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Periferie e immaginari narrativi
Consuetudine e fruizione delle narrazioni nei contesti periferici:
le storie tra dispersione urbana e dispersione umana

tracciadell'intervento
di Anselmo Roveda
[anselmoroveda.com]
Digital Readers 4
Rozzano, 17 ottobre 2013
______________________________________
Buongiorno, mi pare doveroso iniziare facendo
coming out: tifo carta, tifo libri.
Nonostante questo, e forse è una delle ragioni di
questo invito, mi sono trovato nel corso degli
ultimi tempi a difendere in alcuni “templi della
carta” - fiere del libro e convegni di letteratura - le
possibilità offerte dal digitale in relazione alla
narrazione, sottolineandone l’importanza nella
costruzione dell'immaginario contemporaneo.
L'ho fatto e lo continuo a fare perché non amo i
feticci, amo piuttosto le buone storie, ben vengano
quindi modalità di fruizione differenti della
narrazione. L'ho fatto in antipatia a chi sacralizza
il volume cartaceo dimenticandosi che il libro -
che pure, ripeto, tifo (ma forse non conta visto che
tifo anche Genoa, ultimo scudetto nel 1924) - è
solo una forma storica, un contenitore, della
narrazione. Prima del XV secolo le buone storie
camminavano nel mondo già da parecchio, se è
vero che ancora oggi ci facciamo rapire dalle
avventure di Ulisse e che quello stesso signor
Gutenberg si mise a stampare la Bibbia.
Sono qui però con la curiosità e con il bisogno di
comprensione, i molteplici bisogni, dell'educatore
“in congedo”, dell'intellettuale che si occupa in
modo militante di letteratura e cultura
dell'infanzia, dello scrittore che si interroga sul
narrare oggi chiedendomi “come e per chi?”
Sono qui per condividere alcune riflessioni via via
portate avanti in questi anni, prima, durante la
pratica educativa e, dopo, dalle colonne dei
periodici ai quali collaboro; tentando di
organizzarle insieme a voi in relazione al contesto
più ampio dell'attualità sociale e dell'immaginario
contemporaneo dell'età evolutiva. Ma soprattutto
sono venuto qui per ascoltare con la speranza di
capire meglio e magari di tornare a casa avendo
destrutturato - o meglio strutturato - alcune
ipotesi intorno ai temi che dibattiamo. Ipotesi non
tutte particolarmente rassicuranti.
Come caporedattore di “Andersen” [andersen.it],
l'unico periodico europeo insieme al tedesco
“Eselsohr” a occuparsi di libri per ragazzi con
cadenza mensile, vedo - non diversamente da
molti di voi, ciascuno dalla propria postazione
(bibliotecari, librai, promotori della lettura) - la
maggior parte della produzione editoriale italiana
di libri per ragazzi: grossomodo 2000 novità
all'anno. Tra queste scelgo insieme alla redazione i
titoli da evidenziare ai lettori. Si tratta per lo più,
giocoforza, di una selezione a positivo. Con un
migliaio di titoli presi in esame, metà dei quali con
recensioni approfondite. Una metà ne resta fuori.
Sovente restano esclusi dall'analisi delle nostre
colonne i prodotti mass market, le serie più pop, i
volumi di varissima tipologia che più di altri
hanno attinenza con personaggi che con agio
sguazzano nella dimensione cross mediale, se non
nel consumo multiplo orientato ad un unico
brand. Già perché alcuni personaggi sono o si
prestano ad essere usati come brand con
penetrazioni significative in settori merceologici
anche molto distanti tra loro. Dai libri alle
patatine. Digitale compreso. Il denominatore sta
nel bambino consumatore o orientatore dei
consumi familiari. Ascoltavo qualche giorno fa, in
un bar poco distante dal Buzzi, l'OBM (l’ospedale
pediatrico milanese), la conversazione tra il
proprietario dell'esercizio e il rappresentante di
dolciumi e snack: stavano benedicendo Peppa Pig
che manda esaurite le scorte dei prodotti dove è
effigiata. Una benedizione alla quale penso si
possano unire senza difficoltà anche gli esercenti
di cartolibrerie. E più di un libraio, almeno in
camera caritatis.
Dando uno sguardo alle classifiche di oggi, non
solo delle vendite ma anche dei prestiti (si vedano
i recenti dati Liber e i top raking dei principali siti
di e-commerce librario), si può notare senza
difficoltà la tendenza. Del resto, in modo non
diverso da altri settori del mercato editoriale
ovvero le classifiche di letteratura e di varia sempre
più legate alle fortune televisive degli autori o dei
personaggi. Un fenomeno non nuovo, ma forse
non tenuto in conto fino in fondo da chi si occupa
di promozione della lettura e del libro di qualità, e
parlo da parte in causa. Si rischia talvolta di avere
uno strabismo, a positivo certo, ma pur sempre
uno strabismo. Si è portati insomma a vedere
quanto di buono produce il panorama dell'offerta
culturale per l'infanzia e quante buone pratiche
connesse a queste narrazioni nascono e si
alimentano.
