena letto un pezzo grandioso sul Ritorno degli Ewok.»
«Film per la tv uscito nel 1985» iniziai a declamare. Ero specializzato nelle curiosità su
Guerre Stellari. «Orrendo. Uno dei punti più bassi della storia della saga.»
«Questo lo dici tu, stronzetto spocchioso. Ha dei bei momenti.»
«No» dissi, scuotendo la testa. «Non è vero. È addirittura peggio di quel primo film,
L’avventura degli Ewok. Avrebbero dovuto intitolarlo La sventura degli Ewok.» Aech alzò
gli occhi al cielo e si rimise a leggere. Non ci sarebbe cascato. Diedi un’occhiata alla
copertina. «Ehi, posso sfogliarlo un attimo quando hai finito?» Sorrise. «Perché? Vuoi forse
leggere l’articolo su Ladyhawke?»
«Può darsi.»
«Ti piace proprio quella merda, eh amico?»
«Succhiamelo, Aech.»
«Quante volte hai visto quell’inutile stronzata? Di certo so che mi hai obbligato a vederlo
almeno un paio di volte.» Adesso era lui che mi stava punzecchiando. Sapeva che
Ladyhawke era uno dei miei vizi segreti, e sapeva che l’avevo visto più di una ventina di
volte.
«Ti ho fatto un favore, pivello» gli risposi. Infilai un’altra cartuccia nella console
Intellivision e cominciai da solo una partita di Astrosmash. «Un giorno verrai a
ringraziarmi. Aspetta e vedrai. Ladyhawke è puro canone.»
«Canonico» era l’aggettivo con cui classificavamo tutti i film, i libri, i giochi, le canzoni e le
serie tv di cui Halliday era stato fan.
«È chiaro che stai scherzando» disse Aech.
«No, non sto scherzando. E non chiamarmi Shirley.» 9
Spostò la rivista e mi si fece
più vicino. «È escluso che Halliday fosse un fan di Ladyhawke. Te lo garantisco.»
«Dove hai le prove, piccolo idiota?» gli chiesi.
«Lui aveva gusto. Ecco l’unica prova di cui ho bisogno.»
«Allora ti piacerebbe spiegarmi perché aveva due copie di Ladyhawke, una su vhs e una
su laserdisc?» Tra le appendici dell’Almanacco di Anorak era inclusa anche una lista di
tutti i film che Halliday possedeva al momento della sua morte.
9 Citazione da L’aereo più pazzo del mondo. Lo scambio di battute («Can you fly this plane and land it?»
«Surely you can’t be serious»
«I am serious. And don’t call me Shirley»), che si basava sull’assonanza surely-Shirley, non è stato mantenuto nel
doppiaggio italiano («Lei è in grado di fare atterrare quest’aereo?»
«Non sono in grado mi hanno tolto i gradi»
«Glieli restituisco io. Lei è il nuovo capitano»). Per i puristi, abbiamo qui mantenuto la versione originale della battuta.
[N.d.T.]
«Era un miliardario! Aveva migliaia e migliaia di film, ma ne avrà guardata una minima
parte! Possedeva anche i dvd di Krull e Howard… e il destino del mondo. Non vuol dire
che gli piacessero, coglioncello. E, sicuro come la morte, il fatto che siano in lista non li
rende canonici.»
«Non c’è nemmeno da discuterne, Homer» gli dissi. «Ladyhawke è un classico degli anni
ottanta.»
«È penoso, cazzo, ecco cos’è! Le spade sembrano fatte di stagnola. E la colonna sonora è
epicamente penosa. È piena di sintetizzatori e tutta quella merda lì. Per tutti i cazzo di
Alan Parsons Project! È penoserrima! Va oltre il penoso. È penosa ai livelli da Highlander
II.»
«Ehi!» piagnucolai, scagliandogli addosso il controller. «Ora lo dici solo per insultarmi!
Fosse anche solo per il cast, Ladyhawke è canonico! Roy Batty! Ferris Bueller! E quel tizio
che faceva il professor Falken in Wargames.» Cercai di ricordarmi il nome dell’attore.
«John Wood! Lo vediamo ricongiungersi con Matthew Broderick!»
«Il picco più basso delle loro carriere» disse ridendo. Gli piaceva litigare sui vecchi film
quasi più di quanto piaceva a me. Gli altri Gunter della chatroom si stavano raccogliendo
intorno a noi per ascoltarci. Le nostre discussioni erano spesso fonte di intrattenimento.
«Secondo me tu ti droghi» gli urlai. «Il regista di Lady Hawke è Richard Donner cazzo! I
Goonies? Superman? Mi stai forse dicendo che uno come lui è penoso?»
«Non me ne fotterebbe neanche se l’avesse diretto Spielberg. È un filmetto rosa travestito
dasword & sorcery. L’unico film di genere ad avere ancora meno palle è probabilmente…
quel cazzo di Legend. Chiunque apprezzi Ladyhawke è una fighetta macrobiotica!» Risate
da parte della claque. Adesso mi stavo realmente incazzando. Ero un grande fan di
Legend, ed Aech lo sapeva.
«Bene, sono una fighetta? Tu allora sei il feticista degli Ewok!» gli strappai Starlog dalle
mani e lo scagliai contro il muro, su un poster del Ritorno dello Jedi. «Immagino tu creda
che la tua cultura in campo Ewok ti aiuterà nella ricerca dell’Egg.»
«Non ricominciare il discorso sugli Endoriani, amico» disse, ammonendo con l’indice. «Ti
ho avvertito. Ti banno. Giuro.» Sapevo che non si trattava di una minaccia seria, e stavo
per spingere ulteriormente sulla questione Ewok: forse gli avrei rinfacciato il fatto che li
chiamasse «Endoriani». Ma in quel momento un nuovo arrivo si materializzò sulla scala.
Era un lamer chiamato I–r0k. Emisi un gemito. Aech e I–r0k frequentavano la stessa scuola
e seguivano insieme certe lezioni, ma ancora mi domandavo perché Aech gli avesse aperto
l’accesso alla Cantina. I–r0k si credeva un Gunter d’élite, ma in verità era soltanto un
vanitoso arrogante. Ovvio, si teletrasportava in giro per OASIS, portava a compimento
svariate missioni e continuava a far salire di livello il suo avatar, ma non sapeva proprio
niente. E portava sempre con sé un esagerato fucile al plasma, grande quanto una
motoslitta. Anche nelle chatroom, dove era assolutamente inutile. Non aveva il minimo
senso di dignità.
«Non starete ancora discutendo di Guerre Stellari, voi due coglioni?» disse scendendo i
gradini e raggiungendo la folla che si era raccolta attorno a noi. «Quella merda è finita,
yo.» Mi voltai verso Aech. «Se proprio vuoi bannare qualcuno, perché non inizi con questo
buffone?» Premetti reset sull’Intellivision e cominciai una nuova partita.
«Chiudi quel buco di culo, Perci–fallo!» replicò I–r0k, usando la sua storpiatura preferita
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  • 2. tipo, ambientate nell’immaginario pop degli anni ‘80, a cui OASIS è ispirato. Un romanzo da leggere tutto d’un fiato, un nuovo classico dell’avventura che presto diventerà un megafilm prodotto da Warner Bros. Ernest Cline ha fatto il sottocuoco, ha pulito il pesce, donato il plasma, è stato un commesso snob di videoteca, e ha svolto lavori di bassa manovalanza tecnologica. Ma ha sempre trascurato tutte queste promettenti carriere per dedicarsi a tempo pieno al suo amore per la cultura pop in tutte le sue forme, prima attraverso la poesia orale, poi come sceneggiatore. Ha scritto un film, Fanboys (2008), che è diventato un fenomeno di culto, con suo grande stupore. Oggi vive a Austin, Texas, con moglie, figlia e un’immensa collezione di videogiochi d’epoca. Player One è il suo primo romanzo. Per Susan e Libby. Perché non c’è una mappa per il posto in cui stiamo andando. L’autore Ernest Cline ha fatto il sottocuoco, ha pulito il pesce, donato il plasma, è stato un commesso snob di videoteca, e ha svolto lavori di bassa manovalanza tecnologica. Ma ha sempre trascurato tutte queste promettenti carriere per dedicarsi a tempo pieno al suo amore per la cultura pop in tutte le sue forme, prima attraverso la poesia orale, poi come sceneggiatore. Ha scritto un film, Fanboys (2008), che è diventato un fenomeno di culto, con suo grande stupore. Oggi vive a Austin, Texas, con moglie, figlia e un’immensa collezione di videogiochi d’epoca. Player One è il suo primo romanzo. 0000 Chiunque abbia la mia età ricorda bene dove si trovava e cosa stava facendo nel preciso momento in cui, per la prima volta, sentì parlare della gara. Io ero seduto nel mio nascondiglio e guardavo i cartoni animati quando il notiziario fece irruzione sullo schermo, annunciando che James Halliday era morto nel corso della notte. Naturalmente, avevo già sentito parlare di Halliday. Come chiunque, del resto. Era l’ideatore di videogiochi che aveva creato OASIS, il gioco multiplayer online con milioni di utenti che si era gradualmente evoluto fino a diventare la realtà virtuale, connessa su scala globale, che la maggior parte dell’umanità usava ormai quotidianamente. Il successo senza precedenti di OASIS aveva reso Halliday uno degli uomini più ricchi del mondo. Sulle prime non riuscivo a capire perché i media avessero tanto a cuore la morte del miliardario. In fondo, gli abitanti del Pianeta Terra avevano altro a cui pensare. L’inarrestabile crisi energetica. I catastrofici mutamenti climatici. Le carestie e la fame, la povertà, le malattie. Una mezza dozzina di guerre. La solita storia: «Cani e gatti che vivono insieme… isteria di massa!». Generalmente i notiziari non interrompevano mai la visione di sitcom e soap interattive a meno che non fosse accaduto qualcosa di grosso. Come lo scoppio di un’epidemia letale o la distruzione di un’altra grande città, inghiottita da un fungo atomico. Cose così, importanti. Per quanto Halliday fosse importante, la sua morte avrebbe dovuto guadagnarsi solamente uno spezzoncino durante il telegiornale della sera, giusto per far sì che le masse scuotessero le loro testoline plebee con invidia, quando i telecronisti avessero annunciato la quantità vergognosa di denaro che sarebbe stata elargita agli eredi. Ma era quello il problema. James Halliday non aveva eredi.
  • 3. Era morto a sessantasette anni, scapolo, senza parenti e, a quanto dicevano in molti, senza un solo amico. Aveva trascorso gli ultimi quindici anni della sua vita in un isolamento autoimposto, durante il quale (se le voci erano attendibili) aveva perso completamente la ragione. Perciò la notizia che, quella mattina di gennaio, lasciò tutti a bocca aperta, la notizia che lasciò, da Toronto a Tokyo, tutti di stucco davanti alla ciotola di cereali, riguardava il contenuto delle ultime volontà e del testamento di Halliday, e il destino delle sue vaste fortune. Halliday aveva preparato un breve videomessaggio, corredato dalla raccomandazione che fosse distribuito ai media di tutto il mondo al momento della sua morte. Aveva anche fatto in modo che una copia del video fosse inviata per email a ogni singolo utente OASIS quella mattina stessa. Ricordo ancora il momento in cui il messaggio raggiunse la mia casella di posta elettronica e io sentii il trillo a me tanto familiare, pochi secondi dopo aver visto quel primo notiziario. Il suo videomessaggio era in realtà un cortometraggio meticolosamente costruito e intitolato L’invito di Anorak. Notoriamente eccentrico, per tutta la vita Halliday aveva nutrito un’ossessione per gli anni ottanta, il decennio della sua adolescenza: L’invito di Anorak era strapieno di riferimenti semisconosciuti alla cultura pop degli anni ottanta, riferimenti che riuscii a cogliere solo in minima parte quando guardai il filmato per la prima volta. L’intero video era poco più lungo di cinque minuti e, durante i giorni e le settimane che seguirono, sarebbe diventato il segmento più minuziosamente esaminato della storia; superò addirittura le riprese di Zapruder quanto al numero di scrupolose analisi fotogramma–per-fotogramma che subì. Tutta la mia generazione finì per imparare a memoria ogni secondo del messaggio di Halliday. L’invito di Anorak si apre con un suono di trombe, l’attacco di una vecchia canzone intitolata Dead Man’s Party. Il brano va avanti a schermo nero per i primi secondi e il momento in cui alle trombe si unisce una chitarra è anche quello in cui compare Halliday. Ma non è un sessantasettenne intaccato dal tempo e dalla malattia. Il suo aspetto è uguale a quello che aveva sulla copertina del Time nel 2014: un uomo appena quarantenne, alto, magro, in salute, spettinato, con i suoi tipici occhiali dalla montatura di corno. Inoltre, veste gli stessi abiti che aveva nella fotografia del Time: jeans scoloriti e una maglietta vintage di Space Invaders. Halliday si trova a un ballo del liceo, in una grande palestra. È circondato da adolescenti le cui capigliature, così come gli abiti e i passi di danza, suggeriscono che ci troviamo alla fine degli anni ottanta.1 Ma Halliday non ha una compagna per il ballo. Sta, come direbbe qualcuno, ballando da solo. Alcune righe di testo appaiono brevemente in basso a sinistra, segnalando il nome del gruppo, il titolo della canzone, l’etichetta discografica e l’anno di uscita, come si trattasse di un vecchio video musicale trasmesso da MTV: Dead Man’s Party, Oingo Boingo, MCA Records, 1985. Non appena iniziano a cantare, anche Halliday comincia a cantare in playback, sempre 1 Un’attenta analisi della scena rivela che tutti i ragazzini dietro a Halliday sono in realtà comparse digitalmente ritagliate da teen movie di John Hughes e incollate all’interno del video.
