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SINTESI DEI PRINCIPALI RISULTATI DI STUDIO SULLA SINDROME LONG COVID(*)
RAIMONDO VILLANO
(*) Abs. da articolo dell’autore in corso di elaborazione.
Circa il 30% di persone che contraggono COVID-19 sviluppa sintomi a lungo termine, noti come Long COVID-
19. Un team di ricercatori ritiene che ciò potrebbe essere causato dagli stessi anticorpi responsabili della lotta contro
COVID-19, inclini a colpire il proprio stesso tessuto corporeo. Tali risposte immunitarie mal indirizzate possono
accompagnare i pazienti ben oltre il loro recupero da COVID-19. I ricercatori lavorano per una comprensione più
completa delle cellule e degli anticorpi coinvolti. Per quasi tre anni, gli scienziati hanno gareggiato per comprendere
le risposte immunitarie nei pazienti con COVID-19 grave: un enorme sforzo, volto a definire dove
finisce l’immunità sana (www.thelancet.com/journals/lanmic/article/PIIS2666-5247(21)00025-2/fulltext) e inizia
l’immunità distruttiva. Nei primi giorni di pandemia molta attenzione si è concentrata sulle segnalazioni
di infiammazioni dannose (www.frontiersin.org/articles/10.3389/fimmu.2020.01446/full) e le cosiddette tempeste
di citochine (doi.org/10.1056/NEJMra2026131) - pericolose reazioni immunitarie che possono portare danni ai
tessuti e morte - in pazienti con COVID-19 grave. Non molto tempo dopo i ricercatori iniziano a identificare gli
anticorpi che prendono di mira il corpo del paziente (https://theconversation.com/covid-19-causes-some-patients-
immune-systems-to-attack-their-own-bodies-which-may-contribute-to-severe-illness-148509) piuttosto che
attaccare il virus SARS-CoV-2, che causa COVID-19. Questi studi hanno rivelato che i pazienti con COVID-19
grave condividono alcuni tratti chiave delle malattie autoimmuni croniche, in cui il sistema immunitario del paziente
attacca cronicamente i propri tessuti (https://theconversation.com/an-autoimmune-like-antibody-response-is-
linked-with-severe-covid-19-146255). Scienziati da tempo sospettano (https://dx.doi.org/10.1111%2Fimr.12091)
e talvolta persino documentano collegamenti tra infezione virale e malattie autoimmuni
croniche(https://doi.org/10.1016/j.it.2009.05.005), ma la ricerca resta oscura. Tuttavia, la pandemia di COVID-19
ha offerto l’opportunità di comprendere meglio le potenziali connessioni tra queste
condizioni (https://theconversation.com/despite-its-disastrous-effects-covid-19-offers-some-gifts-to-medicine-an-
immunology-expert-explains-what-it-can-teach-us-about-autoimmune-disease-174952).
Il 31 agosto 2022 un nuovo studio pubblicato (primo firmatario: Matthew C. Woodruff, Dipartimento di Medicina,
Divisione di Reumatologia, Lowance Center for Human Immunology, Emory University, Atlanta, GA, USA) sulla
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rivista Nature, aiuta a fare luce su queste domande. Ora si sa che nei pazienti con COVID-19 grave, molti degli
anticorpi in via di sviluppo responsabili della neutralizzazione della minaccia virale prendono di mira
contemporaneamente i propri organi e tessuti. Si mostra pure che gli anticorpi autodiretti possono persistere per
mesi o addirittura per anni in coloro che soffrono di Long COVID-19. La comprensione del legame tra immunità
antivirale e malattie autoimmuni croniche si sta evolvendo rapidamente. In effetti, il sistema immunitario commette
errori quando è sotto costrizione. È facile presumere che il sistema immunitario sia concentrato sull’identificazione
e la distruzione di invasori, ma non è così, almeno in alcune circostanze. Il sistema immunitario, anche nel suo stato
sano, ha un contingente di cellule pienamente in grado di colpire e distruggere cellule e tessuti del suo stesso
organismo. Per prevenire l’autodistruzione, il sistema immunitario si basa su una serie intricata di dispositivi di
sicurezza, chiamati collettivamente auto-tolleranza per identificare ed eliminare le cellule immunitarie
potenzialmente “traditrici”. Uno dei passaggi più importanti in questo processo si verifica quando il sistema
immunitario costruisce il suo arsenale contro una potenziale minaccia. Quando il sistema immunitario incontra per
la prima volta un agente patogeno o anche una minaccia percepita, come un vaccino che somiglia a un virus, recluta
rapidamente cellule “B” che hanno il potenziale per diventare produttori di anticorpi. Quindi, qualsiasi di queste
reclute “ingenue” di cellule B - ingenuo è un termine tecnico usato in immunologia - che dimostrano la capacità di
attaccare con competenza l’invasore viene messo in una sorta di campo di addestramento
(https://doi.org/10.3389/fimmu.2018.02469). Qui, le cellule sono addestrate a riconoscere e combattere meglio la
minaccia. Il periodo di allenamento è intenso e gli errori non sono tollerati; i linfociti B con qualsiasi potenziale
distinguibile per attacchi mal diretti contro il loro ospite vengono uccisi. Tuttavia, come qualsiasi processo di
formazione, questo accumulo e mobilitazione richiede tempo, in genere una o due settimane
(https://doi.org/10.1016/j.immuni.2007.07.009). Pertanto, quando la minaccia è più immediata, quando qualcuno
sta letteralmente combattendo per la propria vita in un’unità di terapia intensiva, si è scoperto che sotto lo stress di
una grave infezione virale con SARS-CoV-2, il processo di addestramento
crolla (https://dx.doi.org/10.2139%2Fssrn.3652322) e viene sostituito da una risposta di
emergenza (https://doi.org/10.1038/s41590-020-00814-z) in cui le nuove reclute con poco addestramento sono
portate in battaglia di corsa: il fuoco amico è il risultato sfortunato. Tuttavia le risposte immunitarie ad alto rischio
sono per lo più transitorie. Il lavoro del team di Woodruff rivela che nel fervore della battaglia con un grave COVID-
19, gli stessi anticorpi responsabili della lotta contro il virus sono sconvenientemente inclini a prendere di mira i
tessuti del paziente. È importante sottolineare che questo effetto sembra per lo più limitato a malattie gravi. Si sono
identificate le cellule che producono questi anticorpi canaglia molto meno frequentemente nei pazienti con forme
lievi della malattia le cui risposte immunitarie erano più misurate. Quindi ciò sta a significare che fortunatamente
non tutti coloro che contraggono la COVID-19 grave sviluppano una malattia autoimmune. Seguendo i pazienti
dopo che la loro infezione si è risolta, si è scoperto che mesi dopo, la maggior parte delle indicazioni preoccupanti
di autoimmunità si sono attenuate. E questo ha un senso. Sebbene si stia identificando questo fenomeno in COVID-
19 umano, i ricercatori che studiano queste risposte immunitarie di emergenza da più di un decennio nei topi hanno
determinato che sono “per lo più” di breve durata (https://doi.org/10.1016/j.immuni.2020.11.006). Implicazioni
per la ripresa dal lungo COVID-19. Sebbene la maggior parte delle persone si riprenda completamente
dall’infezione virale, fino al 30% di persone non è tornato alla normalità nemmeno tre mesi dopo il
recupero (https://doi.org/10.1371/journal.pmed.1003773). Ciò ha creato un gruppo di pazienti che vivono quanto è
noto come sequele post-acute di COVID-19, o PASC, terminologia tecnica per indicare il Long COVID-
19 (https://www.cdc.gov/mmwr/volumes/70/wr/mm7037a2.htm). Tale condizione è caratterizzata da sintomi
debilitanti (https://theconversation.com/long-covid-leaves-newly-disabled-people-facing-old-barriers-a-
sociologist-explains-175424) che possono includere la perdita a lungo termine del gusto, dell’olfatto o di entrambi,
affaticamento generale, nebbia cerebrale e una varietà di altre condizioni. Questi pazienti continuato a soffrire
e giustamente cercano risposte (https://theconversation.com/deciphering-the-symptoms-of-long-covid-19-is-slow-
and-painstaking-for-both-sufferers-and-their-physicians-164754). Una domanda ovvia per i ricercatori che stanno
studiando questi pazienti è se gli stessi anticorpi auto-mirati che stanno emergendo in COVID-19 grave siano
persistenti in coloro che soffrono di Long COVID-19. La risposta è affermativa. Lo studio del team di Woodruff
chiarisce che gli auto-anticorpi di nuova concezione possono persistere per mesi. Inoltre, nello studio si scopre che
queste risposte anticorpali non sono limitate a coloro che si stanno riprendendo da una malattia grave e sono
facilmente identificabili in un ampio sottoinsieme di pazienti Long COVID-19 che invece si erano ripresi da malattie
più lievi. Proprio come era nella corsa per comprendere meglio le cause della malattia acuta a inizio della pandemia,
i ricercatori stanno ora lavorando per ottenere una comprensione più completa delle cellule e degli anticorpi che
dirigono questo auto-attacco per mesi e anni dopo la risoluzione dell’infezione. Tra le questioni da chiarire con il
tempo e il continuo lavoro in quest’area critica vi sono, ad esempio: se i fenomeni auto-immuni stanno contribuendo
direttamente ai sintomi che i malati di COVID-19 stanno sperimentando da tempo; se, in tal caso, esistono interventi
terapeutici in grado di attenuare o eliminare tali minacce; se i pazienti con Long COVID-19 sono maggiormente a
rischio di sviluppare malattie autoimmuni croniche vere in futuro; oppure, se tutto ciò è solo una falsa pista, una
stranezza temporanea del sistema immunitario che va a risolversi da sola.
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Ad aprile 2020 si verifica anche il primo caso in Italia di una paziente positiva a Covid dopo 55 giorni.
A metà 2020 un sondaggio statunitense (eseguito utilizzando un’applicazione creata dalla società di scienze della
salute Zoe in collaborazione con il King’s College di Londra e il Massachusetts General Hospital) condotto su oltre
4 mila pazienti affetti da Covid-19 ha rilevato che circa il 10% dei pazienti di età compresa tra i 18 e i 49 anni ha
ancora problemi di sintomi quattro settimane dopo essersi ammalato, che il 4,5% di tutte le età ha avuto sintomi per
più di otto settimane e che il 2,3% li ha avuti per più di 12 settimane. Un altro studio preliminare che esaminava
soprattutto i pazienti Covid non ospedalizzati ha rilevato che circa il 25% aveva ancora almeno un sintomo dopo 90
giorni. Uno studio europeo ha rilevato che circa un terzo dei 1.837 pazienti non ospedalizzati ha riferito di aver
bisogno ancora di un’assistenza circa tre mesi dopo l’inizio dei sintomi (The Wall Street Journal). Con più di 46
milioni di casi in tutto il mondo, anche le stime più basse si tradurrebbero in milioni di persone che vivono con
condizioni a lungo termine, a volte disabilitanti, aumentando l’urgenza di studiare questa popolazione di pazienti,
sostengono i ricercatori, che aggiungono che le loro rilevazioni potrebbero avere implicazioni sul modo in cui i
medici definiscono il recupero e le terapie che prescrivono. Secondo i sanitari, l’ansia causata dall’isolamento
sociale e dall’incertezza che circonda la pandemia potrebbe esacerbare i sintomi, anche se questa non è
probabilmente la causa primaria. Anche in altri focolai virali, tra cui la SARS originale, MERS, Ebola, H1N1 e
influenza spagnola, sono stati associati sintomi a lungo termine. Gli scienziati hanno riferito che alcuni pazienti
hanno sofferto di stanchezza, problemi di sonno e dolori articolari e muscolari molto tempo dopo che il loro corpo
ha eliminato il virus, secondo una recente revisione che monitora gli effetti a lungo termine delle infezioni virali.
Ciò che differenzia Covid-19 è la vasta portata dei suoi effetti.
Ad agosto 2020 Trisha Greenhalgh, Professore di cure primarie presso l’Università di Oxford, è l’autore principale
di uno studio pubblicato che è tra i primi a definire i pazienti cronici Covid come quelli con sintomi che durano
oltre 12 settimane e che abbracciano sistemi multipli di organi (British Medical Journal).
Uno degli effetti a lungo termine più insidiosi di Covid-19 riguarda un grave affaticamento. Da uno studio
pubblicato il 14 settembre 2020, emerge che negli precedenti nove mesi, un numero crescente di persone ha
riportato stanchezza e malessere paralizzanti dopo aver contratto il virus: faticano ad alzarsi dal letto o a lavorare
per più di pochi minuti o ore alla volta (Nature).
In ottobre, il National Institutes of Health aggiunge una descrizione di tali casi alle sue linee guida per il trattamento
di Covid-19, riferendo che i medici segnalano sintomi a lungo termine e disabilità legate a Covid-19 in persone con
malattie più lievi. Elizabeth Moore, avvocato di 43 anni e madre di tre figli a Valparaiso in Indiana, su Sars-CoV-2
dichiara che “non ci si rende conto di quanto si sia fortunati per la tua salute, finché non lo si becca”: pre-Covid-
19, era un’appassionata sciatrice e si allenava in palestra più volte alla settimana; da quando si è ammalata a marzo
2020, ha avuto problemi di memoria e gastrointestinali e ha perso quasi 13 chili. Si stima che la percentuale di
pazienti affetti da Covid-19 che soffrono di sintomi a lungo raggio sia molto ampia.
Il 5 ottobre 2020 uno studio francese pubblicato sul follow-up di adulti con COVID-19 non critico due mesi
dopo l’insorgenza dei sintomi evidenzia fenomeni gravi come encefaliti, stanchezza muscolare, difficoltà di
movimento e addirittura ictus anche in pazienti giovani. Su 150 pazienti trattati con Covid lieve o moderato, due
terzi riferivano di avere ancora sintomi a 30 e 60 giorni di distanza dalla guarigione e più di un terzo si sentiva
ancora malato o in una condizione clinica peggiore due mesi dopo rispetto all’esordio della malattia. Questi sintomi
prolungati erano associati soprattutto ad un’età compresa tra 40 e 60 anni. Inoltre, quasi 1 giovane su 5 di un’età fra
18 e 34 anni e senza patologie preesistenti, ha riferito di non essere tornato in perfetto stato di salute. I sintomi più
frequenti hanno riguardato strascichi sulle capacità mentali con perdita di memoria e difficoltà di concentrazione,
oltre ad affaticamento, mancanza di respiro, perdita di gusto e olfatto, ecc. (Clinical Microbiology and Infection of
the European Society of Clinical Microbiology and Infectious Diseases ESCMID).
