Startup ad alto valore ambientale e sociale. Proposte di policy
Un mercato di capitali per imprese a finalità. Prima analisi di fattibilità sociale
1. Regione Toscana – Assessorato Servizi Sociali
Un mercato di capitali per imprese a finalità sociale
Prima analisi di fattibilità
Davide Dal Maso
Davide Zanoni
Matteo Bina
Milano, novembre 2009
2. Un mercato di capitali per imprese a finalità sociale
Prima analisi di fattibilità
Sommario
Obiettivi della ricerca e note metodologiche 3
Premessa 5
Evoluzione del mercato, in relazione al contesto sociale e politico 9
Analisi della domanda di capitali (imprese emittenti) 16
Analisi dell’offerta di capitali (investitori) 36
Situazione attuale: un mercato segmentato 52
Nuovo scenario: una borsa dedicata alle IFS 57
La Borsa Sociale 71
Appendici 80
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Idee ricerche e progetti per la sostenibilità
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3. Obiettivi della ricerca e note metodologiche
Questo rapporto restituisce i risultati di una ricerca condotta tra i mesi di aprile e luglio
2009 da Avanzi, nell’ambito di un più ampio progetto affidato a Fondazione Culturale
Responsabilità Etica dall’Assessorato ai Servizi Sociali della Regione Toscana.
L’obiettivo di questo studio è verificare la fattibilità tecnica e la sostenibilità di un
mercato di capitali per imprese a finalità sociale (d’ora in avanti, IFS). Si tratta di un
mercato per molti aspetti comparabile a quello delle tradizionali borse finanziarie, ma
che se ne differenzia per il fatto che (i) i titoli negoziati sono emessi da imprese che
perseguono obiettivi dichiarati di generazione di valore sociale e che (ii) gli investitori
cui si rivolge, corrispondentemente, perseguono obiettivi “misti”, di natura finanziaria
e sociale.
A questo scopo, abbiamo strutturato il rapporto in tre sezioni distinte:
• nella prima, vengono descritte le premesse di tipo ideale che hanno animato
lo sforzo di ricerca, sia nella dimensione analitica sia in quella propositiva. Si
dà conto dei motivi per cui oggi questa iniziativa appare opportuna e
tempestiva;
• nella seconda, viene analizzato il potenziale di domanda di capitale,
rappresentato dalle IFS, e di offerta di capitale, rappresentato da investitori
socialmente responsabili;
• nella terza, infine, si definiscono le caratteristiche tecniche del mercato e si
tratteggia il modello di business dei soggetti che potrebbero gestirlo,
formulando una stima di conto economico di medio periodo.
In appendice, sono stati riportati gli elementi essenziali di una metodologia per la
valutazione del valore sociale generato dalle imprese candidate alla quotazione.
Dal punto di vista metodologico, si tratta di un lavoro basato in larga misura su desk
research, svolto utilizzando una pluralità di fonti, di volta in volta richiamate nel testo.
In diverse fasi dell’analisi, sono state realizzate varie interviste qualitative ad esperti,
professionisti, operatori del settore di interesse.
Una attività di supervisione generale è stata affidata ad un Comitato di Indirizzo, che
è intervenuto con commenti, suggerimenti, indicazioni nelle fasi topiche del progetto e
che ha rivisto le bozze del presente documento. Un sentito ringraziamento a:
• Luca Bagnoli, docente economia aziendale all’Università di Firenze, indicato
da Confcooperative
• Giampaolo Barbetta, docente di economia politica all’Università Cattolica del
Sacro Cuore di Milano
• Alessandra Dal Colle e Marco Ratti, della direzione di Banca Prossima
• Luca Filippa, direttore ricerca e sviluppo di Borsa Italiana
• Giorgio Fiorentini, docente di economia e gestione delle aziende non profit
all’Università Bocconi
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4. • Roberto Randazzo, avvocato e docente di diritto degli enti non profit
all’Università Bocconi
• Mauro Gori, responsabile attività economiche e finanziarie di Legacoop
• Alessandro Messina, responsabile area retail dell’ABI
• Giulio Tagliavini, docente di economia degli intermediari finanziari
all’Università di Parma
• Stefano Zamagni, docente di economia politica all’Università di Bologna e
presidente dell’Agenzia per le Onlus
• Nereo Zamaro, dirigente di ricerca presso l’Istat
Hanno inoltre contributo, in veste di esperto tecnico su questioni legali, Valentina
Zadra, avvocato presso lo Studio legale Cleary Gottlieb Steen & Hamilton e Fabrizio
Plateroti, responsabile della Divisione Regolamentazione di Borsa Italiana.
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5. Premessa
La Borsa Sociale (d’ora in avanti, BS) di cui andremo parlando, lo diciamo subito, a
scanso di equivoci, è un mezzo, non un fine. In quanto strumento, va valutata in
relazione alla sua capacità di contribuire al raggiungimento di un obiettivo – che
perciò va dichiarato con chiarezza: attraverso la BS, noi vogliamo stimolare la
crescita di un approccio all’attività economica diverso da quello oggi prevalente.
Questa affermazione può apparire presuntuosa e velleitaria o forse, più
modestamente, ingenua. In realtà, altro non facciamo che riprendere e sviluppare in
termini moderni un filone di pensiero che ha attraversato nel tempo l’evoluzione della
teoria economica e che annovera tra i propri promotori autorevolissimi Autori.
Uno dei tratti fondamentali dell’approccio teorico prevalente tra gli economisti è la
netta separazione tra il ruolo dello Stato e quello dei privati. Questi soggetti operano
in due mondi paralleli, il mercato e la sfera pubblica, con la minor area di
sovrapposizione possibile: l’assunto è che lo Stato non debba entrare nella sfera
della produzione della ricchezza, bensì debba limitarsi a provvedere alla
redistribuzione di quella parte di essa che, attraverso il fisco, è destinata a fini
generali. Invece, un ruolo del tutto marginale, se non nullo, è riservato ai soggetti
privati, ed in particolare alle imprese, nella produzione di beni pubblici. Addirittura, si
sostiene che sia impropria la distrazione dell’impresa dal suo obiettivo unico, cioè la
creazione di valore per gli azionisti.
Da questo punto di vista, la pratica della responsabilità sociale d’impresa (in inglese,
corporate social responsibility, da cui l’acronimo CSR) costituisce una forma di
mitigazione degli effetti più estremi dell’applicazione del principio dello sharholder
value. Fatto salvo il limite minimo rappresentato dal rispetto delle leggi, l’azione dei
manager deve essere orientata alla massimizzazione del profitto e la scelta di andare
oltre il dettato delle norme giuridicamente vincolanti si giustifica solo in tanto in quanto
si ritenga che un comportamento non opportunistico produca, magari indirettamente o
in un arco di tempo più diluito, un qualche vantaggio economico per l’impresa. L’idea
è, insomma, che le vacche felici diano il latte più buono. Ma la controparte, lo
stakeholder, non è un fine in sé; è solo lo strumento per il raggiungimento del fine
vero (l’interesse dell’azionista), che rimane l’unico faro del manager. La pratica della
CSR, quindi, tempera gli aspetti più aggressivi delle politiche orientate allo
shareholder value, ma non mette in discussione i principi su cui dovrebbe fondarsi
l’attività delle imprese.
Le riserve sulla capacità di incidere realmente sui modelli di produzione, peraltro, non
mettono in discussione la valutazione complessivamente positiva sul “fenomeno
CSR”. Il punto è che ci sembra utile sviluppare e promuovere proposte ulteriori, che
aiutino la crescita anche di altri modelli di impresa e di economia. In questo senso,
l’iniziativa di una borsa sociale vuol essere un’operazione che punta al pluralismo
delle forme di esercizio dell’attività economica. La BS non vuole la chiusura delle
Borse “normali” – anzi, ne ha bisogno. Ma l’idea che esistano solo le borse così come
sono concepite oggi, che non possano essercene di diverse, ci sembra una
limitazione di opportunità.
La crisi finanziaria degli ultimi mesi ha offerto agli economisti, ai decisori politici e alla
comunità nel suo insieme una straordinaria occasione per ripensare dei paradigmi
che spesso sono stati dati per scontati.
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6. Nonostante la timidezza delle classi dirigenti (politici, imprenditori, studiosi e opinion
leader), si insinua nella società una sensazione di disagio profondo. Che, cioè, la
finanziarizzazione del sistema, intesa come subordinazione dell’economia alle
esigenze degli investitori, non produca sempre benefici collettivi; che, in altre parole,
l’idea secondo cui “ciò che è bene per la General Motors è bene per il Paese” non
funzioni sempre – soprattutto quando in realtà si intende il bene degli azionisti di
General Motors. Che poi questi siano, direttamente o indirettamente, i cittadini
(poiché i principals cui dovrebbero rispondere gli investitori istituzionali sono i
sottoscrittori dei fondi comuni e dei fondi pensione), in realtà non migliora affatto la
situazione – come ha ampiamente argomentato proprio di recente Luciano Gallino1.
In questo contesto, appare meno temeraria la proposta di un modello di impresa
differente, non totalmente alternativa a quella capitalistica tradizionale. La sfida
rimane comunque difficile, perché occorre minare una visione preanalitica
dell’economia. Parliamo di convinzioni preanalitiche in quanto la maggioranza degli
operatori della business community si è culturalmente formata secondo i dettami delle
teorie che abbiamo sopra stigmatizzato e ha interiorizzato convinzioni profonde, che
determinano il modo in cui le questioni vengono affrontate prima ancora che vengano
affrontate. Esiste, cioè, un bias culturale che compromette la possibilità di
argomentare su problemi fondamentalmente nuovi, di fronte ai quali gli strumenti a
disposizione appaiono del tutto inadeguati.
Il primo punto da articolare consiste nella confutazione dell’idea secondo cui il
mercato sia il luogo in cui si realizzano gli spiriti animali dei soggetti economici, quello
in cui si realizzano gli egoismi. Che ciò accada, è vero. Che accada solo questo, no.
In realtà, il mercato esisteva ben prima dell’affermazione dell’impresa capitalistica ed
ha prosperato anche senza di essa. Il mercato è un’istituzione sociale prima ancora
che economica, che si è realizzato in una delle fasi più creative della storia
dell’Occidente. Ed è, prima di tutto, luogo di esercizio di virtù civiche e di democrazia.