  • 4. volteggiando: «All dressed up and nowhere to go. Walking with a dead man over my shoulder. Don’t run away, it’s only me…». Poi improvvisamente smette di ballare e, con un gesto secco della mano destra, interrompe la musica. In quello stesso momento, i ragazzi che ballano sullo sfondo, spariscono, così come la palestra, e la scena cambia all’improvviso. Ora Halliday si trova davanti a una camera mortuaria, accanto a una bara aperta. 2 Un altro Halliday, molto più vecchio, giace all’interno della bara, con il corpo emaciato e devastato dal cancro. Due quarti di dollaro scintillano sulle sue palpebre. 3 Halliday, quello giovane, osserva dall’alto il suo cadavere invecchiato simulando tristezza, poi si rivolge ai partecipanti in lutto. 4 Halliday schiocca le dita e nella sua mano destra appare una pergamena. La apre con ostentazione, e quella si srotola al suolo, lungo il corridoio davanti a lui. Quindi Halliday rompe la quarta parete: si rivolge agli spettatori e comincia a leggere. «Io, James Donovan Halliday, nel pieno possesso delle mie facoltà di intendere e di volere, con il presente messaggio stabilisco, pubblico e dichiaro che questo documento costituirà le mie ultime volontà e il mio testamento, e revoco ogni testamento di qualsivoglia natura redatto da me in precedenza…» Poi continua a leggerlo, sempre più velocemente, sciorinando molti altri paragrafi in fitto gergo giuridico, finché non arriva a parlare tanto in fretta che le sue parole diventano incomprensibili. Quindi, si ferma bruscamente. «Lasciamo stare» dice. «Anche a questa velocità, ci impiegherei un mese a leggere tutta questa roba. Mi spiace dirlo, ma non ho tanto tempo.» Lascia cadere la pergamena, che scompare in una pioggia di polvere d’oro. «Facciamo che vi illustro i punti chiave.» La camera mortuaria scompare e la scena cambia di nuovo. Halliday ora si trova di fronte all’immensa porta del caveau di una banca. «Tutti i miei beni, compresa la maggioranza delle azioni della mia compagnia, la Gregarious Simulation Systems, saranno congelati finché non verrà soddisfatta l’unica condizione che ho imposto nel mio testamento. Il primo individuo che soddisferà tale condizione erediterà tutte le mie fortune, al momento valutate per eccesso in duecentoquaranta miliardi di dollari.» La porta si spalanca, e Halliday entra nel caveau. L’interno è enorme e contiene una smisurata pila di lingotti d’oro, la cui mole arriva pressapoco a eguagliare quella di una casa piuttosto grossa. «Ecco la grana che vi metto a disposizione» dice Halliday con un largo sorriso. «Che cavolo. Non è facile da trasportare, dico bene?» Halliday si appoggia al cumulo di lingotti e l’inquadratura stringe sul suo volto. «Ora, sono sicuro che vi starete già domandando, cosa dovete fare per mettere le mani su tutto il gruzzolo? Be’, cari miei, una cosa alla volta. Ci sto arrivando…» Fa una pausa teatrale e la sua espressione cambia e diventa quella di un ragazzino che sta per rivelare un gran segreto. Halliday schiocca di nuovo le dita e il caveau scompare. In quello stesso istante, Halliday diventa più piccolo e si trasforma in un bambino, con pantaloni in velluto marrone e una maglietta sbiadita del Muppet Show.5 Il piccolo Halliday si trova in un salotto disordinato con una moquette arancione scuro, le pareti ricoperte da pannelli di legno, e un arredamento kitsch fine anni settanta. 2 Ciò che lo circonda in realtà è preso da una scena di Schegge di follia, film del 1989. Pare che Halliday abbia ricreato digitalmente il set della camera mortuaria e si sia inserito al suo interno. 3 Un’analisi ad alta risoluzione ci rivela che entrambe le monete sono state coniate nel 1984. 4 Questi, di fatto, sono attori e comparse presi da quella stessa scena del funerale di Schegge di follia. Tra gli astanti è possibile riconoscere chiaramente, seduti in fondo, Winona Ryder e Christian Slater. 5 Halliday ora è identico a come appare in una foto scattata a scuola nel 1980, quando aveva otto anni.
  • 5. Poco distante, un televisore Zenith a 21 pollici a cui è attaccato un’Atari 2600. «Questa è la prima console per videogiochi che abbia mai avuto» dice Halliday, con la voce di un bambino. «È un’Atari 2600. Me l’hanno regalato per Natale, nel 1979.» Si lascia cadere di fronte all’Atari, raccoglie un joystick e comincia a giocare. «Questo era il mio gioco preferito» dice, indicando lo schermo del televisore, sul quale un quadratino sta attraversando una serie di labirinti piuttosto semplici. «Si chiamava Adventure. Come molti altri vecchi videogiochi, Adventure era stato progettato e programmato da una sola persona. Ma, al tempo, la Atari si rifiutava di riconoscere i meriti ai propri programmatori, perciò il nome di chi aveva creato un videogioco non compariva da nessuna parte sulla confezione.» Sullo schermo, vediamo che Halliday sta usando una spada per uccidere un drago rosso – anche se, a causa della rudimentale grafica a bassa risoluzione, si ha più l’impressione che un quadrato stia usando una freccia per pugnalare un’anatra deforme. «E così, il creatore di Adventure, un tale di nome Warren Robinett, decise di celare il suo nome direttamente nel gioco. Nascose una chiave all’interno di uno dei labirinti. Una volta trovata questa chiave, un puntino grigio grande quanto un pixel, potevi usarla per accedere a una stanza segreta dove Robinett aveva nascosto il proprio nome.» Halliday conduce il suo protagonista, il quadrato, all’interno della stanza segreta del gioco finché, al centro dello schermo, non compaiono le parole Creato da Warren Robinett. «Questo» dice Halliday, indicando lo schermo con sincera venerazione «è stato il primo Easter Egg nel mondo dei videogiochi. Robinett l’aveva nascosto nel codice del gioco senza che nessuno ne fosse a conoscenza e la Atari ha prodotto in serie Adventure e l’ha distribuito in tutto il mondo senza sapere della stanza segreta. Ne rimasero all’oscuro fino a qualche mese dopo, quando i ragazzini, ovunque, iniziarono a scoprire l’Easter Egg. Io ero uno di questi ragazzini, e trovare l’Easter Egg di Robinett per la prima volta fu una delle esperienze più grandiose della mia vita di videogiocatore.» Il giovane Halliday abbandona il joystick e si rialza. Mentre lo fa, il salotto comincia a scomparire, e la scena cambia di nuovo. Ora Halliday si trova in una grotta buia, sulle cui pareti umide trema la luce di alcune torce. Simultaneamente, cambia anche il suo aspetto, Halliday si trasforma nel famoso avatar che usava su OASIS: Anorak, un mago alto e togato con un volto che è la versione vagamente più attraente (e senza occhiali) di Halliday da adulto. Anorak indossa la tipica tunica nera che, su entrambe le maniche, ha ricamato l’emblema del suo avatar (una grande A ben disegnata). «Prima di morire» dice quindi Anorak, con un tono molto più cupo «ho creato il mio personale Easter Egg e l’ho nascosto all’interno del mio videogioco più famoso: OASIS. Il primo che troverà l’Easter Egg erediterà i miei beni nella loro totalità.» Altra pausa teatrale. «È difficile da trovare. Non l’ho semplicemente nascosto da qualche parte, dietro un sasso. Presumo si possa dire che è chiuso dentro una cassaforte sepolta in una camera segreta che, a sua volta, è nascosta al centro di un labirinto situato da qualche parte…» Solleva il braccio a picchiettarsi la fronte. «Qui dentro.» «Ma non preoccupatevi. Ho lasciato qualche indizio in giro, per mettervi sulla buona strada. Ecco il primo.» Anorak fa un cenno pomposo con la mano destra e subito compaiono tre chiavi che roteano in aria, proprio di fronte a lui, e sembrerebbero fatte di rame, giada e cristallo. Mentre le chiavi continuano a roteare, Anorak comincia a recitare la strofa di una poesia e ogni verso compare, per pochi istanti, come un sottotitolo fiammeggiante in fondo allo schermo: Tre chiavi, ognuna una porta aprirà Che il
  • 6. valor dei viandanti proverà Chi l’ardue prove superar saprà Giunto alla Fine, il premio otterrà Al concludersi di questi versi, la Chiave di Giada e quella di cristallo svaniscono; rimane soltanto la Chiave di Rame, ora appesa con una catenina al collo di Anorak. La macchina da presa segue Anorak che si volta e continua a camminare lungo la caverna. Pochi secondi dopo, raggiunge una massiccia porta di legno a due battenti, incassata nella parete rocciosa. La porta è rivestita in acciaio e, incisi sulla superficie, appaiono scudi e draghi. «Questo gioco non ho potuto testarlo, quindi la mia preoccupazione è che potrei aver nascosto il mio Easter Egg talmente bene da renderlo introvabile. Non lo so per certo. Anche se fosse, ora è comunque troppo tardi per cambiare qualcosa. Perciò staremo a vedere.» Anorak spalanca la porta rivelando una smisurata stanza del tesoro, ricolma di monete d’oro scintillante e calici tempestati di gioielli.6 Poi oltrepassa la soglia e si rivolge agli spettatori, allargando le braccia per tenere aperta la porta.7 «E quindi, senza altri indugi» annuncia Anorak «che la caccia all’Easter Egg di Halliday abbia inizio!» Poi scompare in un lampo di luce, lasciando lo spettatore a guardare gli abbaglianti cumuli di tesori al di là della porta aperta. Poi parte una dissolvenza al nero. Alla fine del video, Halliday aveva allegato un link al suo sito personale, che era cambiato radicalmente la mattina della sua morte. Per più di un decennio, l’unico elemento presente sul sito era stata una breve animazione in loop che mostrava il suo avatar, Anorak, seduto in una biblioteca medievale, ricurvo, intento a mescolare pozioni e concentrato su alcuni libri di incantesimi sopra un tavolo da lavoro consumato dal tempo. Sulla parete dietro di lui si vedeva un grande dipinto che raffigurava un drago nero. Ma ora quell’animazione non c’era più e, al suo posto, si poteva vedere una classifica dei punteggi più alti, simile a quelle che si trovavano nei vecchi videogiochi a gettone. La lista presentava dieci posizioni, occupate tutte dalle iniziali JDH – James Donovan Halliday – seguite da un punteggio a sei zeri. Tale lista fu presto denominata il «Segnapunti». Sotto il Segnapunti, un’icona rappresentava un libricino rilegato in pelle, che linkava a una copia, scaricabile gratuitamente, dell’Almanacco di Anorak, una raccolta di centinaia di annotazioni tratte dal diario di Halliday e prive di data. L’Almanacco consisteva in più di un migliaio di pagine, ma forniva pochi dettagli sulla vita privata di Halliday o sulle sue attività quotidiane. Perlopiù, si trattava di un flusso di coscienza con osservazioni riguardanti numerosi classici del videogioco, romanzi fantasy e di fantascienza, fumetti, cultura pop degli anni ottanta; il tutto mescolato con divertenti diatribe che denunciavano qualsiasi cosa, dalle religioni organizzate alle bibite dietetiche. La Caccia, come venne ribattezzata la gara, si diffuse in fretta per tutto il mondo. La possibilità di trovare l’Easter Egg di Halliday divenne una fantasia diffusa, tra gli adulti e tra i bambini, come quella di vincere alla lotteria. Si trattava di un gioco cui chiunque 6 Un’attenta analisi ci rivela decine di oggetti bizzarri nascosti tra i cumuli di ricchezze. Da segnalare: molti dei primi personal computer (un Apple IIe, un Commodore 64, un’Atari 800XL, e un TRS-80 Color Computer 2), decine di controller compatibili con una vasta gamma di sistemi, centinaia di dadi poliedrici, di quelli usati nei vecchi giochi di ruolo da tavolo. 7 Il fermo-immagine della scena è praticamente identico a un dipinto di Jeff Easley che comparve sulla copertina di Dungeon Master’s Guide, un libro di regole di Dungeons & Dragons pubblicato nel 1983.