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Il 10 novembre 2020 una ricerca pubblicata condotta su 384 individui ricoverati in ospedale Covid mostra come il
53% di essi sia rimasto senza fiato durante una valutazione di follow-up uno o due mesi dopo, con il 34% che ha
avuto la tosse ed il 69% ha riferito di avere un affaticamento (Bmj Journals).
Da uno studio pubblicato il 9 novembre 2020 emerge che oltre la metà dei partecipanti ha affaticamento
persistente mesi dopo i sintomi iniziali della malattia, ma la causa scatenante ancora non si conosce (Plos One).
A quasi un anno dall’avvio della pandemia globale di coronavirus, scienziati, medici e pazienti stanno iniziando a
decifrare un fenomeno sconcertante: per molti pazienti, compresi i giovani che non hanno mai richiesto il ricovero
ospedaliero, la Covid-19 ha un secondo atto devastante. Molti hanno a che fare con sintomi che si manifestano
settimane o mesi dopo la loro guarigione, spesso con nuove complicazioni inattese che possono colpire l’intero
corpo: grave stanchezza, problemi cognitivi e vuoti di memoria, problemi digestivi, battito cardiaco irregolare, mal
di testa, vertigini, pressione sanguigna fluttuante, persino perdita di capelli. Ciò che sorprende i medici è che molti
di questi casi coinvolgono persone i cui casi originari non erano i più gravi, minando l’ipotesi secondo cui i pazienti
con Covid-19 lieve si riprendono entro due settimane.
A dicembre 2020 uno studio americano pubblicato conferma sostanzialmente che, anche nel lungo termine e chi
ha avuto una malattia non grave, può soffrire di disturbi neurologici frequenti. Questa ricerca pubblicata ha
esaminato 74 pazienti Covid positivi tra metà aprile ed il 1° luglio 2020 curati nell’ospedale di Boston. L’età media
era di 64 anni e 47 dei 74 pazienti avevano una storia di malattia neurologica. Tra essi, alcuni hanno subito un ictus,
altri crisi epilettiche e la percentuale più alta confusione ed alterazione dello stato mentale. Tutte le complicazioni
sono causa di Covid perché subentrate soltanto dopo l’infezione ed indipendentemente dalla gravità con cui è stato
preso il virus (Neurology Clinical Practice).
Il 29 dicembre 2020 a Genova il Prof. Matteo Bassetti, Direttore della Clinica di Malattie infettive del locale
ospedale San Martino e docente di Malattie infettive all’Università di Genova, rende noto il caso di un paziente
Covid positivo per 250 giorni ininterrotti: situazione mai vista a livello di letteratura scientifica internazionale. Il
paziente non è però sopravvissuto a tale prolungata condizione di positività a Sars-CoV-2. Il virologo comunque
non fa allarmismo, evidenziando che il medesimo soggetto infettato era immunodepresso (Il Giornale).
Il 16 gennaio 2021 da uno studio pubblicato emerge che, su 1.733 pazienti con Covid dimessi da un ospedale cinese
a Wuhan, sei mesi dopo l’insorgenza della malattia il 76% di loro ha riportato almeno un sintomo che persisteva: il
più frequente era relativo ad affaticamento e debolezza muscolare. Inoltre, più del 50% presentava anomalie al
torace indipendentemente dalla gravità della malattia (The Lancet).
Nella terza decade di gennaio 2021 vi è una revisione delle linee guida Oms sulla gestione clinica del Long
Covid. Tra le raccomandazioni formulate dall’Oms vi è che i pazienti con Covid - sia confermato che sospetto -
abbiano accesso alle cure di follow-up se hanno sintomi persistenti, nuovi o mutevoli. L’Organizzazione precisa
che “la comprensione di questa condizione post Covid è una delle aree di lavoro prioritarie dell’Oms” e per questo
a febbraio 2021 sono organizzate “una serie di consultazioni per raggiungere un consenso su una descrizione di
questa condizione e dei suoi sottotipi e sulle definizioni dei casi. Questa comprensione scientifica porterà anche a
definire un nome per questa condizione. Le consultazioni includeranno un’ampia gamma di parti interessate, inclusi
gruppi di pazienti”. Inoltre, fra le raccomandazioni l’Oms suggerisce per i pazienti Covid che si trovano a casa l’uso
del saturimetro per la misurazione dei livelli di ossigeno nel sangue. Questo monitoraggio deve essere coordinato
con altri aspetti dell’assistenza domiciliare, come l’educazione del paziente e del caregiver e il regolare follow-up
del malato. Per chi è ricoverato viene suggerito l’uso di anticoagulanti a basso dosaggio per prevenire trombosi. Per
chi è ospedalizzato e sotto ossigeno (compreso quello nasale ad alto flusso) o ventilazione non invasiva, l’Oms
suggerisce di ‘pronare’ i pazienti posizionandoli a pancia in giù da svegli per aumentare il flusso di ossigeno. Le
linee guida includono anche raccomandazioni sull’uso di pacchetti di assistenza per sistematizzare la fornitura di
cure per i pazienti Covid, e la raccomandazione di favorire, nel prendere decisioni per la cura del paziente, il giudizio
clinico rispetto ai modelli. Le raccomandazioni sono state formulate da un gruppo di esperti indipendente, il
Guideline Development Group, sulla base di “rapide revisioni dettagliate di tutte le evidenze disponibili”, e vengono
aggiornato regolarmente man mano che arrivano più dati (Doctor33).
Il 19 gennaio 2021 è pubblicato uno studio (prima autrice: Serena Venturelli, medico del reparto Malattie infettive
dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII) sulla rivalutazione ambulatoriale post-acuta della sopravvivenza a
COVID-19 nella provincia di Bergamo, di cui di seguito si riporta una sintesi. Estratto. La provincia di Bergamo
è stata duramente colpita dall’epidemia di coronavirus 2019 (COVID-19). Si è organizzato un programma di follow-
up multidisciplinare finanziato con fondi pubblici per i pazienti COVID-19 dimessi dal pronto soccorso o dai reparti
di degenza dell’Ospedale “Papa Giovanni XXIII”, il più grande ospedale pubblico della zona. Al 31 luglio, i primi
767 pazienti avevano completato la prima valutazione multidisciplinare post-dimissione. I pazienti sono entrati nel
programma in un tempo mediano di 81 giorni dopo la dimissione. Tra questi, il 51,4% lamentava ancora sintomi,
più comunemente affaticamento e dispnea da sforzo, e il 30,5% soffriva ancora di conseguenze psicologiche post-
traumatiche. La diffusione polmonare compromessa è stata riscontrata nel 19%. Il 17% aveva valori di D-dimero
due volte superiori alla soglia per la diagnosi di embolia polmonare (due trombosi polmonari inattese e clinicamente
silenti sono state scoperte studiando l’impressionante aumento del D-dimero). I sopravvissuti a COVID-19
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presentano una complessa gamma di sintomi, la cui patologia comune sottostante, se presente, deve ancora essere
chiarita: è fondamentale un approccio multidisciplinare, per affrontare i diversi problemi e cercare soluzioni efficaci.
Introduzione. L’ASST ‘Papa Giovanni XXIII’ è il principale ospedale pubblico della provincia di Bergamo, al
servizio di una popolazione di circa 1 110 000 abitanti. Questa provincia è stata la più colpita dall’ondata epidemica
iniziale della malattia da coronavirus 2019 (COVID-19) in Italia, a partire dal 22 febbraio, con 2346 decessi
notificati e un aumento stimato del +568% della mortalità per tutte le cause (5058 decessi in eccesso) nel periodo
20 febbraio-31 marzo 2020, rispetto alla media dello stesso periodo negli anni 2015-2019. Le manifestazioni
cliniche acute di COVID-19 sono state descritte in dettaglio, anche se sono disponibili pochi dati pubblicati sulla
fase post-acuta, sulle complicanze a medio termine e sui potenziali danni di lunga durata. Stanno aumentando le
prove aneddotiche sul cosiddetto “COVID lungo”: una sindrome difficile da definire, con alcuni pazienti che
lamentano sintomi molti mesi dopo il recupero dalla fase acuta. Per mobilitare le risorse sanitarie, affrontare i
principali problemi clinici dei sopravvissuti e stabilire le priorità di salute pubblica, sulla scia di possibili
recrudescenze epidemiche, appare di primaria importanza una valutazione multidisciplinare dei sopravvissuti al
COVID-19. Presso l’istituzione, si è organizzato un servizio ambulatoriale dedicato finanziato con fondi pubblici
per il follow-up dei sopravvissuti: entro la fine di settembre 2020, 1562 persone avevano completato la loro prima
valutazione post-dimissione; presentiamo i dati preliminari osservati nei primi 767 pazienti (dal 2 maggio al 31
luglio). Metodi. È stato ottenuto dall’ospedale un elenco di tutti i pazienti dimessi dal pronto soccorso (DE) o
ricoverati nei reparti dell’ospedale, con qualsiasi condizione possibilmente correlata all’infezione da sindrome
respiratoria acuta grave-coronavirus-2 (SARS-CoV-2) database delle cartelle cliniche elettroniche. Sono state
escluse le donne gravide asintomatiche ricoverate per parto e le pazienti asintomatiche trovate positive al test
molecolare ricoverate per procedure programmate per altre patologie. Tutti i pazienti in elenco, se raggiungibili
telefonicamente o via mail, sono stati invitati a partecipare al programma, con l’esclusione dei pazienti pediatrici
(<18 anni). I pazienti ancora ricoverati sono stati identificati ma inseriti in una “lista d’attesa” per essere richiamati
al programma una volta dimessi. L’iscrizione al programma era su base volontaria e richiedeva un tampone
rinofaringeo doppio negativo per SARS-CoV-2 RNA (i casi positivi venivano nuovamente testati regolarmente fino
all’ottenimento di un tampone doppio negativo). I soggetti con deficit cognitivo sono stati accompagnati da un
caregiver, che ha aiutato a fornire informazioni sulla storia medica ea ricordare lo stato di salute pre-episodio acuto.
Si è offerto una valutazione in due fasi: Fase 1: valutazione dell’infermiere, esami del sangue (inclusi emocromo
completo, test di funzionalità epatica, test di funzionalità renale, D-dimero, test di coagulazione, test di funzionalità
tiroidea e anticorpi tiroidei, glucosio, emoglobina glicata, lattato deidrogenasi, peptide natriuretico cerebrale, C-
proteina reattiva), radiografia del torace, elettrocardiogramma, test di funzionalità polmonare completa con
diffusione, valutazione psicologica, valutazione dei bisogni riabilitativi. Fase 2 (tre giorni dopo): consultazione
malattie infettive e successivo invio alle cure primarie o ad altri specialisti (principalmente medicina respiratoria,
cardiologia, neurologia, endocrinologia, medicina fisica e riabilitativa, ematologia) come ritenuto opportuno. Nella
fase 1 sono state adottate diverse scale di valutazione. Per la valutazione psicologica, sono stati somministrati
questionari self-report per valutare il disturbo da stress post-traumatico (PTSD), i sintomi di ansia e depressione e
la resilienza. Sono state utilizzate le seguenti scale: Impact of Events Scale - Revised (IES-R), scala di ansia e
depressione ospedaliera (HADS) e Scala di resilienza per adulti (RSA). Da luglio, un test di screening
neuropsicologico, il test Montreal Cognitive Assessment (MoCA), è stato introdotto per tenere conto del crescente
numero di pazienti che lamentano compromissione cognitiva (come memoria e deficit di attenzione). La scala
utilizzata era basata su punteggi equivalenti da 0 a 4, in base all’adeguamento per età e livello di istruzione dei
punteggi MoCA. In questa scala modificata, il punteggio “patologico” era “0”. I risultati dei questionari venivano
sempre discussi con i pazienti al termine del colloquio psicologico clinico. Per la valutazione dei bisogni riabilitativi
sono state utilizzate le scale Barthel Index e Brief Fatigue Inventory. Le condizioni preesistenti all’episodio acuto
di COVID-19 sono state valutate utilizzando queste due scale, chiedendo ai pazienti di ricordare i loro sintomi.