Su tutto il resto invece cade un velo che ha nuances
che vanno dalla censura al pregiudizio,
dall'indifferenza all'ignoranza. Ma "tutto il resto" -
volenti o nolenti - incide sull'immaginario
infantile e quindi sui futuri immaginari
generazionali (esattamente come la mia
generazione è quella di Goldrake e Heidi, pure
quest’ultima in salsa wasabi) ben più dei buoni
libri. Non c'è giudizio in questa affermazione.
Resta il fatto che noi che ci beiamo delle qualità di
scrittura - prendo tre nomi che ritengo
indiscutibili: Quarenghi, Tognolini e Nanetti -
dovremmo però sempre ricordarci che l'autore più
letto dai bambini italiani nel 2013 sarà - non uno
dei tre sopra menzionati – ma Silvia D'Achille con
i suoi testi per i libri italiani di Peppa Pig; la quale,
a torto o a ragione, qui non importa ancora, ben
difficilmente vedrà sprecarsi una riga sulla sua
scrittura da parte delle riviste o dei blog
specializzati.
Un fenomeno, il prevalere nell'immaginario di
prodotti di mass market, non nuovo, dicevo, ma
che rischia per il domani di non avere alternative.
Così come non è nuovo il fenomeno della
migrazione dei personaggi tra i vari media. Due
dei primi articoli che scrissi per Andersen, correva
l'anno 2000, erano dedicati proprio ai personaggi
in transito da un medium ad un altro e alla
componente narrativa nei videogiochi: In principio
fu Lara Croft. Personaggi e crossover nei media (n.
157, marzo 2000) e Piccoli mostri evolvono: il
fenomeno Pokémon (n. 160, giugno 2000). Temi sui
quali sono tornato più volte, anche recentemente
dalle pagine di “Scuola e Didattica” e de “L'école
valdôtaine”. Un interesse che nasceva proprio dal
lavoro educativo con minori in condizione di forte
svantaggio sociale e culturale.
Per dieci anni, infatti, ho lavorato come educatore
nei servizi di prevenzione del disagio giovanile,
prevalentemente in centri di prevenzione
secondaria o già trattanti. Per me che stavo
affacciandomi anche al mondo della letteratura per
l'infanzia è stato un opportuno banco di raffronto
e bagno di realtà; mi ha costretto a pensare e
proporre percorsi di promozione del libro e della
lettura a bambini e famiglie che non solo non
avevano consuetudine con i libri, ma che nella
stragrande maggioranza non attribuivano loro
nessun valore o li stigmatizzavano includendoli
nella sfera dell’inutile o del noioso. Si trattava di
famiglie e bambini che però, pur a fronte di gravi
ristrettezze economiche, non si facevano mancare
l'ultima console videoludica. E da lì, dai Pokemon
ad esempio, siamo partiti: dal potere delle storie,
della narrazione, anche quando si trova dentro ai
videogames. Non sai nulla del drago e di san
Giorgio? Non ti verrebbe mai da leggere della
fatica di diventare draghi in Carlo alla scuola per
draghi di Alex Cousseau? Perfetto, partiamo allora
dal fatto che sai bene chi è Charizard e che si
evolve dal ben più mansueto Charmander,
rispettivamente i Pokemon 6 e 4 di quell'universo
narrativo che festeggia i diciotto anni e che è noto
ai bambini di larga parte del pianeta e soprattutto
di tutte le classi sociali.
Ancora oggi quando mi trovo a ragionare con i
ragazzi delle scuole - pure con i più grandicelli o
con quelli potenzialmente più colti come i liceali -
sulle caratteristiche e sulla costruzione dei
personaggi in sede di laboratorio di scrittura o di
analisi dei testi li faccio riflettere a partire da Ezio
Auditore (il protagonista della saga video ludica di
Assassin’s Creed) prima di portarli a Martin Eden.
Ma dove voglio portarvi?
Vorrei portarvi al limite del dominio degli
interessi di chi si occupa tradizionalmente di libri,
vorrei andare con voi in periferia e ragionare sulle
opportunità - e i rischi - che questa offre
nell’accostare oggi narrazione. Vorrei vedere se si
possono conquistare lettori attraverso le nuove
tecnologie, senza scorciatoie, senza fare mass
market.