  • 7. poteva partecipare e, sulle prime, non sembrava ci fosse un approccio giusto o sbagliato. L’unico indizio che l’Almanacco di Anorak sembrava suggerire era che la conoscenza più o meno approfondita delle varie ossessioni di Halliday sarebbe stata imprescindibile per la soluzione dell’enigma. Cosa che portò tutti ad appassionarsi sempre più alla cultura pop degli anni ottanta. Cinquant’anni dopo, i film, la musica, i giochi e la moda di quel decennio erano di nuovo all’ultimo grido. Dal 2041, i capelli a punta e i jeans scoloriti in candeggina erano tornati di moda e le classifiche musicali erano dominate da band contemporanee che suonavano cover dei successi pop degli ottanta. Tutti coloro che erano stati ragazzini in quel decennio, ormai prossimi alla vecchiaia, stavano vivendo la strana esperienza di vedere gli stili e le tendenze della loro giovinezza abbracciati dai nipotini. Era nata una nuova sottocultura, composta dai milioni di individui che ora impiegavano il loro tempo libero alla ricerca dell’Easter Egg di Halliday. Inizialmente venivano definiti, abbastanza semplicemente, come Egg Hunters, ma presto il soprannome fu contratto in Gunters. Durante il primo anno della Caccia, essere un Gunter andava molto di moda e non c’era utente OASIS che non si fregiasse di quel titolo. Al primo anniversario della morte di Halliday, però, la frenesia che circondava la Caccia iniziò ad affievolirsi. Era passato un anno intero, e nessuno aveva trovato nulla. Non una chiave, non una porta. Parte del problema era legato all’estensione stessa di OASIS. Al suo interno erano presenti più di mille mondi virtuali e la chiave poteva trovarsi in ognuno di essi. Un Gunter avrebbe potuto impiegare anni per una ricerca approfondita anche solo in un mondo. Al di là di tutti i Gunter cosiddetti «professionisti» che ogni giorno, sui loro blog, si vantavano di essere vicini a una svolta, la verità divenne via via più evidente: nessuno aveva idea di cosa stesse cercando, né sapeva da dove cominciare. Passò un altro anno. E un altro ancora. Niente. Il grande pubblico perse interesse per la gara. Cominciò a diffondersi l’idea che fosse una bufala inventata da un ricco stravagante. Altri credevano che, anche se l’Egg fosse esistito veramente, nessuno lo avrebbe mai trovato. Al contrario, OASIS continuava a evolversi e a diventare sempre più popolare e protetto sia dalle grinfie di coloro che volevano acquisirne il controllo sia dalle controversie legali, grazie al testamento blindato di Halliday e all’esercito di avvocati rabbiosi incaricati di occuparsi dei suoi beni. L’Easter Egg di Halliday entrò lentamente a far parte delle leggende metropolitane e il popolo dei Gunter, che sempre più si assottigliava, diventò oggetto di scherno. Ogni anno, nel giorno della morte di Halliday, i telegiornali riportavano, sarcasticamente, la notizia che non si era giunti ad alcun progresso. E ogni anno che passava, sempre più Gunter gettavano la spugna, giunti alla conclusione che Halliday avesse davvero reso l’Easter Egg impossibile da trovare. E passò un altro anno. E un altro ancora. Poi, la sera dell’11 febbraio 2045, il nome di un avatar comparve in cima al Segnapunti, in bella vista davanti a tutto il mondo. Dopo cinque lunghi anni, la Chiave di Rame era stata
  • 8. trovata da un diciottenne che viveva in un parcheggio di case mobili alla periferia di Oklahoma City. Ero io. Decine di libri, cartoni animati, film e miniserie hanno cercato di raccontare la storia di tutto quello che accadde in seguito, ma nessuno l’ha fatto nella maniera giusta. È per questo che voglio mettere le cose in chiaro, una volta per tutte. LIVELLO UNO «La condizione umana è uno schifo, per la maggior parte del tempo. I videogiochi sono l’unica cosa che rende la vita sopportabile.» Almanacco di Anorak, Capitolo 91, Versi 1-2 0001 Mi svegliò di soprassalto il rumore di una sparatoria nelle vicinanze. Agli spari seguì qualche minuto di grida soffocate, poi il silenzio. Le sparatorie non erano insolite, nel parcheggio, ma ne rimasi comunque scosso. Sapevo bene che probabilmente non sarei riuscito a riaddormentarmi, perciò decisi di ammazzare il tempo che mi separava dall’alba rispolverando qualche classico a gettoni. Galaga, Defender, Asteroids. Questi giochi erano obsoleti dinosauri digitali, ed erano diventati pezzi da museo già molto tempo prima che io nascessi. Ma ero un Gunter, e per me non si trattava solo di eccentrici pezzi d’antiquariato a bassa risoluzione. Per me erano reliquie da venerare. Pilastri del pantheon. Quando giocavo ai classici, lo facevo con risoluta reverenza. Ero raggomitolato in un vecchio sacco a pelo, incastrato nello spazio tra il muro e l’asciugatrice, nell’angolo della minuscola zona lavanderia del container. Mia zia non gradiva che stessi nella sua stanza, al di là del corridoio, e a me la cosa stava più che bene. Preferivo in ogni caso sistemarmi nella lavanderia. Lì si stava al calduccio, mi potevo permettere una quantità discreta di privacy e la ricezione wireless non era troppo debole. Altro vantaggio, la stanza odorava di detersivo liquido e ammorbidente. Il resto della casa sapeva di piscio di gatto e povertà totale. Solitamente, dormivo nel mio nascondiglio. Ma, durante le notti precedenti, la temperatura era scesa sotto lo zero e, per quanto detestassi stare da mia zia, era comunque meglio che morire congelati. Nella casa mobile di mia zia viveva un totale di quindici persone. Lei dormiva nella più piccola delle tre stanze. I Deppert vivevano nella stanza accanto alla sua e i Miller occupavano la camera matrimoniale in fondo al corridoio. Erano in sei e pagavano una grossa fetta dell’affitto. Il nostro trailer non era affollato come altri che si trovavano nel parcheggio. Era una casa a due blocchi. C’era un mucchio di spazio per tutti. Tirai fuori il mio computer portatile e lo accesi. Era un bestione ingombrante e pesantissimo, vecchio di quasi dieci anni. L’avevo trovato in una discarica dietro al centro commerciale abbandonato, dall’altra parte dell’autostrada. Ero riuscito a riportarlo in vita rimpiazzando la sua memoria di sistema e reinstallando il suo sistema operativo primordiale. Per gli standard attuali, il processore era più lento di un bradipo, ma per quello che mi serviva andava benissimo. Il laptop era la mia biblioteca portatile, la mia
  • 9. sala giochi, il mio cinema privato. Il disco fisso traboccava di vecchi libri, film, episodi di serie tv, file musicali e quasi ogni videogioco prodotto nel Ventesimo secolo. Avviai il mio emulatore e selezionai Robotron: 2084, uno dei miei giochi preferiti di tutti i tempi. Avevo sempre amato il suo ritmo frenetico, la sua brutale semplicità. Robotron si basava interamente sull’istinto e sui riflessi. Giocare ai vecchi videogiochi mi permetteva, ogni volta, di schiarirmi la mente e sentirmi a mio agio. Se ero giù di morale, o mi sentivo frustrato per la vita che vivevo, dovevo solo dare un colpetto al pulsante Player One, e tutte le angosce mi abbandonavano, via via che la mente si concentrava sull’incessante assalto di pixel nello schermo davanti ai miei occhi. La vita era semplice, nell’universo bidimensionale del gioco: tu contro la macchina, e basta. Ti sposti con la mano sinistra, spari con la destra, cerchi di sopravvivere più che puoi. Trascorsi qualche ora a dare addosso a ondate su ondate di Brains, Spheroids, Quarks e Hulks, nella mia eterna lotta per Salvare l’Ultima Famiglia del Genere Umano! Ma dopo un po’ le mie dita iniziarono a intorpidirsi e persi il ritmo. Quando arrivavo a questo punto, la situazione peggiorava in fretta. Bruciai a vuoto tutte le vite che avevo, e sullo schermo apparvero le due parole che amavo di meno: GAME OVER. Spensi l’emulatore e cominciai a spulciare tra i miei file video. Nel corso di cinque anni avevo scaricato ogni singolo film, serie tv e cartone animato che fosse citato nell’Almanacco di Anorak. Non che li avessi già guardati tutti, naturalmente. Avrei impiegato decenni. Selezionai un episodio di Casa Keaton, sitcom degli anni ottanta che parla di una famiglia borghese dell’Ohio centrale. L’avevo scaricata perché era tra le preferite di Halliday e pensavo fosse possibile che almeno un episodio contenesse qualche indizio utile per la Caccia. Mi ero immediatamente appassionato allo show, e avevo ormai guardato più volte tutti i centottanta episodi. Non me ne stancavo mai. Seduto al buio, guardando la serie sullo schermo del computer, finivo per immaginare che fossi proprio io a vivere in quella casa accogliente e ben illuminata, e che tutte quelle persone sorridenti e comprensive fossero la mia famiglia. Che non ci fosse niente al mondo di così sbagliato da non poter essere risolto in trenta minuti di episodio (o, al limite, nel tempo di un episodio in due parti, nel caso di faccende serissime). La mia vita non aveva mai assomigliato neanche lontanamente a quella ritratta in Casa Keaton, e questo probabilmente era il motivo per cui la serie mi piaceva tanto. Ero figlio unico, i miei genitori erano due adolescenti che si erano incontrati nella baraccopoli in cui ero cresciuto. Mio padre non me lo ricordo. Avevo un paio di mesi quando gli spararono mentre cercava di derubare una drogheria, durante un blackout. L’unica cosa che sapevo di lui è che amava i fumetti. Una volta trovai moltissime penne USB in una scatola che conteneva le sue cose, e al loro interno c’erano serie complete di Amazing Spider–Man, X– Men e Lanterna Verde. Una volta la mamma mi disse che mio padre aveva deciso di darmi un nome allitterante – Wade Watts – perché pensava suonasse come quello dell’identità segreta di un supereroe. Come Peter Parker, come Clark Kent. Scoprirlo mi portò a pensare che probabilmente era in gamba, nonostante il modo in cui era morto. Mia madre, Loretta, si era trovata a crescermi da sola. Avevamo vissuto per un po’ in un piccolo camper, in un’altra parte della baraccopoli. Aveva due lavori a tempo pieno su OASIS: faceva l’operatrice di telemarketing e l’accompagnatrice in un bordello online. Di notte mi obbligava a mettere i tappi per le orecchie perché non la sentissi mentre, nella stanza accanto, diceva zozzerie a tipacci dall’altra parte del mondo. Ma i tappi non funzionavano
  • 10. bene, perciò io mi sedevo a guardare vecchi film tenendo il volume al massimo. Feci la conoscenza di OASIS quando ero ancora molto piccolo: mia madre lo usava come baby–sitter virtuale. Quando crebbi abbastanza da poter indossare un visore e un paio di guanti aptici, la mamma mi diede una mano a creare il mio primo avatar su OASIS. Poi mi piazzò in un angolo e se ne tornò al lavoro lasciandomi solo, a esplorare un mondo completamente nuovo, totalmente diverso da quello che avevo conosciuto fino ad allora. Da quel momento, a educarmi furono i programmi interattivi pedagogici di OASIS: ogni bambino poteva accedervi gratis. Passai un bel pezzo della mia infanzia a spassarmela in una simulazione virtuale di Sesame Street, a cantare insieme a Muppet gentili, a giocare con programmi interattivi che mi insegnavano a camminare, parlare, sommare e sottrarre, leggere, scrivere, condividere. Una volta padroneggiate queste abilità, non impiegai molto tempo a scoprire che OASIS era la biblioteca pubblica più vasta del mondo, un luogo in cui anche un ragazzino squattrinato come me poteva avere accesso a ogni libro mai scritto, a ogni canzone mai registrata, a ogni film, serie televisiva, videogioco e opera d’arte che fosse mai stato creato. Una collezione di tutto il sapere, di tutta l’arte e gli svaghi della civiltà umana era proprio lì, ad aspettarmi. Ma avere accesso a tutte quelle informazioni si dimostrò una benedizione soltanto in parte. Perché fu proprio allora che scoprii la verità. Non saprei, forse avete vissuto un’esperienza diversa dalla mia. Ma, per quanto mi riguarda, diventare un essere umano adulto sul Pianeta Terra durante il Ventunesimo secolo è stato un vero e proprio calcio nei denti. Esistenzialmente parlando. La cosa più brutta, da bambino, è che nessuno voleva dirmi la verità sulla mia situazione. A pensarci bene, facevano l’esatto contrario. E, come è ovvio, io ci credevo, perché ero soltanto un bambino e non sapevo cavarmela meglio di così. Gesù, il mio cervello non si era nemmeno formato del tutto, come diavolo potevo intuire le volte in cui gli adulti mi stavano prendendo per il culo? E così, finivo per ingoiare tutte le assurdità da Medioevo che mi propinavano. Passò del tempo. Divenni un po’ grande e iniziai a rendermi conto che più o meno chiunque mi aveva mentito su più o meno qualunque cosa dal momento in cui ero spuntato dall’utero di mia madre. Fu una rivelazione angosciante. Mi causò problemi di fiducia, in seguito, nella vita. Cominciai a scoprire la cruda verità non appena iniziai a esplorare le biblioteche gratuite di OASIS. Tutte le verità, i fatti comprovati, erano lì ad aspettarmi, nascosti in vecchi libri scritti da persone che non avevano paura di essere oneste. Artisti, scienziati, filosofi e poeti, la maggior parte dei quali era morta da molto tempo. Leggendo le parole che avevano lasciato, iniziai finalmente a comprendere la situazione in prima persona. La mia situazione. La nostra situazione. Quella che quasi tutti definiscono «la condizione umana». Nessuna buona notizia. Vorrei che qualcuno mi avesse detto la verità senza mezzi termini, non appena fossi cresciuto abbastanza da comprenderla. Vorrei che qualcuno mi avesse detto: «Ecco il punto della situazione, Wade. Tu sei una cosa chiamata “essere umano”. Si tratta di un animale molto sveglio. Come tutti gli altri animali del pianeta, discendiamo da un organismo unicellulare vissuto milioni di anni fa. Il tutto è avvenuto per via di un processo chiamato evoluzione, ma di questo verrai a sapere più avanti. Comunque,