L’approvazione etica è stata concessa dal comitato etico ‘Papa Giovanni XXIII’ dell’ASST. I dati sono stati raccolti
utilizzando un database Microsoft Access. Il consenso scritto è stato ottenuto da tutti i partecipanti al momento
dell’arruolamento. Tutti i pazienti hanno avuto accesso al programma di follow-up indipendentemente dalla loro
decisione di partecipare allo studio. Il sistema sanitario regionale ha coperto tutti i costi del servizio, ad eccezione
delle visite endocrinologiche, dermatologiche e reumatologiche. Risultati. Fino al 31 luglio, 2965 pazienti
soddisfacevano i criteri (946 dimessi dal PS e 2019 ricoverati). Seicentoquarantasei di loro erano morti (505 prima
della dimissione) e 405 avevano rifiutato di partecipare. Dei restanti 1914, 767 avevano completato la valutazione
post-dimissione in due fasi entro il 31 luglio. Nessuno di questi pazienti ha rifiutato di fornire il consenso per la
raccolta dei dati per questo studio osservazionale. COVID-19 è stato confermato da una PCR SARS-CoV-2-RNA
positiva in tutti tranne 46 casi, tra i quali 37 avevano una sierologia positiva (da LIAISON®
, DiaSorin, Saluggia
VC, fino al 10 luglio e da ElecSys®
, Roche, successivamente). Le cartelle cliniche dei restanti nove pazienti sono
state esaminate da uno specialista di identificazione senior e giudicate “probabile COVID-19”. Dei 767 pazienti
arruolati, 252 erano donne (32,9%). L’età media era di 63 anni (S D . 13,6, range 20-92). Seicentosessantotto persone
sono state ricoverate in ospedale con 66 (8,6%) di loro che hanno richiesto il ricovero nell’unità di terapia intensiva
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(ICU). L’otto per cento dei pazienti ricoverati ha avuto una degenza ospedaliera totale di oltre 60 giorni. I
sopravvissuti sono entrati nel nostro programma a una mediana di 81 giorni (IQR = 66–106) dopo la dimissione dal
PS o dai reparti e una mediana di 105 giorni (IQR = 84–127) dopo la comparsa dei primi sintomi correlati a COVID
-19. Il giorno della prima visita al nostro servizio, erano stati a casa loro per una mediana di 68 giorni (IQR = 51-
92) (332 pazienti, il 43% della nostra coorte, sono stati trasferiti in altre strutture prima di tornare a casa). Al
momento della valutazione dell’ID, 394 pazienti (51,4%) riferivano di essere ancora sintomatici, con affaticamento
e dispnea da sforzo come i sintomi più riportati. Le donne erano più sintomatiche degli uomini, con affaticamento
segnalato quasi il doppio della frequenza. Dei pazienti sintomatici, 257 (33,5%) hanno dichiarato di “non sentirsi
completamente guariti”, quando richiesto espressamente. I restanti 137 pazienti (17,9%) hanno manifestato solo
sintomi minori con scarse o nessuna implicazione per le loro attività quotidiane: come tali, si consideravano
“guariti”. Centottantasei pazienti (24,2%) erano ancora in trattamento medico aggiuntivo, introdotto durante il
ricovero, con gli anticoagulanti come i più frequenti. La dispnea auto-riferita utilizzando la scala di dispnea del
Consiglio di ricerca medica modificata (mMRC) era presente in 228 pazienti (29,8%), di cui 52 pazienti
presentavano dispnea “moderata-grave”. Sulla base dei risultati della scala dell’indice di Barthel, 121 pazienti (16%)
non erano più completamente indipendenti, di questi solo sei sono diventati moderatamente-severamente
dipendenti. Il test Brief Fatigue Inventory ha riscontrato che 334 pazienti (44,1%) lamentavano affaticamento di
nuova insorgenza (145 con affaticamento moderato-grave). Mentre l’Impact of Event Scale-Revised (IES-R) ha
identificato 222 pazienti (30,5% di 727) con aspetti traumatici correlati a COVID-19, la RSA ha evidenziato che
per 679 (95,5% di 711) avevano risorse sufficienti per reagire. Lo screening MoCa, introdotto a luglio, è risultato
patologico solo in 2 dei 304 pazienti sottoposti a test, nonostante 69 abbiano riportato sintomi correlati. I test di
funzionalità polmonare hanno identificato 27 pazienti (3,7%) con ostruzione, 85 (11,8%) con pattern restrittivo e 6
(0,9%) con pattern misto. Per 51 pazienti il risultato del test era controindicato o non diagnostico. La capacità diffusa
dei polmoni per il monossido di carbonio (DLCO) è stata ridotta nel 19% dei pazienti. La proteina C-reattiva, il D-
dimero e la lattato-deidrogenasi erano al di sopra del limite superiore della norma (ULN) rispettivamente nel 7%,
38% e 22% dei casi. Al follow-up sono state scoperte due trombosi subsegmentali polmonari asintomatiche,
studiando l’impressionante elevazione del D-dimero. Gli anticorpi anti-tireoglobulina e perossidasi tiroidea sono
stati trovati elevati nel 15% dei pazienti, con il 5% di essi (6 su 115) che mostrava una concomitante alterazione
dell’ormone stimolante la tiroide (TSH). Duecentocinquantatre pazienti (32,9%) hanno avuto complicazioni
correlate a SARS-CoV-2 durante la fase acuta, di cui le più frequenti sono state: Neuropsichiatrico (8,7%) (es.
delirio, sindrome depressiva, psicosi, ictus, encefalite, sindrome di Guillain-Barré, polineuropatia; Cardiaco (8,5%)
(ad esempio: aritmia, ischemia, miocardite); Ulteriori complicanze polmonari (7,1%) (ad esempio: polmonite
batterica, versamento pleurico, pneumotorace); Trombotico (6,1%) (ad esempio: embolia polmonare, trombosi
venosa profonda). Le complicanze si sono verificate quasi esclusivamente durante la fase acuta, ma sono state
valutate al follow-up per evitare di perdere quelle di comparsa tardiva. Dopo la valutazione dell’ID, 379 pazienti
(49,4%) sono stati indirizzati a percorsi specialistici. La maggior parte (281 pazienti; 36,6%) è stata indirizzata alla
medicina respiratoria. Diversi pazienti sono stati indirizzati a più di una specialità. Discussione. A nostra
conoscenza, il nostro rapporto rappresenta una delle più grandi coorti fino ad oggi, descrivendo le conseguenze a
medio termine dell’infezione da SARS-CoV-2. Si tratta di uno studio monocentrico, riferito a una popolazione
omogenea, con un’ampia maggioranza (88,4%) di pazienti ricoverati in ospedale di cui il 9,7% necessitanti di terapia
intensiva: in altre coorti finora pubblicate, i criteri di selezione si basavano sul solo avere un test molecolare positivo.
Dei pazienti ricoverati della nostra coorte, il 43% è stato trasferito in altre strutture almeno una volta durante la
degenza ospedaliera, vivendo quello che si potrebbe definire un ‘viaggio’ tra diversi ospedali e servizi ospedalieri
(l’8% dei pazienti ha avuto una degenza totale di più di 60 giorni). Si è rintracciato tutte le informazioni accessibili,
caso per caso, lungo tutti questi movimenti. Un altro punto di forza di questo studio è che i pazienti sono stati cercati
attivamente (via telefono e posta) ed esaminati fisicamente e intervistati (in alcuni casi, con l’aiuto di un caregiver):
questo ha fornito parità di accesso al servizio di follow-up, superando le barriere poste con consulenze telefoniche
e video. Infine, fintanto che COVID-19 sembra colpire diversi sistemi di organi, in alcuni casi anche senza alcuna
malattia polmonare rilevante, gli ampi criteri di selezione hanno permesso di rappresentare un ampio scenario delle
conseguenze di COVID-19 nella popolazione. I pazienti che sopravvivono a COVID-19 mostrano una serie
complessa di condizioni, che vanno da lievi a potenzialmente pericolose per la vita (ad esempio: embolia polmonare
a esordio tardivo). L’intervento dei ricercatori ha avuto il vantaggio di valutare i bisogni di salute e, allo stesso
tempo, di offrire interventi per affrontarli, all’interno del quadro approvato dall’OMS di “Riconoscimento, ricerca
e riabilitazione”, come invocato per i malati di COVID da lungo tempo. Trecentonovantaquattro partecipanti
(51,4%) erano ancora sintomatici alla valutazione ID, il che è in linea con le osservazioni di altri autori. In
particolare, il 33,5% si è descritto come “non ancora guarito”: a un tempo mediano di 105 giorni dall’esordio, queste
persone rientrano probabilmente nella “definizione operativa” (ancora da definire rigorosamente) di “malati di Long
COVID”. La natura dei sintomi di long COVID deve ancora essere spiegata, ma sembra ragionevole provare a
separare i sintomi legati alla sindrome da stanchezza cronica post-virale, da quelli dovuti alla sindrome da malattia
post-critica o disturbo da stress post-traumatico, soprattutto in una coorte ad alto tasso di ospedalizzazione e
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lungodegenza, come quella oggetto del presente studio. In tale sforzo, dovrebbe essere presa in considerazione una
valutazione completa e multidisciplinare dei pazienti dopo l’episodio acuto di COVID-19. Si sono adottate per ogni
paziente diverse scale di autovalutazione, test di laboratorio e strumentali completi: la loro correlazione ai sintomi
riportati e la loro concordanza incrociata saranno oggetto dei prossimi sforzi. Le conseguenze a medio termine di
COVID-19 non si limitano alle malattie polmonari e coprono una vasta gamma di sistemi di organi: il meccanismo
sottostante potrebbe essere una sorta di compromissione del microcircolo. Si propone che gli studi siano indirizzati
in tale direzione. Questo studio ha una serie di limitazioni: 1) la sequenza temporale dell’arruolamento e delle
valutazioni non era standardizzata: si è visto pazienti a intervalli variabili dall’insorgenza di COVID-19, rendendo
meno rigorosi i confronti tra i gruppi; ciò ha a che fare con l’immediata instaurazione dell’intervento dei ricercatori,
subito dopo la fine della prima ondata dell’epidemia; 2) i criteri di inclusione sono pragmatici, ma poco
rappresentativi dell’effettivo carico di casi nella provincia di Bergamo; durante l’epidemia iniziale, i fattori
confondenti hanno alterato il case mix ospedaliero in entrambi i modi: i pazienti gravemente malati non hanno
ottenuto l’accesso, a causa del guasto del sistema di ambulanza e i pazienti meno gravemente colpiti hanno evitato
di consultare il Pronto Soccorso a causa del sovraffollamento; 3) il criterio di un doppio test negativo prima
dell’iscrizione ha ritardato la valutazione di una parte della coorte dello studio: non è ancora noto se i pazienti con
tampone persistentemente positivo condividano caratteristiche cliniche rilevanti, per cui questo ritardo potrebbe
fungere da fonte di variabilità. In quarto luogo, il bias di richiamo potrebbe aver influenzato i punteggi assegnati
alla valutazione “pre-COVID”; 4) si sono censurate le osservazioni alla consultazione ID, con una percentuale
rilevante dei pazienti arruolati ancora da vedere da altri specialisti, che, a loro volta, possono aggiungere ulteriori
prospettive. In conclusione, un’ampia percentuale di sopravvissuti al COVID-19 presentava significativi bisogni
sanitari e psicosociali in corso. Per tali pazienti dovrebbe essere presa in considerazione la fornitura di una clinica
di follow-up coordinata e multidisciplinare che offra una valutazione medica e psicologica completa. Sono
necessarie ulteriori ricerche per comprendere meglio l’onere della morbilità dopo l’infezione acuta da COVID-19,
al fine di pianificare e finanziare servizi adeguati (Epidemiology & Infection - Cambridge University Press).
Ad aprile 2021 da uno studio pubblicato (primo autore: Ziyad Al-Aly, della Washington University School of
Medicine di St. Louis e del Veterans Affairs St. Louis Health Care System) emerge che il rischio di decesso dei
sopravvissuti al Covid-19, anche non ricoverati in ospedale, è aumentato nei sei mesi successivi alla diagnosi del
virus pure a seguito di un caso lieve di Covid-19 e aumenta con la gravità della malattia. I ricercatori hanno valutato
73.435 veterani con Covid-19 confermato ma che non erano stati ricoverati in ospedale e, come controllo, quasi
cinque milioni di veterani che non avevano ricevuto una diagnosi di Covid-19 e non erano stati ricoverati durante
lo stesso periodo di tempo. I veterani nello studio erano principalmente uomini, ma grazie alla grande dimensione
del campione, lo studio ha potuto includere comunque 8.880 donne con casi confermati. Inoltre, gli esperti hanno
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condotto un’analisi separata su 13.654 pazienti ricoverati con Covid-19 confrontandoli con 13.997 pazienti
ricoverati in ospedale con influenza stagionale. Tutti i pazienti sono sopravvissuti almeno 30 giorni dopo il ricovero
ospedaliero e l’analisi ha incluso sei mesi di dati di follow-up. I ricercatori hanno confermato che, nonostante inizi
come virus respiratorio, il long Covid-19 può colpire quasi tutti i sistemi di organi del corpo. Secondo gli esperti,
dopo i primi 30 giorni di malattia, i sopravvissuti a Covid-19 avevano un rischio di decesso aumentato di quasi il
60% nei sei mesi successivi rispetto alla popolazione generale. Al termine dei sei mesi, le morti in eccesso tra tutti
i sopravvissuti a Covid-19 sono state stimate in otto persone per 1.000 pazienti. Tra i pazienti ricoverati in ospedale
con Covid-19 sopravvissuti oltre i primi 30 giorni di malattia, ci sono stati 29 decessi in eccesso per 1.000 pazienti
nei sei mesi successivi. Inoltre, i sopravvissuti al Covid-19 avevano un rischio di morte aumentato del 50% rispetto
ai sopravvissuti all’influenza, con circa 29 decessi in eccesso per 1.000 pazienti a sei mesi, e avevano anche un
rischio sostanzialmente più elevato di problemi medici a lungo termine. Al-Aly evidenzia infine che “alcuni di
questi problemi, come la mancanza di respiro e la tosse, possono migliorare con il tempo, e altri problemi possono
peggiorare” (Nature).
A maggio 2021 desta stupore nel Regno Unito il caso unico di Jason Kelk, 49enne del West Yorkshire insegnante
di informatica della scuola primaria di Leeds che ha il Long Covid da più di un anno: il caso più duraturo nel
Regno Unito. Colpito dall’infezione nell’aprile 2020, non è più uscito dall’ospedale, poiché i sintomi della malattia,
malgrado si sia negativizzato, non sono scomparsi. Covid ha procurato al professore danni persistenti allo stomaco,
in particolare una gastroparesi, facendolo soffrire di regolari attacchi di vomito. Kelk, inoltre, non è capace di
camminare da solo ed è tormentato da dispnea, nebbia cerebrale e dolori muscolari. Secondo i medici, a favorire la
sindrome sarebbero state soprattutto alcune patologie croniche, tra cui diabete e asma (Il Giornale).
Secondo uno studio pubblicato a luglio 2021 su incidenza e durata del Long Covid emerge che esso compare nel
14% delle persone che si infettano e dura in media quattro mesi. Nello studio sono stati confrontati i dati di 641
individui con malattie respiratorie ma negativi a Covid con 243 volontari che invece avevano l’infezione. In tutti i
casi sono state notate variazioni frequenza cardiaca, nel ritmo sonno-veglia e nell’attività fisica, parametri che
impiegano molto più tempo a tornare normali in chi è stato colpito dal Sars-Cov-2. In media la frequenza cardiaca
a riposo nei pazienti Covid non ritorna normale prima di due mesi e mezzo, l’attività fisica prima di un mese mentre
il ritmo sonno veglia si regolarizza intorno al giorno 24 dalla diagnosi. Per chi invece ha il ‘long Covid’, il 14% del
campione considerato, i sintomi durano molto più a lungo, con la frequenza cardiaca che rimane più alta del normale
per quattro mesi. I dati suggeriscono che la gravità dei sintomi iniziali, a partire dall’alterazione della frequenza
cardiaca, possono essere elementi predittivi del tempo che impiegherà il paziente a guarire dall’infezione (Jama).
A luglio 2021 uno studio pubblicato (condotto da Athena Akrami, dell’University College di Londra) identifica i
sintomi del long-Covid cioè gli effetti a lungo termine nei soggetti che sono stati malati. L’indagine, la più ampia
mai condotta, ha coinvolto 3.762 persone con long Covid confermato o sospetto in 56 Paesi e ha portato
all’identificazione di 203 sintomi, 66 dei quali possono perdurare sette mesi dalla guarigione dall’infezione. Si tratta
di disturbi che colpiscono dal distretto respiratorio a quello gastrointestinale, dall’urinario all’endocrino, dal
cardiovascolare al muscoloscheletrico fino al neurologico. I sintomi più comuni sono affaticamento, malessere dopo
uno sforzo fisico o mentale, stato confusionale. Altri sintomi includono allucinazioni visive, tremori, orticaria,
cambiamenti del ciclo mestruale, disfunzioni sessuali, tachicardia, problemi di incontinenza, perdita di memoria,
visione offuscata, diarrea, tinnito. A destare particolare preoccupazione i sintomi neurologici che hanno riguardato
fino all’85% del campione analizzato. Mal di testa, insonnia, vertigini, nevralgie, alterazioni neuropsichiatriche,
tremori, sensibilità ai rumori e alla luce, allucinazioni, acufene, e altri sintomi sensomotori erano tutti comuni, e
possono indicare problemi neurologici più grandi che riguardano sia il sistema nervoso centrale che periferico. Oltre
1 su 5 degli intervistati, il 22%, ha riferito di non essere stato in grado di lavorare - per licenziamento, stato
prolungato di malattia, aspettativa o dimissioni - a causa del long-Covid. Il 45% ha richiesto di passare al part-time.