Ridurlo alla funzione di scambio di equivalenti corrisponde ad uno svilimento che, alla
fine, esprime una profonda sfiducia nell’uomo. Come l’esperienza di ciascuno può
testimoniare, infatti, la dimensione economica rappresenta una porzione importante,
ma non certo esclusiva, nella vita delle persone. Le relazioni, gli affetti, le
appartenenze sono anzi spesso le determinanti fondamentali delle scelte che
compiono. Anche i processi decisionali dei soggetti economici per eccellenza, le
imprese, sono in larga misura orientati da fattori non economici, come hanno
ampiamente provato gli studi comportamentali. Nella realtà delle cose, non esiste un
mercato abitato solo da homines oeconomici, soggetti perfettamente razionali e
orientati esclusivamente dal raggiungimento di convenienze economiche. È
fondamentalmente falso che le persone, nella propria attività lavorativa, ricerchino
solo la soddisfazione di aspettative di ordine economico.
Qui proponiamo invece l’idea, eterodossa, secondo cui anche attraverso la libera
iniziativa privata, realizzata nel mercato e non ai suoi margini, si possano produrre
beni comuni. Che anche l’impresa possa creare benefici sociali, non come
sottoprodotto, ma come risultato voluto e perseguito di una missione dichiarata. E
che, infine, questa idea sia perfettamente compatibile con le logiche del mercato,
della concorrenza e della efficienza gestionale.
Stiamo tratteggiando le caratteristiche di quella che chiameremo impresa a finalità
sociale (IFS), organizzazione che sintetizza le caratteristiche tipiche della società
commerciale for profit ma le orienta ad un fine che non è la generazione del massimo
ritorno sull’investimento, bensì di valore sociale. Nell’impresa capitalista, la funzione
1
Gallino L., Con i Soldi degli Altri, 2009
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7. obiettivo è rappresentata dal profitto; il rispetto delle norme giuridiche ed etiche
costituiscono il vincolo cui è sottoposto. Nell’IFS, è il contrario: l’obiettivo è la
creazione di valore sociale; l’equilibrio economico-finanziario è il vincolo. Questo non
significa, come meglio diremo oltre, che l’IFS non debba essere profittevole, anzi.
L’idea della BS rappresenta una sfida per l’economia sociale prima ancora che
all’economia capitalista. È una specie di esame di maturità. Una verifica per capire la
volontà e la capacità di superare i confini di un sistema che la riduce ad un ruolo
ancillare, di mera supplenza delle funzioni pubbliche (nel senso di statuali).
La sfida peraltro sembra essere lanciata anche dal fronte istituzionale. Le istituzioni
nazionali ed europee affrontano il tema dell’economia sociale con sempre maggiore
attenzione. La Risoluzione del Parlamento europeo del 19 febbraio 2009 afferma che
“l’economia sociale, unendo redditività e solidarietà, svolge un ruolo essenziale
nell’economia europea permettendo la creazione di posti di lavoro di qualità e il
rafforzamento della coesione sociale, economica e territoriale, generando capitale
sociale, promuovendo la cittadinanza attiva e una visione dell’economia fatta di valori
democratici che ponga in primo piano le persone, nonché appoggiando lo sviluppo
sostenibile e l’innovazione sociale, ambientale e tecnologica”. Invita inoltre la
Commissione “a promuovere l’economia sociale attraverso le sue nuove politiche e a
difendere il concetto di fare impresa in un altro modo insito nell’economia sociale, la
cui principale forza propulsiva non è la redditività economica, bensì la redditività
sociale, in modo da tenere in debito conto le specificità dell’economia sociale
nell’elaborazione della legislazione”.
È chiaro in questa risoluzione il pieno riconoscimento del concetto di economia
sociale che si distingue dal sistema economico tradizionale per l’attenzione delle
imprese alla creazione di valore sociale, ma anche dal modello non profit per
l’esistenza di un’attività imprenditoriale (sia che si tratti di società commerciale che di
organizzazione in senso lato).
Nell’ambito così definito a livello comunitario, si inserisce quindi l’idea progettuale di
un mercato di capitali dedicato alle imprese dell’economia sociale quale strumento
per promuoverne lo sviluppo e per dare impulso ad un nuovo modello di imprenditoria
responsabile. Nel contesto italiano, pur ritardato da un quadro giuridico incapace di
far fronte tempestivamente alle istanze e necessità che emergono da questo settore,
stanno comunque emergendo soggetti di impresa che mostrano una struttura
produttiva e organizzativa del tutto simile alle imprese tradizionali, ma che
perseguono interessi collettivi diversi dall’utile privato (es. cooperative sociali). La
questione diventa, quindi, come stimolare lo sviluppo di questa economia in misura
tale da portarla ad un livello di significatività che le dia maggiore dignità e
riconoscimento, senza compromettere la qualità della sua natura.
Uno degli elementi, certo non l’unico, necessari a questo scopo è il raggiungimento di
una scala dimensionale sensibilmente maggiore che comporti un rafforzamento
dell’attività dispersa ma incisiva delle piccole e medie imprese dell’economia sociale.
In questo studio proponiamo alcune valutazioni preliminari per disegnare uno
strumento utile allo scopo: un mercato dei capitali. L’idea che cercheremo di
sviluppare mira alla creazione di un meccanismo di incontro tra un’offerta di capitali
finanziari “responsabili” e una domanda rappresentata da imprese che abbiamo
chiamato IFS. Riteniamo che un simile istituto possa facilitare il perseguimento
dell’obiettivo di crescita dimensionale cui facevamo sopra cenno e possa altresì
contribuire alla maturazione in senso più ampio dell’economia sociale, oggi relegata
ad una funzione marginale. Per riuscire nell’intento è necessario mettere a fuoco la
natura dell’impresa sociale, definirla come soggetto che appartiene al mercato e in
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8. qualche modo lo ridefinisce, lo arricchisce di una dimensione, lo porta a funzionare
anche per il raggiungimento di scopi sociali oltre che economici. Si tratta di un salto
culturale, di un passaggio delicato nel contesto italiano, caratterizzato da forti
resistenze nei confronti del mercato e da una netta divisione tra impresa profit e
organizzazione non profit.
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9. Evoluzione del mercato, in relazione al contesto sociale e politico
L’idea di un mercato di capitali per IFS può sembrare bizzarra se si ha riguardo alla
situazione attuale. Lo spazio che queste organizzazioni occupano oggi è,
obiettivamente, di nicchia. Sembra mancare, quindi, una delle condizioni necessarie
per la sostenibilità di una borsa vera e propria, cioè la dimensione. Il nostro tentativo
è andato nella direzione di immaginare la situazione che si potrà presentare tra
qualche anno, quando una serie di tendenze di cui oggi intravediamo solo alcuni
aspetti, arriveranno a maturazione – cambiando così i fattori di competitività che
determinano il successo delle imprese nel mercato.
L’obiettivo di questo paragrafo è quello di individuare alcune di queste tendenze,
cercando di meglio definire gli ambiti in cui le IFS potranno affermarsi nel prossimo
futuro. Riteniamo che il crescente interesse dei cittadini (nelle diverse dimensioni
attraverso cui esprimono la loro soggettività di consumatori, utenti, investitori, elettori
…), delle imprese e delle istituzioni, nei confronti delle tematiche ambientali e sociali
determinerà nuovi spazi di operatività per le IFS, che hanno perciò di fronte una
straordinaria opportunità di sviluppo. Sensibilità ambientale, consumo critico,
dinamiche demografiche, cambiamento dei modelli di welfare sono solo alcuni dei
fenomeni le cui evoluzioni comporteranno influenze importanti sulla crescita di quella
che, con accezione quanto mai ampia, viene definita economia sociale. Si va cioè
formando un mercato, o meglio una pluralità di mercati, in forte espansione, che non
risultano ancora adeguatamente presidiati perché i soggetti che potrebbero operarvi
(quelle che noi chiamiamo IFS) non sono sufficientemente strutturate dal punto di
vista finanziario e operativo. Il rischio è che vengano coperti da imprese capitalistiche
tradizionali, il cui obiettivo di massimizzazione del profitto (che crea inevitabilmente
forti conflitti tra gli interessi degli stakeholder) le mette però in contraddizione con la
natura anche relazionale dei beni e dei servizi offerti.
Definire un ambito di azione delle IFS è un esercizio complesso e potrebbe correre il
rischio di essere fuorviante, dato che queste vengono definite tali non tanto sulla base
del settore di attività quanto in base alle proprie modalità operative (mission, valore
aggiunto sociale, ecc.). Come avremo modo di argomentare, per noi IFS non è solo
quella che opera, per esempio, nel campo del risparmio energetico; può esserlo
anche una “normale” attività produttiva o commerciale che sia esercitata con
l’obiettivo di generare valore sociale: un’azienda agricola che operi in un’area
controllata dalla criminalità organizzata cercando di sottrarsi alle logiche mafiose ed
offrendo delle opportunità di promozione sociale, per esempio, potrebbe essere un
caso esemplare di IFS.
È altrettanto vero, d’altra parte, che gli ambiti operativi delle imprese che più si
avvicinano ad essere a finalità sociale sono prevalentemente legati a determinati
comparti e che possa quindi avere un valore esemplificativo partire dal considerare
proprio quei settori particolarmente significativi per le imprese in questione.
Numerosi segnali confermano la crescente attitudine “critica” dei cittadini europei nei
confronti dei modelli di consumo. Un’attitudine che si manifesta nella domanda in
aumento di beni che presentino caratteristiche etiche, espresse da valori come la
sostenibilità, la solidarietà, la reciprocità e la valorizzazione dei legami sociali e
comunitari. Un’ampia gamma di comportamenti che non riguarda solo le scelte di
consumo degli individui ma sempre più si riflette direttamente nella richiesta alle
aziende e alle istituzioni dell’adozione di precise politiche rispettose di questi valori.
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10. In tutta Europa sono in crescita tendenziale i consumi e la nascita di nuove imprese
ed iniziative legate, solo per fare pochi esempi, alla salvaguardia ambientale,
all’agricoltura biologica, ai trasporti e all’edilizia sostenibili, alle energie rinnovabili, al
riciclo di materiali, al commercio equo e solidale, ai gruppi di acquisto solidali, al
turismo responsabile, alla finanza e agli investimenti sostenibili: un panorama
estremamente variegato che raccoglie al suo interno tipologie diversissime di soggetti
e di mercati di riferimento. Prenderemo qui in esame pertanto solo alcuni aspetti e
tendenze rappresentativi.