Vorrei portarvi dove «Il cielo sopra il porto aveva
il colore della televisione sintonizzata su un canale
morto».
Ricordate? È l’inizio di Neuromante il romanzo di
William Gibson che nel 1984 sembrava visionario
fino all’inverosimile – internet inizierà a entrare
nelle nostre case più di dieci anni dopo - ma che
oggi, in relazione ai processi di presenza
individuale nelle reti, diventa una narrazione
d’anticipazione fin troppo puntuale. Non parlo,
ovvio, dei flussi e delle smaterializzazioni in
ambienti virtuali ma concretissimi, anche se pure
questi annoverano per il prossimo futuro tentativi
di replicazione. Parlo piuttosto dell’ambiente del
romanzo e della tensione che muove Case, il
personaggio principale.
La vicenda di Case si muove tra uno sprawl - una
periferia diffusa che abbraccia pressoché l’intera
costa orientale degli Stati Uniti - e il bisogno di
riconnettersi al cyberspazio: quella che lui stesso
definisce “l’allucinazione consensuale”.
Sprawl o città diffusa o dispersione urbana, è un
elemento non solo della narrativa visionaria di
Gibson, è anche una delle condizioni reali che
stiamo vivendo in relazione all’utilizzo degli spazi.
Gli architetti e i sociologi che hanno studiato il
fenomeno sottolineano che uno dei caratteri che
emergono per primi è, con parole di Fabrizio
Bottini [mall.lampnet.org], che «questa città
diffusa non è affatto una città, ma solo un
amalgama di edifici, privo di identità riconoscibile,
e in cui infatti nessuno si riconosce. Sparisce
progressivamente lo spazio pubblico (della piazza,
della strada pedonale, della città percorsa e
utilizzata in ogni sua parte da tutti i cittadini),
sostituito da ambiti specializzati, quasi sempre di
natura privata o privatistica: la casa, l’ufficio,
l’ospedale, il centro commerciale, lo stadio. A
unire questi spazi specializzati e in comunicanti,
solo la rete dei trasporti, che nell’insediamento
diffuso è dominata dall’auto, e da strade di
scorrimento veloce che attraversano
indifferentemente i territori». Anche qui
marginalizzando la dimensione di pubblico a
favore del privato. Non è solo la cultura della
villetta a schiera è anche quella degli insediamenti
di edilizia popolare a bassa volumetria e delle aree
commerciali identiche nelle insegne, negli
assortimenti e nelle disposizioni ai margini de – o
meglio, nei tratti di collegamento tra – i centri
abitativi tradizionali sempre più svuotati delle loro
funzioni.
L’altro elemento chiave è l’allucinazione
consensuale rappresentata dalla rete. Sempre più,
dalle diverse posizioni culturali e varie opzioni
politiche, da ogni professione e fin dalla più tenera
età, ci affidiamo alla rete, a internet e a i servizi – e
alle narrazioni! – offerte sui social network e sugli
strumenti digitali. Ci affidiamo in forma
consensuale – volendo, fortemente volendo - ma
troppo spesso (e parlo degli adulti, della stragrande
maggioranza degli adulti, anche quelli colti
dell’editoria) senza una reale conoscenza, pure
tecnica, di ciò di cui stiamo parlando. Ancora
confusi, tra il rifiuto dei molti e l’entusiasmo dei
pochi (o forse viceversa), e la messa in critica dei
rarissimi.
Non vi starò a tediare con cifre e dati che
conoscete; basterà riguardare quanto emerso nella
ricerca “Infanzia e vita quotidiana” (ed. 2011) e
incrociarlo con i dati di lettura e con quelli di
mercato editoriale puntualmente offerti da vari e
autorevoli osservatori (ancora Istat e poi Nielsen
per AIE, ad esempio) per rendersi conto di come
le forme tradizionali di fruizione della narrazione,
libri in primis, siano in crisi a favore di una buona
vitalità delle fruizioni videoludiche (sebbene non
tutto il videoludico sia immediatamente
narrativo).
Il rischio, sono di ritorno dalla Buchmesse di
Francoforte, è che questa crisi della narrazioni su
libro non favorisca, anzi intralci, lo sviluppo di
contenuti digital. In Fiera, nel fischio di vento del
vuoto di molti corridoi, era del tutto evidente
come l’editoria e i suoi professionisti, troppo presi
dalla crisi del presente, preferiscano dare battute
d’arresto allo sviluppo di contenuti e narrazioni
digitali. Se in altri recenti anni c’era fermento, non
sempre giustificato dalla resa e dalla qualità
espressa dai prodotti presentati, quest’anno era
chiara, anche nei discorsi dei grandi gruppi,
l’intenzione di aspettare, di non “sprecare risorse”;
forse una dichiarazione implicita del non saper
ancora cosa fare, talvolta giustificata dietro ad un
problema serio e reale: la non sostenibilità
economica di produzioni ad alto costo e basso
ricavo unitario che si portano però dietro i costi di
strutture pesanti quali quelle dell’editoria
tradizionale, costi fatti di competenze sovente non
più spendibili.
