1. Ad Antonino
Storia di uno come tanti
La mia storia racconta di me e di tanti altri che
sono parti del grande meccanismo di nome ILVA.
Qualche anno dopo il matrimonio è arrivato il
primo figlio, avevo bisogno di uno stipendio sicuro
e per uno che è nato a Taranto come me, che ha
visto il fumo nero uscire dai camini prima di
vedere il mare, stipendio sicuro significa ILVA. Per
me e per mia moglie non c’erano problemi, io
avevo abbastanza esperienza, ero sicuro che sarei
riuscito a gestire le complicazioni che potevano
nascere sul lavoro. Ma inquinamento, incidenti,
pericoli, morte, parole alle quali tutti ormai
associavano l’ILVA, mi rimbombavano dentro come
quei tamburi che suonano forte durante le feste di
paese. Le vedevo addensarsi come nuvole nere
sulle teste dei miei colleghi, di mio figlio, di mia
moglie, del mio secondo bambino, di tutti gli
abitanti di Taranto. Ogni giorno quelle parole
diventavano concrete quando, parlando con i miei
colleghi durante la pausa-pranzo, venivo a sapere
di operai che perdevano un dito, una gamba, un
2. occhio, la vita. Mi sembrava di ascoltare di volta in
volta articoli di cronaca nera, bollettini di guerra.
Fino a quando il protagonista di una di quelle
notizie sono diventato io.
Era l’inizio dell’estate, salutai la mia famiglia
pensando già al momento in cui sarei tornato a
casa, nel pomeriggio; avrei portato i miei figli al
mare e, sentendo il profumo di mia moglie, avrei
dimenticato la puzza di ILVA. In fabbrica mi
annunciarono il lavoro che io e un gruppo di
ragazzi avremmo dovuto svolgere quel giorno: la
manutenzione di una conduttura collegata all’
altoforno 1 in cui scorreva l’ Afo, il gas che
percorreva la rete di tubature per arrivare alle
varie utenze dello stabilimento. Avremmo dovuto
eseguire la sostituzione di una valvola. In realtà,
per svolgere questo lavoro, l’ altoforno da cui
proveniva il gas avrebbero dovuto spegnerlo. Ma a
chi conviene perdere mesi di lavoro e di guadagni
per delle vite umane? Io e quei ragazzi ci siamo
ritrovati a 20 metri di altezza, vicino a un tubo che
perdeva gas, un tubo di 3 metri di diametro su cui
lavorare in un’ area inquinata e senza un piano di
3. fuga. Prima di iniziare ci avevano consegnato delle
maschere antigas da quattro soldi, una barzelletta.
La sostanza gassosa aveva ormai inondato anche la
zona di sicurezza. Avevamo posto delle flange
cieche all’interno del tubo per diminuire la
dispersione del gas tossico. Purtroppo ero
costretto a continue chiamate di coordinamento
con operai e superiori; per quelle telefonate, mi
spostavo nell’area in cui non sarebbero dovuti
passare gas, toglievo la mascherina e telefonavo.
Una, due, tre, quattro, venti telefonate, fino a
quando non sentii più niente, avevo le orecchie
ovattate, i sensi intorpiditi, e poi? E poi ricordo le
mie gambe che cedono, i miei polmoni che cedono,
la mia vita che cede.
Di tutto questo cosa rimane? Una vedova e due
bambini orfani di padre, un altro articolo di
cronaca nera che spaventerà i miei colleghi
durante le future pause. Rimane che la sicurezza
non è ancora una priorità e che io lo sapevo che la
zona in cui mi toglievo la maschera non era priva di
gas letale, che le maschere che ti permettono anche
di parlare al telefono esistono. Lo sapevo.
4. Sono nato guardando i fumi neri dei camini che
facevano da nuvole sul mare, sono cresciuto e mi
sono innamorato della mia città che puzza come
una fabbrica, mi sono commosso di fronte ai
manifesti funebri di bambini morti di tumore, sono
invecchiato precocemente con i polmoni e le vie
respiratorie che si ammalavano e che almeno mi
impedivano nel tempo di sentire questa puzza.
Puzza di ILVA.
Flaviana Sgura
(Liceo Cisternino
5^ B scienze umane)