La riforma dei sistemi di welfare
È nell’ambito dei servizi alla persona e, più in generale, nel campo dell’assistenza che
è ragionevole immaginare una forte crescita del ruolo delle IFS. Si prenda il caso di
un’impresa che gestisce una casa di cura o una residenza per anziani: è naturale
che, se l’obiettivo è quello di ricavare da questa attività il massimo profitto possibile,
chi ne ha la responsabilità sia portato ad aumentare i ricavi, per esempio cercando di
alzare le tariffe o forzando l’erogazione di prestazioni anche non necessarie; o a
ridurre i costi, per esempio utilizzando materiali di scarsa qualità; o a contenere i
rischi, per esempio evitando di accogliere ospiti con limitata capacità di reddito.
Probabilmente, questa tensione finirà con l’influenzare anche la relazione con i
dipendenti, che potrebbero trasferire la loro insoddisfazione nel modo in cui, per
esempio, si rapportano con i pazienti. E tutto questo, si badi, senza che ciò comporti
una violazione esplicita di norme di legge o contrattuali. Semplicemente, il manager
sarà inevitabilmente portato a privilegiare gli interessi del gruppo cui sente di dover
rispondere in prima istanza, cioè gli azionisti. L’esperienza peraltro dimostra come, in
una situazione del genere, la prevenzione di comportamenti opportunistici sia
possibile solo a costo di un sistema di controllo non sempre efficace e comunque
molto costoso. Solo il contenimento in origine della tensione verso il profitto può
limitare questa deriva. Ecco che entra in gioco lo specifico delle IFS, organizzazioni in
cui la motivazione intrinseca è un fattore che orienta in misura determinante il
comportamento degli operatori.
Questi temi sono stati ripresi e sviluppati anche all’interno del recente Libro Bianco2,
pubblicato a maggio 2009 dal ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, che
sancisce i principi guida cui si ispirerà lo sviluppo futuro del welfare nel nostro Paese,
alcuni di particolare interesse per il presente studio: la sussidiarietà “della famiglia,
dell’impresa (sia non profit che for profit) e di tutti i corpi intermedi”, l’economia
sociale di mercato ed il superamento della rigida distinzione tra pubblico e privato.
Partendo dalle tendenze demografiche in atto, il testo considera gli scenari critici che
si prospettano per la sostenibilità della spesa sociale nel nostro Paese. Secondo
quanto stimato, nel 2045 il 30% della popolazione avrà un’età maggiore di 65 anni
con un ulteriore aggravio dei costi per la cura di malattie croniche, che colpendo il
25% della popolazione pesano già oggi per il 70% della spesa. Dice il documento:
“L’eccessivo peso del capitolo pensionistico penalizza, in particolare, la spesa
sanitaria […]. Nel 2050, in assenza di politiche correttive e di riequilibrio, la spesa
sanitaria potrebbe più che raddoppiare.” E ancora: “Occorre rivisitare, attraverso la
formula della sussidiarietà quella forma di governance per cui il monopolio statale
sulle decisioni di spesa sui servizi sociali ha spesso favorito gli interessi dei fornitori
anziché quelli dei destinatari.” Per cui l’attore pubblico “Invece di essere il
2
Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali: “La vita buona nella società attiva. Libro
bianco sul futuro del modello sociale”, Roma, maggio 2009.
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11. monopolista della erogazione è chiamato a determinare le linee guida degli interventi
e assicurare il controllo sulla qualità dei servizi”. Di più, “il superamento della
distinzione tra pubblico e privato attraverso il riconoscimento alle formazioni sociali di
una soggettività di rilievo pubblico anche nella programmazione dei servizi.”
Il tema del superamento della distinzione pubblico – privato è ulteriormente ribadito in
seguito, dove si giudica come un grave errore l’adozione di una visione del welfare
che ne ha interpretato lo sviluppo “sulla contrapposizione tra pubblico e privato, ove
ciò che era pubblico veniva assiomaticamente associato a “morale” perché si dava
per scontato che fosse finalizzato al bene comune, e il privato a “immorale” proprio
per escluderne la valenza a fini sociali.”
Citiamo ancora: “Per farsi carico delle persone e dei loro bisogni si rende necessario,
in molti contesti, il coinvolgimento di organizzazioni diverse che cooperino, attraverso
la combinazione di diverse capacità e competenze, nella progettazione ed erogazione
dei servizi. Si tratta di favorire, in chiave sussidiaria, lo sviluppo di reti di servizio
(partecipate da operatori pubblici e privati, profit e non profit) capaci di bilanciare
aspetti di competitività e di collaborazione, nella ottica di migliorare efficacia ed
efficienza dei servizi. L’attore pubblico, da unico erogatore di servizi, diventa ora,
mediante i regimi di autorizzazione e accreditamento definiti nella legge Biagi, il
soggetto che favorisce la crescita e lo sviluppo sul territorio del mercato dei servizi.”
Un ruolo di primo piano viene quindi riconosciuto al terzo settore “ […] soggetto
flessibile e particolarmente adeguato a inserirsi nella nuova organizzazione dei servizi
e del lavoro nell’era post-industriale […]”. Così, “Enormi, e in parte non ancora
esplorate, sono dunque le potenzialità del terzo settore, nella rifondazione del nostro
sistema sociale […]”. In particolare, ruolo strategico è attribuito anche al mondo
cooperativo, “sintesi tra sviluppo imprenditoriale, economico e sociale […]”
Insomma, un accreditamento del ruolo e dell’azione dei soggetti che già oggi sono
protagonisti dell’economia sociale, ed un forte rimando al ruolo che il privato – sia
profit sia non profit – dovrà assumere nel welfare “sociale di mercato” prossimo
venturo. Non è irragionevole immaginare, quindi, che si aprano dei vasti spazi di
opportunità per nuovi operatori del sociale.
I servizi pubblici locali
Un altro caso che ben può rappresentare la potenzialità dello strumento di cui
parliamo è quello delle aziende di servizio pubblico locale. La fornitura di energia
elettrica, di gas, di acqua, di servizi di trasporto, e, in qualche caso, d’altro, era stata
garantita nel passato dalle amministrazioni locali stesse, in prima persona.
Successivamente, sono stati creati degli enti separati, ma sempre di natura pubblica,
poi delle società di diritto privato. In alcune situazioni, porzioni più o meno ampie del
capitale di queste società sono state vendute a soggetti privati, finanziari o industriali,
o addirittura collocate sui mercati, attraverso la quotazione in borsa. In questa
evoluzione c’è una soluzione di continuità importante: mentre la trasformazione in
società per azioni ha probabilmente reso più efficienti le strutture, agendo sulle
diverse procedure e sugli stili manageriali, la privatizzazione del capitale ha inciso
sulla missione, che è passata dal servizio al cittadino in condizioni di economicità alla
creazione di valore per gli azionisti attraverso la fornitura di servizi a dei cittadini.
Emblematica, da questo punto di vista, la polemica delle settimane scorse sulla
qualità dei servizi di Amsa (l’azienda milanese servizi ambientali) in materia di pulizia
della città. Citiamo da Il Corriere della Sera (del 13/11/09): “Per alcuni, politici e
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12. tecnici, l’inizio del decadimento del servizio va fatto risalire a un passaggio preciso:
l’incorporazione di Amsa nel gruppo A2A, nato il primo gennaio 2008 dalla fusione di
Aem Spa Milano e Asm Spa Brescia. Fino a quel momento, ricordano in azienda,
l’input del Comune all’Amsa (prima con Albertini e poi all’inizio del mandato di Letizia
Moratti) era stato di chiudere il bilancio con utili modesti ma di riversare tutte le
efficienze realizzate sul servizio. Ora la situazione è diversa: il Comune ha un peso
ridotto nell’assetto societario, circa il 27%, e non è difficile immaginare che le
indicazioni degli azionisti siano cambiate. Amsa lo scorso anno ha fatto 16 milioni di
euro di utili e la previsione per l’anno in corso è di 21. Fin qui tutto bene, se non fosse
che — come non si stanca di ripetere Berlusconi — la città è sporca”. Ancora, dalla
stessa fonte: “Gli utili devono essere all’ultimo posto — rincara l’assessore Maurizio
Cadeo, che gestisce i rapporti con l’azienda di via Olgettina — prima devono essere
garantite qualità, efficienza e flessibilità”. Ci domandiamo: che cosa potranno pensare
di questa affermazione gli altri azionisti, che rappresentano la maggioranza del
capitale di una società quotata in borsa? Siamo davvero sicuri che vogliano
considerare gli utili “all’ultimo posto” in ordine di importanza? Comunque la si veda,
appare chiara la stridente contraddizione tra una missione orientata al servizio alla
comunità, sia pure in condizioni di efficienza ed economicità, e una struttura
societaria tirata verso la massimizzazione del profitto.
Peraltro, anche il riferimento ai cittadini come stakeholder principali (in quanto clienti
e, indirettamente, azionisti), va lentamente perdendo di significatività: queste imprese,
nel tentativo di sfruttare economie di scala e di scopo, si stanno consolidando,
finendo così col de-territorializzarsi e col perdere il legame col cliente-proprietario. Chi
conosce il settore, poi, sa come il potere delle amministrazioni locali, spesso ancora
in maggioranza, non riesca a incidere davvero sulle scelte di strategia industriale una
volta che siano entrati partner che siano detentori di forte know how gestionale e
interessati al massimo ritorno sul loro investimento – non avendo da render conto alle
comunità di origine dell’impresa.
Anche in questo caso, è evidente come questo processo di trasformazione abbia
influito negativamente sul rapporto con la comunità locale: il modello che punta allo
shareholder value non può che configgere con gli interessi dei cittadini – al di là degli
equilibrismi degli amministratori e dei manager: che senso ha, per esempio,
mantenere una linea di autobus per una contrada remota, la cui gestione genera una
perdita? Nessuno, se l’obiettivo è solo generare profitto; molto, se è servire una
comunità per cui quel collegamento è, magari, vitale. La domanda legittima è: chi mai
investirebbe in una società che gestisce (anche, non solo) una linea in perdita? La
risposta: un investitore che sia interessato alla sopravvivenza di quella comunità per
cui l’autobus è importante e che, a fronte di questo beneficio sociale, sia disposto a
rinunciare ad una quota (non necessariamente a tutto) di ritorno finanziario.