E il rischio, un rischio, sta allora proprio
nell’intreccio tra accettazione acritica dell’utilizzo
di spazi assimilabili all’idea di diffusione urbana e
dell’adesione consensuale all’allucinazione. Rischio
non corso, se non indirettamente, da parte dei
nativi digitali ma da parte degli adulti decisori. Gli
amici di Ippolita [ippolita.net], con le loro ricerche
(Open non è free, Luci e ombre di Google,
Nell’acquario di Facebook e il prossimo lavoro su riti
e nuove tecnologie) e i loro programmi di
formazione sull’autodifesa digitale, evidenziano
con forza l’idea che i “minori” su questi territori
sono proprio gli adulti. E l’esigenza è quella di una
nuova critica. Da applicare senza sconti, senza il
timore di apparire antitecnologici. Da applicare
pure alla Scuola 2.0 se promuove un uso
omologante e “proprietario” di hardware e
software. Il rischio – che è quello che fa incontrare
a Francoforte, fiera della letteratura oltre che del
libro, sul lato digital più proposte educational che
narrative – sta nel rendere ancora più eclatante il
fenomeno della periferia diffusa come grande
territorio dei consumi culturali ammansiti
dall’allucinazione consensuale: in un continuum
verso il basso, il mass market, che investe proprio
la fascia più povera e meno dotata di strumenti
culturali (via via più larga in questo momento
disgraziato) lasciando i bei libri, le buone storie, le
belle pratiche ai figli dei più fortunati. Rimettendo
ancora una volta il libro in una inutile e pericolosa
posizione elitaria, spesso pure inconsapevole;
consegnandolo di fatto alla morte. Ma, si diceva in
ogni modo, i libri sono contenitori di narrazioni e
il digitale deve farsene interprete; il rischio, lo
ripeto, è quello della caduta nel brand, anche
quando narrativo, nell’appiattimento delle
esperienze possibili. Badate: non sono pessimista e
non sono antitecnologico, anzi. Sono però conscio
della distanza sempre più grande tra produttori del
racconto, i narratori e la loro filiera, e i
fruitori/lettori. Una dinamica che se già presente
nell’editoria tradizionale non mi pare si plachi,
anzi, nell’ambito delle produzioni digitali.
Trovo imprescindibile pertanto raccogliere la sfida
che già voi avete raccolto con Digital Readers e
cioè creare occasioni di confronto e critica, di
diffusione di modelli alternativi e positivi, dal
basso, di fruizione culturale. Ragioni che mi
hanno portato, ci hanno portato, a volere dal
numero di Andersen di novembre uno spazio di
recensione critica e approfondita di narrazioni su
supporti digitali, proprio come già avviene, dal
1982, per i libri.
Un’occasione per conoscere realtà indipendenti,
buone pratiche per l’oggi anche senza carta, e
soprattutto per riflettere sulla competenze e sulle
responsabilità del mondo del libro: scrittori,
illustratori, editori, critici, promotori. Manca
forse, o si sta palesando solo ora con autori come il
francese David Cage di Quantic Dream o lo
svedese-libanese Josef Fares, una generazione di
narratori capaci di interpretare il medium – il
videogioco, ad esempio - come opportunità
narrativa. Siamo pertanto testimoni, ancora
confusi, di un cambio di paradigma che per non
schiacciarci sull’appiattimento omologante, più di
quanto non stiano già facendo i contenuti mass
market su carta, esige sforzo critico e militante.
Solo così potremmo inventare percorsi capaci di
proiettare i bambini, anche quelli delle periferie
più profonde, quelli dei centri di prevenzione del
disagio, verso quella piena godibilità delle
narrazioni che ci fa amare i libri di carta e che
possiamo trasporre senza difficoltà all’esperienza
digitale.
L'incontro con le narrazioni consente di ampliare
l'esperienza e la conoscenza del mondo, favorisce
la crescita personale e interiore, facilita
l'apprendimento della lingua, intrattiene
piacevolmente, favorisce lo sviluppo emotivo,
insegna regole, sviluppa immaginazione, sfida le
nostre convinzioni e ci cambia in profondità,
consente di entrare in contatto empatico con altre
esperienze umane senza patirne le conseguenze,
consente di sperimentare le più diverse soluzioni ai
problemi della vita per verificarne gli esiti prima di
affrontarli nella realtà. Tutto vero (lo andiamo
ripetendo in molti e da molto, da Rodari a
Chambers). Ammesso però che sui monitor, così
come sulle pagine, ci siano storie e non brand.