  • 11. dammi retta, è il modo in cui siamo arrivati qui. Se ne trovano prove ovunque. E quella storia che hai sentito? Su come siamo stati tutti creati da un tale superpotente che si chiama Dio e vive in cielo? Stronzata suprema. Tutta quella storia su Dio in realtà è un’antica favola che la gente si racconta da migliaia di anni. L’abbiamo inventata noi. Come Babbo Natale, o il coniglietto pasquale. «Oh, e per tua informazione… né Babbo Natale né il coniglietto pasquale esistono. Stronzate anche quelle. Mi dispiace, ragazzo. Fattene una ragione. «Probabilmente ti starai chiedendo cosa sia successo prima che arrivassi tra noi. Un sacco di cose, a dir la verità. Quando ci siamo evoluti fino a diventare umani, la storia si è fatta interessante. Abbiamo capito come coltivare il cibo e addomesticare gli animali, per non passare tutto il tempo a cacciare. Le nostre tribù si sono ingrandite sempre più, e ci siamo sparsi sull’intero pianeta in modo inarrestabile, come un virus. Quindi, dopo aver combattuto gli uni contro gli altri per il territorio, per le risorse, e per i nostri dèi inventati a tavolino, siamo riusciti a organizzare tutte le nostre tribù in una «civiltà globale». Comunque, a essere onesti, non era granché organizzata, né civile, e abbiamo continuato a farci guerra a vicenda. Ma siamo riusciti anche a capire come funzionava la scienza, il che ci ha aiutato a sviluppare la tecnologia. Se consideri che siamo un mucchio di scimmie senza pelo, siamo riusciti a inventare roba abbastanza incredibile. I computer. La medicina. I laser. I forni a microonde. I cuori artificiali. Le bombe atomiche. Abbiamo mandato anche un paio di tizi sulla luna, e poi li abbiamo riportati a casa. Abbiamo anche creato una rete globale di comunicazione che ci permette di parlarci in ogni momento, in qualsiasi parte del mondo ci troviamo. Sorprendente, vero? «Ma è qui che arrivano le cattive notizie. La nostra civiltà globale ci è costata molto. Per costruirla, avevamo bisogno di un sacco di energia, e quell’energia siamo riusciti a ottenerla bruciando i combustibili fossili che derivano dalle piante morte e dagli animali seppelliti nel terreno, a grande profondità. Abbiamo usato la maggior parte del combustibile prima che tu arrivassi, e ora che ci sei non ne abbiamo quasi più. Questo vuol dire che non abbiamo più energia sufficiente per gestire la nostra civiltà come un tempo. Abbiamo dovuto fare dei tagli. Bel risultato. Noi la chiamiamo crisi energetica globale, e va avanti ormai da un bel po’. «In aggiunta, è venuto fuori che tutto quel bruciare combustibili fossili aveva anche effetti collaterali piuttosto fastidiosi. Per esempio, l’innalzarsi della temperatura del pianeta e il totale incasinamento dell’ambiente. Le calotte artiche si stanno sciogliendo, i livelli del mare si innalzano, il clima è un unico grande disastro. Piante e animali si estinguono a ritmo di record e migliaia di persone sono affamate e senza una casa. E ancora ci facciamo la guerra a vicenda, usando le poche risorse che ci rimangono. «In pratica, ragazzo, il significato di tutto questo è che la vita è molto più dura di quanto non fosse in passato, «nei bei tempi andati», prima che tu nascessi. Le cose allora erano grandiose, ma oggi sono abbastanza terrificanti. In tutta onestà, non vedo un futuro troppo roseo. Sei nato in un momento storico piuttosto schifoso. E pare che le cose vogliano solo peggiorare, ormai. La civiltà umana è in “declino”. C’è chi dice che sta “collassando” su se stessa». «Probabilmente ti starai domandando cosa ti succederà. Semplice. A te succederà la stessa cosa che è successa a ogni altro essere umano che sia mai vissuto. Morirai. Moriamo tutti. È così che stanno le cose. «Cosa accade quando muori? Be’, non ne siamo troppo certi. Ma le prove suggeriscono che
  • 12. non succede niente. Muori e basta, il tuo cervello smette di funzionare, e a quel punto non vai più in giro a fare domande fastidiose. Ah, e quelle storie che hai sentito sull’andare in un posto meraviglioso chiamato “paradiso”, dove non c’è dolore o morte e vivi all’infinito in uno stato di perpetua felicità? Altra stronzata suprema. Come tutta quella roba su Dio. Non c’è una vera testimonianza del paradiso, e non c’è mai stata. Abbiamo inventato anche quello. Pensiero positivo. Quindi, d’ora in poi dovrai passare il resto della tua vita con la certezza che un giorno morirai e scomparirai per sempre. «Mi spiace.» D’accordo, a pensarci meglio, forse quella dell’onestà non è la miglior politica. Forse non è una bella idea dire a un essere umano nuovo di pacca che è nato in un mondo di caos, dolore e povertà, che è appena in tempo per godersi lo spettacolo del crollo totale. Io ho scoperto tutto questo nel corso di molti anni e, nonostante la gradualità delle informazioni, ogni volta sentivo il bisogno di buttarmi da un ponte. Fortunatamente, ebbi modo di accedere a OASIS, che mi si presentò come la via di fuga verso una realtà migliore. OASIS mi impedì di impazzire. Diventò il mio campo giochi e la mia scuola materna, un luogo magico dove tutto era possibile. È OASIS lo sfondo dei miei ricordi d’infanzia più felici. Quando la mamma non doveva lavorare, ci collegavamo insieme e giocavamo, o ci imbarcavamo nelle avventure interattive dei libri di fiabe. Ogni sera, puntualmente, mi obbligava a sconnettermi, dato che io non volevo mai ritornare nel mondo reale. Perché il mondo reale era uno schifo. Non ho mai incolpato mia madre dello stato delle cose. Era una vittima del destino e delle circostanze crudeli, come tutti. La sua generazione aveva vissuto il peggio. Era nata in un mondo di abbondanza, giusto in tempo per vederselo svanire davanti agli occhi. Mi ricordo, soprattutto, che ero dispiaciuto per lei. Era costantemente depressa, e la droga era la sola cosa che riuscisse a tenerla su di morale. Chiaramente, fu quella a ucciderla. Avevo undici anni, lei si sparò nel braccio una partita scadente di qualcosa e morì in questo modo, sul nostro logoro divano letto, mentre ascoltava musica dal vecchio lettore mp3 che avevo riparato e le avevo regalato per Natale. Fu allora che fui costretto a trasferirmi dalla sorella di mia madre, Alice. La zia Alice non mi accolse per gentilezza o per un senso di responsabilità familiare. Lo fece per ottenere dal governo più buoni pasto mensili. Quasi sempre, ero io a dovermi cercare il cibo. In genere non era un grosso problema, avevo talento nel trovare e aggiustare vecchi computer e console OASIS rotte, che poi rivendevo al banco dei pegni o scambiavo con buoni pasto. Guadagnavo abbastanza da non fare la fame: era ben più di quanto potessero vantare molti dei miei vicini. L’anno in cui morì la mamma passai molto tempo a crogiolarmi nella disperazione e nell’autocommiserazione. Cercavo di guardare il lato positivo, di tenere bene a mente che, orfano o meno, stavo comunque meglio di quasi tutti i bambini dell’Africa. E dell’Asia. E anche del Nord America. Avevo sempre avuto un tetto sulla testa, avevo cibo a sufficienza. E avevo OASIS. La mia vita non era poi così male. Se non altro, è quello che continuavo a ripetermi, in un vano tentativo di alleviare quella tragica solitudine in cui mi ero trovato immerso. Poi ebbe inizio la Caccia all’Easter Egg di Halliday. E fu quella a salvarmi, credo. Improvvisamente, avevo trovato qualcosa che valesse la pena fare. Un sogno da inseguire. Da cinque anni, la Caccia mi dava uno scopo, un obiettivo. Una ricerca da portare a
  • 13. termine. Un motivo per alzarmi la mattina. Qualcosa da attendere con ansia. Fu esattamente quando cominciai a cercare l’Easter Egg che il futuro non mi sembrò più tanto tetro. Ero a metà del quarto episodio della mia maratona di Casa Keaton quando la porta della lavanderia cigolò ed entrò zia Alice, arpia malnutrita in una vestaglia lacera, con in braccio una cesta di vestiti sporchi. Sembrava più lucida del solito, il che in genere era di per sé una cattiva notizia. Quando era fatta era molto più gestibile. Mi lanciò uno sguardo rapido, sdegnoso come al solito, e iniziò a caricare i vestiti nella lavatrice. Poi la sua espressione mutò, e si mise a sbirciare dietro all’asciugatrice per osservarmi meglio. Sgranò gli occhi quando mi vide con il portatile. Io lo richiusi rapidamente e tentai di infilarlo alla meglio nello zaino, ma sapevo che ormai era troppo tardi. «Da’ qui, Wade» mi ordinò, cercando di afferrarlo. «Posso impegnarlo. Con i soldi ci paghiamo un po’ di affitto.» «No!» gridai cercando di svincolarmi dalla sua presa. «Dài, zia Alice. Ne ho bisogno per la scuola.» «L’unica cosa di cui hai veramente bisogno è di mostrare un po’ di gratitudine!» mi abbaiò contro. «Tutti qui devono pagare l’affitto. Sono stanca di farmi succhiare il sangue da te!» «Ma tu ti tieni tutti i miei buoni pasto. Con quelli copro abbondantemente la mia quota d’affitto.» «Fesserie!» Cercò di sfilarmi il computer di mano, ma io lo tenni stretto. A un certo punto si voltò e sciabattò verso la sua stanza. Sapevo quale sarebbe stata la sua prossima mossa, perciò diedi al mio laptop un comando per bloccare la tastiera e cancellare il disco fisso. Zia Alice tornò qualche secondo più tardi insieme al suo ragazzo, Rick, ancora mezzo addormentato. Rick era costantemente a torso nudo perché amava sfoggiare la sua sorprendente collezione di tatuaggi da carcerato. Senza dire una parola, mi si avvicinò e mi mostrò il pugno minacciosamente. Io trasalii e gli consegnai il laptop. Quindi, lui e zia Alice se ne andarono, discutendo di quanto il computer avrebbe potuto fruttare al banco dei pegni. Perdere il laptop non era poi così grave. Nel mio nascondiglio ne conservavo altri due. Ma non erano altrettanto veloci, e avrei dovuto trasportare lì il mio intero archivio di file, salvato su dischi fissi di riserva. Una totale rottura di coglioni. Ma era tutta colpa mia. Conoscevo bene i rischi che correvo portando cose di valore in quel posto. La luce blu scuro dell’alba iniziava a trapelare dalla finestra della lavanderia. Decisi che forse era una buona idea uscire e andare a scuola un po’ prima del solito. Mi vestii rapidamente e in silenzio, mettendomi addosso un maglione sformato, un cappotto troppo largo e ciò che rimaneva dei miei pantaloni in velluto: l’intero mio guardaroba invernale. Misi lo zaino in spalla e mi arrampicai sulla lavatrice. Infilai i guanti e aprii la finestra ricoperta di brina. L’aria gelida del mattino mi ferì le guance mentre osservavo, all’esterno, quel mare confuso di tetti prefabbricati. La casa di mia zia si trovava in cima a una «catasta» di ventidue case mobili, ed era più alta di un piano o due rispetto alla maggior parte dei caseggiati che la circondava. I container che si trovavano al livello più basso erano a contatto con il terreno, o poggiavano