Va da sé che la limitazione della spinta verso il profitto da un lato deve essere
compensata da una produzione di valore sociale misurabile e, dall’altro, non deve
diventare un alibi per l’inefficienza gestionale. Si pone, tra l’altro, un problema di
metrca, su cui torneremo più avanti.
Nuova domanda di beni e di servizi ad alto contenuto ambientale o sociale
Quest’ultimo paragrafo tocca, sia pure in modo superficiale, diversi ambiti
dell’economia in cui la spinta all’innovazione ha prodotto i cambiamenti più
significativi. In verità, la trattazione sarebbe potuto essere più estesa e più
approfondita, ma qui interessa dal conto di una linea di tendenza che si va definendo
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13. in modo, a nostro avviso, molto netto. Oltre a nuovi prodotti e nuovi servizi, si vanno
formando veri e propri modelli di business, che puntano a ridurre, se non risolvere
completamente, la questione del conflitto di interesse tra gli stakeholder.
Il commercio equo e solidale
Attivo in Europa dagli anni ’60, il commercio equo e solidale (CES) costituisce un
caso emblematico di conciliazione delle istanze di solidarietà e giustizia e utilizzo
degli strumenti del mercato. Per quanto al suo interno convivano visioni diverse su
finalità e metodologie di azione, il CES resta uno dei capisaldi del consumo critico.
Il suo approccio, che riconosce all’individuo il potere di agente economico – e, nello
specifico, uno dei più potenzialmente rilevanti – e lo esorta ad utilizzarlo, rende
questa particolare attività economica (oltre che per le dimensioni che ha raggiunto)
particolarmente significativa in questa sede.
Una ricerca internazionale commissionata da FLO - Fairtrade Labelling Organizations
(il coordinamento internazionale dei marchi di garanzia del commercio equo) condotta
su un campione di 14.500 persone in 15 paesi, tra cui l’Italia, ha dimostrato la
continua crescita nella domanda di prodotti certificati del commercio equo e solidale3.
Nel solo 2008 le vendite dei prodotti a marchio sono cresciute del 75% in Svezia, del
45% in Inghilterra, del 24% in Austria, e del 20% in Italia, dove le vendite a valore
sono stimate in 43,5 milioni di euro nel 2008 contro i 39 milioni del 2007.
Il fatturato complessivo del CES in Europa ammontava nel 2005 a € 605 mln,
testimonianza del riconoscimento di questo modello anche da parte di fasce di
consumatori più ampie rispetto alla cerchia dei maggiormente sensibilizzati.
Ulteriore sintomo dell’importanza e della diffusione raggiunte dal CES in Europa era
la penetrazione in tutti i canali della distribuzione: secondo dati del 2004 e 20054, i
prodotti del CES erano presenti negli scaffali di circa 79.000 strutture, con una
nettissima prevalenza della gdo (57.000), seguita dai normali esercizi commerciali
(19.000) e solo in ultima posizione dalle “botteghe del mondo” (2.854) con una
presenza nelle tre tipologie di canale in 5.500 punti vendita in Italia.
Ambiente
L’ambiente ed i problemi ad esso collegati riscontrano una rilevanza via via crescente
nell’attenzione dei cittadini europei. Secondo i dati dell’ultima rilevazione di
Eurobarometro su questo tema5, “l’ambiente ha un’importanza indiscutibile nella vita
dei cittadini dell’Unione: il 96% degli intervistati ritiene personalmente importante la
protezione dell’ambiente (e per il 75% del campione questa è “molto importante”).
L’idea di ambiente viene direttamente collegata ai problemi ambientali globali e la
maggior parte dei cittadini afferma la propria preoccupazione per i cambiamenti
climatici (57%) e l’inquinamento delle acque (42%) e dell’aria (42%). Tali sensibilità si
riflettono anche nei comportamenti di consumo e stando a quanto gli intervistati
hanno dichiarato, ben il 75% del campione si dichiara pronto all’acquisto di prodotti
rispettosi dell’ambiente anche se questi dovessero costare un po’ di più di altri privi di
questa caratteristica. Significativo anche come il 62% degli Europei considerasse nel
20086 i cambiamenti climatici ed il riscaldamento globale come il secondo più grave
problema che il mondo deve attualmente affrontare, preceduto solo da povertà,
3
Globescan per FLO – Fairtrade Labelling Organisations, 2009
4
Krier, 2005, citato in Barbetta “Il commercio equo e solidale in Italia”, Milano 2006
5
Eurobarometer “Attitudes of European citizens towards the environment”, marzo 2008
6
Eurobarometer “Europeans’ attitudes towards climate change”, settembre 2008
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14. mancanza di cibo e acqua potabile (68%) e che il 56% degli intervistati ritenesse che
affrontare le tematiche ambientali potesse avere degli effetti positivi sull’economia
europea.
Queste sensibilità si sono concretizzate nel 61% dei casi in azioni intraprese
personalmente, mentre il 76% degli intervistati reputava che le aziende e l’industria
non stessero facendo abbastanza, un giudizio che vedeva questa categoria di
soggetti ricevere i giudizi più severi dagli europei, peraltro assai critici anche nei
propri confronti, dato che secondo il 67% del campione gli stessi cittadini dell’Unione
non erano sufficientemente attivi su questo fronte, mentre un maggiore impegno
avrebbe dovuto essere profuso dai governi nazionali secondo il 64% e dalle istituzioni
comunitarie secondo il 54%.
La sensibilità per i temi ambientali si rifletteva oltre che nelle scelte di consumo,
anche in numerosi altri comportamenti della sfera privata. Tra i più diffusi
primeggiava la raccolta differenziata, seguita da risparmi di acqua ed energia
domestiche ed utilizzo di trasporti sostenibili. Il 10% si dichiarava disponibile ad
acquistare energia da fonti rinnovabili anche se questa dovesse costare dall’11% al
30% in più, percentuale che saliva al 24% se il maggior costo si fosse limitato alla
forchetta compresa tra il 6 e il 10%, per arrivare al 44% dei cittadini europei disposti
ad acquistare energia da fonti rinnovabili nel caso in cui il sovrapprezzo fosse stato
incluso tra l’1 ed il 5%.
Una importante iniziativa in risposta a queste problematiche arriva proprio dall’Unione
Europea. La Commissione ha infatti annunciato insieme a 800 rappresentanti delle
imprese e della ricerca in Europa lo stanziamento 268 milioni di euro per progetti di
ricerca in tre settori del mercato importanti per favorire la ripresa economica, renderla
più sostenibile e basata sulle conoscenze scientifiche e contribuire a raggiungere gli
obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra dell’UE e del mondo. Gli ambiti
interessati dai finanziamenti saranno l’efficienza energetica degli edifici (responsabili
da soli di circa un terzo delle emissioni di CO2 dell’Unione, con un intervento
complessivo di €1 mld), le auto verdi (€1 mld) e le fabbriche del futuro (€1,2 mld), per
promuovere la competitività in particolare delle piccole e medie imprese europee a
livello mondiale. L’iniziativa rientra nell’ambito del Piano Europeo di ripresa
economica che prevede uno stanziamento complessivo di € 3,2 mld per la ricerca nel
periodo 2010-13 tramite i tre partenariati pubblico privato (Public Private Partnership),
finanziati in parti uguali dalle imprese e dalla Commissione (tramite il Settimo
Programma Quadro per la Ricerca e lo Sviluppo), mirati a far convergere gli interessi
pubblici e quelli delle imprese.
Energie rinnovabili
Secondo quanto pubblicato dal rapporto UNEP nel 20097, le energie rinnovabili
ricevono nel mondo la maggioranza dei nuovi investimenti, contribuendo per circa il
40% all' incremento nella capacità di generazione installata all'
anno. Tra il 2004 e il
2008 gli investimenti nel settore delle energie pulite sono cresciuti di oltre quattro
volte, anche se l’impatto della crisi ha fatto segnare una crescita del “solo” 5%
nell’ultimo anno a fronte di un +50% di quello precedente, per un ammontare
complessivo di $ 140 mld.
La crescita degli investimenti in Europa è stata del 2%, corrispondente ad un
investimento complessivo di $ 49,7 mld, mentre un forte rallentamento (-8%) si è
registrato negli Stati Uniti, un importante segnale di crescita è arrivato dai paesi in via
7
United Nations Environmental Programme “Global Trends in Sustainable Energy Investment”, 2009
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15. di sviluppo, dove gli investimenti sono cresciuti del 27 per cento, grazie soprattutto a
Cina ($ 15,6 mld, prevalentemente nel settore eolico), India ($ 4,1 mld) e Brasile ($
10,8 mld, in prevalenza verso il bioetanolo). Incoraggiante anche la crescita del 10%,
con $ 1,1 mld.
Agricoltura Biologica
L’Italia è leader in Europa per superfici coltivate (oltre 1 milione di ettari, +7,5% nel
2007 rispetto al 2005) ed è il quarto produttore mondiale. Nel solo 2006, si sono
aggiunte 1.175 nuove imprese, portando la crescita di operatori nel biennio 2005 -
2007 al 25%8, per un fatturato complessivo di circa € 2,5 mld.
Stime recenti accreditano il mercato complessivo in Europa di un ammontare
complessivo delle vendite di circa € 13 mld nel 2006, dove in paesi come la Germania
arriva a pesare per il 3,5% dell’intero mercato alimentare e viene distribuito
ampiamente tramite i canali della grande distribuzione e dei discounts.
8
Dati tratti dal rapporto "The world of organic agriculture - statistics and emerging trends 2007" elaborato
dal Forschungsinstitut für biologischen Landbau e dalla Stiftung Ökologie & Landbau, 2008
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16. Analisi della domanda di capitali (imprese emittenti)
Soggetti non profit
Chi sono
L’universo delle istituzioni non profit si contraddistingue per una grande eterogeneità
di soggetti, che si differenziano tra loro per numerose caratteristiche tra le quali:
forma giuridica, ambito di attività, modalità di azione, finalità, dimensioni, fonti di
finanziamento. Una varietà che ne rende complesse la mappatura e la catalogazione.
Una parziale definizione della materia deriva dall’intervento del legislatore, che a
partire dagli anni ottanta ha proceduto ad integrare le norme vigenti con una ulteriore
regolamentazione di specifiche aree del terzo settore9.
Da rilevare come, nonostante questa produzione normativa ormai ventennale, e un
ruolo sempre crescente del terzo settore nella società italiana, continui a non esistere
nel nostro Paese una disciplina organica delle istituzioni non profit.