Non vorrei insomma che al risveglio da questa
sbornia digitale ci si ritrovasse tutti più invischiati
in uno sprawl allucinante e consensuale, in una
dispersione ormai più umana che urbana. 

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  • 1. Periferie e immaginari narrativi Consuetudine e fruizione delle narrazioni nei contesti periferici: le storie tra dispersione urbana e dispersione umana  tracciadell'intervento di Anselmo Roveda [anselmoroveda.com] Digital Readers 4 Rozzano, 17 ottobre 2013 ______________________________________ Buongiorno, mi pare doveroso iniziare facendo coming out: tifo carta, tifo libri. Nonostante questo, e forse è una delle ragioni di questo invito, mi sono trovato nel corso degli ultimi tempi a difendere in alcuni “templi della carta” - fiere del libro e convegni di letteratura - le possibilità offerte dal digitale in relazione alla narrazione, sottolineandone l’importanza nella costruzione dell'immaginario contemporaneo. L'ho fatto e lo continuo a fare perché non amo i feticci, amo piuttosto le buone storie, ben vengano quindi modalità di fruizione differenti della narrazione. L'ho fatto in antipatia a chi sacralizza il volume cartaceo dimenticandosi che il libro - che pure, ripeto, tifo (ma forse non conta visto che tifo anche Genoa, ultimo scudetto nel 1924) - è solo una forma storica, un contenitore, della narrazione. Prima del XV secolo le buone storie camminavano nel mondo già da parecchio, se è vero che ancora oggi ci facciamo rapire dalle avventure di Ulisse e che quello stesso signor Gutenberg si mise a stampare la Bibbia. Sono qui però con la curiosità e con il bisogno di comprensione, i molteplici bisogni, dell'educatore “in congedo”, dell'intellettuale che si occupa in modo militante di letteratura e cultura dell'infanzia, dello scrittore che si interroga sul narrare oggi chiedendomi “come e per chi?”
  • 2. Sono qui per condividere alcune riflessioni via via portate avanti in questi anni, prima, durante la pratica educativa e, dopo, dalle colonne dei periodici ai quali collaboro; tentando di organizzarle insieme a voi in relazione al contesto più ampio dell'attualità sociale e dell'immaginario contemporaneo dell'età evolutiva. Ma soprattutto sono venuto qui per ascoltare con la speranza di capire meglio e magari di tornare a casa avendo destrutturato - o meglio strutturato - alcune ipotesi intorno ai temi che dibattiamo. Ipotesi non tutte particolarmente rassicuranti. Come caporedattore di “Andersen” [andersen.it], l'unico periodico europeo insieme al tedesco “Eselsohr” a occuparsi di libri per ragazzi con cadenza mensile, vedo - non diversamente da molti di voi, ciascuno dalla propria postazione (bibliotecari, librai, promotori della lettura) - la maggior parte della produzione editoriale italiana di libri per ragazzi: grossomodo 2000 novità all'anno. Tra queste scelgo insieme alla redazione i titoli da evidenziare ai lettori. Si tratta per lo più, giocoforza, di una selezione a positivo. Con un migliaio di titoli presi in esame, metà dei quali con recensioni approfondite. Una metà ne resta fuori. Sovente restano esclusi dall'analisi delle nostre colonne i prodotti mass market, le serie più pop, i volumi di varissima tipologia che più di altri hanno attinenza con personaggi che con agio sguazzano nella dimensione cross mediale, se non nel consumo multiplo orientato ad un unico brand. Già perché alcuni personaggi sono o si prestano ad essere usati come brand con penetrazioni significative in settori merceologici anche molto distanti tra loro. Dai libri alle patatine. Digitale compreso. Il denominatore sta nel bambino consumatore o orientatore dei consumi familiari. Ascoltavo qualche giorno fa, in un bar poco distante dal Buzzi, l'OBM (l’ospedale pediatrico milanese), la conversazione tra il proprietario dell'esercizio e il rappresentante di dolciumi e snack: stavano benedicendo Peppa Pig che manda esaurite le scorte dei prodotti dove è effigiata. Una benedizione alla quale penso si possano unire senza difficoltà anche gli esercenti di cartolibrerie. E più di un libraio, almeno in camera caritatis. Dando uno sguardo alle classifiche di oggi, non solo delle vendite ma anche dei prestiti (si vedano i recenti dati Liber e i