  • 14. su fondamenta in cemento, quelli accatastati sopra erano sospesi su un’impalcatura componibile rinforzata, un agglomerato di tralicci in metallo che era stato assemblato alla spicciolata, nel corso degli anni. Vivevamo nelle cataste di Portland Avenue, nei tentacoli di un alveare brulicante di scatole di latta scolorite e lasciate ad arrugginire sulle sponde dell’Interstatale 40, a ovest del centro di Oklahoma City e dei suoi grattacieli in rovina. Era un agglomerato composto da più di cinquecento singole cataste, connesse l’una all’altra da una rete raffazzonata di tubature, travi, pilastri e ponticelli. Le cime di una decina di antiche gru (che all’epoca erano state usate per impilare le case) si ergevano intorno al perimetro esterno dell’insediamento, che era in continua espansione. Il piano più alto, il «tetto» dei caseggiati, era ricoperto da un mosaico di vecchi pannelli solari che fornivano energia integrativa alle case dei livelli più bassi. Un intricato fascio di tubi di gomma si snodava su e giù per ogni catasta e garantiva acqua a ciascuna abitazione, oltre a far defluire gli scarichi fognari (un lusso non sempre presente in altre cataste sparse per la città). Non molta luce raggiungeva il livello più basso (noto anche come «piano terra»). Nelle vie strette e oscure che si diramavano tra i cumuli di case erano ammassati gli scheletri di vecchie auto e camion abbandonati, i loro serbatoi svuotati, i loro sportelli bloccati già da molto tempo. Il signor Miller, uno dei nostri coinquilini, mi aveva spiegato che i parcheggi come il nostro consistevano, un tempo, in un paio di decine di case mobili, sistemate sul terreno in file ordinate. Ma con il crollo del petrolio e l’inizio della crisi energetica, le grandi città erano state sommerse da rifugiati provenienti dalle aree periferiche e rurali circostanti. Il tutto aveva provocato un’enorme crisi degli alloggi urbani. I lotti più vicini al centro delle grandi città avevano raggiunto un valore troppo alto perché ci si potesse permettere case mobili a un solo piano, e in quell’occasione qualcuno se ne uscì con la brillante idea, come disse il signor Miller, di «accatastare quelle figlie di puttana» per sfruttare al massimo lo spazio. L’idea attecchì rapidamente, ottenne un immenso successo e in tutto il paese parcheggi come il mio si espansero fino a diventare «cataste» come quella in cui vivevo, un bizzarro ibrido tra le baraccopoli, le abitazioni abusive e i campi profughi. Ormai le cataste si trovavano ai confini di ogni grande città, e ciascuna brulicava di zotici sradicati come i miei genitori che, alla ricerca disperata di lavoro, di cibo, di elettricità e di un accesso stabile a OASIS, avevano lasciato le loro piccole e morenti città d’origine e avevano usato le ultime scorte di benzina (o le loro bestie da soma) per trascinare le famiglie, i camper o le case mobili verso la metropoli più vicina. Tutte le cataste del nostro parcheggio raggiungevano, per altezza, un minimo di quindici prefabbricati ciascuna (comparivano anche, a dare un tocco di varietà, alcuni occasionali camper o container da spedizione, roulotte in alluminio o furgoncini Volkswagen). Negli ultimi anni, le cataste si erano innalzate fino ad arrivare a venti o più unità. Questo fatto preoccupava molte persone. Spesso le cataste crollavano e, se i ponteggi di supporto si inclinavano dalla parte sbagliata, l’effetto domino arrivava a coinvolgere quattro o cinque cataste confinanti. Casa nostra era situata all’estremità settentrionale del complesso, che raggiungeva un fatiscente cavalcavia sull’autostrada. Dalla mia posizione strategica, la finestra della lavanderia, potevo vedere una scia sottile di veicoli elettrici che strisciavano, sull’asfalto squarciato, per portare in città merci e lavoratori. Osservavo la cupa linea dell’orizzonte, quando una lama di sole fece capolino in lontananza. Mi dedicai a un esercizio mentale:
  • 15. ogni volta che vedevo il sole, mi convincevo che stavo solo guardando una stella. Un’unica stella su cento miliardi e più che appartengono alla nostra galassia. Una galassia che è solo una su un miliardo di galassie presenti nell’universo osservabile. Questo mi aiutava a mantenere le cose nella giusta prospettiva. Avevo cominciato a farlo dopo aver visto un programma scientifico dei primi anni ottanta che si intitolava Cosmo. Scavalcai la finestra cercando di fare meno rumore possibile e, tenendomi aggrappato al davanzale, scivolai lungo la parete fredda della casa. La piattaforma in acciaio su cui poggiava la nostra abitazione era poco più larga e più lunga dell’abitazione stessa. Il cornicione, quindi, misurava appena una quarantina di centimetri: con attenzione mi calai finché i miei piedi non lo toccarono, poi sollevai un braccio e richiusi la finestra alle mie spalle. Afferrai un pezzo di corda che avevo precedentemente fissato in quel punto, ad altezza della vita, per usarlo come appiglio, poi iniziai a dirigermi, passo dopo passo, verso l’angolo della piattaforma. Da lì riuscivo a scendere seguendo il profilo dei ponteggi, che somigliava a quello di una scala. Prendevo quasi sempre questa strada quando uscivo o rientravo a casa di mia zia. Una scala pericolante era stata fissata su un lato della catasta, ma traballava e colpiva i ponteggi, quindi non potevo usarla senza tradire la mia presenza. Brutta cosa. Tra le cataste era meglio evitare di essere uditi o visti, se possibile. In giro si trovavano persone pericolose e pronte a tutto: gente che avrebbe potuto derubarti, stuprarti e poi vendere i tuoi organi al mercato nero. Scendere lungo quella rete di travi metalliche mi ricordava sempre i videogiochi a piattaforme come Donkey Kong o BurgerTime. L’idea mi era venuta qualche anno prima, quando avevo progettato il mio primo gioco per Atari 2600 (rito di passaggio per ogni Gunter, l’equivalente di uno Jedi che costruisce la sua prima spada laser). Il gioco era una scopiazzatura di Pitfall! e si intitolava The Stacks, «le cataste», lo scopo era navigare in un labirinto verticale di case mobili, raccogliendo vecchi computer, accumulando Punti Vita grazie ai buoni pasto, ed evitando i tossici e i pedofili che ti si paravano davanti sulla strada verso la scuola. Il mio gioco era molto più divertente della realtà. Durante la discesa, mi fermai accanto alla roulotte Airstream in alluminio che si trovava tre piani sotto di noi. Al suo interno abitava una mia amica, la signora Gilmore. Era una dolce vecchina di oltre settant’anni che si svegliava sempre terribilmente presto. Sbirciai dalla finestra e la vidi armeggiare in cucina. Si stava preparando la colazione. Si accorse della mia presenza dopo pochi secondi e i suoi occhi si illuminarono. «Wade!» disse, spalancando la finestra. «Buongiorno, ragazzo mio.» «Buongiorno signora G.» dissi. «Spero di non averla spaventata.» «Per nulla» disse. Si strinse addosso la vestaglia per ripararsi dagli spifferi. «Si gela là fuori. Perché non entri a fare colazione? Ho un po’ di bacon alla soia. E queste uova in polvere non sono malissimo, se ci metti un bel po’ di sale…» «Grazie, signora G., ma oggi non posso. Devo andare a scuola.» «D’accordo. Vale per la prossima volta, comunque.» Mi mandò un bacio e si apprestò a chiudere la finestra. «Cerca di non spezzarti il collo mentre fai le tue scalate, va bene, Uomo Ragno?» «Sarà fatto. A più tardi, signora G.» Le feci un cenno di saluto e continuai a scendere. La signora Gilmore era assolutamente adorabile. Mi permetteva, quando ne avevo bisogno, di dormire sul suo divano, anche se per me era difficile per via di tutti i suoi gatti.
  • 16. La signora G. era estremamente religiosa e passava la maggior parte del suo tempo su OASIS, seduta nella congregazione di una di quelle gigantesche chiese online. Cantava inni, ascoltava sermoni, faceva viaggi virtuali in Terra Santa. Io le sistemavo la sua console antidiluviana tutte le volte che si guastava. In cambio, lei rispondeva alle mie innumerevoli domande su come fosse stato crescere negli anni ottanta. Raccontava aneddoti preziosissimi di quel periodo – informazioni che non si potevano apprendere dai libri o dai film. Inoltre, pregava sempre per me. Cercava in tutti i modi di salvare la mia anima. Non ebbi mai il cuore di dirle che per me la religione organizzata era un’idiozia totale. Era una piacevole fantasia che le dava speranza e le permetteva di andare avanti: esattamente ciò che la Caccia era per me. Per citare l’Almanacco: «Chi non è nella posizione di giudicare, chiuda quella cazzo di bocca». Quando raggiunsi il piano terra, saltai giù dai ponteggi e mi lasciai cadere per i pochi centimetri che mi separavano dal suolo. I miei stivali di gomma scricchiolarono sul fango ghiacciato. C’era ancora molto buio, lì sotto, così accesi la mia torcia elettrica e mi diressi a est, facendomi strada attraverso l’oscurità di quel labirinto, cercando con tutte le mie forze di rendermi invisibile e, al tempo stesso, evitando di incespicare in carrelli della spesa, monoblocchi o altri tipi di cianfrusaglie disseminati tra i corridoi angusti delle cataste. Solo di rado vedevo qualcuno a quest’ora del mattino. I furgoncini per i pendolari passavano solo un paio di volte al giorno, e chi era abbastanza fortunato da avere un lavoro probabilmente era già alla fermata dell’autobus, sull’autostrada. Quasi tutti lavoravano a giornata nelle enormi aziende agricole che circondavano la città. Dopo aver camminato per un chilometro, raggiunsi una montagna di automobili e camioncini, ammucchiati senza troppa cura lungo il confine settentrionale delle cataste. Decenni fa, le gru avevano ripulito l’intera area dai veicoli abbandonati, così da lasciare più spazio per altre cataste. Poi, li avevano ammassati lungo il perimetro dell’insediamento, formando pile come questa. Alcune pile raggiungevano, in altezza, le cataste stesse. Mi arrampicai fino al margine della pila, mi guardai intorno per accertarmi che nessuno mi stesse osservando o seguendo, poi mi voltai per infilarmi nello spazio tra una carcassa d’auto e l’altra. Da lì, mi chinai e mi inerpicai nelle profondità della montagna pericolante di lamiere schiacciate, finché non raggiunsi un piccolo spiazzo sul retro di un furgone. Soltanto la parte posteriore del furgone era visibile. Il resto era nascosto dagli altri veicoli accatastati ai lati. Due pick–up giacevano, rovesciati, sul tetto del furgone, ma il loro peso veniva sostenuto dalle altre auto ammassate ai lati. Si era creata, così, una sorta di arco protettivo: in tal modo il furgone non poteva essere schiacciato dalle automobili che lo sovrastavano. Sfilai la catenina che portavo al collo, alla quale avevo appeso una chiave. La prima volta che avevo scoperto il furgone, avevo avuto la fortuna di trovare la chiave ancora infilata nel quadro. Molti veicoli funzionavano ancora quando erano stati abbandonati. I proprietari non potevano più permettersi la benzina, perciò li avevano parcheggiati da qualche parte e se n’erano andati per sempre. Misi in tasca la torcia e aprii lo sportello posteriore del furgone. Si socchiuse quel tanto da permettermi di entrare. Richiusi il portellone e lo bloccai dall’interno. Sul retro, il furgone non aveva finestrini, e per un istante rimasi rannicchiato nell’oscurità, finché non tastai la presa elettrica che avevo montato con il nastro adesivo sul tetto dell’abitacolo. Diedi un colpetto all’interruttore, e una vecchia lampada da tavolo inondò di luce lo spazio ridotto
  • 17. in cui mi trovavo. Il tettuccio verde e ammaccato di un’utilitaria ricopriva per intero lo spazio in cui un tempo si trovava il parabrezza, ma la parte anteriore del furgone non era ulteriormente danneggiata. L’interno era rimasto intatto. Qualcuno aveva portato via tutti i sedili (probabilmente per riciclarli come poltrone da salotto). Quel che restava era una minuscola «stanza» alta un metro, larga un metro e lunga tre. Questo era il mio nascondiglio. L’avevo scoperto quattro anni prima, mentre ero a caccia di componenti di computer. La prima volta che aprii lo sportello e diedi un’occhiata all’interno buio del furgone, capii subito che avevo appena trovato una cosa di inestimabile valore: la privacy. Era un luogo che nessun altro conosceva, in cui non avrei dovuto preoccuparmi degli assilli o delle sberle di mia zia e di tutti i suoi fidanzati sfigati. Qui potevo tenere le mie cose senza aver paura che me le rubassero. E, cosa ancora più importante, era un luogo in cui potevo accedere a OASIS in santa pace. Il furgone era il mio rifugio. La mia batcaverna. La mia fortezza della solitudine. È qui che andavo a scuola, facevo i compiti, leggevo libri, guardavo film, giocavo ai videogiochi. È qui, inoltre, che conducevo la mia ostinata ricerca dell’Easter Egg di Halliday. Per insonorizzare il furgone, ne avevo ricoperto le pareti, il fondo e il tetto con il polistirolo delle confezioni di uova e con piccoli ritagli di tappezzeria. In un angolo avevo messo alcune scatole di cartone che contenevano computer rotti e pezzi di ricambio. Accanto, giaceva un cesto di vecchie batterie d’auto e una cyclette che avevo ritoccato perché funzionasse da generatore. L’unico pezzo di arredamento che avevo portato era una sedia pieghevole. Mi tolsi lo zaino, mi scrollai di dosso il cappotto e montai sulla cyclette. L’unico tipo di esercizio fisico che facevo ogni giorno era quello di caricare le batterie. Pedalai finché il contatore non arrivò al massimo, poi mi spostai sulla sedia e accesi la piccola stufa elettrica che avevo sistemato ai miei piedi. Mi tolsi i guanti e strofinai le mani davanti alla serpentina, che si stava colorando di un arancione brillante. Non potevo lasciare la stufa accesa troppo a lungo per non esaurire la batteria. Scoperchiai la scatola di metallo a prova di topo in cui conservavo le provviste di cibo: presi una bottiglia d’acqua e una confezione di latte in polvere. Li mescolai in una scodella, poi mi versai una generosa porzione di cereali alla frutta. Divorai tutto; dal cruscotto mezzo rotto del furgone recuperai un cestino per il pranzo di Star Trek. Al suo interno conservavo tutti gli oggetti che la scuola mi aveva donato: una console OASIS, i guanti aptici e il visore. Erano le cose più preziose che possedevo. Troppo preziose perché potessi permettermi di portarle con me dappertutto. Mi infilai i guanti aptici e mi sgranchii le dita per assicurarmi che tutte le articolazioni fossero sciolte. Poi presi la console OASIS, una specie di rettangolo nero e piatto grande quanto un libro tascabile. Benché la console fossa dotata di un’antenna interna per il wireless, la ricezione all’interno di un furgone seppellito sotto montagne di lamiera faceva schifo. Avevo, pertanto, improvvisato un’antenna esterna, fissata sul cofano di un’auto in cima alla pila. Il cavo dell’antenna passava per un foro che avevo ricavato nel pavimento del furgone. Inserii il cavo in una presa sul lato della console, quindi indossai il visore, che si adattava perfettamente ai miei occhi come un paio di occhialetti da piscina e impediva alla luce esterna di penetrare. Sui lati del visore erano collocati piccoli auricolari che si