Classificazione in base alla forma giuridica
Un’ ampia base di dati sull’esteso panorama degli enti non profit operanti nel nostro
Paese è quella offerta dal Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale10 (che
raccoglie dati aggiornati al 1999) e dai successivi aggiornamenti11.
Il rapporto identifica cinque popolazioni istituzionali, classificandole sulla base della
forma giuridica:
• Associazioni riconosciute
• Fondazioni
• Associazioni non riconosciute
• Comitati
• Cooperative sociali
A queste cinque è stata affiancata una ulteriore categoria (Altre Forme) nella quale
sono stati raccolti i soggetti che in virtù del loro particolare profilo non rientravano
nelle cinque precedenti.
9
Possiamo citare, tra i principali interventi legislativi in materia:
• Legge 49 del 1987 – cooperazione con i Paesi in Via di Sviluppo e ONG
• Legge 218 del 1990 – fondazioni bancarie
• Legge 266 del 1991 – organizzazioni di volontariato
• Legge 381 del 1991 – cooperative sociali
• Legge 383 del 2000 – associazioni di promozione sociale
• DL 4 dicembre 1997 n. 460, "Riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e
delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale."
• DL 24 marzo 2006 n. 155, relativo alle imprese sociali,
10
CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale. Dimensioni e caratteristiche
strutturali delle istituzioni non profit in Italia”, Roma Giugno 2008
11
ISTAT “Le fondazioni in Italia. Anno 2005”, Roma , aprile 2009, “Le cooperative sociali in Italia. Anno
2005”, Roma, agosto 2008, “Le organizzazioni di volontariato. Anno 2003”, Roma, ottobre 2005.
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17. Secondo i dati Istat, le istituzioni non profit erano, nel 2001, 235.232 ed impiegavano
488.523 addetti (oltre a circa 100 mila collaboratori coordinati e continuativi), il 2,5 %
dell’intera forza lavoro nazionale, per un ammontare complessivo delle entrate
corrispondente a oltre 73 mila miliardi di lire (l’equivalente di circa € 37 mld).
Tabella 1: Unità istituzionali nel 1999 e nel 2001
% su base % su base
Tipologia N° di unità N° di addetti
nazionale nazionale
Dati 1999
Istituzioni non profit 221.412 nd 531.926 nd
Dati 2001
Istituzioni non profit 235.232 5,4 488.523 2,5
Fonte: CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma Giugno 2008
Per quanto non confrontabili direttamente con i dati aggregati del rapporto Istat,
merita almeno citare le interessanti rilevazioni compiute da IRIS Network relative alle
imprese sociali, che testimoniano della vitalità di un settore dinamico ed in crescita12.
Il rapporto, la cui pubblicazione è attesa per la fine del 2009, dà conto di oltre 10.000
imprese sociali (di cui oltre 7.300 cooperative sociali e oltre 2.600 tra fondazioni e altri
soggetti non profit): una galassia di soggetti che impiega 244.000 persone a titolo
retribuito e circa 34.000 volontari, per un giro d’affari complessivo di circa € 6,4mld13.
I beneficiari sono 3,3 milioni di cittadini, che usufruiscono di servizi di valore sociale
prevalentemente in ambito socio assistenziale ed educativo.
Ripartizione e numerosità in base alla forma giuridica
Tabella 2: Caratteristiche strutturali
Area Forma giuridica
geografica
Associazione Fondazione Associazione Comitato Coop Altre Totale
riconosciuta non sociale forme
riconosciuta
Italia 1999 61.309 3.008 140.752 3.832 4.651 7.861 221.412
Toscana 5.704 229 11.016 371 244 457 18.020
1999
Italia 2005 Non disp. 4.720 Non disp. Non 7.363 Non Non
disp. disp. disp.
Fonte: CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma Giugno 2008
12
Rapporto sull’impresa sociale in Italia, a cura di Iris Network, Coordinamento editoriale e delle
ricerche: Carlo Borzaga, Flaviano Zandonai. Donzelli, pubblicazione attesa per fine 2009
13
Il campo di indagine del rapporto è ovviamente più ampio di quanto traspaia dalla presente citazione,
ed utilizza alcune delle più recenti rilevazioni Istat integrandole con stime ricavate da tassi di crescita di
grandezze analoghe a quelle indagate (come ad esempio le imprese profit censite operanti in settori
affini a quelli di azione delle imprese sociali)
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18. Per quanto limitati a due sole categorie di enti, merita riportare i dati delle rilevazioni
Istat pubblicate nel 200714, che danno conto della crescita continua del non profit: le
cooperative sociali passavano dalle 4.651 del 1999 alle 7.363 del 2005, e le
fondazioni da 3.008 a 4.720.
Secondo quanto rilevato nel rapporto Istat la distribuzione territoriale registrava una
maggiore concentrazione nelle regioni settentrionali, con il 51 % delle istituzioni non
profit.
Su base regionale le maggiori presenze erano in Lombardia (14,1 %) seguita da
Veneto (9,5 %), Emilia Romagna (8,7 %), Piemonte (8,4 %) e Toscana (8,1 %). Le
regioni con la minore presenza erano nel 1999 la Valle d’Aosta, il Molise, la
Basilicata, l’Umbria e la Calabria, che contavano complessivamente per il 6% del
dato nazionale.
Interessante considerare il rapporto tra soggetti non profit presenti sul territorio e
popolazione residente. Il dato su base nazionale registrava 38,4 istituzioni attive ogni
10.000 abitanti e tendeva a confermare l’indicazione dei dati assoluti rispetto alla
distribuzione regionale: 44,0 nelle regioni settentrionali, 42,3 in quelle del centro e
29,4 al Sud. I dati per singole regioni indicavano invece una presenza territoriale
molto maggiore in alcune delle regioni a minore densità abitativa: Trentino – Alto
Adige (88,7), Valle d’Aosta (69,2), Umbria (52,0) e Friuli - Venezia Giulia (51,6).
Che cosa fanno
L’immagine che emergeva dalle rilevazioni Istat, dava la rappresentazione di una
galassia di soggetti polarizzata intorno al settore della Cultura, sport e ricreazione,
che pesava per il 64% del totale, all’interno del quale il 40,6% delle istituzioni era
dedita alle attività sportive.
Con pesi relativi molto minori, seguivano poi gli altri settori: Assistenza sociale
(8,7%), Relazioni sindacali e rappresentanza di interessi (7,1%), Istruzione e ricerca
(5,3%), Sanità (4,4%), Tutela dei diritti e attività politica (3,1%), Promozione e
formazione religiosa (2,7%), Sviluppo economico e coesione sociale (2,0%),
Ambiente (1,5%), Cooperazione e solidarietà internazionale (0,6%), Filantropia e
promozione del volontariato (0,6%).
Tabella 3: Numerosità delle istituzioni per forma giuridica e settore di attività
prevalente
Settore di attività
Forma giuridica Totale
prevalente
Ass. non Coop.
Ass. Altre
Fond. riconosciut Comitato
riconosciuta sociali forme
e
Cultura, sport e 37.245 865 97.725 2.334 476 1.747 140.391
ricreazione
Istruzione e 2.631 714 5.676 202 135 2.294 11.652
ricerca
14
ISTAT, “Le cooperative sociali in Italia. Anno 2005”, Roma, 2008, e ISTAT, “Le fondazioni in Italia.
Anno 2005”, Roma, 2008.
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19. Sanità 5.338 167 3.483 64 362 262 9.676
Assistenza 6.575 773 8.073 322 2.397 1.204 19.344
sociale
Ambiente 1.274 15 1.738 155 66 29 3.277
Sviluppo 963 82 2.281 204 692 116 4.338
economico e
coesione sociale
Tutela dei diritti 1.578 21 4.954 170 0 120 6.842
e attività politica
Filantropia e 380 147 635 59 0 25 1.246
promozione del
volontariato
Cooperazione e 420 36 845 90 10 30 1.433
solidarietà
internazionale
Religione 1076 157 2.771 109 0 1.790 5.903
Relazioni 3.608 0 11.863 75 0 105 15.651
sindacali e
rappresentanza
di interessi
Altre attività 222 31 707 48 514 138 1.660
Totale 61.309 3.008 140.752 3.832 4.651 7.861 221.412
La classificazione in base al settore di attività prevalente rappresentata in tabella, segue la
classificazione ICNPO (International Classification of Nonprofit Organisation)15 - Fonte: CNEL/ISTAT
“Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma Giugno 2008
Una volta individuati i settori maggiormente rappresentativi sotto il profilo della
numerosità, merita indagarne ulteriormente alcune dimensioni significative nell’ottica
del presente rapporto, per evidenziare quali settori e quali istituzioni abbiano
caratteristiche tali da giustificarne l’accesso ad una futura Borsa Sociale.
Una rappresentazione estremamente interessante si ricava prendendo in
considerazione il peso economico ed occupazionale dei singoli settori prevalenti di
attività e della media degli istituti di ogni settore. Prendendo a parametro della
dimensione economica l’ammontare delle entrate, i primi quattro settori sono:
Assistenza sociale (20,0% sul totale), Sanità (18,8%), Cultura, sport e ricreazione
(17,4%), Istruzione e ricerca (13,5%).
Un dato che indica come i maggiori flussi di entrate si concentrassero già nel 1999 in
quegli ambiti (Assistenza, Sanità e Istruzione) che vedono un impegno importante
delle imprese sociali e – aspetto forse ancor più interessante - che nella prospettiva
degli attuali trend nelle politiche di welfare, vedono una loro maggior presenza (per
numero e per dimensioni) nel futuro.
Le istituzioni operanti in tre dei quattro settori individuati sopra, spiccano anche tra i
primi quattro settori classificati per entrate medie per istituzione: la Sanità con 1,421
miliardi di lire, la Filantropia e la promozione del volontariato (1,207 miliardi),
l’Istruzione e ricerca (847 milioni) e l’Assistenza sociale (756).
15
Salomon, L.M., Anheier, H.K., In Search of Nonprofit sector II: the Problem of Classification, Voluntas,
3, 1992)
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20. Se si considera il peso occupazionale, valutando ancora il dato per settore prevalente
di attività e per istituzione media, emerge come i settori che impiegano il maggior
numero di dipendenti siano ancora l’Assistenza Sociale (151.547 dipendenti, il 28,4%
del totale), la Sanità (121.389, 22,8%) e l’Istruzione e ricerca (105.470, 19,8%).