top raking dei principali siti di e-commerce librario), si può notare senza difficoltà la tendenza. Del resto, in modo non diverso da altri settori del mercato editoriale ovvero le classifiche di letteratura e di varia sempre più legate alle fortune televisive degli autori o dei personaggi. Un fenomeno non nuovo, ma forse non tenuto in conto fino in fondo da chi si occupa di promozione della lettura e del libro di qualità, e parlo da parte in causa. Si rischia talvolta di avere uno strabismo, a positivo certo, ma pur sempre uno strabismo. Si è portati insomma a vedere quanto di buono produce il panorama dell'offerta culturale per l'infanzia e quante buone pratiche connesse a queste narrazioni nascono e si alimentano. Su tutto il resto invece cade un velo che ha nuances che vanno dalla censura al pregiudizio, dall'indifferenza all'ignoranza. Ma "tutto il resto" - volenti o nolenti - incide sull'immaginario infantile e quindi sui futuri immaginari
  • 3. generazionali (esattamente come la mia generazione è quella di Goldrake e Heidi, pure quest’ultima in salsa wasabi) ben più dei buoni libri. Non c'è giudizio in questa affermazione. Resta il fatto che noi che ci beiamo delle qualità di scrittura - prendo tre nomi che ritengo indiscutibili: Quarenghi, Tognolini e Nanetti - dovremmo però sempre ricordarci che l'autore più letto dai bambini italiani nel 2013 sarà - non uno dei tre sopra menzionati – ma Silvia D'Achille con i suoi testi per i libri italiani di Peppa Pig; la quale, a torto o a ragione, qui non importa ancora, ben difficilmente vedrà sprecarsi una riga sulla sua scrittura da parte delle riviste o dei blog specializzati. Un fenomeno, il prevalere nell'immaginario di prodotti di mass market, non nuovo, dicevo, ma che rischia per il domani di non avere alternative. Così come non è nuovo il fenomeno della migrazione dei personaggi tra i vari media. Due dei primi articoli che scrissi per Andersen, correva l'anno 2000, erano dedicati proprio ai personaggi in transito da un medium ad un altro e alla componente narrativa nei videogiochi: In principio fu Lara Croft. Personaggi e crossover nei media (n. 157, marzo 2000) e Piccoli mostri evolvono: il fenomeno Pokémon (n. 160, giugno 2000). Temi sui quali sono tornato più volte, anche recentemente dalle pagine di “Scuola e Didattica” e de “L'école valdôtaine”. Un interesse che nasceva proprio dal lavoro educativo con minori in condizione di forte svantaggio sociale e culturale. Per dieci anni, infatti, ho lavorato come educatore nei servizi di prevenzione del disagio giovanile, prevalentemente in centri di prevenzione secondaria o già trattanti. Per me che stavo affacciandomi anche al mondo della letteratura per l'infanzia è stato un opportuno banco di raffronto e bagno di realtà; mi ha costretto a pensare e proporre percorsi di promozione del libro e della lettura a bambini e famiglie che non solo non avevano consuetudine con i libri, ma che nella stragrande maggioranza non attribuivano loro nessun valore o li stigmatizzavano includendoli nella sfera dell’inutile o del noioso. Si trattava di famiglie e bambini che però, pur a fronte di gravi ristrettezze economiche, non si facevano mancare l'ultima console videoludica. E da lì, dai Pokemon ad esempio, siamo partiti: dal potere delle storie, della narrazione, anche quando si trova dentro ai videogames. Non sai nulla del drago e di san Giorgio? Non ti verrebbe mai da leggere della fatica di diventare draghi in Carlo alla scuola per draghi di Alex Cousseau? Perfetto, partiamo allora dal fatto che sai bene chi è Charizard e che si evolve dal ben più mansueto Charmander, rispettivamente i Pokemon 6 e 4 di quell'universo narrativo che festeggia i diciotto anni e che è noto ai bambini di larga parte del pianeta e soprattutto di tutte le classi sociali. Ancora oggi quando mi trovo a ragionare con i ragazzi delle scuole - pure con i più grandicelli o con quelli potenzialmente più colti come i liceali - sulle caratteristiche e sulla costruzione dei personaggi in sede di laboratorio di scrittura o di analisi dei testi li faccio riflettere a partire da Ezio Auditore (il protagonista della saga video ludica di Assassin’s Creed) prima di portarli a Martin Eden. Ma dove voglio portarvi?