Molti reparti post-Covid nel Regno Unito si sono concentrate sulla riabilitazione respiratoria. Infine, gran parte dei
guariti con long-Covid soffre di affanno e anche di una serie di altri problemi e sintomi cui i clinici devono
rispondere con un approccio più olistico (EClinicalMedicine).
Il 15 luglio 2021 una revisione della letteratura pubblicata (Olalekan Lee Aiyegbusi, dell’University of Birmingham,
primo nome dello studio) indaga sulla correlazione tra quantità di sintomi e durata di Covid ed emerge che la
presenza di più di cinque sintomi di Covid-19 nella prima settimana di infezione è significativamente associata allo
sviluppo di long Covid, indipendentemente dall’età o dal sesso del paziente. I dati di prevalenza aggregati nella
revisione evidenziano i dieci sintomi più comuni di questa patologia: affaticamento, mancanza di respiro, dolori
muscolari, tosse, mal di testa, dolori articolari, dolore al petto, alterazioni dell’olfatto e del gusto, diarrea. I
ricercatori hanno identificato due principali gruppi di sintomi di long Covid: 1) affaticamento, mal di testa e disturbi
delle vie respiratorie superiori; 2) disturbi plurisistemici, tra cui febbre e sintomi riconducibili all’apparato
gastrointestinale. Numerose prove indicano che l’impatto di Covid-19 acuto sui pazienti, indipendentemente dalla
severità, si estende oltre il ricovero in ospedale in alcuni casi, e per problemi di qualità della vita, di salute mentale
e occupazionali. Secondo gli esperti, le persone che convivono da tempo con Covid generalmente si sentono
abbandonate e respinte dagli operatori sanitari e purtroppo riferiscono di ricevere consigli limitati o contrastanti. A
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questo proposito, gli autori riportano che più di un terzo dei pazienti in uno degli studi inclusi nella revisione ha
affermato di sentirsi ancora male o in condizioni cliniche peggiori dopo otto settimane rispetto all’inizio della
malattia. Di fatto non sono ancora noti né i meccanismi biologici o immunologici di long Covid né la logica del
motivo per cui alcune persone sono più suscettibili a questa situazione. In uno studio compreso nella revisione, che
effettuava un confronto con altri coronavirus, si suggeriva che i pazienti con long Covid potrebbero essere soggetti
a una traiettoria di malattia simile a quella dei pazienti che hanno avuto Sars o Mers, dato che sei mesi dopo la
dimissione ospedaliera, circa il 25% dei pazienti ricoverati con Sars e Mers presentava una riduzione della
funzionalità polmonare e capacità di esercizio fisico. L’ampia gamma di potenziali sintomi e complicazioni che i
pazienti con long Covid possono mostrare evidenzia la necessità di una comprensione più profonda del decorso
clinico della patologia. Anche in questo studio si evidenzia infine un urgente bisogno di modelli di assistenza
migliori e più integrati per supportare e gestire i pazienti con long Covid in modo da ottenere migliori risultati clinici
(Journal of the Royal Society of Medicine).
Il 12 luglio 2021 secondo uno studio pubblicato che ha interessato la popolazione generale adulta infettata da Covid-
19 nel 2020, più di un quarto dei pazienti riferisce di non essersi completamente ripreso dopo un periodo di sei-otto
mesi. I ricercatori hanno reclutato 431 individui che erano risultati positivi per Sars-CoV-2 tra febbraio e agosto
2020 all’interno del sistema di tracciamento dei contatti a Zurigo. Tutti i partecipanti hanno completato un
questionario online sulla loro salute dopo un periodo medio di 7,2 mesi dalla diagnosi. I sintomi di Covid-19 erano
presenti al momento della diagnosi nell’89% dei partecipanti e il 19% è stato inizialmente ricoverato in ospedale.
Complessivamente, il 26% dei partecipanti ha riferito di non essersi completamente ripreso da sei a otto mesi dopo
la diagnosi iniziale di Covid-19. Il 55% delle persone ha riportato sintomi di affaticamento, il 25% ha avuto un certo
grado di mancanza di respiro e il 26% sintomi di depressione. Una percentuale maggiore di donne e pazienti
inizialmente ricoverati ha riferito di non essersi ripresa rispetto ai maschi e ai soggetti non ricoverati, e il 40% di
tutti i partecipanti ha riportato di aver effettuato almeno una visita di medico di base correlata a Covid-19 dopo la
patologia acuta. Lo studio di coorte indica che è necessario offrire un’assistenza su misura per le esigenze delle
persone che soffrono di sindrome post-Covid-19 (Plos One).
Da uno studio del King’s College di Londra (Emma Duncan autrice principale e senior) pubblicato ad agosto 2021
si rileva un long Covid molto raro tra i più i giovani, che mostrano tempi di ripresa di una settimana. L’analisi
offre la prima descrizione dettagliata della malattia Covid-19 nei bambini e ragazzi sintomatici di età compresa tra
5 e 17 anni e si è concentrata sui dati di 1.734 pazienti risultati positivi, valutando da quando sono insorti i sintomi
fino alla guarigione. In genere i tempi di ripresa sono risultati compresi nell’arco di una settimana, i bambini hanno
presentato pochi sintomi e la malattia in media è durata 6 giorni con 3 sintomi riscontrati. Quasi tutti i sintomatici
sono guariti comunque entro 8 settimane (98,2%). Ma alcuni bambini (4,4%, cioè 77 su 1.734) hanno manifestato
sintomi - in media 2 - persistenti oltre le 4 settimane. Il sintomo più comune era l’affaticamento (84%), seguito da
mal di testa e perdita dell’olfatto, ognuno dei quali sperimentato dal 77,9% dei bambini a un certo punto nel corso
della malattia. Tuttavia, il mal di testa era più comune all’inizio della malattia, mentre la perdita dell’olfatto tendeva
a manifestarsi più tardi e a persistere più a lungo. Dei bambini che hanno sviluppato sintomi almeno 2 mesi prima
della fine del periodo di studio, meno del 2% li ha avuti per più di 8 settimane. I bambini più grandi sono stati
generalmente malati più a lungo di quelli in età da scuola primaria (durata media della malattia 7 giorni nei bambini
di età compresa tra 12 e 17 anni, contro 5 giorni nei bambini di età compresa tra 5 e 11 anni) e avevano anche
maggiori probabilità di manifestare sintomi dopo 4 settimane (5,1% dei 12-17enni contro 3,1% dei 5-11enni), ma
non vi erano grosse differenze fra i bambini che avevano ancora sintomi dopo 8 settimane. Si è ancora scoperto che
quasi un quarto dei bambini sintomatici risultati positivi durante la seconda ondata Covid del Regno Unito non ha
riportato sintomi principali, suggerendo che la politica di testing britannica dovrebbe essere riconsiderata (The
Lancet Child & Adolescent Health).
Uno studio condotto in Cina (prima firma: Lixue Huang, MD, Department of Pulmonary and Critical Care
Medicine, Capital Medical University, Beijing, China) e pubblicato il 28 agosto 2021, effettua un confronto
completo delle conseguenze tra 6 e 12 mesi dopo l'insorgenza dei sintomi tra i sopravvissuti ospedalieri con
COVID-19, considerando che l'intera gamma delle conseguenze sulla salute a lungo termine di COVID-19 nei
pazienti dimessi dall’ospedale è in gran parte poco chiara: emerge che circa la metà delle persone ricoverate in
ospedale con Covid-19 ha mantenuto almeno un sintomo persistente fino a 12 mesi dopo l’infezione. La ricerca,
che ha interessato circa 1.276 pazienti di Whuan, ha rilevato che una persona su tre soffriva ancora di problemi
respiratori e alcuni di questi presentavano anche problemi polmonari, in particolare per i casi di infezione grave da
Covid-19. Molti dei vari sintomi, però, si sono risolti sempre nel giro di un anno. I risultati di studio suggeriscono
che il recupero per alcuni pazienti richiederà più di un anno. Un dato che deve essere preso in considerazione per
pianificare la risposta e la fornitura di servizi sanitari post-pandemia. I partecipanti allo studio erano stati dimessi
tra il 7 gennaio e il 29 maggio del 2020 e sono stati sottoposti a controlli sanitari a sei e 12 mesi dalla data in cui
hanno manifestato la recrudescenza. Il team dei ricercatori ha rilevato che molti dei sintomi si sono risolti nel tempo,
indipendentemente dalla gravità dell’infezione iniziale. La percentuale di pazienti che hanno manifestato ancora
almeno un sintomo dopo un anno è scesa dal 68% dopo sei mesi e al 49% dopo 12 mesi. I ricercatori hanno affermato
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che l’affaticamento e la debolezza muscolare erano i sintomi più comunemente riportati dopo i sei mesi, percentuale
che è diminuita ad un paziente su cinque dopo un anno. Quasi un terzo degli individui interessati dalla ricerca ha
riferito di aver riscontrato mancanza di respiro fino a 12 mesi e più del 30% ha riportato gli stessi sintomi dopo i sei
mesi. Al controllo dei sei mesi, circa 353 partecipanti allo studio sono stati sottoposti ad una Tac toracica e circa la
metà ha mostrato anomalie polmonari. Per questi pazienti è stato poi proposto un nuovo esame al raggiungimento
dei 12 mesi. Nei 118 pazienti che hanno accettato e completato l’esame la percentuale con anomalie è diminuita
sostanzialmente in tutti i gruppi, ma è risultata più alta nel gruppo che aveva sviluppato una infezione grave. Altri
dati della ricerca indicano che, rispetto agli uomini, le donne sono risultate 1,4 volte più vulnerabili nel riportare
affaticamento o debolezza muscolare, due volte di più nel manifestare ansia o depressione e quasi tre volte in più
nella probabilità di avere danni polmonari dopo 12 mesi. Inoltre, le persone trattate con corticosteroidi durante la
fase acuta della loro malattia hanno avuto una probabilità 1,5 volte maggiore di provare affaticamento o debolezza
muscolare dopo 12 mesi, rispetto a quelle non trattate con la stessa cura. Gli autori hanno anche sottolineato che
questi risultati saranno importanti da seguire nelle ricerche future per capire meglio perché i sintomi di Covid
persistono. Sempre gli stessi autori affermano che, solo per i casi gravi analizzati, ci si è soffermati su un singolo
ospedale e che quindi gli esiti potrebbero non essere applicabili ad altri contesti. I ricercatori aggiungono che,
sempre per i casi molto gravi, lo studio ha incluso solo un piccolo numero di pazienti ricoverati in terapia intensiva
(94) e i risultati relativi agli individui con più criticità dovrebbero essere interpretati con cautela. Entro 1 anno
dall'infezione acuta, la maggior parte dei sopravvissuti ospedalieri con COVID-19 ha avuto un buon recupero fisico
e funzionale nel tempo ed è tornata al lavoro e alla vita originari, ma lo stato di salute era ancora inferiore a quello
della popolazione di controllo. Compromissione della diffusione polmonare e anomalie radiografiche erano ancora
comuni nei pazienti critici a 12 mesi. per i ricercatori è infine necessario un follow-up longitudinale continuo per
caratterizzare meglio la storia naturale e la patogenesi delle conseguenze sulla salute a lungo termine del COVID-
19 (The Lancet).
Il 9 settembre 2021 da uno studio pubblicato su long Covid e rischio renale, analizzando i dati relativi a oltre 1,7
milioni di veterani statunitensi, tra cui 90.000 sopravvissuti a long Covid con sintomi prolungatisi per almeno 30
giorni, emerge una maggiore esposizione al rischio di nuovi problemi renali rispetto alle persone che non avevano
contratto l’infezione da coronavirus. Questa osservazione era valida anche per i sopravvissuti non ospedalizzati,
benché il calo nella funzionalità renale fosse “più profondo” in presenza di un’infezione più grave. Circa il 5% del
gruppo long Covid ha sviluppato una riduzione di almeno il 30% nel tasso di filtrazione glomerulare stimato (eGFR).
In generale, i soggetti con long Covid avevano il 25% in più delle probabilità rispetto alle persone non infettate di
subire un calo pari al 30% nel eGFR, con rischi superiori nei sopravvissuti a forme più gravi di malattia. Anche se
la funzionalità renale spesso si riduce con l’età, il danno in questi pazienti era eccessivo rispetto a quanto accade
con il normale invecchiamento. I risultati di studio evidenziano la fondamentale importanza di prestare attenzione
alla funzionalità renale e alla malattia nella cura dei pazienti che affetti da Covid -19 (Journal of the American
Society of Nephrology).
Da un altro studio pubblicato a settembre 2021 (autore principale: Claire Steves, del King’s College di Londra), in
merito ai vaccini e rischio long Covid emerge che dopo due dosi è più che dimezzato il rischio. I ricercatori,
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utilizzando dati provenienti dal Covid Symptom Study del Regno Unito (informazioni auto-riferite attraverso l’App
Zoe dall’8 dicembre 2020 al 4 luglio 2021) hanno calcolato che, su oltre 1,2 milioni di adulti che hanno ricevuto
almeno una dose dei vaccini di Pfizer/Biontech, Oxford-Astrazeneca o Moderna, meno dello 0,5% ha riportato una
cosiddetta infezione breakthrough più di 14 giorni dopo la prima dose (6.030 casi positivi dopo 1.240.09 prime dosi
di vaccino). E tra gli adulti che hanno ricevuto due dosi, meno dello 0,2% ha avuto una reinfezione più di 7 giorni
dopo la seconda (2.370 positivi dopo 971.504 seconde dosi di vaccino). Fra i ricontagiati le probabilità che la nuova
infezione fosse asintomatica erano del 63% maggiori dopo la prima dose di vaccino e del 94% superiori dopo la
seconda. Il rischio di ospedalizzazione era ridotto di circa il 70% dopo una o due dosi, mentre il pericolo di contrarre
una malattia grave (5 o più sintomi nella prima settimana) appariva circa un terzo inferiore. Dopo due dosi di vaccino
le probabilità di long Covid sono diminuite del 50%. Dopo una o due dosi di vaccino, quasi tutti i sintomi Covid
(affaticamento, tosse, febbre e perdita del gusto e dell’olfatto) sono stati riportati meno frequentemente nei vaccinati
rispetto ai non vaccinati (The Lancet).