  • 18. posizionavano automaticamente nelle mie orecchie. Il visore era dotato anche di due microfoni vocali interni, con la funzione di recepire tutto ciò che dicevo. Avviai la console e diedi inizio alla sequenza d’accesso. Un lampo rosso mi balenò negli occhi mentre il visore eseguiva la scansione delle mie retine. Poi mi schiarii la voce e pronunciai la mia password di login, articolandola con la massima attenzione: «Crom, gran Dio dei monti». La mia frase venne verificata, così come il mio campione vocale. Avevo effettuato l’accesso. Al centro del display virtuale comparvero queste parole: Verifica identità completata. Benvenuto su oasis, Parzival! Login Effettuato: 07:53:21 OST – 10.2.2045 La frase venne rimpiazzata da un breve messaggio, di tre parole soltanto. Un messaggio che era stato incluso nella sequenza di login dallo stesso James Halliday, al tempo in cui aveva progettato OASIS, per omaggiare i diretti antenati della sua simulazione, ovvero i videogiochi a gettone della sua gioventù. Queste tre parole erano l’ultima cosa che vedevano gli utenti OASIS prima di lasciare il mondo reale per entrare nel mondo virtuale: READY PLAYER ONE 0002 Il mio avatar si materializzò di fronte al mio armadietto, al secondo piano del liceo: nello stesso identico posto dove mi trovavo la sera prima, quando mi ero scollegato da OASIS. Guardai a destra e a sinistra, lungo il corridoio. L’ambiente virtuale in cui mi trovavo sembrava quasi (ma non del tutto) reale. Ogni cosa, su OASIS, veniva riprodotta alla perfezione, in tre dimensioni. A meno che non ci si fermasse a zoomare, esaminando l’ambiente con minuziosità, era facile dimenticarsi che tutto ciò che si vedeva era generato da un computer. Persino con la scadente console OASIS che la scuola mi aveva fornito. Avevo sentito dire che, se avessi preso parte alla simulazione con un tipo di attrezzatura all’avanguardia, mi sarebbe stato impossibile distinguere OASIS dalla realtà. Diedi un leggero colpo e la porta dell’armadietto si aprì con uno scatto sommesso. L’interno era decorato a casaccio. Un’immagine della Principessa Leila che impugnava un blaster. Una foto di gruppo dei Monty Python, in costume, sul set del Sacro Graal. La copertina del Time con la foto di Halliday. Allungai un braccio verso lo scaffale più alto dell’armadietto e diedi un colpetto a una pila di libri, che si dissolse e ricomparve subito dopo nell’inventario del mio avatar. Oltre ai libri, il mio avatar possedeva poco altro: una torcia, una spada medievale in ferro, un piccolo scudo di bronzo e una corazza di cuoio intrecciato. Non erano oggetti magici e, per giunta, erano di scarsa qualità, ma erano tutto quello che mi potevo permettere. Gli oggetti, su OASIS, avevano lo stesso valore che avevano nella vita reale (a volte, anzi, erano più preziosi), e non si potevano comprare con i buoni pasto. I crediti OASIS erano l’unica moneta del regno e, in tempi bui come questi, si poteva dire con certezza che fossero anche tra le valute più stabili del mondo. Nell’armadietto avevo montato un piccolo specchio. Mentre chiudevo lo sportello, incrociai il mio sguardo. Avevo progettato il volto e il corpo del mio avatar perché somigliassero, grosso modo, ai miei. Il mio avatar aveva un naso leggermente più piccolo ed era più alto. E un po’ più magro. E un po’ più muscoloso. E non aveva i brufoli. Al di là dei dettagli, però, eravamo praticamente identici. Il regolamento della scuola imponeva
  • 19. che tutti gli avatar degli studenti avessero sembianze umane, che avessero il medesimo sesso e la stessa età dello studente. Non erano ammessi unicorni demoniaci ermafroditi giganti con due teste. Non a scuola, ad ogni modo. Era permesso battezzare il proprio avatar OASIS con qualunque nome, a patto che fosse unico. In pratica, era d’obbligo scegliere un nome che non fosse già stato preso da qualcun altro e che sarebbe poi servito come indirizzo email e username per la chat: perciò doveva essere figo e facile da ricordare. Le celebrità erano disposte a sborsare enormi somme di denaro per farsi vendere il nome avatar che desideravano dai cybernessuno che l’avevano già creato. Quando attivai il mio account OASIS, diedi al mio avatar il nome di Wade_il_Grande. Poi continuai a cambiarlo di mese in mese, finendo (quasi sempre) per trovare nomi altrettanto ridicoli. Ma ormai il mio avatar aveva lo stesso nome da più di cinque anni. Il giorno che la Caccia ebbe inizio, il giorno in cui decisi di diventare un Gunter, chiamai il mio avatar Parzival, in onore del cavaliere arturiano che aveva trovato il Santo Graal. Parsifal e Percival, forme più note del nome del cavaliere, erano già state prese da altri utenti. Ma a me piaceva di più Parzival. Suonava bene. Solo in pochi usavano il proprio vero nome, online. Quello dell’anonimità era uno dei benefici principali di OASIS. All’interno della simulazione, nessuno sapeva chi eri, a meno che non fossi tu a volerlo. E gran parte della popolarità di OASIS derivava proprio da questo. Ogni account OASIS archiviava i nomi reali delle persone, le impronte digitali, i campioni retinei, ma la Gregarious Simulation Systems criptava queste informazioni e le teneva riservate. Persino chi lavorava alla GSS non aveva accesso alla vera identità degli avatar. Halliday era ancora a capo della compagnia, al tempo in cui una fondamentale sentenza promulgata dalla Corte suprema concesse il diritto di mantenere privata l’identità di ogni avatar. Quando mi iscrissi alla scuola pubblica di OASIS, mi fu chiesto di segnalare il mio nome reale, il nome del mio avatar, l’indirizzo di posta e il numero di previdenza sociale. Tutte informazioni memorizzate nel mio profilo studente, alle quali solo il preside poteva accedere. Nessuno dei miei insegnanti o dei miei compagni di classe sapeva chi fossi, e viceversa. Agli studenti non era permesso usare i nomi avatar, a scuola. Era, perlopiù, una maniera per evitare agli insegnanti l’imbarazzo di dire cose tipo: «Pappone_Viscido, per favore, sta’ attento!» o «UccelloRovente69, puoi venire in cattedra a leggerci la tua relazione sul libro?». Gli studenti erano tenuti a usare i loro nomi di battesimo seguiti da un numero che li differenziasse dagli altri studenti con lo stesso nome. Quando mi iscrissi io, c’erano già altri due studenti che si chiamavano Wade. A me, quindi, era stato dato il nome di Wade3, che svolazzava sopra la testa del mio avatar quando mi trovavo a scuola. Suonò la campanella. In un angolo del display comparve un avviso: mi segnalava che mancavano quaranta minuti all’inizio della lezione. Accompagnai il mio avatar lungo il corridoio, spostando appena le mani per gestirne le azioni e i movimenti. Quando avevo le mani impegnate, per muoverlo potevo usare i comandi vocali. Camminai verso l’aula dove si teneva la lezione di Storia mondiale. Sorridevo e salutavo i volti familiari che incontravo. Ero certo che tutto questo mi sarebbe mancato, una volta preso il diploma, di lì a pochi mesi. Non morivo dalla voglia di andarmene da scuola. Non avevo soldi per il college, nemmeno su OASIS, e i miei voti non erano abbastanza alti da garantirmi una borsa di studio. L’unico piano che avevo, dopo il diploma, era quello di
  • 20. diventare un Gunter a tempo pieno. Non che avessi molta scelta. Vincere era l’unica via d’uscita dalle cataste. A meno che non mi saltasse in mente di sottoscrivere un contratto quinquennale da recluta con qualche corporation, il che mi allettava quanto l’idea di rotolarmi in mezzo ai vetri rotti con il vestito buono. Continuavo a camminare lungo il corridoio, mentre altri studenti si materializzavano di fronte ai loro armadietti, apparizioni spettrali che rapidamente prendevano forma. Il chiacchiericcio degli studenti echeggiava nel corridoio. Poco dopo, udii qualcuno che mi lanciava un insulto. «Ehi, ehi! Ma quello non è Wade3?» gridava una voce. Mi voltai e vidi Todd13, un avatar insopportabile che avevo incrociato a lezione di Algebra ii. Era insieme ai suoi amici. «Bel completo, signorino» mi disse. «Dove li hai trovati quei vestiti così belli?» Il mio avatar indossava una T–shirt nera e un paio di jeans: una delle combinazioni che si potevano selezionare gratuitamente una volta creato l’account. Come i suoi amici Cro–Magnon, l’avatar di Todd13 era vestito di costosissimi capi firmati. Abiti che doveva aver pagato profumatamente in qualche centro commerciale, su un altro pianeta. «Me li ha comprati tua madre» replicai, continuando per la mia strada. «Ringraziala da parte mia, quando passi da casa per ritirare la paghetta e farti la tua poppata.» Risposta infantile, lo so bene. Ma, che fosse o meno virtuale, eravamo pur sempre a scuola: più un insulto è infantile, più è efficace. La mia risposta strappò qualche risata ai suoi amici e agli altri studenti nelle vicinanze. Todd13 si rabbuiò e arrossì, evidentemente non si era preoccupato di disattivare l’applicazione che mostrava le emozioni in tempo reale, funzione che permetteva a ogni avatar di rispecchiare le vere espressioni facciali e il linguaggio del corpo di ciascuno. Prima che avesse il tempo di rispondermi, gli tolsi l’audio, e quindi non sentii la sua risposta. Sorrisi, e continuai a camminare. Una delle cose che preferivo della scuola online era la possibilità di zittire i miei compagni di scuola togliendo loro l’audio, e lo facevo quasi ogni giorno. Il meglio era che il tutto veniva notificato a loro, che non potevano farci proprio niente. Non c’erano mai risse, a scuola. Non lo permettevano. L’intero pianeta di Ludus era un’area non–PvP: non venivano, cioè, ammessi i combattimenti player–versus-player. Nella mia scuola, le uniche armi consentite erano le parole: perciò avevo imparato a brandirle con una certa abilità. Fino alla prima media ero andato a scuola nel mondo reale. Non era stata un’esperienza troppo piacevole. Ero un bambino tremendamente timido, mi sentivo a disagio, avevo poca autostima e ancor meno talento nel socializzare, effetto collaterale del fatto che avevo trascorso quasi tutta la mia infanzia all’interno di OASIS. Non avevo problemi a parlare con la gente o a fare amicizia online. Ma, nel mondo reale, interagire con altri esseri umani, e soprattutto con altri ragazzi della mia età, mi trasformava in un rottame di tic e nervosismi. Non sapevo mai come comportarmi, né cosa dire, e quando raccoglievo il coraggio per dire una cosa, sembrava sempre che fosse quella sbagliata. Il mio aspetto era, in parte, il problema. Ero sovrappeso da tempo immemorabile. La fallimentare dieta a base di zuccheri e amidi che il governo mi somministrava rappresentava uno dei fattori fondamentali. Oltre a questo, ero anche un OASIS– dipendente, e per questa ragione l’unica forma di attività fisica che praticavo era scappare dai bulli, prima e dopo le lezioni. A peggiorare il tutto, il mio limitatissimo guardaroba consisteva in abiti di taglie improbabili, raccattati in negozi dell’usato o tra gli abiti della beneficenza, il che a livello sociale era un po’ come avere un bersaglio disegnato in fronte.