Tabella 4: Dimensioni dei settori di attività per entrate e per numero di dipendenti
Entrate Entrate % sul Dipendenti Dipendenti % sul
Settore di attività
per medie per totale per medi per totale
prevalente
settore istituzione settore istituzione
Cultura, sport e 12.718.207 91 17,4 45.155 0,32 8,4
ricreazione
Istruzione e 9.864.196 847 13,5 105.470 9,05 19,8
ricerca
Sanità 13.752.334 1.421 18,8 121.389 12,54 22,8
Assistenza 14.631.395 756 20,0 151.547 7,83 28,4
sociale
Ambiente 342.221 104 0,5 2.264 0,69 0,4
Sviluppo 2.846.097 656 3,9 26.832 6,18 5,0
economico e
coesione sociale
Tutela dei diritti e 1.952.531 285 2,7 10.175 1,48 1,9
attività politica
Filantropia e 1.504.441 1.207 2,1 476 0,38 0,08
promozione del
volontariato
Cooperazione e 893.881 586 1,1 908 0,63 0,1
solidarietà
internazionale
Religione 1.630.444 276 2,2 11.553 1,95 2,1
Relazioni 8.108.518 518 11,1 45.430 2,90 8,5
sindacali e
rappresentanza
di interessi
Altre attività 4.926.603 2.968 6,7 10.727 6,46 2,0
Totale 73.116.868 330 100 531.926 2,40 99,48
Fonte: elaborazioni su dati CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma
Giugno 2008
Le risorse umane
I soggetti non profit operanti in Italia hanno raggiunto negli ultimi anni una dimensione
a livello aggregato del tutto significativa anche per quanto riguarda le dimensioni
occupazionali, coinvolgendo quasi 4 milioni di persone.
Una prima considerazione merita di essere dedicata ad un aspetto specifico del
settore non profit, che a differenza di tutti gli altri settori vede un impegno
assolutamente rilevante di volontari. Secondo le rilevazioni Istat, nel 1999 questi
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21. ammontavano a circa 3 milioni e 200 mila individui, che secondo una stima
prudenziale di un’ora dedicata al mese, hanno prodotto l’equivalente di circa 400 mila
giornate lavoro al mese. Il dato è significativo, non soltanto per il valore economico,
ma anche per la rappresentatività e l’alto grado di coinvolgimento del tessuto sociale
che il non profit esprime.
Per quanto la parte preponderante della forza lavoro fosse costituita dall’impiego di
volontari, il settore già impiegava 10 anni fa quasi 532.000 dipendenti (equivalenti a
quasi il 3% dell’intera occupazione nazionale) oltre a circa 98.000 tra collaboratori e
lavoratori distaccati o comandati.
Le dimensioni occupazionali medie per singola istituzione testimoniano di un universo
composto in gran parte di soggetti di dimensioni medie e piccole con poche eccezioni
di soggetti di grandi dimensioni. La media di dipendenti per istituzione era infatti nel
1999 di 2,4, fatte salve importanti differenze all’interno del mondo non profit dovute
non solo a singoli soggetti di dimensioni superiori alla media, ma anche, più
organicamente alla tipologia di istituzione. Caso emblematico di questo scostamento
erano e sono le cooperative sociali, con una media di dipendenti per soggetto di 26,2
nel 1999 e di 33,1 secondo le rilevazioni del 2005 che testimoniano anche un trend di
crescita dimensionale.
Tabella 5: Istituzioni per numero di persone impiegate
Forma Persone impiegate Totale
giuridica
Dipendenti Di cui a Lavoratori Collaboratori Volontari Religiosi Obiettori
tempo distaccati
parziale o
comandati
Associazioni 116.553 7.312 3.523 22.745 1.107.531 27.018 14.365 1.291.735
riconosciute
Fondazioni 50.674 5.414 1.138 4.333 63.226 1.372 834 121.577
Associazioni 102.423 10.121 9.938 39.378 1.931.550 36.432 6.779 2.126.500
non
riconosciute
Comitato 767 148 46 1.000 38.750 287 194 41.044
Cooperative 121.894 26.345 871 7.558 19.119 560 2.995 152.997
sociali
Altre forme 139.615 14.175 2.030 4.926 61.009 30.379 2.621 240.580
Totale 531.926 63.515 17.546 79.940 3.221.185 96.048 27.778 3.974.423
Toscana 24.853 4.568 948 5.353 305.403 3.639 2.611 342.807
Fonte: CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma Giugno 2008
Per alcune delle tipologie istituzionali in esame, si sono resi disponibili ulteriori
rilevamenti statistici successivi al rapporto cui fanno riferimento i dati sopra riportati, e
grazie ai quali è stato possibile costruire la tabella seguente.
Questa intende, oltre che dare conto dei dati più aggiornati, anche fornire un’ulteriore
immagine delle dimensioni relative ed assolute della forza lavoro coinvolta da alcune
istituzioni.
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22. Nel tentativo di dare un’immagine più aderente alla dimensione complessiva dei
redditi complessivi distribuiti, l’esercizio di calcolo è stato svolto considerando la
categoria degli Addetti retribuiti, che include oltre ai lavoratori dipendenti (sia a tempo
pieno che parziale) anche i collaboratori ed i lavoratori distaccati e comandati.
Tabella 6: Aggiornamenti settoriali da rilevazioni successive al 1999
Tipo di istituzione e anno dei Addetti Media degli addetti Media degli addetti
dati retribuiti retribuiti per istituzione retribuiti per istituzione
(intero universo) rispetto alle sole
istituzioni con almeno 1
dipendente (universo)
Organizzazioni di volontariato 11.983 0,6 (21.021) 5,4 (2.219)
(2003)
Cooperative sociali (2005) 244.223 33,1 (7.363) 36,7 (7164)
Di cui:
• Tipo A 176.378 40,1 (4.345) 41,6 (4.240)
• Tipo B 54.329 22,5 (2.419) 23 (2.368)
• Miste 10.681 34 (315) 35 (304)
• Consorzi 2.835 10 (284) 11,5 (248)
Fondazioni (2005) 106.137 22,4 (4.720) 40,32 (2.632)
Di cui:
• Miste 36.730 48 (1.439) 50,4 (728)
• Operative 67.608 36 (2.338) 42,4 (1.594)
• Erogative 1.811 4 (943) 5,7 (314)
ONG (2007)* 13.000 54,4 (239) N.d.
Associazioni di promozione 11.700 82,9 (141) N.d.
sociale (2007)*
* Dati basati su stime ISTAT
Fonti: Elaborazione su dati: CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma
Giugno 2008; Istat “ Le organizzazioni di volontariato in Italia. Anno 2003”, 2006; Istat “Le cooperative
sociali in Italia. Anno 2005”, 2008; Istat “Le fondazioni in Italia. Anno 2005”, 2007.
Per completezza, a integrazione della tabella, citiamo i dati sulle classi dimensionali
delle cooperative sociali, sempre tratti dal rapporto Istat 2008, secondo il quale il
39,1% delle cooperative impiegava meno di 10 lavoratori, il 22,3% da 10 a 19, il
23,0% da 20 a 49, il 14,2% da 50 a 249 ed infine l’1,4% oltre 250.
Una ulteriore rappresentazione dimensionale utile a definire il profilo dei soggetti non
profit dal punto di vista delle risorse umane è quella operata per settore prevalente di
attività, già introdotta nel precedente paragrafo (dal quale riportiamo per chiarezza
una parte della griglia).
Dal punto di vista delle persone complessivamente coinvolte si attesta come settore
di maggior rilievo quello legato a Cultura, sport e ricreazione (1.764.021) grazie
anche alla grande partecipazione di volontari, seguito da quelli dell’Assistenza sociale
(693.849), dalla Sanità (455.750) e dall’Istruzione e ricerca (254.740).
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23. Altro dato significativo è quello degli addetti retribuiti (dipendenti, lavoratori distaccati
o comandati, collaboratori), che conferma l’ordine di classificazione che vede tra i
settori di maggior peso l’Assistenza sociale (151.547 dipendenti), la Sanità (121.389)
e l’Istruzione (105.470), con un numero medio di dipendenti per istituzione
rispettivamente di 7,83 (Assistenza Sociale), 12,54 (Sanità) e 9,05 (Istruzione).
Tabella 7: Settori di attività per numero di persone impegate
Dipendenti Dipenden % Lavorator Collaborat Volontari Religio Totale
per settore ti sul i ori si e soggetti
Settore di
total distaccati Obietto coinvolti
attività medi per e o ri
prevalente istituzion comanda
e ti
Cultura, 45.155 0,32 8,4 2.318 25.422 1.677.93 15.508 1.766.339
sport e 6
ricreazione
Istruzione 105.470 9,05 19,8 965 17.452 114.447 17.371 255.705
e ricerca
Sanità 121.389 12,54 22,8 1.650 5.768 318.894 9.699 457.400
Assistenza 151.547 7,83 28,4 2.972 15.844 492.875 33.583 696.821
sociale
Ambiente 2.264 0,69 0,4 37 620 85.274 1.087 89.282
Sviluppo 26.832 6,18 5,0 379 4.279 34.305 2.325 68.120
economico
e coesione
sociale
Tutela dei 10.175 1,48 1,9 1.540 1.723 208.347 1.547
diritti e 223.332
attività
politica
Filantropia 476 0,38 0,08 149 329 45.940 369 47263
e
promozion
e del
volontariat
o
Cooperazio 908 0,63 0,1 154 597 34.230 1.534
ne e 37.423
solidarietà
internazion
ale
Religione 11.553 1,95 2,1 79 495 131.458 39.683 183.268
Relazioni 45.430 2,90 8,5 6.884 6.967 65.757 599 125.637
sindacali e
rappresent
anza di
interessi
Altre 10.727 6,46 2,0 419 444 11.722 567 23.879
attività
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24. Totale 531.926 2,40 99,4 17.546 79.940 3.221.18 123.87 3.974.469
8 5 2
Fonte: CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma Giugno 2008
Dimensioni economiche e bisogni finanziari
Dal punto di vista del profilo economico e finanziario al mondo del non profit facevano
capo entrate per circa € 38 mld, con una cifra media per singola istituzione di circa €
170.000. Il peso economico delle singole istituzioni mostrava differenze significative
in base alla forma giuridica, alla collocazione territoriale ed al settore di attività.