Ancora a settembre 2021 uno studio approfondisce una relazione tra Long Covid e capsulite adesiva (Ca), più
nota come “spalla congelata” per l’improvvisa rigidità e impossibilità di movimento. Da marzo 2020 a settembre
2021, il numero di persone con questo disturbo è aumentato in modo rilevante. In epoca pre-Covid, esso colpiva
quattro persone su cento, mentre durante la pandemia giunge finanche a 50 su 100. Ad esserne più colpite sono
soprattutto le donne tra 45 e 60 anni ansiose ma anche con predisposizione a malattie autoimmuni, come diabete e
tiroide (Rehabilitación).
A ottobre 2021 uno studio (primo autore: Francesco Ursini, reumatologo del Rizzoli) coordinato e pubblicato dalla
struttura di Reumatologia dell’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna (con il contribuito delle Università de L’Aquila
e di Torino e del Campus Biomedico di Roma), indagando sulla relazione tra Covid-19 e fibromialgia emerge che
essa è fattore predisponente allo sviluppo di tale sindrome, che causa tra l’altro dolore diffuso a muscoli e ossa e
affaticamento. I ricercatori hanno inizialmente constatato “il crescente afflusso agli ambulatori di reumatologia di
pazienti che, dopo aver contratto la malattia da Covid-19, lamentavano sintomi articolari tra cui dolore, gonfiore
e rigidità”. Ursini evidenzia che nello “studio, grazie a un’indagine condotta su oltre 600 persone con postumi a
lungo termine di un’infezione sintomatica da Covid-19, quello cioè che si intende per long-Covid, si è osservato
per la prima volta al mondo che circa il 30% dei pazienti manifesta sintomi compatibili con la diagnosi di
fibromialgia anche a distanza di sei mesi e oltre dalla guarigione dell’infezione acuta”. I ricercatori hanno definito
tale sindrome ‘FibroCovid’; tra i principali fattori di rischio per il suo sviluppo ci sono il sesso maschile e l’obesità.
“Mentre l’obesità è un noto fattore predisponente per la fibromialgia e per le malattie muscoloscheletriche in
generale il sesso maschile è generalmente meno interessato da questa condizione”. Questo dato, “concorda con
l’accertata tendenza a sviluppare forme più severe di Covid-19 nei soggetti di sesso maschile; pertanto,
nell’interpretazione del team di studio, lo sviluppo di ‘FibroCovid’ potrebbe essere legato a forme di Covid-19
particolarmente severe che si riverberano sull’apparato muscoloscheletrico, sul sistema nervoso e su quello
immunitario per molti mesi dopo la guarigione dell’infezione primaria, generando così la sintomatologia
dolorosa”. In definitiva, lo studio “conferma quello che i reumatologi di tutto il mondo stanno sperimentando
quotidianamente nei loro ambulatori: un incremento importante del numero di casi di fibromialgia, patologia per
la quale, purtroppo, esistono ancora poche opzioni terapeutiche”. L’obiettivo nel futuro prossimo è “seguire questi
pazienti nel tempo per valutare se il decorso della malattia sia autolimitante, come in genere avviene nelle malattie
post-virali, o se tenda a cronicizzare come nella fibromialgia primaria; inoltre, si è orientati ad avviare un
programma di intervento riabilitativo loro dedicato, basato su tecniche di attività fisica adattata, in collaborazione
con il gruppo di ricerca coordinato da Maria Grazia Benedetti, Direttrice della struttura di Medicina fisica e
riabilitativa del Rizzoli” (Rheumatic and Musculoskeletal Diseases).
A novembre uno studio revisionato e pubblicato dell’Università del Michigan basato sulla revisione di 40
precedenti studi condotti in 17 Paesi, in merito ai casi di long Covid nel mondo stima che oltre il 40% dei
sopravvissuti all’infezione abbia avuto o abbia effetti persistenti dopo la malattia. La prevalenza aumenta al 57%
tra i sopravvissuti che sono stati ricoverati. Si sono esaminate le esperienze dei pazienti con long Covid in base alla
presenza di sintomi nuovi o persistenti dopo quattro o più settimane dall’infezione. Il tasso stimato di sintomi post-
infezione è risultato pari al 49% in Asia, 44% in Europa e 30% in Nord America. Tra i sintomi più comuni l’astenia
è stata segnalata dal 23% delle persone; dispnea, dolore articolare e problemi di memoria interessano ognuno il 13%
dei soggetti. I ricercatori dello studio evidenziano infine che “sulla base della stima dell’OMS di 237 milioni di
infezioni da long COVID-19 nel mondo, si può affermare che circa 100 milioni di individui attualmente presentano
o hanno presentato conseguenze a lungo termine di COVID-19 sulla salute” (medRxiv).
A dicembre 2021 i ricercatori del National Institutes of Health nel Maryland hanno condotto e pubblicato uno
studio per una ulteriore comprensione del meccanismo di azione di Sars-CoV-2 e perché lascia una sorta di
“coda” nell’organismo. Pertanto hanno esaminato tessuti prelevati da 44 persone decedute a seguito di Covid,
contratto nel primo anno di pandemia. Si è scoperto che l’Rna di Sars-CoV-2 rimane in varie parti dell’organismo,
incluso cuore e cervello, fino a 230 giorni dopo l’insorgere dei sintomi. Questa sorta di “smaltimento” ritardato del
virus, anche dopo la negativizzazione, è la possibile causa della sindrome Long Covid (Nature). Di conseguenza, a
12
ragion veduta Ziyad Al-Aly, Direttore del centro di epidemiologia clinica presso il Veterans Affairs St. Louis Health
Care System nel Missouri, che ha condotto diversi studi sugli effetti del Long Covid, dichiara che “questo è un
lavoro straordinariamente importante; (…) per molto tempo ci si è chiesto perché Covid colpisca per lungo tempo
molti organi e questo lavoro può aiutare a spiegare perché il Long Covid può verificarsi anche in persone che
hanno avuto una malattia acuta, lieve o asintomatica” (Bloomberg). Lo studio ha quindi chiarito che, anche se la
carica virale più elevata del virus si trova nelle vie aeree e nei polmoni, si può in realtà diffondere molto velocemente
anche nelle cellule e negli organi di tutto il corpo, compreso il cervello. Raina MacIntyre, docente di biosicurezza
globale presso l’Università del New South Wales a Sydney, ha spiegato nell’articolo come questa ricerca: “metta in
allarme sui pericoli dell’infezione da Covid, sia negli adulti che nei bambini, che non si limita solo alla semplice
positività”. MacIntyree parlato inoltre di una correlazione supportata anche da precedenti studi che mostrano come
il virus uccida direttamente le cellule del muscolo cardiaco per cui poi i pazienti sopravvissuti possono subire
“deficit cognitivi”. L’ipotesi dei ricercatori del NIH è che l’infezione del sistema polmonare può causare una fase
“viremica” precoce in cui Sars-CoV-2 è presente nel flusso ematico dell’organismo e ciò spiegherebbe la diffusione
nei vari organi. Lo studio sui pazienti deceduti ha poi rilevato come il virus sia stato trovato sia in quelli morti a un
mese dal contagio, sia in quelli precedenti, fino addirittura in un morto da 230 giorni. Lo studio evidenzia che ciò
“può aiutare a comprendere il declino neurocognitivo o la “nebbia cerebrale” e altre manifestazioni
neuropsichiatriche di Long Covid” (Nature).
L’11 gennaio 2022 dalla prima tranche di visite eseguite nell’ambito del programma di monitoraggio avviato a
novembre 2021 dalla Regione Lombardia per la comprensione dello stato di salute dei Covid positivi a mesi di
distanza dalle dimissioni ospedaliere emerge che solo il 58% degli ex ricoverati non presenta alcuna disabilità,
mentre un quarto di pazienti con storia severa di Covid soffre di sintomi da long Covid a distanza di molti mesi. In
particolare, l’obiettivo del programma avviato dalla Regione (con il coinvolgimento di tutte le Pneumologie e i
servizi di Fisiopatologia respiratoria delle Strutture sanitarie pubbliche e private accreditate a contratto di Regione
Lombardia) è la valutazione dell’entità del danno polmonare in pazienti già ricoverati per infezione da Covid-
19. La raccolta dati, come richiesto da Regione Lombardia, è stata effettuata attraverso visite specialistiche con
spirometria e compilazione di questionari per valutare lo stato di salute e la gravità di un eventuale danno a livello
polmonare in pazienti Covid-19 dimessi dalle strutture ospedaliere. L’attività di richiamo di questi pazienti si è
concentrata nella giornata dell’11 dicembre, ma le strutture da due anni hanno avviato programmi di screening e di
follow up dei pazienti per monitorarne i sintomi di long Covid. Michele Vitacca, Direttore Dipartimento
Pneumologia riabilitativa ICS Maugeri riferisce che “dai primi dati emersi dallo screening richiesto da Regione
Lombardia emerge che nella settimana dell’11 dicembre sono stati visitati dalle Pneumologie Lombarde 858
pazienti” di cui “il 21% era stato ricoverato in Terapia Intensiva, il 60% era stato sottoposti a ventilazione CPAP,
solo il 58% dei casi non presentava alcun livello di disabilità mentre il 20%, il 12%, il 6% e il 4% una disabilità
lieve, media, avanzata o estremamente avanzata”. “Al termine della visita il 30% ha richiesto ulteriori indagini
pneumologiche, il 12% ha richiesto altro specialista e solo il 4% è stato inviato ad un ciclo di riabilitazione
respiratoria/motoria. Il dato epidemiologico che emerge è che circa un quarto di pazienti con storia severa di
COVID soffrono di sintomi da long COVID a distanza di molti mesi dall’episodio”. Pierachille Santus, Presidente
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della Sezione Lombardia di SIP-IRS (Società Italiana di Pneumologia - Italian Respiratory Society) evidenzia che
“le Pneumologie della Lombardia hanno comunque svolto, ormai da più di un anno, un’attività ambulatoriale di
visite e valutazioni respiratorie che ha coinvolto più di 120.000 (dato aggiornato a marzo 2021) pazienti affetti da
COVID-19, mettendo a disposizione di questi pazienti e del servizio sanitario regionale un’ampia e completa offerta
di valutazione specialistica che continua comunque ad essere erogata anche attualmente; tutto ciò garantisce una
continuità di cura con prestazioni specialistiche pneumologiche atte a valutare i possibili danni polmonari
dell’infezione da SARS-CoV-2” (Quotidiano Sanità).
A febbraio 2022 uno studio trasversale multicentrico pubblicato (coordinatrice: Arianna Di Stadio, Professore
Associato di Otorinolaringoiatria presso l’Università di Catania) emerge che le alterazioni funzionali dell’olfatto
rappresentano una delle manifestazioni sintomatologiche più comuni della sindrome da Long-Covid. Lo studio ha
arruolato 152 adulti che riferivano disfunzione olfattiva afferenti a 3 centri terziari specializzati in disturbi olfattivi
da Covid-19. Criteri di inclusione sono stati l’alterazione olfattiva dopo l’infezione da Sars-CoV-2 persistenti per
oltre 6 mesi dall’infezione, età maggiore di 18 anni e inferiore a 65 anni. Dallo studio è emerso che 50 pazienti
(32,8%) presentavano anosmia, 25 (16,4%) iposmia, 10 (6,6%) parosmia/cacosmia e 58 pazienti (38,2%) una
combinazione di iposmia e parosmia. Sette pazienti (4,6%) soffrivano esclusivamente di cefalea e due (1,4%)
avevano cefalea e confusione mentale come sintomi d’esordio. In particolare la cefalea è stata segnalata da 76
pazienti (50%) e la confusione mentale da 71 (46,7%). Inoltre gli autori rilevano che “i pazienti che riferivano
cefalea, confusione mentale, o entrambe mostravano un rischio significativamente maggiore di soffrire di anosmia
e/o iposmia, se confrontati con la controparte senza sintomi neurologici. Nella coorte di pazienti post-Covid-19
con sintomi olfattivi persistenti oltre i 6 mesi, la cefalea e il coinvolgimento cognitivo erano associati con deficit
olfattivi più severi, coerentemente con meccanismi neuroinfiammatori mediatori di una varietà di sintomi nei
pazienti con sindrome long-Covid” (Brain Sciences).
A marzo è presentato uno studio (condotto dai ricercatori dell’Università di Firenze e dell’Azienda Ospedaliero
Universitaria Careggi, guidati da Michele Spinicci). riporta che più della metà dei pazienti ospedalizzati a causa di
Covid-19 può sperimentare sintomi post-acuti associati alla malattia. Un punto che sembra disorientare i ricercatori
di tutto il mondo è che per ogni variante del virus in circolazione esiste anche una specifica forma di long Covid.
La sindrome è stata riportato dai soggetti indipendentemente da età, presenza di comorbilità e gravità delle
condizioni durante il ricovero. I ricercatori hanno eseguito uno studio osservazionale retrospettivo su 428 pazienti
trattati presso l’AOU Careggi tra giugno 2020 e giugno 2021. I ricercatori hanno considerato la diffusione del ceppo
originale di Wuhan e della variante Alpha (B.1.1.7). I sintomi più comuni all’interno della coorte erano mancanza
di respiro, affaticamento cronico, problemi di sonno, difficoltà visive e confusione mentale. Le persone con le forme
più gravi erano associate a un rischio circa sei volte superiore di sviluppare long Covid rispetto ai pazienti con
decorso più lieve. Nel contempo, chi ha necessitato di supporto di ossigeno ad alto flusso sembrava avere il 40% di
probabilità in più di avere problemi. Il rischio di Covid lungo tra le donne era quasi doppio rispetto alle controparti
maschili (Congresso europeo di microbiologia clinica e malattie infettive ECCMID),
A maggio 2022 si stima che siano 24 milioni gli americani che hanno sperimentato i sintomi di long Covid
(American Academy of Physical Medicine and Rehabilitation) dal 10 al 30% degli individui che ha avuto il Covid
hanno riportato almeno un sintomo persistente fino a sei mesi dopo dalla negativizzazione (JAMA). Da
uno studio britannico su 2.320 pazienti Covid dimessi dall’ospedale nei primi 13 mesi della pandemia emerge poi
che meno della metà si era completamente ripresa un anno dopo aver contratto il virus. In particolare, le donne
avevano il 33% di probabilità di avere sintomi persistenti (The Lancet). Secondo l’Oms tra il 10% e il 20% dei
pazienti che ha avuto il Covid ha sperimentato sintomi persistenti per mesi dopo l’infezione. Da altro studio
pubblicato emerge che il 90% dei pazienti con long Covid riferisce ancora sintomi dopo nove mesi dall’inizio e il
67% di loro non è stato in grado di riprendere a lavorare come prima (News Medical). Inoltre, chi non è vaccinato
avrebbe fino al 20% in più di probabilità di incorrere nella patologia, mentre per chi lo è il rischio è del 41% in
meno (Office for National Statistics). Da questa ulteriore congerie di elementi si giunge quindi a considerare long
Covid come “sfida medica moderna di prim’ ordine” (The Lancet).