  • 21. In ogni caso, cercavo di adattarmi. Anno dopo anno, i miei occhi scansionavano la mensa come se fossi un T-1000, in cerca di una compagnia che mi accettasse. Ma persino gli altri emarginati non volevano avere a che fare con me. Ero strambo anche per gli strambi. E le ragazze? Rivolgere la parola alle ragazze era fuori questione. Per me erano come una specie esotica di alieni: bellissime e terrificanti. Ogni volta che mi capitava di trovarmene una vicino, iniziavo a sudare freddo e perdevo l’abilità di pronunciare frasi di senso compiuto. La scuola, per me, era stato un esercizio darwiniano. Un ricettacolo quotidiano di derisioni, abusi, isolamento. Quando entrai in prima media, iniziai a domandarmi se sarei riuscito a mantenere la mia salute mentale almeno fino al momento del diploma, di lì a sei lunghi anni. Ma poi, quel glorioso giorno, il nostro preside annunciò che ogni studente che avesse una media sufficiente per la promozione avrebbe potuto fare domanda per il trasferimento sul nuovissimo sistema scolastico pubblico di OASIS. Il sistema scolastico del mondo reale, quello gestito dal governo, ormai da decenni era una sovraffollata e inesorabile catastrofe priva di fondi. Molte scuole versavano in condizioni così disastrose che, a qualsiasi studente che fosse ancora in grado di intendere e di volere, veniva consigliato di seguire le lezioni da casa. Rischiai di rompermi l’osso del collo correndo all’ufficio scolastico per firmare la mia domanda, che fu accettata. Nel semestre successivo mi trasferii alla scuola pubblica di OASIS numero 1873. Prima del trasferimento, il mio avatar OASIS era sempre stato su Incipio, il pianeta al centro del settore 1 in cui gli avatar venivano depositati al momento della loro creazione. Su Incipio non si faceva molto: si chattava con gli altri novellini o si faceva shopping in uno dei giganteschi grandi magazzini che affollavano il pianeta. Visitare luoghi più interessanti significava pagare una tariffa di teletrasporto, che a sua volta significava spendere soldi reali, che io non avevo. Il mio avatar, quindi, non poteva lasciare Incipio. Questo finché la mia nuova scuola non mi spedì un buono che copriva il costo del teletrasporto su Ludus, il pianeta dove si trovavano tutte le scuole pubbliche di OASIS. Ludus brulicava di campus, centinaia di scuole disseminate su tutta la sua estensione. Le scuole erano tutte identiche perché lo stesso codice strutturale veniva copincollato nei luoghi in cui serviva una nuova scuola. E, dal momento che gli edifici erano solo tasselli del software, i progetti non erano sottoposti a vincoli finanziari o alle leggi della fisica. Ragion per cui ogni scuola era un grande, sfarzoso palazzo dell’apprendimento, con corridoi in marmo lavorato, aule simili a cattedrali, palestre a gravità zero e biblioteche virtuali che contenevano ogni volume che fosse mai stato scritto e approvato dal consiglio scolastico. Il primo giorno che passai alla SPO n. 1873, credetti di essere in paradiso. Ogni mattina, anziché scansare il manipolo di bulli e drogati che avrei dovuto evitare per raggiungere la scuola, andavo nel mio nascondiglio e ci passavo tutto il giorno. E inoltre, su OASIS nessuno poteva sapere che ero grasso, che avevo i brufoli o che tutti i giorni portavo gli stessi miseri vestiti. I bulli non potevano tartassarmi di sputi, tirarmi le mutande fin sopra la testa, o prendermi a pugni nel parcheggio delle biciclette dopo la scuola. Non potevano nemmeno toccarmi. Ero, finalmente, al sicuro. Quando entrai nell’aula dove si sarebbe tenuta la lezione di Storia mondiale, notai che molti studenti erano già ai loro posti. I loro avatar sedevano immobili, con gli occhi chiusi. Questo indicava che erano «occupati», ovvero che al momento erano al telefono,
  • 22. navigavano in rete o stavano chattando. Non era educato, su OASIS, cercare di conversare con un avatar occupato: in genere saresti stato ignorato, per poi ricevere un messaggio automatico che ti invitava a levarti dai piedi. Mi sedetti al banco e premetti l’icona di «occupato» in cima al display. Le palpebre del mio avatar si chiusero, ma potevo comunque guardarmi intorno. Premetti un’altra icona per aprire la grande finestra di un browser, sospesa nell’aria di fronte ai miei occhi. Solo il mio avatar vedeva queste finestre: così nessuno poteva spiare quello che facevo (a meno che non attivassi l’opzione che lo consentiva). La mia homepage predefinita era l’Incubatrice, uno dei forum di Gunter più famosi. L’interfaccia del sito era stata progettata perché somigliasse e funzionasse come un BBS dell’era pre–internet, con tanto di accompagnamento musicale (le fastidiose strida di un modem a 300 baud) durante la sequenza di login. Bellissimo. Per qualche minuto diedi un’occhiata ai messaggi più recenti, dedicandomi alle ultime notizie e ai pettegolezzi. Anche se controllavo il forum ogni giorno, scrivevo di rado. Oggi non c’erano notizie interessanti. Le solite lotte tra esaltati. Discussioni sull’interpretazione «corretta» di alcuni passaggi criptici dell’Almanacco di Anorak. Avatar di alto livello che si vantavano degli oggetti magici di cui si erano appena impossessati. Erano anni che queste fesserie andavano avanti. In assenza di progressi concreti, la sottocultura Gunter aveva iniziato a perdersi in un pantano di sbruffonate, inutili conflitti interni e stronzate di varia natura. Era una situazione davvero deprimente. I miei messaggi preferiti erano quelli in cui si attaccavano i Sixer. «Sixer» era il soprannome spregiativo che i Gunter avevano affibbiato agli impiegati dell’Innovative Online Industries. La IOI (pronuncia: eye–oh-eye) era un conglomerato specializzato nelle comunicazioni globali ed era il più grande internet provider del mondo. Gran parte del business della IOI consisteva nell’offrire accesso a OASIS e nel vendere beni e servizi all’interno della simulazione. Per questo motivo, la IOI aveva tentato diverse scalate nei confronti della Gregarious Simulation Systems. Neanche una era andata a buon fine. Ora stavano cercando di assumere il controllo della GSS sfruttando qualche falla nel testamento di Halliday. Ora la compagnia aveva creato un nuovo dipartimento, che chiamava «Divisione Oologi». (Un tempo la oologia era «lo studio delle uova deposte dagli uccelli» ma ora aveva assunto un secondo significato: «la “scienza” della ricerca delle Easter Egg di Halliday».) La Divisione Oologi della IOI aveva un unico scopo: vincere la gara di Halliday ed entrare in possesso di tutti i suoi beni, della compagnia e di OASIS. Come quasi tutti i Gunter, inorridivo al pensiero che OASIS passasse sotto le grinfie della IOI. L’enorme ingranaggio di pubbliche relazioni della compagnia aveva manifestato le proprie intenzioni chiaramente. La IOI riteneva che Halliday non avesse mai monetizzato la propria creazione adeguatamente, e adesso voleva rimediare. Avrebbero iniziato con l’imposizione di una quota mensile per l’accesso a OASIS. Avrebbero tappezzato di pubblicità ogni superficie visibile. L’anonimato degli utenti e la libertà di parola sarebbero diventati parte del passato. Non appena la IOI ne avesse preso il controllo, OASIS avrebbe smesso di essere l’utopia virtuale in cui ero cresciuto. Sarebbe diventata una distopia controllata dalle corporation, un costosissimo parco a tema per ricconi elitari. La IOI imponeva ai suoi cacciatori di uova, gli «Oologi», di dare ai propri avatar OASIS il numero di matricola che avevano all’interno della compagnia. Erano numeri di sei cifre; tutti iniziavano con il 6, ed è per questo che chiunque cominciò a chiamarli «Sixer». Anzi,
  • 23. ormai i Gunter li avevano rinominati «Sux0rz» (perché, sì, facevano schifo). Per diventare un Sixer, era d’obbligo firmare un contratto che, tra le altre cose, garantisse all’azienda l’esclusiva proprietà del premio qualora l’Easter Egg fosse stato trovato. In cambio, la IOI offriva uno stipendio bimestrale, cibo, alloggio, agevolazioni sull’assistenza sanitaria e un ottimo piano pensionistico. Inoltre, la compagnia forniva a ogni avatar un’armatura sofisticata, veicoli, armi e copriva il costo di tutti i teletrasporti. Entrare nei Sixer era un po’ come entrare nell’esercito. Non era difficile riconoscere un Sixer, erano tutti identici e costretti a usare lo stesso enorme avatar maschio (indipendentemente dal fatto che il Sixer fosse uomo o donna): capelli scuri rasati, tratti somatici predefiniti dal sistema. E tutti indossavano la stessa uniforme blu. Per distinguerli non si poteva fare altro che leggere il numero di matricola stampato sul petto, a destra, sotto il logo ufficiale della IOI. Come ogni Gunter, disprezzavo i Sixer, ed ero disgustato dal solo fatto che esistessero. Assumendo un esercito di cacciatori di uova a contratto, la IOI snaturava lo spirito iniziale della gara. Naturalmente si sarebbe potuto obiettare che tutti i Gunter aggregati in clan facevano la stessa cosa. Ormai i clan di Gunter erano centinaia, alcuni composti da migliaia di membri, che collaboravano tutti tra di loro per trovare l’Egg. Ciascun clan era vincolato da un accordo legale blindato in virtù del quale se un membro del clan avesse vinto la gara avrebbe dovuto spartire il premio con tutti gli altri. Ai solitari come me non importava granché dei clan, eppure li rispettavamo: erano dei Gunter come noi, a differenza dei Sixer il cui unico scopo era quello di gettare OASIS in pasto a una multinazionale che aveva tutte le intenzioni di condannarlo alla rovina. La mia generazione non aveva mai conosciuto un mondo senza OASIS. Per tutti noi era molto più di un gioco o una piattaforma di intrattenimento. Era stato parte integrante delle nostre vite sin dai nostri primi ricordi. Il mondo in cui eravamo nati era un postaccio, e OASIS era la nostra isola felice. L’idea della realtà virtuale privatizzata e omologata dalla IOI ci terrorizzava; chiunque fosse nato prima dell’avvento di OASIS non poteva comprendere. Era come se qualcuno minacciasse di portare via il sole, o di imporre una tassa a chi volesse guardare il cielo. Tutti i Gunter vedevano nei Sixer un nemico comune, e gettarsi all’attacco dei Sixer era il passatempo preferito sui forum e sulle chat. Molti Gunter di alto livello seguivano una rigida politica secondo la quale dovevano uccidere (o cercare di uccidere) ogni Sixer che incrociassero. C’erano molti siti che si dedicavano a seguire le attività e i movimenti dei Sixer, e qualche Gunter passava più tempo a cacciare i Sixer di quanto non ne passasse alla ricerca dell’Egg. I clan più corposi si sfidavano in una gara annuale, dal nome Eighty–six the Sux0rz,8 con un premio in palio per chi fosse riuscito a uccidere il maggior numero di Sixer. Dopo aver controllato un altro paio di forum di Gunter cercai, tra i preferiti, Arty’s Missives, il blog di una Gunter di nome Art3mis. Lo avevo scoperto tre anni prima, e da allora ero un lettore fedelissimo. Postava dei meravigliosi e sconclusionati articoli sulla sua ricerca dell’Egg di Halliday, che chiamava «l’esasperante caccia al MacGuffin». Scriveva in modo toccante e intelligente, i suoi interventi abbondavano di incisi beffardi e arguti ed erano intrisi di umorismo autodenigratorio. Lì pubblicava le sue (spassosissime) interpretazioni dei passaggi dell’Almanacco e rimandava a libri, film, serie tv e musica che 8 To eighty-six» è un’espressione gergale che sta per «fare piazza pulita.» [N.d.T.]
  • 24. studiava nel corso della ricerca su Halliday. Avevo il sospetto che tutti i post fossero zeppi di informazioni fuorvianti, se non false, ma li trovavo comunque esilaranti. Non c’è nemmeno bisogno di dirlo: avevo una devastante cybercotta per Art3mis. Di tanto in tanto, pubblicava immagini del suo avatar dai capelli corvini, e qualche volta (sempre) mi capitava di salvarle in una cartella, sul mio disco fisso. Il suo avatar aveva un volto grazioso, ma non perfetto in maniera innaturale. Su OASIS era facile abituarsi a facce decisamente troppo belle. I tratti di Art3mis non sembravano tirati fuori da un menu a tendina nella sezione «estetica» di un programma per la creazione di avatar. Il suo volto aveva davvero l’aspetto di una persona reale, come se fosse stato scansionato e poi adattato al suo avatar. Grandi occhi color nocciola, zigomi tondi, mento a punta e un sorrisetto ironico. Era insopportabilmente affascinante. Il corpo di Art3mis era altrettanto fuori dal comune. Su OASIS, di solito si incappava soltanto in un paio di modelli del corpo femminile: il fisico da super modella, incredibilmente esile ma estremamente in voga, o quello tettuto, vitino di vespa da stellina del porno, che su OASIS appariva ancora meno naturale di quanto non sembrasse nella realtà. Ma Art3mis era bassa e rubensiana. Tutta curve. Ero consapevole che la mia cotta per Art3mis fosse stupida e sconsiderata. Cosa sapevo, in fondo, di lei? Non aveva certo mai rivelato la sua vera identità. O la sua età, o il luogo in cui viveva nel mondo reale. Non c’era modo di capire quale fosse il suo vero aspetto. Poteva essere una quindicenne come una cinquantenne. C’erano Gunter che si chiedevano se fosse davvero una ragazza, ma io non ero uno di loro. Probabilmente perché non sopportavo l’idea che una ragazza di cui ero virtualmente innamorato fosse in realtà un signore di mezza età con i peli sulla schiena e la calvizie incipiente, di nome Chuck. Quando avevo iniziato a leggerlo, Arty’s Missives stava diventando uno dei blog più famosi di internet, con diversi milioni di visite al giorno. E Art3mis, ormai, era quasi una celebrità, se non altro nei circoli di Gunter. Ma la fama non le aveva dato alla testa. Il suo stile continuava a essere divertente e autoironico. Il suo ultimo post, Il blues di John Hughes, era un dettagliato approfondimento in cui Art3mis discettava dei suoi sei teen movie di John Hughes preferiti. Li aveva divisi in due trilogie: la trilogia delle «Fantasie della liceale sfigata» (Un compleanno da ricordare, Bella in rosa, Un meraviglioso batticuore) e la trilogia delle «Fantasie del liceale sfigato» (The Breakfast Club, La donna esplosiva, Una pazza giornata di vacanza). Avevo appena finito di leggerlo quando sul mio display comparve una finestra di messaggio istantaneo. Era Aech, il mio migliore amico (bene, d’accordo, se proprio volete fare i pignoli era il mio unico amico, se non si conta la signora Gilmore). Aech: Ben svegliato, amigo Parzival: Hola, compadre. Aech: Che fai? Parzival: Setaccio la rete. Tu? Aech: Ho messo online la Cantina. Vieni a trovarmi lì prima di lezione, coglione. Parzival: Ottimo! Un secondo e sono lì. Richiusi la finestra dei messaggi istantanei e controllai l’orologio. Avevo ancora una mezz’ora buona prima della lezione. Sorrisi e premetti la piccola icona a forma di porta in un angolo del display, poi selezionai, tra i preferiti, la chatroom di Aech.