  • 4. Vorrei portarvi al limite del dominio degli interessi di chi si occupa tradizionalmente di libri, vorrei andare con voi in periferia e ragionare sulle opportunità - e i rischi - che questa offre nell’accostare oggi narrazione. Vorrei vedere se si possono conquistare lettori attraverso le nuove tecnologie, senza scorciatoie, senza fare mass market. Vorrei portarvi dove «Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto». Ricordate? È l’inizio di Neuromante il romanzo di William Gibson che nel 1984 sembrava visionario fino all’inverosimile – internet inizierà a entrare nelle nostre case più di dieci anni dopo - ma che oggi, in relazione ai processi di presenza individuale nelle reti, diventa una narrazione d’anticipazione fin troppo puntuale. Non parlo, ovvio, dei flussi e delle smaterializzazioni in ambienti virtuali ma concretissimi, anche se pure questi annoverano per il prossimo futuro tentativi di replicazione. Parlo piuttosto dell’ambiente del romanzo e della tensione che muove Case, il personaggio principale. La vicenda di Case si muove tra uno sprawl - una periferia diffusa che abbraccia pressoché l’intera costa orientale degli Stati Uniti - e il bisogno di riconnettersi al cyberspazio: quella che lui stesso definisce “l’allucinazione consensuale”. Sprawl o città diffusa o dispersione urbana, è un elemento non solo della narrativa visionaria di Gibson, è anche una delle condizioni reali che stiamo vivendo in relazione all’utilizzo degli spazi. Gli architetti e i sociologi che hanno studiato il fenomeno sottolineano che uno dei caratteri che emergono per primi è, con parole di Fabrizio Bottini [mall.lampnet.org], che «questa città diffusa non è affatto una città, ma solo un amalgama di edifici, privo di identità riconoscibile, e in cui infatti nessuno si riconosce. Sparisce progressivamente lo spazio pubblico (della piazza, della strada pedonale, della città percorsa e utilizzata in ogni sua parte da tutti i cittadini), sostituito da ambiti specializzati, quasi sempre di natura privata o privatistica: la casa, l’ufficio, l’ospedale, il centro commerciale, lo stadio. A unire questi spazi specializzati e in comunicanti, solo la rete dei trasporti, che nell’insediamento diffuso è dominata dall’auto, e da strade di scorrimento veloce che attraversano indifferentemente i territori». Anche qui marginalizzando la dimensione di pubblico a favore del privato. Non è solo la cultura della villetta a schiera è anche quella degli insediamenti di edilizia popolare a bassa volumetria e delle aree commerciali identiche nelle insegne, negli assortimenti e nelle disposizioni ai margini de – o meglio, nei tratti di collegamento tra – i centri abitativi tradizionali sempre più svuotati delle loro funzioni. L’altro elemento chiave è l’allucinazione consensuale rappresentata dalla rete. Sempre più, dalle diverse posizioni culturali e varie opzioni politiche, da ogni professione e fin dalla più tenera età, ci affidiamo alla rete, a internet e a i servizi – e alle narrazioni! – offerte sui social network e sugli strumenti digitali. Ci affidiamo in forma consensuale – volendo, fortemente volendo - ma troppo spesso (e parlo degli adulti, della stragrande maggioranza degli adulti, anche quelli colti
  • 5. dell’editoria) senza una reale conoscenza, pure tecnica, di ciò di cui stiamo parlando. Ancora confusi, tra il rifiuto dei molti e l’entusiasmo dei pochi (o forse viceversa), e la messa in critica dei rarissimi. Non vi starò a tediare con cifre e dati che conoscete; basterà riguardare quanto emerso nella ricerca “Infanzia e vita quotidiana” (ed. 2011) e incrociarlo con i dati di lettura e con quelli di mercato editoriale puntualmente offerti da vari e autorevoli osservatori (ancora Istat e poi Nielsen per AIE, ad esempio) per rendersi conto di come le forme tradizionali di fruizione della narrazione, libri in primis, siano in crisi a favore di una buona vitalità delle fruizioni videoludiche (sebbene non tutto il videoludico sia immediatamente narrativo). Il rischio, sono di ritorno dalla Buchmesse di Francoforte, è che questa crisi della narrazioni su libro non favorisca, anzi intralci, lo sviluppo di contenuti digital. In Fiera, nel fischio di vento del vuoto di molti corridoi, era del tutto evidente come l’editoria e i suoi professionisti, troppo presi dalla crisi del presente, preferiscano dare battute d’arresto allo sviluppo di contenuti e narrazioni digitali. Se in altri recenti anni c’era fermento, non sempre giustificato dalla resa e dalla qualità espressa dai prodotti presentati, quest’anno era chiara, anche nei discorsi dei grandi gruppi, l’intenzione di aspettare, di non “sprecare risorse”; forse una dichiarazione implicita del non saper ancora cosa fare, talvolta giustificata dietro ad un