Riguardo alla forma giuridica il peso maggiore in termini assoluti era quello delle
associazioni non riconosciute, seguite dalle associazioni riconosciute. Le due
categorie nel loro insieme pesavano per il 57,6% delle entrate ed il 56,9% delle
uscite.
Diverso è però lo scenario se si prendono in considerazione i dati medi per singola
istituzione. In questo caso emerge una maggiore disponibilità di risorse in capo alle
fondazioni, con un ammontare medio per istituto di oltre € 1,5 mln, seguite dalle
istituzioni con altra forma giuridica (€ 929.000) e dalle cooperative sociali (€ 620.000).
Anche in questo caso estremamente significativo è il confronto con dati più
aggiornati: secondo quanto riportato dai rapporti Istat pubblicati nel 2008,
l’ammontare complessivo delle entrate delle fondazioni era cresciuto nel 2005 a €
15,6 mld con una media per istituzione di circa € 3,3 mln16.
Anche i dati relativi alle imprese sociali testimoniano di un tasso di crescita
estremamente rilevante. Per quanto non sia possibile fare un confronto diretto, in
quanto le rilevazioni del rapporto Istat 2005 considerano il valore della produzione
invece dei soli ricavi, merita registrare che l’ammontare complessivo di questo dato
era di € 6,381 mld con un valore medio per cooperativa di € 867.000.
Gli istituti censiti nel 1999 si caratterizzavano nella maggior parte dei casi per il
ricorso a finanziamenti prevalentemente di origine privata (l’87,1% a fronte di un
12,9% di origine pubblica), con una quota maggioritaria di fonte prevalentemente
pubblica solo nel caso delle cooperative sociali.
Merita anche rilevare come la maggior parte delle fonti [di finanziamento] di origine
pubblica [derivasse][fosse rappresentata] da ricavi per contratti e/o convenzioni (76%
del totale) e la maggior parte di quell[e][i] di origine privata da ricavi derivanti da
vendita di beni e servizi (41%) e da contributi degli aderenti (26%).
Tipo di finanziamento
Tavola 8: Istituzioni per dimensione economica (milioni di lire)
Forma Entrate Uscite
16
Op. Cit. ISTAT, 2008
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25. giuridica
Valori assoluti % Media per Valori assoluti %
istituzione
Associazioni 19.102.826 26,1 313 17.249.222 24,9
riconosciute
Fondazioni 10.058.727 13,8 3.345 9.392.353 13,6
Associazioni 23.055.756 31,5 165 22.119.705 32,0
non
riconosciute
Comitato 425.286 0,6 112 420.549 0,6
Cooperative 5.839.091 8,0 1.257 5.767.434 8,3
sociali
Altre forme 14.635.182 20,0 1.863 14.224.192 20,6
Totale 73.116.868 100,0 331 69.173.455 100,0
Toscana 3.961.902 5,4 3.773.605 5,5
Fonte: CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma Giugno 2008
Tabella 9: Istituzioni per tipo di finanziamento
Forma Finanziamento Finanziamento Totale
giuridica prevalentemente pubblico prevalentemente privato
Dati Dati Dati
% % %
assoluti assoluti assoluti
Associazioni 10.221 16,7 51.088 83,3 61.309 100
riconosciute
Fondazione 471 15,7 2.537 84,3 3.008 100
Associazioni 13.507 9,6 127.245 90,4 140.752 100
non
riconosciute
Comitato 505 13,2 3.327 86,8 3.832 100
Cooperative 2.734 58,8 1.917 41,2 4.651 100
sociali
Altre forme 1.032 13,1 6.828 86,9 7.860 100
Totale 28.470 12,9 192.942 87,1 221.412 100
Toscana 2.466 13,7 15.554 86,3 18.020 100
Fonte: CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma Giugno 2008
Tabella 10: Istituzioni per tipo di finanziamento (dettaglio)
Forma Fonte pubblica Fonte privata Totale
giuridica
Sussidi e Ricavi per Contributi Ricavi Donazioni Redditi Altre
contributi a contratti e/o degli derivanti offerte e finanziari entrate di
titolo da vendita lasciti e fonte
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26. gratuito convenzioni aderenti di beni e testamenta patrimoni privata
servizi ri ali
Associazio 2.100.186 4.765.244 3.489.048 5.272.779 887.119 1.177.84 1.410.60 19.102.826
ni 6 3
riconosciut
e
Fondazion 1.100.613 3.145.010 430.996 1.260.787 327.687 2.721.06 1.072.56 10.058.727
e 4 9
Associazio 1.844.678 3.037.304 7.572.258 6.463.135 659.424 906.671 2.572.28 23.055.756
ni non 7
riconosciut
e
Comitato 44.487 47.839 76.021 79.396 121.564 13.850 42.128 425.286
Cooperativ 149.719 3.462.559 108.329 1.757.971 53.590 19.067 287.856 5.839.091
e sociali
Altre forme 1.006.825 5.664.335 503.515 4.445.648 345.015 1.076.67 1.593.17 14.635.182
3 1
Totale 6.246.508 20.122.291 12.180.16 19.279.71 2.394.400 5.915.17 6.978.61 73.116.868
7 6 1 4
Toscana 310.211 763.196 673.466 1.109.794 143.649 532.760 428.825 3.961.902
Fonte: CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma Giugno 2008
Opportunità e limiti nell’accesso al mercato dei capitali
La vigente normativa in tema di organizzazioni che a vario titolo vengono incluse
nell’ambito del terzo settore pone precisi vincoli alle modalità di reperimento di
capitali. Fatto salvo il caso delle cooperative, che grazie anche alle novità introdotte
dalla riforma del diritto societario, hanno facoltà di ricorrere all’emissione di strumenti
finanziari, ai soggetti regolati dalla legge sulle Onlus (incluse le cooperative sociali) o
dal D.lgs. 155 del 2006 sull’impresa sociale17 è fatto divieto di distribuire, anche in
modo indiretto, utili o avanzi di gestione, comunque denominati.
Tale prescrizione pone un forte vincolo alla possibilità di tali soggetti di ricorrere al
mercato dei capitali per il reperimento delle risorse necessario al proprio sviluppo.
Un interessante tentativo di oltrepassare questo impedimento era stato introdotto con
la proposta di istituire i titoli di solidarietà, una lodevole iniziativa che non ha ancora
avuto, ad oggi, la possibilità di avviarsi e per la cui trattazione rimandiamo al
paragrafo ad essi dedicato.
Tali limitazioni nelle possibilità di accesso al mercato dei capitali si riflettono nel
ricorso prevalente all’indebitamento verso i propri soci o verso istituti di credito
tradizionali quali fonti di capitali.
Il finanziamento bancario
17
D. Lgs. n. 460 del 4 dicembre 1997 “Riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle
organizzazioni non lucrative di utilità sociale” e D. Lgs. 24 marzo 2006 n.155, “Disciplina dell'
impresa sociale,
a norma della legge 13 giugno 2005, n. 118”.
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27. Stando ad alcuni tra i più recenti dati disponibili, l’accesso dei diversi soggetti del
terzo settore al mercato dei capitali si caratterizza in Italia per uno stretto rapporto
con le istituzioni bancarie: il 77% delle organizzazioni intervistate dichiara di avere
una banca di riferimento.
È quanto emerge dall’indagine svolta sul tema della finanza specializzata per il terzo
settore, curata dal centro di ricerche sulla cooperazione dell’Università Cattolica di
Milano18, secondo la quale circa il 60% delle organizzazioni sono pienamente
soddisfatte del proprio rapporto con le banche.
Il ricorso agli istituti bancari si concretizza prevalentemente nell’utilizzo del conto
corrente e nei prestiti a breve termine, mentre i soggetti intervistati dichiarano di non
soffrire di problemi di razionamento del credito.
Le politiche di indebitamento rispecchiano un atteggiamento prudente, consentito
anche dalla possibilità di finanziarsi tramite l’utilizzo degli utili accantonati ed il ricorso
alle istituzioni pubbliche. Tale atteggiamento viene in generale confermato dal basso
livello di patrimonializzazione dei soggetti del terzo settore che risulta dall’analisi dei
bilanci dei soggetti interpellati, con l’importante eccezione delle cooperative sociali
che presentano invece la caratteristica contraria.
Quanto emerge, invece, dall’incrocio delle risultanze dell’indagine con quelle di un
focus group appositamente organizzato per lo svolgimento del presente rapporto19 dà
conto dell’esistenza di tre principali questioni comuni alla maggior parte dei soggetti
interessati:
• Il peso dei tassi di interesse e l’esigenza di reperire capitali a tassi più
favorevoli
• Il livello elevato di garanzie richieste dagli istituti bancari, mediamente
maggiore a quello richiesto alle imprese “profit”
• I tempi lunghi di riscossione dei crediti verso la Pubblica Amministrazione
I principali utilizzi dei finanziamenti ottenuti sono legati ad investimenti indirizzati
all’acquisto di automezzi e attrezzature o alla ristrutturazione e all’acquisto di
immobili. Una ulteriore frequente motivazione delle richieste di credito (in questo caso
generalmente a breve termine) è legata a difficoltà di flussi di cassa derivate dalla
lunghezza nei pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione (fonte di una parte
considerevole del fatturato del settore).
Nonostante i vincoli normativi citati nel precedente paragrafo merita sottolineare che
un migliore accesso alle fonti di finanziamento potrebbe essere già implementabile
tramite un maggiore ricorso ai consorzi fidi, uno strumento che come evidenziato
18
Cesarini F. e Barbetta G.P. (a cura di) “La finanza specializzata per il terzo settore in Italia”, Bancaria
Editrice, Roma, 2004
19
Il giorno 22 maggio, si è tenuto a Firenze un Focus Group organizzato dall’Assessorato alle Politiche
Sociali della Regione Toscana in collaborazione con Avanzi. L’incontro era rivolto agli operatori del
settore e mirava ad indagare le difficoltà di reperimento del credito e le possibilità di sviluppo di
strumenti volti ad ampliare l’accesso al mercato dei capitali . Vi hanno preso parte 15 dirigenti di
altrettante organizzazioni del terzo settore della Toscana: Anpas Toscana, Conferenza Regionale
Misericordie Toscane, Consorzio Costa Toscana, Consorzio Metropoli, Coop. Soc. Compass, Consorzio
Co&so Firenze, Esprit, Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Osservatorio sull’Economia Civile
della CCIAA di Firenze, Cesvot, Fondazione Monnalisa Onlus, Consorzio Eureka, Astir, CNA Toscana,
Federsolidarietà – Confcooperative Toscana.