Sempre a maggio 2022 dal primo studio prospettico su long Covid condotto su bambini e adolescenti italiani,
coordinato dall’azienda ospedaliera Universitaria di Parma (coordinatrice: Susanna Esposito, ordinaria di Pediatria,
Direttrice della Clinica pediatrica dell’Università di Parma e responsabile del Tavolo tecnico malattie infettive e
vaccinazioni della Società Italiana di Pediatria) emerge che il 17% di coloro che hanno avuto una infezione Covid-
19 manifesta a distanza di tre mesi sintomi da long Covid, tra cui i più comuni sono: congestione nasale, mal di
testa e affaticamento, mentre il più persistente nel tempo sembra essere l’insonnia. Lo studio, iniziato a novembre
2021 e che terminerà a marzo 2026, condotto su 14 centri sul territorio nazionale, ha arruolato circa 1.000 bambini
e adolescenti con pregressa infezione da Sars-CoV-2 di diversa gravità. Dei 670 pazienti con diagnosi Covid-19 che
hanno partecipato allo studio e per i quali sono disponibili i primi risultati alla data di presentazione (51,5% maschi
e 48,5% femmine) il 31% aveva una patologia pregressa e solo l’1,8% ha avuto necessità di ricovero mentre nel
15% dei casi l’infezione è stata asintomatica. A distanza di tre mesi dall’infezione, 118 bambini (17,6% del
campione) manifestano almeno un sintomo di long Covid, tra cui 110 bambini (16,4%) manifestano almeno 2
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sintomi, 84 bambini (12%) almeno 3 sintomi. Le più frequenti manifestazioni di long Covid nella popolazione
censita dallo studio sono: congestione nasale (17%), mal di testa (15%), affaticamento (13%), scarso appetito (10%),
insonnia (9%), tosse persistente (8%), dolore addominale (6%), confusione e perdita di concentrazione (5,2%) ed
eruzione cutanea (4,9%). Tra i bambini che si sentono affaticati (13% del campione) circa 1 su 4 sente il bisogno di
riposarsi più del solito, il 19% si sente più assonnato, l’11% ha meno energia del solito. Alcuni sintomi come
congestione nasale, scarso appetito, eruzione cutanee tendono a manifestarsi, nella stragrande maggioranza dei casi,
in maniera lieve; sintomi come affaticamento, insonnia, perdita di concentrazione e mal di testa si manifestano
spesso con sintomatologia più importante. In particolare, lamentano forme da moderate a gravi di affaticamento e
di mancanza di concentrazione circa il 43% dei bambini alle prese con questi disturbi. Quanto alla durata dei sintomi,
i più persistenti sono: 1) mal di testa: il 10% dei bambini ne soffre anche a distanza di 4-6 mesi dall’infezione;
insonnia: il 3,6% ne soffre a 6 mesi di distanza, l’1,8% sia a 7-9 mesi che a 1 anno di distanza (Società Italiana di
Pediatria).
A giugno 2022 uno studio pilota pubblicato (condotto presso il Policlinico Umberto I dell’Università Sapienza di
Roma, in collaborazione con Raffaella Nenna, Fabio Midulla, Luigi Tarani del Dipartimento materno infantile e
scienze urologiche e Antonio Minni, Dipartimento organi di senso; coordinato da Marco Fiore e Carla Petrella,
dell’Istituto di biochimica e biologia cellulare del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma Cnr-Ibbc), individua
biomarcatori precoci di long Covid negli adolescenti. I risultati della ricerca aprono nuovi campi di indagine
nell’ambito degli effetti biologici e psicologici a lungo termine. Lo studio indica nei giovani ammalati nuovi e
precoci biomarcatori, potenzialmente predittivi della sindrome post Covid. Nello studio si sono misurati i livelli di
alcuni biomarcatori infiammatori e di due neurotrofine (Ngf e Bdnf), fattori proteici regolanti la crescita, la
sopravvivenza e la morfologia dei neuroni, nel siero di una piccola coorte di ragazzi e ragazze con infezione
contratta nella seconda ondata pandemica, tra settembre e ottobre 2020, ma negativi al momento del prelievo. I
partecipanti sono stati suddivisi in 3 gruppi: asintomatici, sintomatici acuti, sintomatici acuti che nel tempo hanno
sviluppato sintomi long Covid. I dati sono stati confrontati con i valori emersi da un gruppo campione privo di
contratto con la malattia”. Si è riscontrato che i livelli sierici di Ngf erano inferiori in tutti gli adolescenti che
avevano contratto l’infezione da Sars-Cov-2, rispetto ai controlli sani. La relazione inversa fra livelli di Ngf e
sindromi da stress è ampiamente riportata dalla letteratura scientifica. La ricerca ipotizza che la diminuzione di Ngf
rifletta un’attivazione persistente dell’asse dello stress, dovuta a un effetto diretto del virus o ad effetti psico-sociali
conseguenti a isolamento e modifiche della routine quotidiana, riscontrate durante i periodi di quarantena. Inoltre,
analogamente al biomarcatore infiammatorio Tgf-β, i livelli di Bdnf erano invece più elevati negli individui che si
erano ammalati rispetto ai sani, ma solo nelle ragazze sintomatiche che poi avrebbero sviluppato sintomi long Covi.
Più in particolare, il persistente aumento dei livelli sierici di Bdnf e Tgf-β era presente nelle adolescenti che
presentavano sintomi respiratori durante la fase acuta dell’infezione. I ricercatori però ritengono che gli studi
andrebbero approfonditi, ampliando la ricerca a una coorte di adolescenti più estesa. Comunque i dati dello studio
15
supportano già l’ipotesi che le variazioni sieriche di Ngf e Bdnf rappresentino un segnale di allerta per l’effetto a
lungo termine di Covid-19, aprendo nuovi campi di indagine sia nell’ambito degli effetti fisici sia in quelli
psicologici potenzialmente associabili al NeuroCovid (Diagnostics).
Sempre a giugno 2022 uno studio pubblicato del team di ricercatori del King’s College di Londra, guidato da Claire
Steves, esamina il rischio Long Covid con Omicron rispetto a Delta. sono stati analizzati i dati prelevati dallo
studio ZOE COVID Symptom. Lo studio ha evidenziato che i tassi dei sintomi di Long COVID sono stati dal 20 al
50% più bassi nel periodo in cui Omicron è stata la variante dominante rispetto a quando circolava maggiormente
Delta, in base ad età del paziente e al tempo trascorso dalla vaccinazione. La ricerca, in particolare, ha identificato
56.003 casi di COVID-19 tra adulti nel Regno Unito che hanno avuto un risultato positivo al test tra fine dicembre
2021 e marzo 2022, con Omicron variante dominante. Questi casi sono stati confrontati con 41.361 pazienti rilevati
tra giugno e novembre del 2021, quando la variante predominante era Delta. Le analisi hanno mostrato che il 4,4%
dei casi di long COVID sono stati causati da variante Omicron, rispetto al 10,8% dei casi attribuibili a Delta. “Una
persona su 23 che ha avuto il COVID-19 ha lamentato sintomi per più di quattro settimane”, dato che secondo
Steves, sottolinea come queste persone debbano continuare ad essere seguite “al lavoro, a casa e nell’ambito del
sistema sanitario nazionale” (The Lancet).
Ancora a giugno emerge da uno studio pubblicato dell’Università La Trobe di Melbourne che la condizione di
Brain Fog è tra i sintomi più debilitanti di long Covid e che colpisce migliaia di persone globalmente, con un
impatto sia sulla capacità di lavoro che nella vita quotidiana. I risultati dello studio indicano che possono esserci
precisi paralleli fra effetti di Covid-19 sul cervello e i primi stadi di malattie neurodegenerative come Alzheimer e
Parkinson (Nature Communications).
Il 22 giugno è pubblicato uno studio sottoposto a revisione paritaria condotto dai ricercatori del Johnson & Johnson
Office del Chief Medical Officer Health of Women Team in cui si è rilevato che le donne con long Covid presentano
una varietà di sintomi tra cui: problemi a orecchie, naso e gola; disturbi dell’umore, neurologici, cutanei,
gastrointestinali e reumatologici; fatica. I pazienti maschi, invece, avevano maggiori probabilità di soffrire di
disturbi endocrini, come diabete e disturbi renali. L’analisi dei dati è stata condotta su circa 1,3 milioni di pazienti.
Nell’ambito della revisione gli studiosi hanno limitato la ricerca di articoli accademici a quelli pubblicati tra
dicembre 2019 e agosto 2020 per Covid-19 e tra gennaio 2020 e giugno 2021 per la sindrome di long Covid. La
dimensione totale del campione che copre gli articoli esaminati ammontava a 1.393.355 individui unici (Current
Medical Research and Opinion).
Nell’ultima decade di giugno da uno studio danese emerge che il long Covid pediatrico dà più sintomi
persistenti ma meno ansia rispetto ai coetanei sfuggiti all’infezione. Secondo i ricercatori la bassa quota ansiosa
potrebbe essere legata al fatto che i bambini non infettati avevano più “paura della malattia sconosciuta e una vita
quotidiana più limitata a causa delle misure di protezione contro il virus”. Nello studio il 40% dei neonati e dei
bambini con COVID-19, a fronte del 27% dei loro coetanei non infettati dal virus, ha manifestato almeno un sintomo
per più di due mesi. Nella fascia di età 4-11 anni, sintomi persistenti sono stati osservati nel 38% di quelli che si
sono ammalati di COVID-19 rispetto al 34% dei bambini che sono sfuggiti all’infezione. Tra i ragazzi di età
compresa tra 12 e 14 anni, il 46% degli infettati e il 41% di quelli non colpiti dal virus hanno manifestato sintomi
di lunga durata. I risultati emergono da un’indagine condotta su circa 11.000 madri di bambini infettati e circa
33.000 madri di bambini non interessati dall’infezione (The Lancet Child & Adolescent Health).
A inizio luglio è pubblicato il primo studio multicentrico in Italia sul long Covid, con Città della Salute di
Torino capofila, realizzato in 8 Regioni su più di 650 bambini che si sono ammalati di Covid tra ottobre 2020 e
giugno 2021 emerge che il 24% della popolazione pediatrica, 1 bambino su 4, che ha superato la fase acuta di Covid
con sintomi lievi o assenti soffre di disturbi correlati all’infezione da Sars-CoV-2 a distanza di almeno 2 mesi dalla
guarigione e fino a 9 mesi dalla stessa. Aver sviluppato sintomi in fase acuta aumenta significativamente il rischio
di long Covid, portandolo dall’11,5% al 46,5%, mentre la presenza di malattie concomitanti (asma, rinite allergica,
ecc.) non causa alcun rischio aggiuntivo. In generale, bambini e adolescenti superano l’infezione acuta con
sintomatologia spesso lieve o addirittura assente. Il problema è che molti di loro non arrivano quindi all’attenzione
del pediatra, ed eventuali sintomi che si presentano a distanza dalla fase acuta possono non essere correttamente
riconosciuti dai genitori né associati al Covid. Quindi i bambini devono essere monitorati dai genitori e in caso di
comparsa di sintomi visitati sempre dal pediatra. I sintomi più frequentemente lamentati dai piccoli pazienti sono
stati: affaticamento (7%), problemi di natura neurologica - difficoltà di concentrazione, sensazione di
annebbiamento e cefalea - (6,8%) e sintomi respiratori (6%). L’incidenza di long Covid è quasi raddoppiata nei
bambini più grandi e negli adolescenti rispetto ai più piccoli, passando dal 18,3% (0-5 anni) al 21,3% (6-10 anni),
fino ad arrivare al 34,4% di rischio (11-16 anni). Nella fascia di età maggiore ai sintomi più tipici si possono
associare ansia, agitazione, disturbi del sonno e del comportamento. L’unico tipo di patologia long Covid che si
riscontra invece più frequentemente nella prima infanzia è quella respiratoria, con l’11,4% di rischio nella fascia 0-
5 anni contro il 3,8% dopo i 6. Rientrano nel gruppo di studio, coordinato dal professor Enrico Bertino e dalla
dottoressa Giulia Maiocco della Neonatologia universitaria della Città della Salute di Torino, il dottor Gianfranco
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Trapani, Asl1 Sanremo - Imperia, il professor Vassilios Fanos, Università di Cagliari e il professor Giuseppe
Verlato, Università di Verona (Italian Journal of Pediatrics).
Sempre a luglio 2022 uno da studio coordinato dall’Università di Birmingham e pubblicato emerge che tra i 62
sintomi rilevati associati a Covid-19 fino a 12 settimane dall’infezione vi sono anche perdita di capelli e calo
della libido. Lo studio ha preso in esame 2,4 milioni di cartelle cliniche elettroniche di cittadini del Regno
Unito. In particolare, i dati acquisiti tra gennaio 2020 e aprile 2021 riguardavano 486.149 persone che si erano
contagiate con il SarsCoV2 e 1,9 milioni di persone che non indicavano infezione da coronavirus. Lo studio
suggerisce che sono a maggiore rischio le donne e i giovani; coloro che appartengono a un gruppo etnico o che
appartengono alle fasce più svantaggiate dal punto di vista socioeconomico. Anche fumo, sovrappeso e obesità,
insieme alla presenza di patologie pre-esistenti, sono stati associate alla segnalazione di sintomi persistenti
(Nature Medicine).