  • 25. 0003 Dopo aver verificato che fossi incluso nella lista della chat, il sistema mi consentì l’accesso. L’aula si ridusse a una finestra in miniatura, in basso a destra sul mio display, perché potessi sempre controllare ciò che succedeva di fronte al mio avatar. Il resto del mio campo visivo era occupato dall’interno della chatroom di Aech. Il mio avatar si materializzò all’«ingresso», una porta in cima a una scala ricoperta di moquette. La porta non conduceva ad altre stanze. Non si apriva nemmeno. Questo perché la Cantina, con i suoi contenuti, non era parte di OASIS. Le chatroom erano simulazioni a se stanti – spazi virtuali temporanei cui gli avatar potevano accedere da qualunque luogo di OASIS. Il mio avatar non era nella chatroom. Sembrava che lo fosse. Wade3/Parzival era ancora seduto a occhi chiusi nell’aula dove si sarebbe tenuta la lezione di Storia mondiale. Connettersi a una chatroom era come trovarsi in due luoghi nello stesso momento. Aech aveva battezzato la sua chatroom la Cantina. L’aveva programmata perché somigliasse a una tavernetta borghese dei tardi anni ottanta. Ovunque, sulle pareti in legno, erano appesi vecchi poster di film e fumetti. Al centro della stanza, un vecchio televisore RCA al quale erano collegati un videoregistratore Betamax, un registratore laserdisc e diverse console d’annata. Sugli scaffali della parete di fondo erano impilati giornaletti di giochi di ruolo e numeri arretrati di Dragon. La gestione di una chatroom non era esattamente una cosa a buon mercato, ma Aech poteva permetterselo. Aveva raccolto un bel gruzzolo prendendo parte, dopo la scuola e nei fine settimana, ai combattimenti nelle arene player–versus-player che venivano trasmessi in tv. Su OASIS, Aech era uno dei combattenti più quotati, sia nei campionati di Deathmatch che in quelli di Capture the Flag. Era addirittura più famoso di Art3mis. Nel corso degli ultimi anni, la Cantina era diventata un luogo di ritrovo altamente esclusivo per i Gunter d’élite. Aech concedeva l’accesso soltanto alle persone che riteneva meritevoli: essere invitati nella Cantina era un grande onore, tanto più per uno come me, un signor nessuno di terzo livello. Scendendo i gradini, vidi una ventina di Gunter che si aggiravano per la stanza, gli avatar completamente diversi l’uno dall’altro. C’erano umani, cyborg, demoni, elfi oscuri, vulcaniani, vampiri. Erano quasi tutti accalcati attorno alla pila di vecchi giochi arcade appoggiata alla parete. Alcuni erano in piedi accanto all’antiquatissimo stereo (che al momento stava passando, a tutto volume, Wild Boys dei Duran Duran) e sbirciavano tra la collezione di musicassette di Aech. Aech era stravaccato su uno dei tre divani della chatroom, disposti a ferro di cavallo intorno alla tv. L’avatar di Aech era un uomo bianco, alto, con le spalle larghe, i capelli e gli occhi scuri. Una volta gli chiesi se, nella realtà, somigliasse un po’ al suo avatar e lui, scherzosamente, mi rispose «Sì. Ma nella vita reale sono ancora più bello.» Mentre mi avvicinavo, alzò lo sguardo dal gioco a cui stava giocando sull’Intellivision e il volto gli si aprì nel suo tipico ghigno da Stregatto, da un orecchio all’altro. «Z!» gridò. «Come butta, amigo?» Allungò la mano destra per darmi il cinque, mentre io mi lasciavo cadere sul divano, accanto a lui. Aech aveva iniziato a chiamarmi «Z» poco dopo che ci eravamo conosciuti. Si divertiva a soprannominare la gente con una singola lettera. Il nome del suo avatar, per esempio, lo pronunciava come la lettera H. «Come butta, Humperdinck?» gli chiesi. Era un gioco che facevo con lui. Lo chiamavo sempre con svariati nomi che iniziavano per H: Harry, Hubert, Henry, Hogan. Stavo cercando di indovinare il suo vero nome che, a quanto mi aveva confessato una volta,
  • 26. iniziava davvero con la lettera H. Conoscevo Aech da poco più di tre anni. Anche lui studiava su Ludus, frequentava l’ultimo anno della SPO n. 1172, che si trovava dalla parte opposta del pianeta rispetto alla mia scuola. Ci eravamo incontrati su una chatroom pubblica di Gunter durante un fine settimana e ci eravamo trovati subito, perché avevamo esattamente gli stessi interessi. Che, in realtà, era un interesse: un’ossessione smodata, divorante, per Halliday e per il suo Easter Egg. Non parlavamo che da pochi minuti, e sapevo già che Aech era un fuoriclasse, un Gunter d’élite, una cazzutissima cintura nera della conoscenza. Conosceva alla perfezione tutto quello che c’era da sapere sugli anni ottanta, non solo le informazioni canoniche. Era un vero erudito di Halliday. E sembrava aver ritrovato queste stesse qualità in me, perché mi aveva dato la sua contact card e mi aveva invitato a unirmi alla Cantina quando volevo. Da allora era il mio migliore amico. Nel corso degli anni, tra noi aveva preso piede una certa amichevole rivalità. Dicevamo un sacco di stupidaggini su chi di noi due sarebbe comparso sul Segnapunti. Cercavamo sempre di spiazzarci con la nostra erudizione da Gunter su argomenti semisconosciuti. Di tanto in tanto procedevamo fianco a fianco nella nostra ricerca. Il che generalmente consisteva nel guardare insieme, all’interno della chatroom, film scadenti e serie tv degli anni ottanta. Naturalmente giocavamo anche ai videogiochi. Io ed Aech perdevamo ore e ore davanti a classici a due giocatori come Contra, Golden Axe, Heavy Barrel, Smash tv e Ikari Warriors. Aech era, dopo il sottoscritto, il miglior giocatore che avessi mai incontrato. Eravamo allo stesso livello in quasi tutti i giochi, ma lui riusciva a battermi in alcuni, specialmente quando si trattava di sparatutto in prima persona. In fondo, era il suo campo di competenza. Non sapevo nulla della vita reale di Aech, ma la mia impressione era che la sua routine domestica non fosse un granché. Sembrava che, come me, trascorresse ogni momento di veglia su OASIS. E, anche se non ci eravamo mai incontrati, più di una volta mi aveva detto che ero il suo migliore amico, dal che deducevo che probabilmente era emarginato quanto me. «Cosa hai fatto dopo che te la sei squagliata, ieri sera?» mi chiese, lanciandomi l’altro controller dell’Intellivision. La sera precedente avevamo passato qualche ora nella sua chatroom, guardando vecchi film giapponesi di mostri. «Nada» risposi. «Me ne sono andato a casa e ho dato una ripassata a un paio di giochi a gettone.» «Inutile.» «Sì. Ma ne avevo voglia.» Non gli domandai cosa avesse fatto lui, né lui rivelò dettagli di sua spontanea volontà. Probabilmente era andato su Gygax, o in qualche posto altrettanto pazzesco, a finire velocemente qualche missione e a racimolare Punti Esperienza. Solo che non voleva farmelo pesare. Aech poteva permettersi di passare un po’ di tempo sugli altri mondi, seguendo tracce e andando in cerca della Chiave di Rame. Ma non mi sfotteva perché non avevo abbastanza soldi per alcun tipo di teletrasporto e non metteva mai il dito nella piaga. Né osava mai offendermi prestandomi qualche credito. Era una regola non scritta tra i Gunter: se eri un solitario, significava che non volevi o non avevi bisogno dell’aiuto di nessuno. I Gunter che cercavano aiuto si univano a un clan. Sia io che Aech convenivamo che i clan fossero adatti ai leccaculo e a chi se la tirava. Entrambi ci eravamo ripromessi che saremmo rimasti Gunter solitari a vita. Di tanto in tanto ci mettevamo a
  • 27. parlare dell’Egg, ma si trattava sempre di conversazioni prudenti, e ci guardavamo bene dall’entrare nello specifico. Sconfissi Aech tre volte a Tron: Deadly Discs, e allora lui buttò il controller e raccolse da terra una rivista. Era un vecchio numero di Starlog. Riconobbi subito Rutger Hauer sulla copertina, in una foto promozionale di Ladyhawke. «Starlog, eh?» dissi, in segno di approvazione. «Esatto. Ho scaricato tutti i numeri dall’archivio dell’Incubatrice. Li sto ancora passando in rassegna. Ho appena letto un pezzo grandioso sul Ritorno degli Ewok.» «Film per la tv uscito nel 1985» iniziai a declamare. Ero specializzato nelle curiosità su Guerre Stellari. «Orrendo. Uno dei punti più bassi della storia della saga.» «Questo lo dici tu, stronzetto spocchioso. Ha dei bei momenti.» «No» dissi, scuotendo la testa. «Non è vero. È addirittura peggio di quel primo film, L’avventura degli Ewok. Avrebbero dovuto intitolarlo La sventura degli Ewok.» Aech alzò gli occhi al cielo e si rimise a leggere. Non ci sarebbe cascato. Diedi un’occhiata alla copertina. «Ehi, posso sfogliarlo un attimo quando hai finito?» Sorrise. «Perché? Vuoi forse leggere l’articolo su Ladyhawke?» «Può darsi.» «Ti piace proprio quella merda, eh amico?» «Succhiamelo, Aech.» «Quante volte hai visto quell’inutile stronzata? Di certo so che mi hai obbligato a vederlo almeno un paio di volte.» Adesso era lui che mi stava punzecchiando. Sapeva che Ladyhawke era uno dei miei vizi segreti, e sapeva che l’avevo visto più di una ventina di volte. «Ti ho fatto un favore, pivello» gli risposi. Infilai un’altra cartuccia nella console Intellivision e cominciai da solo una partita di Astrosmash. «Un giorno verrai a ringraziarmi. Aspetta e vedrai. Ladyhawke è puro canone.» «Canonico» era l’aggettivo con cui classificavamo tutti i film, i libri, i giochi, le canzoni e le serie tv di cui Halliday era stato fan. «È chiaro che stai scherzando» disse Aech. «No, non sto scherzando. E non chiamarmi Shirley.» 9 Spostò la rivista e mi si fece più vicino. «È escluso che Halliday fosse un fan di Ladyhawke. Te lo garantisco.» «Dove hai le prove, piccolo idiota?» gli chiesi. «Lui aveva gusto. Ecco l’unica prova di cui ho bisogno.» «Allora ti piacerebbe spiegarmi perché aveva due copie di Ladyhawke, una su vhs e una su laserdisc?» Tra le appendici dell’Almanacco di Anorak era inclusa anche una lista di tutti i film che Halliday possedeva al momento della sua morte. 9 Citazione da L’aereo più pazzo del mondo. Lo scambio di battute («Can you fly this plane and land it?» «Surely you can’t be serious» «I am serious. And don’t call me Shirley»), che si basava sull’assonanza surely-Shirley, non è stato mantenuto nel doppiaggio italiano («Lei è in grado di fare atterrare quest’aereo?» «Non sono in grado mi hanno tolto i gradi» «Glieli restituisco io. Lei è il nuovo capitano»). Per i puristi, abbiamo qui mantenuto la versione originale della battuta. [N.d.T.]
  • 28. «Era un miliardario! Aveva migliaia e migliaia di film, ma ne avrà guardata una minima parte! Possedeva anche i dvd di Krull e Howard… e il destino del mondo. Non vuol dire che gli piacessero, coglioncello. E, sicuro come la morte, il fatto che siano in lista non li rende canonici.» «Non c’è nemmeno da discuterne, Homer» gli dissi. «Ladyhawke è un classico degli anni ottanta.» «È penoso, cazzo, ecco cos’è! Le spade sembrano fatte di stagnola. E la colonna sonora è epicamente penosa. È piena di sintetizzatori e tutta quella merda lì. Per tutti i cazzo di Alan Parsons Project! È penoserrima! Va oltre il penoso. È penosa ai livelli da Highlander II.» «Ehi!» piagnucolai, scagliandogli addosso il controller. «Ora lo dici solo per insultarmi! Fosse anche solo per il cast, Ladyhawke è canonico! Roy Batty! Ferris Bueller! E quel tizio che faceva il professor Falken in Wargames.» Cercai di ricordarmi il nome dell’attore. «John Wood! Lo vediamo ricongiungersi con Matthew Broderick!» «Il picco più basso delle loro carriere» disse ridendo. Gli piaceva litigare sui vecchi film quasi più di quanto piaceva a me. Gli altri Gunter della chatroom si stavano raccogliendo intorno a noi per ascoltarci. Le nostre discussioni erano spesso fonte di intrattenimento. «Secondo me tu ti droghi» gli urlai. «Il regista di Lady Hawke è Richard Donner cazzo! I Goonies? Superman? Mi stai forse dicendo che uno come lui è penoso?» «Non me ne fotterebbe neanche se l’avesse diretto Spielberg. È un filmetto rosa travestito dasword & sorcery. L’unico film di genere ad avere ancora meno palle è probabilmente… quel cazzo di Legend. Chiunque apprezzi Ladyhawke è una fighetta macrobiotica!» Risate da parte della claque. Adesso mi stavo realmente incazzando. Ero un grande fan di Legend, ed Aech lo sapeva. «Bene, sono una fighetta? Tu allora sei il feticista degli Ewok!» gli strappai Starlog dalle mani e lo scagliai contro il muro, su un poster del Ritorno dello Jedi. «Immagino tu creda che la tua cultura in campo Ewok ti aiuterà nella ricerca dell’Egg.» «Non ricominciare il discorso sugli Endoriani, amico» disse, ammonendo con l’indice. «Ti ho avvertito. Ti banno. Giuro.» Sapevo che non si trattava di una minaccia seria, e stavo per spingere ulteriormente sulla questione Ewok: forse gli avrei rinfacciato il fatto che li chiamasse «Endoriani». Ma in quel momento un nuovo arrivo si materializzò sulla scala. Era un lamer chiamato I–r0k. Emisi un gemito. Aech e I–r0k frequentavano la stessa scuola e seguivano insieme certe lezioni, ma ancora mi domandavo perché Aech gli avesse aperto l’accesso alla Cantina. I–r0k si credeva un Gunter d’élite, ma in verità era soltanto un vanitoso arrogante. Ovvio, si teletrasportava in giro per OASIS, portava a compimento svariate missioni e continuava a far salire di livello il suo avatar, ma non sapeva proprio niente. E portava sempre con sé un esagerato fucile al plasma, grande quanto una motoslitta. Anche nelle chatroom, dove era assolutamente inutile. Non aveva il minimo senso di dignità. «Non starete ancora discutendo di Guerre Stellari, voi due coglioni?» disse scendendo i gradini e raggiungendo la folla che si era raccolta attorno a noi. «Quella merda è finita, yo.» Mi voltai verso Aech. «Se proprio vuoi bannare qualcuno, perché non inizi con questo buffone?» Premetti reset sull’Intellivision e cominciai una nuova partita. «Chiudi quel buco di culo, Perci–fallo!» replicò I–r0k, usando la sua storpiatura preferita