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28. nello studio curato da Barbetta e Cesarini20, consentirebbe di diminuire le difficoltà di
lamentate dai soggetti non profit nell’accesso al credito bancario.
Il caso delle cooperative sociali
Riteniamo utile a questo punto proporre un approfondimento sulle cooperative sociali.
L’istituto della cooperativa si rende infatti particolarmente interessante nell’ambito del
presente studio, in virtù della maggiore elasticità degli strumenti volti a reperire
capitali, anche tramite l’emissione di azioni, consentita alle cooperative dal nostro
ordinamento, e della tipologia di attività svolta, più simile a quella delle imprese sociali
qui ipotizzate rispetto a quella di altri soggetti non profit.
Ci soffermeremo qui in particolare sulle cooperative sociali, una categoria
maggiormente interessante in questa sede, per la quale sono disponibili dati
aggiornati al 200521.
In quell’anno le cooperative sociali rilevate erano 7.363, con un incremento del 19,5%
rispetto al 2003 e del 33,5% rispetto al 2001.
I consorzi erano invece 284, con un incremento del 3,9% sul 2001.
Il valore della produzione realizzata dal complesso delle cooperative sociali nel 2005
ammontava a circa € 6,381 mld, con un valore medio per unità di € 867.000,
differenziato per tipologia di cooperativa: superiore alle media per le cooperative di
tipo A (€ 951.000) e inferiore per quelle di tipo B (€ 700.000). Il valore della
produzione dei consorzi si è invece attestato su di una media di oltre € 2 mln per
soggetto.
In riferimento ai costi, invece, il dato aggregato era di € 6,227 mld, con un valore
medio di € 846.000.
Significativi anche i dati tendenziali, che registrano un incremento nell’attività
economica del 32,2% sul fronte dei ricavi e del 33,6% su quello dei costi, rispetto ai
valori rilevati soltanto due anni prima (valori ai prezzi del 2005).
In termini assoluti, il complesso delle cooperative sociali può essere suddiviso sulla
base dell’ammontare dei ricavi secondo le classi dimensionali della griglia seguente:
Tabella 11: Classi dimensionali
Importo dei ricavi (K€) Percentuale sul totale delle Percentuale sul totale dei soli
cooperative (A+B) e dei consorzi
consorzi
< 250 44% 27,1%
250 – 500 18,9% 17,3%
500 – 1.000 16,9% 14,8%
1.000 – 2.000 10,8% 12,0%
> 2.000 9% 28,9%
20
Cesarini F. e Barbetta G.P. (a cura di), 2004, op. cit
21
Istat, Le cooperative sociali in Italia. Anno 2005, Roma, 2007
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29. Fonte: elaborazione su dati Istat, Le cooperative sociali in Italia. Anno 2005, Roma, 2007
A differenza del panorama generale delle istituzioni non profit italiane, le fonti di
finanziamento delle cooperative sociali erano di [provenienza][origine]
prevalentemente pubblica. Questo è il caso infatti per il 65,9% del campione, mentre
per il 34,1% dei casi queste erano di origine prevalentemente privata.
La forza lavoro impegnata nelle cooperative sociali era composta da 244.000
lavoratori retribuiti, dei quali 211.000 dipendenti, 32.000 con contratto di
collaborazione e circa un migliaio interinali. A questi si affiancavano 34.000 lavoratori
non retribuiti, divisi tra volontari, volontari del servizio civile e religiosi. Il 71,2 delle
risorse umane complessive era costituito da donne.
Soggetti profit
Chi sono, quanti sono, che cosa fanno
Dare conto della domanda potenziale di capitali reperiti tramite il ricorso alla Borsa
Sociale da parte delle imprese sociali for profit è un esercizio a dir poco complesso.
Una tale stima può essere azzardata sulla base di confronti e di valutazioni dei
parametri della realtà oggi esistente. Faremo dunque un tentativo di raffronto con
alcuni dati significativi utili a rendere meno vaghi i contorni dell’universo di riferimento
delle IFS.
Valgono comunque le considerazioni di ordine qualitativo svolte nel paragrafo
sull’evoluzione del mercato, dove sono state individuate le categorie di imprese
maggiormente vocate alla partecipazione a BS.
Una prima immagine utile allo scopo è quella che dà conto del panorama delle
imprese profit italiane. Questa può essere ricavata dalle rilevazioni Istat del 2006
sulla loro struttura e dimensioni22. L’indagine registra l’esistenza di 4.824.991 imprese
in attività.
Una parte significativa di queste operava negli ambiti maggiormente affini a quelli
ipotizzabili per le imprese a scopo sociale: 20.392 nel campo dell’istruzione, 246.399
in quello della sanità e assistenza sociale e 254.501 in altri servizi pubblici, sociali e
personali. Il totale delle imprese incluse in questi tre settori contava 531.292 unità,
equivalenti al 10,8% del totale.
Va tenuto in considerazione l’aspetto esemplificativo del presente esercizio statistico,
dato che una impresa sociale può essere attiva in qualunque settore dell’attività
economica: basti pensare ad una qualunque azienda che impieghi tra i suoi
dipendenti una certa percentuale di lavoratori svantaggiati.
Una ulteriore dimensione utile a circoscrivere ulteriormente l’universo di indagine è
quello del fatturato (i dati in questo caso risalgono al 2004).
22
Istat, “Struttura e dimensione delle unità locali delle imprese”, Roma, 2009
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30. Tabella 12: La ripartizione delle imprese italiane per fatturato (€K)
Classi di fatturato Imprese Percentuale sul totale Addetti
0 – 100 2.811.576 65,7% 3.761.081
100 - 200 545.795 12,7% 1.325.510
200 – 500 447.748 10,4% 1.786.773
500 – 1.000 203.468 4,7% 1.323.329
1.000 – 2.000 129.449 3,0% 1.244.980
2.000 – 5.000 83.845 1,9% 1.438.985
Oltre 5.000 55.994 1,3% 5.581.102
Totale 4.277.875 99,7% 16.461.760
Fonte: Istat, Struttura e dimensione delle imprese, Anno 2004, Roma, 2006
Individuando come classe dimensionale di interesse per il presente studio quella
compresa tra € 1 e 5 mln, rileviamo come le imprese incluse in questo intervallo
fossero nel 2004, 213.294.
A puro titolo indicativo è possibile continuare l’esercizio iniziato più sopra e operare
una ulteriore discriminazione sui dati Istat 2004 sulla base del settore di attività,
individuando nella classe di fatturato specificata le imprese che operano in ambiti di
attività potenzialmente affini a quello delle imprese sociali come sono state qui
ipotizzate. La rilevazione Istat 2004 divide l’universo delle imprese in quattro settori:
Industria, Costruzioni, Commercio e alberghi, Altri servizi. Le imprese appartenenti
alla categoria Altri servizi che avevano realizzato un fatturato compreso tra € 1 e 5
mln erano 38.455.
Un ulteriore interessante esercizio di analisi è quello contenuto nel già citato
Rapporto sull’impresa sociale curato da Iris Network, di prossima pubblicazione23 e
dal quale riportiamo un estratto:
Anche in questo caso gli autori dello studio hanno preso in considerazione le aziende
profit operanti nei settori nei quali opera la maggior parte delle aziende non profit.
23
Rapporto Iris Network L’IMPRESA SOCIALE IN ITALIA, Economia e istituzioni dei beni comuni, a cura
di Carlo Borzaga e Flaviano Zandonai (disponibile su www.irisnetwork.it)
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31. Tabella 13: Imprese e addetti, secondo il settore prevalente di attività. Anni 2001 e
2007.
2001 2007
Var % Var %
Settore prevalente di attività Imprese Addetti Imprese Addetti Imprese Addetti
Istruzione 14.463 50.555 18.519 71.891 28,0 42,2
Sanità 196.522 363.226 225.052 438.338 14,5 20,7
Ass sociale residenziale 2.307 56.736 3.705 100.997 60,6 78,0
Ass sociale non residenziale 2.730 68.592 5.555 120.785 103,5 76,1
Cultura, sport e ricreazione 237.017 575.126 243.180 704.779 2,6 22,5
Totale 453.039 1.114.235 496.011 1.436.790 9,5 28,9
Totale generale 4.185.045 15.643.272 4.475.192 17.575.843 6,9 12,4
Fonte: elaborazioni degli autori su dati Istat - Archivio statistico delle imprese attive (2001e 2007)
Lo studio in questo caso dà conto di un bacino di quasi 500 mila imprese
appartenenti ai settori in esame attive nel 2007 che impiegavano oltre 1 milione e 400
mila addetti.
Il caso inglese: le Community Interest Companies
A scopo comparativo riteniamo utile proporre al pubblico italiano il caso delle
Community Interest Companies (CIC). Esse costituiscono un nuovo tipo di società
introdotto dal governo inglese nel 2005 con il Companies (Audit, Investigations and
Community Enterprise) Act del 2004 e rivolto alle imprese che svolgano attività di tipo
sociale.
Le CIC sono state create con l’intenzione di dare il via ad un tipo di impresa che
avesse la capacità di riempire il vuoto normativo esistente tra il mondo del non profit e
un numero crescente di iniziative promosse da diversi soggetti dell’economia sociale,
alla ricerca di nuovi strumenti per poter dare risposte adeguate a un contesto in
rapida evoluzione.
L’istituzione delle CIC dava anche una risposta all’esigenza di riconoscimento e
credibilità delle imprese stesse che non desideravano avvalersi della qualifica di
Charities (un istituto paragonabile alle nostre Onlus), [riguardo alla garanzia dell’][in
ragione della necessità di assicurare l’]effettivo svolgimento di attività di interesse
sociale, e [del]la destinazione a tali fini di utili ed incrementi di valore del capitale e del
patrimonio, aprendo così la strada alla possibilità di svolgere un’attività volta alla
produzione sociale senza dover sottostare ai vincoli delle istituzioni non profit.
La CIC si è quindi posta come un soggetto semplice da costituire, con tutte le
flessibilità e le garanzie dell’impresa tradizionale, ma con una serie di caratteristiche
che ne assicurino il beneficio sociale quale fine preponderante.
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