Ad agosto da uno studio pubblicato condotto dagli scienziati dell’Università di Groningen emerge che tra gli adulti
che hanno avuto Covid-19, il 21,4% potrebbe manifestare almeno un sintomo a distanza di tre-cinque mesi dalla
diagnosi. Il team, guidato da Judith Rosmalen ha considerato la frequenza dei sintomi nuovi o più gravi in una
coorte di pazienti affetti da Covid-19. Le informazioni sono state poi confrontate con i dati relativi a un gruppo di
persone sane per stimare il rischio di long Covid. In totale, sono stati considerati 76.422 partecipanti, 4.231 dei quali
avevano contratto l’infezione. Stando a quanto emerge dall’indagine, il 21,4% dei pazienti manifestava almeno un
sintomo da tre a cinque mesi dopo l’infezione, mentre nel gruppo di controllo solo l’8,7% dei partecipanti aveva
sviluppato condizioni cliniche nel periodo di osservazione. Dunque, un paziente su otto della popolazione generale
presentava sintomi a lungo termine associati all’infezione da nuovo coronavirus. Tra gli effetti più frequenti i
ricercatori riportano dolore toracico, difficoltà respiratorie, dolore durante la respirazione, dolori muscolari, perdita
del gusto e dell’olfatto, formicolio alle estremità, nodo alla gola, sensazione di caldo e freddo, braccia e/o gambe
pesanti e spossatezza (The Lancet).
Sempre ad agosto uno studio internazionale (coordinato da Stephen Freedman, dell’Università di Calgary in Canada
e condotto in otto Paesi) evidenzia che il 6% dei bambini che arriva al Pronto Soccorso per Covid va incontro a long
Covid nei 90 giorni successivi. Un ricovero di 48 ore o più, quattro o più sintomi all’arrivo manifestati al reparto
d’emergenza ed età dai 14 anni in su sono fattori associati a long Covid. La ricerca ha incluso 1.884 bambini con
Covid, sottoposti a un follow-up di 90 giorni. Il long Covid è stato evidenziato in circa il 10% dei bambini ricoverati
e nel 5% dei bambini dimessi dai reparti di emergenza. I sintomi più frequentemente riferiti dai pazienti pediatrici
sono stati debolezza, tosse, difficoltà a respirare o respiro corto (Jama).
A settembre uno studio condotto dal team di Suchitra Rao, specialista del Children’s Hospital Colorado, dal 1°
marzo 2020 al 31 ottobre 2021 e pubblicato ha indagato in particolare i sintomi, le condizioni di salute diagnosticate
e i farmaci associati al long Covid nei bambini. Il team ha esaminato le cartelle sanitarie di 659.286 pazienti da 0 a
21 anni, realizzando così la più vasta ricerca condotta finora sul long Covid nei bambini. Secondo lo studio, i
sintomi, le condizioni di salute diagnosticate e i farmaci più correlati con l’infezione da SARS-CoV-2 sono stati,
rispettivamente, la perdita di gusto/odore, la miocardite e i preparati per tosse e raffreddore. Dei quasi 600mila
soggetti coinvolti 60mila sono risultati positivi al coronavirus e circa il 42% ha dimostrato di avere ancora almeno
17
un sintomo a quattro settimane dall’infezione. L’obiettivo dello studio era identificare i sintomi, le condizioni di
salute diagnosticate e i farmaci associati alla Sequele Post Acute da Sars-CoV-2, nota come PASC, nei bambini. I
sintomi più comuni sono dolore toracico, palpitazioni, alterazioni del battito, stanchezza e difficoltà respiratorie. Le
caratteristiche sindromiche (sintomi), sistemiche (condizioni) e farmacologiche della PASC sono state identificate
nei 28-179 giorni successivi alla data del test iniziale. L’incidenza di almeno 1 caratteristica sistemica, sindromica
o farmacologica della PASC è stata del 41,9% tra i bambini positivi al test virale rispetto al 38,2% tra i bambini
negativi. La miocardite è stata la condizione più comunemente diagnosticata associata alla PASC. In generale, è
emerso che long Covid colpisce i bambini meno degli adulti e una maggiore correlazione con la PASC è stata
identificata nei pazienti assistiti nell’unità di terapia intensiva durante la fase acuta della malattia, nei bambini di
età inferiore ai 5 anni e nei soggetti con condizioni croniche complesse. Intanto in questo periodo si stanno
osservando nuovi sintomi che possono scaturire dopo la malattia, come sindromi infiammatorie d’organo, spesso
intestinali e cutanee (Jama Pediatrics).
Sempre a settembre è reso noto che almeno 17 milioni di persone in Europa hanno sperimentato un long Covid nei
primi 2 anni di pandemia ed è possibile che milioni debbano conviverci per molti anni a venire. La stima si basa su
un modello dell’Institute for Health Metrics and Evaluation (Ihme) della School of Medicine dell’Università di
Washington, Usa. “I modelli indicano un sorprendente aumento del 307% dei nuovi casi di long Covid nel periodo
tra il 2020 e il 2021, indotto dal rapido aumento dei casi confermati di infezione dalla fine del 2020 e per tutto il
2021”. Le donne hanno probabilità doppie rispetto agli uomini di soffrirne. Il rischio, inoltre, cresce
“drammaticamente” per chi ha avuto forme gravi di malattia, tali da necessitare un ricovero ospedaliero, con una
donna su tre e un uomo su cinque che possono essere colpiti dalla sindrome (Oms Europa, 72^ Sessione).
Ad ottobre da uno primo studio prospettico condotto in Italia, emerge che Covid-19 fa aumentare di oltre il 10%
i sintomi di disturbi psichiatrici nei dodici mesi successivi alla malattia. E del 20% altri segnali come mancanza di
concentrazione e attenzione. E così, mentre tutti gli altri sintomi dell’infezione da Coronavirus diminuiscono a un
anno dal contagio, aumentano invece depressione, ansia e insonnia (Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia
SINPF).

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SINTESI DEI PRINCIPALI RISULTATI DI STUDIO SULLA SINDROME LONG COVID(*)

  • 1. 1 SINTESI DEI PRINCIPALI RISULTATI DI STUDIO SULLA SINDROME LONG COVID(*) RAIMONDO VILLANO (*) Abs. da articolo dell’autore in corso di elaborazione. Circa il 30% di persone che contraggono COVID-19 sviluppa sintomi a lungo termine, noti come Long COVID- 19. Un team di ricercatori ritiene che ciò potrebbe essere causato dagli stessi anticorpi responsabili della lotta contro COVID-19, inclini a colpire il proprio stesso tessuto corporeo. Tali risposte immunitarie mal indirizzate possono accompagnare i pazienti ben oltre il loro recupero da COVID-19. I ricercatori lavorano per una comprensione più completa delle cellule e degli anticorpi coinvolti. Per quasi tre anni, gli scienziati hanno gareggiato per comprendere le risposte immunitarie nei pazienti con COVID-19 grave: un enorme sforzo, volto a definire dove finisce l’immunità sana (www.thelancet.com/journals/lanmic/article/PIIS2666-5247(21)00025-2/fulltext) e inizia l’immunità distruttiva. Nei primi giorni di pandemia molta attenzione si è concentrata sulle segnalazioni di infiammazioni dannose (www.frontiersin.org/articles/10.3389/fimmu.2020.01446/full) e le cosiddette tempeste di citochine (doi.org/10.1056/NEJMra2026131) - pericolose reazioni immunitarie che possono portare danni ai tessuti e morte - in pazienti con COVID-19 grave. Non molto tempo dopo i ricercatori iniziano a identificare gli anticorpi che prendono di mira il corpo del paziente (https://theconversation.com/covid-19-causes-some-patients- immune-systems-to-attack-their-own-bodies-which-may-contribute-to-severe-illness-148509) piuttosto che attaccare il virus SARS-CoV-2, che causa COVID-19. Questi studi hanno rivelato che i pazienti con COVID-19 grave condividono alcuni tratti chiave delle malattie autoimmuni croniche, in cui il sistema immunitario del paziente attacca cronicamente i propri tessuti (https://theconversation.com/an-autoimmune-like-antibody-response-is- linked-with-severe-covid-19-146255). Scienziati da tempo sospettano (https://dx.doi.org/10.1111%2Fimr.12091) e talvolta persino documentano collegamenti tra infezione virale e malattie autoimmuni croniche(https://doi.org/10.1016/j.it.2009.05.005), ma la ricerca resta oscura. Tuttavia, la pandemia di COVID-19 ha offerto l’opportunità di comprendere meglio le potenziali connessioni tra queste condizioni (https://theconversation.com/despite-its-disastrous-effects-covid-19-offers-some-gifts-to-medicine-an- immunology-expert-explains-what-it-can-teach-us-about-autoimmune-disease-174952). Il 31 agosto 2022 un nuovo studio pubblicato (primo firmatario: Matthew C. Woodruff, Dipartimento di Medicina, Divisione di Reumatologia, Lowance Center for Human Immunology, Emory University, Atlanta, GA, USA) sulla
  • 2. 2 rivista Nature, aiuta a fare luce su queste domande. Ora si sa che nei pazienti con COVID-19 grave, molti degli anticorpi in via di sviluppo responsabili della neutralizzazione della minaccia virale prendono di mira contemporaneamente i propri organi e tessuti. Si mostra pure che gli anticorpi autodiretti possono persistere per mesi o addirittura per anni in coloro che soffrono di Long COVID-19. La comprensione del legame tra immunità antivirale e malattie autoimmuni croniche si sta evolvendo rapidamente. In effetti, il sistema immunitario commette errori quando è sotto costrizione. È facile presumere che il sistema immunitario sia concentrato sull’identificazione e la distruzione di invasori, ma non è così, almeno in alcune circostanze. Il sistema immunitario, anche nel suo stato sano, ha un contingente di cellule pienamente in grado di colpire e distruggere cellule e tessuti del suo stesso organismo. Per prevenire l’autodistruzione, il sistema immunitario si basa su una serie intricata di dispositivi di sicurezza, chiamati collettivamente auto-tolleranza per identificare ed eliminare le cellule immunitarie potenzialmente “traditrici”. Uno dei passaggi più importanti in questo processo si verifica quando il sistema immunitario costruisce il suo arsenale contro una potenziale minaccia. Quando il sistema immunitario incontra per la prima volta un agente patogeno o anche una minaccia percepita, come un vaccino che somiglia a un virus, recluta rapidamente cellule “B” che hanno il potenziale per diventare produttori di anticorpi. Quindi, qualsiasi di queste reclute “ingenue” di cellule B - ingenuo è un termine tecnico usato in immunologia - che dimostrano la capacità di attaccare con competenza l’invasore viene messo in una sorta di campo di addestramento (https://doi.org/10.3389/fimmu.2018.02469). Qui, le cellule sono addestrate a riconoscere e combattere meglio la minaccia. Il periodo di allenamento è intenso e gli errori non sono tollerati; i linfociti B con qualsiasi potenziale distinguibile per attacchi mal diretti contro il loro ospite vengono uccisi. Tuttavia, come qualsiasi processo di formazione, questo accumulo e mobilitazione richiede tempo, in genere una o due settimane (https://doi.org/10.1016/j.immuni.2007.07.009). Pertanto, quando la minaccia è più immediata, quando qualcuno sta letteralmente combattendo per la propria vita in un’unità di terapia intensiva, si è scoperto che sotto lo stress di una grave infezione virale con SARS-CoV-2, il processo di addestramento crolla (https://dx.doi.org/10.2139%2Fssrn.3652322) e viene sostituito da una risposta di emergenza (https://doi.org/10.1038/s41590-020-00814-z) in cui le nuove reclute con poco addestramento sono portate in battaglia di corsa: il fuoco amico è il risultato sfortunato. Tuttavia le risposte immunitarie ad alto rischio sono per lo più transitorie. Il lavoro del team di Woodruff rivela che nel fervore della battaglia con un grave COVID- 19, gli stessi anticorpi responsabili della lotta contro il virus sono sconvenientemente inclini a prendere di mira i tessuti del paziente. È importante sottolineare che questo effetto sembra per lo più limitato a malattie gravi. Si sono identificate le cellule che producono questi anticorpi canaglia molto meno frequentemente nei pazienti con forme lievi della malattia le cui risposte immunitarie erano più misurate. Quindi ciò sta a significare che fortunatamente non tutti coloro che contraggono la COVID-19 grave sviluppano una malattia autoimmune. Seguendo i pazienti dopo che la loro infezione si è risolta, si è scoperto che mesi dopo, la maggior parte delle indicazioni preoccupanti di autoimmunità si sono attenuate. E questo ha un senso. Sebbene si stia identificando questo fenomeno in COVID- 19 umano, i ricercatori che studiano queste risposte immunitarie di emergenza da più di un decennio nei topi hanno determinato che sono “per lo più” di breve durata (https://doi.org/10.1016/j.immuni.2020.11.006). Implicazioni per la ripresa dal lungo COVID-19. Sebbene la maggior parte delle persone si riprenda completamente dall’infezione virale, fino al 30% di persone non è tornato alla normalità nemmeno tre mesi dopo il recupero (https://doi.org/10.1371/journal.pmed.1003773). Ciò ha creato un gruppo di pazienti che vivono quanto è noto come sequele post-acute di COVID-19, o PASC, terminologia tecnica per indicare il Long COVID- 19 (https://www.cdc.gov/mmwr/volumes/70/wr/mm7037a2.htm). Tale condizione è caratterizzata da sintomi debilitanti (https://theconversation.com/long-covid-leaves-newly-disabled-people-facing-old-barriers-a- sociologist-explains-175424) che possono includere la perdita a lungo termine del gusto, dell’olfatto o di entrambi, affaticamento generale, nebbia cerebrale e una varietà di altre condizioni. Questi pazienti continuato a soffrire e giustamente cercano risposte (https://theconversation.com/deciphering-the-symptoms-of-long-covid-19-is-slow- and-painstaking-for-both-sufferers-and-their-physicians-164754). Una domanda ovvia per i ricercatori che stanno studiando questi pazienti è se gli stessi anticorpi auto-mirati che stanno emergendo in COVID-19 grave siano persistenti in coloro che soffrono di Long COVID-19. La risposta è affermativa. Lo studio del team di Woodruff chiarisce che gli auto-anticorpi di nuova concezione possono persistere per mesi. Inoltre, nello studio si scopre che queste risposte anticorpali non sono limitate a coloro che si stanno riprendendo da una malattia grave e sono facilmente identificabili in un ampio sottoinsieme di pazienti Long COVID-19 che invece si erano ripresi da malattie più lievi. Proprio come era nella corsa per comprendere meglio le cause della malattia acuta a inizio della pandemia, i ricercatori stanno ora lavorando per ottenere una comprensione più completa delle cellule e degli anticorpi che dirigono questo auto-attacco per mesi e anni dopo la risoluzione dell’infezione. Tra le questioni da chiarire con il tempo e il continuo lavoro in quest’area critica vi sono, ad esempio: se i fenomeni auto-immuni stanno contribuendo direttamente ai sintomi che i malati di COVID-19 stanno sperimentando da tempo; se, in tal caso, esistono interventi terapeutici in grado di attenuare o eliminare tali minacce; se i pazienti con Long COVID-19 sono maggiormente a rischio di sviluppare malattie autoimmuni croniche vere in futuro; oppure, se tutto ciò è solo una falsa pista, una stranezza temporanea del sistema immunitario che va a risolversi da sola.