problema serio e reale: la non sostenibilità economica di produzioni ad alto costo e basso ricavo unitario che si portano però dietro i costi di strutture pesanti quali quelle dell’editoria tradizionale, costi fatti di competenze sovente non più spendibili. E il rischio, un rischio, sta allora proprio nell’intreccio tra accettazione acritica dell’utilizzo di spazi assimilabili all’idea di diffusione urbana e dell’adesione consensuale all’allucinazione. Rischio non corso, se non indirettamente, da parte dei nativi digitali ma da parte degli adulti decisori. Gli amici di Ippolita [ippolita.net], con le loro ricerche (Open non è free, Luci e ombre di Google, Nell’acquario di Facebook e il prossimo lavoro su riti e nuove tecnologie) e i loro programmi di formazione sull’autodifesa digitale, evidenziano con forza l’idea che i “minori” su questi territori sono proprio gli adulti. E l’esigenza è quella di una nuova critica. Da applicare senza sconti, senza il timore di apparire antitecnologici. Da applicare pure alla Scuola 2.0 se promuove un uso omologante e “proprietario” di hardware e software. Il rischio – che è quello che fa incontrare a Francoforte, fiera della letteratura oltre che del libro, sul lato digital più proposte educational che narrative – sta nel rendere ancora più eclatante il fenomeno della periferia diffusa come grande territorio dei consumi culturali ammansiti dall’allucinazione consensuale: in un continuum verso il basso, il mass market, che investe proprio la fascia più povera e meno dotata di strumenti culturali (via via più larga in questo momento disgraziato) lasciando i bei libri, le buone storie, le belle pratiche ai figli dei più fortunati. Rimettendo ancora una volta il libro in una inutile e pericolosa posizione elitaria, spesso pure inconsapevole; consegnandolo di fatto alla morte. Ma, si diceva in ogni modo, i libri sono contenitori di narrazioni e il digitale deve farsene interprete; il rischio, lo
  • 6. ripeto, è quello della caduta nel brand, anche quando narrativo, nell’appiattimento delle esperienze possibili. Badate: non sono pessimista e non sono antitecnologico, anzi. Sono però conscio della distanza sempre più grande tra produttori del racconto, i narratori e la loro filiera, e i fruitori/lettori. Una dinamica che se già presente nell’editoria tradizionale non mi pare si plachi, anzi, nell’ambito delle produzioni digitali. Trovo imprescindibile pertanto raccogliere la sfida che già voi avete raccolto con Digital Readers e cioè creare occasioni di confronto e critica, di diffusione di modelli alternativi e positivi, dal basso, di fruizione culturale. Ragioni che mi hanno portato, ci hanno portato, a volere dal numero di Andersen di novembre uno spazio di recensione critica e approfondita di narrazioni su supporti digitali, proprio come già avviene, dal 1982, per i libri. Un’occasione per conoscere realtà indipendenti, buone pratiche per l’oggi anche senza carta, e soprattutto per riflettere sulla competenze e sulle responsabilità del mondo del libro: scrittori, illustratori, editori, critici, promotori. Manca forse, o si sta palesando solo ora con autori come il francese David Cage di Quantic Dream o lo svedese-libanese Josef Fares, una generazione di narratori capaci di interpretare il medium – il videogioco, ad esempio - come opportunità narrativa. Siamo pertanto testimoni, ancora confusi, di un cambio di paradigma che per non schiacciarci sull’appiattimento omologante, più di quanto non stiano già facendo i contenuti mass market su carta, esige sforzo critico e militante. Solo così potremmo inventare percorsi capaci di proiettare i bambini, anche quelli delle periferie più profonde, quelli dei centri di prevenzione del disagio, verso quella piena godibilità delle narrazioni che ci fa amare i libri di carta e che possiamo trasporre senza difficoltà all’esperienza digitale. L'incontro con le narrazioni consente di ampliare l'esperienza e la conoscenza del mondo, favorisce la crescita personale e interiore, facilita l'apprendimento della lingua, intrattiene piacevolmente, favorisce lo sviluppo emotivo, insegna regole, sviluppa immaginazione, sfida le nostre convinzioni e ci cambia in profondità, consente di entrare in contatto empatico con altre esperienze umane senza patirne le conseguenze, consente di sperimentare le più diverse soluzioni ai problemi della vita per verificarne gli esiti prima di affrontarli nella realtà. Tutto vero (lo andiamo ripetendo in molti e da molto, da Rodari a Chambers). Ammesso però che sui monitor, così come sulle pagine, ci siano storie e non brand. Non vorrei insomma che al risveglio da questa sbornia digitale ci si ritrovasse tutti più invischiati in uno sprawl allucinante e consensuale, in una dispersione ormai più umana che urbana. 