  • 3. 3 Ad aprile 2020 si verifica anche il primo caso in Italia di una paziente positiva a Covid dopo 55 giorni. A metà 2020 un sondaggio statunitense (eseguito utilizzando un’applicazione creata dalla società di scienze della salute Zoe in collaborazione con il King’s College di Londra e il Massachusetts General Hospital) condotto su oltre 4 mila pazienti affetti da Covid-19 ha rilevato che circa il 10% dei pazienti di età compresa tra i 18 e i 49 anni ha ancora problemi di sintomi quattro settimane dopo essersi ammalato, che il 4,5% di tutte le età ha avuto sintomi per più di otto settimane e che il 2,3% li ha avuti per più di 12 settimane. Un altro studio preliminare che esaminava soprattutto i pazienti Covid non ospedalizzati ha rilevato che circa il 25% aveva ancora almeno un sintomo dopo 90 giorni. Uno studio europeo ha rilevato che circa un terzo dei 1.837 pazienti non ospedalizzati ha riferito di aver bisogno ancora di un’assistenza circa tre mesi dopo l’inizio dei sintomi (The Wall Street Journal). Con più di 46 milioni di casi in tutto il mondo, anche le stime più basse si tradurrebbero in milioni di persone che vivono con condizioni a lungo termine, a volte disabilitanti, aumentando l’urgenza di studiare questa popolazione di pazienti, sostengono i ricercatori, che aggiungono che le loro rilevazioni potrebbero avere implicazioni sul modo in cui i medici definiscono il recupero e le terapie che prescrivono. Secondo i sanitari, l’ansia causata dall’isolamento sociale e dall’incertezza che circonda la pandemia potrebbe esacerbare i sintomi, anche se questa non è probabilmente la causa primaria. Anche in altri focolai virali, tra cui la SARS originale, MERS, Ebola, H1N1 e influenza spagnola, sono stati associati sintomi a lungo termine. Gli scienziati hanno riferito che alcuni pazienti hanno sofferto di stanchezza, problemi di sonno e dolori articolari e muscolari molto tempo dopo che il loro corpo ha eliminato il virus, secondo una recente revisione che monitora gli effetti a lungo termine delle infezioni virali. Ciò che differenzia Covid-19 è la vasta portata dei suoi effetti. Ad agosto 2020 Trisha Greenhalgh, Professore di cure primarie presso l’Università di Oxford, è l’autore principale di uno studio pubblicato che è tra i primi a definire i pazienti cronici Covid come quelli con sintomi che durano oltre 12 settimane e che abbracciano sistemi multipli di organi (British Medical Journal). Uno degli effetti a lungo termine più insidiosi di Covid-19 riguarda un grave affaticamento. Da uno studio pubblicato il 14 settembre 2020, emerge che negli precedenti nove mesi, un numero crescente di persone ha riportato stanchezza e malessere paralizzanti dopo aver contratto il virus: faticano ad alzarsi dal letto o a lavorare per più di pochi minuti o ore alla volta (Nature). In ottobre, il National Institutes of Health aggiunge una descrizione di tali casi alle sue linee guida per il trattamento di Covid-19, riferendo che i medici segnalano sintomi a lungo termine e disabilità legate a Covid-19 in persone con malattie più lievi. Elizabeth Moore, avvocato di 43 anni e madre di tre figli a Valparaiso in Indiana, su Sars-CoV-2 dichiara che “non ci si rende conto di quanto si sia fortunati per la tua salute, finché non lo si becca”: pre-Covid- 19, era un’appassionata sciatrice e si allenava in palestra più volte alla settimana; da quando si è ammalata a marzo 2020, ha avuto problemi di memoria e gastrointestinali e ha perso quasi 13 chili. Si stima che la percentuale di pazienti affetti da Covid-19 che soffrono di sintomi a lungo raggio sia molto ampia. Il 5 ottobre 2020 uno studio francese pubblicato sul follow-up di adulti con COVID-19 non critico due mesi dopo l’insorgenza dei sintomi evidenzia fenomeni gravi come encefaliti, stanchezza muscolare, difficoltà di movimento e addirittura ictus anche in pazienti giovani. Su 150 pazienti trattati con Covid lieve o moderato, due terzi riferivano di avere ancora sintomi a 30 e 60 giorni di distanza dalla guarigione e più di un terzo si sentiva ancora malato o in una condizione clinica peggiore due mesi dopo rispetto all’esordio della malattia. Questi sintomi prolungati erano associati soprattutto ad un’età compresa tra 40 e 60 anni. Inoltre, quasi 1 giovane su 5 di un’età fra 18 e 34 anni e senza patologie preesistenti, ha riferito di non essere tornato in perfetto stato di salute. I sintomi più frequenti hanno riguardato strascichi sulle capacità mentali con perdita di memoria e difficoltà di concentrazione, oltre ad affaticamento, mancanza di respiro, perdita di gusto e olfatto, ecc. (Clinical Microbiology and Infection of the European Society of Clinical Microbiology and Infectious Diseases ESCMID).
  • 4. 4 Il 10 novembre 2020 una ricerca pubblicata condotta su 384 individui ricoverati in ospedale Covid mostra come il 53% di essi sia rimasto senza fiato durante una valutazione di follow-up uno o due mesi dopo, con il 34% che ha avuto la tosse ed il 69% ha riferito di avere un affaticamento (Bmj Journals). Da uno studio pubblicato il 9 novembre 2020 emerge che oltre la metà dei partecipanti ha affaticamento persistente mesi dopo i sintomi iniziali della malattia, ma la causa scatenante ancora non si conosce (Plos One). A quasi un anno dall’avvio della pandemia globale di coronavirus, scienziati, medici e pazienti stanno iniziando a decifrare un fenomeno sconcertante: per molti pazienti, compresi i giovani che non hanno mai richiesto il ricovero ospedaliero, la Covid-19 ha un secondo atto devastante. Molti hanno a che fare con sintomi che si manifestano settimane o mesi dopo la loro guarigione, spesso con nuove complicazioni inattese che possono colpire l’intero corpo: grave stanchezza, problemi cognitivi e vuoti di memoria, problemi digestivi, battito cardiaco irregolare, mal di testa, vertigini, pressione sanguigna fluttuante, persino perdita di capelli. Ciò che sorprende i medici è che molti di questi casi coinvolgono persone i cui casi originari non erano i più gravi, minando l’ipotesi secondo cui i pazienti con Covid-19 lieve si riprendono entro due settimane. A dicembre 2020 uno studio americano pubblicato conferma sostanzialmente che, anche nel lungo termine e chi ha avuto una malattia non grave, può soffrire di disturbi neurologici frequenti. Questa ricerca pubblicata ha esaminato 74 pazienti Covid positivi tra metà aprile ed il 1° luglio 2020 curati nell’ospedale di Boston. L’età media era di 64 anni e 47 dei 74 pazienti avevano una storia di malattia neurologica. Tra essi, alcuni hanno subito un ictus, altri crisi epilettiche e la percentuale più alta confusione ed alterazione dello stato mentale. Tutte le complicazioni sono causa di Covid perché subentrate soltanto dopo l’infezione ed indipendentemente dalla gravità con cui è stato preso il virus (Neurology Clinical Practice). Il 29 dicembre 2020 a Genova il Prof. Matteo Bassetti, Direttore della Clinica di Malattie infettive del locale ospedale San Martino e docente di Malattie infettive all’Università di Genova, rende noto il caso di un paziente Covid positivo per 250 giorni ininterrotti: situazione mai vista a livello di letteratura scientifica internazionale. Il paziente non è però sopravvissuto a tale prolungata condizione di positività a Sars-CoV-2. Il virologo comunque non fa allarmismo, evidenziando che il medesimo soggetto infettato era immunodepresso (Il Giornale). Il 16 gennaio 2021 da uno studio pubblicato emerge che, su 1.733 pazienti con Covid dimessi da un ospedale cinese a Wuhan, sei mesi dopo l’insorgenza della malattia il 76% di loro ha riportato almeno un sintomo che persisteva: il più frequente era relativo ad affaticamento e debolezza muscolare. Inoltre, più del 50% presentava anomalie al torace indipendentemente dalla gravità della malattia (The Lancet). Nella terza decade di gennaio 2021 vi è una revisione delle linee guida Oms sulla gestione clinica del Long Covid. Tra le raccomandazioni formulate dall’Oms vi è che i pazienti con Covid - sia confermato che sospetto - abbiano accesso alle cure di follow-up se hanno sintomi persistenti, nuovi o mutevoli. L’Organizzazione precisa che “la comprensione di questa condizione post Covid è una delle aree di lavoro prioritarie dell’Oms” e per questo a febbraio 2021 sono organizzate “una serie di consultazioni per raggiungere un consenso su una descrizione di questa condizione e dei suoi sottotipi e sulle definizioni dei casi. Questa comprensione scientifica porterà anche a definire un nome per questa condizione. Le consultazioni includeranno un’ampia gamma di parti interessate, inclusi gruppi di pazienti”. Inoltre, fra le raccomandazioni l’Oms suggerisce per i pazienti Covid che si trovano a casa l’uso del saturimetro per la misurazione dei livelli di ossigeno nel sangue. Questo monitoraggio deve essere coordinato con altri aspetti dell’assistenza domiciliare, come l’educazione del paziente e del caregiver e il regolare follow-up del malato. Per chi è ricoverato viene suggerito l’uso di anticoagulanti a basso dosaggio per prevenire trombosi. Per chi è ospedalizzato e sotto ossigeno (compreso quello nasale ad alto flusso) o ventilazione non invasiva, l’Oms suggerisce di ‘pronare’ i pazienti posizionandoli a pancia in giù da svegli per aumentare il flusso di ossigeno. Le linee guida includono anche raccomandazioni sull’uso di pacchetti di assistenza per sistematizzare la fornitura di cure per i pazienti Covid, e la raccomandazione di favorire, nel prendere decisioni per la cura del paziente, il giudizio clinico rispetto ai modelli. Le raccomandazioni sono state formulate da un gruppo di esperti indipendente, il Guideline Development Group, sulla base di “rapide revisioni dettagliate di tutte le evidenze disponibili”, e vengono aggiornato regolarmente man mano che arrivano più dati (Doctor33). Il 19 gennaio 2021 è pubblicato uno studio (prima autrice: Serena Venturelli, medico del reparto Malattie infettive dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII) sulla rivalutazione ambulatoriale post-acuta della sopravvivenza a COVID-19 nella provincia di Bergamo, di cui di seguito si riporta una sintesi. Estratto. La provincia di Bergamo è stata duramente colpita dall’epidemia di coronavirus 2019 (COVID-19). Si è organizzato un programma di follow- up multidisciplinare finanziato con fondi pubblici per i pazienti COVID-19 dimessi dal pronto soccorso o dai reparti di degenza dell’Ospedale “Papa Giovanni XXIII”, il più grande ospedale pubblico della zona. Al 31 luglio, i primi 767 pazienti avevano completato la prima valutazione multidisciplinare post-dimissione. I pazienti sono entrati nel programma in un tempo mediano di 81 giorni dopo la dimissione. Tra questi, il 51,4% lamentava ancora sintomi, più comunemente affaticamento e dispnea da sforzo, e il 30,5% soffriva ancora di conseguenze psicologiche post- traumatiche. La diffusione polmonare compromessa è stata riscontrata nel 19%. Il 17% aveva valori di D-dimero due volte superiori alla soglia per la diagnosi di embolia polmonare (due trombosi polmonari inattese e clinicamente silenti sono state scoperte studiando l’impressionante aumento del D-dimero). I sopravvissuti a COVID-19
  • 5. 5 presentano una complessa gamma di sintomi, la cui patologia comune sottostante, se presente, deve ancora essere chiarita: è fondamentale un approccio multidisciplinare, per affrontare i diversi problemi e cercare soluzioni efficaci. Introduzione. L’ASST ‘Papa Giovanni XXIII’ è il principale ospedale pubblico della provincia di Bergamo, al servizio di una popolazione di circa 1 110 000 abitanti. Questa provincia è stata la più colpita dall’ondata epidemica iniziale della malattia da coronavirus 2019 (COVID-19) in Italia, a partire dal 22 febbraio, con 2346 decessi notificati e un aumento stimato del +568% della mortalità per tutte le cause (5058 decessi in eccesso) nel periodo 20 febbraio-31 marzo 2020, rispetto alla media dello stesso periodo negli anni 2015-2019. Le manifestazioni cliniche acute di COVID-19 sono state descritte in dettaglio, anche se sono disponibili pochi dati pubblicati sulla fase post-acuta, sulle complicanze a medio termine e sui potenziali danni di lunga durata. Stanno aumentando le prove aneddotiche sul cosiddetto “COVID lungo”: una sindrome difficile da definire, con alcuni pazienti che lamentano sintomi molti mesi dopo il recupero dalla fase acuta. Per mobilitare le risorse sanitarie, affrontare i principali problemi clinici dei sopravvissuti e stabilire le priorità di salute pubblica, sulla scia di possibili recrudescenze epidemiche, appare di primaria importanza una valutazione multidisciplinare dei sopravvissuti al COVID-19. Presso l’istituzione, si è organizzato un servizio ambulatoriale dedicato finanziato con fondi pubblici per il follow-up dei sopravvissuti: entro la fine di settembre 2020, 1562 persone avevano completato la loro prima valutazione post-dimissione; presentiamo i dati preliminari osservati nei primi 767 pazienti (dal 2 maggio al 31 luglio). Metodi. È stato ottenuto dall’ospedale un elenco di tutti i pazienti dimessi dal pronto soccorso (DE) o ricoverati nei reparti dell’ospedale, con qualsiasi condizione possibilmente correlata all’infezione da sindrome respiratoria acuta grave-coronavirus-2 (SARS-CoV-2) database delle cartelle cliniche elettroniche. Sono state escluse le donne gravide asintomatiche ricoverate per parto e le pazienti asintomatiche trovate positive al test molecolare ricoverate per procedure programmate per altre patologie. Tutti i pazienti in elenco, se raggiungibili telefonicamente o via mail, sono stati invitati a partecipare al programma, con l’esclusione dei pazienti pediatrici (<18 anni). I pazienti ancora ricoverati sono stati identificati ma inseriti in una “lista d’attesa” per essere richiamati al programma una volta dimessi. L’iscrizione al programma era su base volontaria e richiedeva un tampone rinofaringeo doppio negativo per SARS-CoV-2 RNA (i casi positivi venivano nuovamente testati regolarmente fino all’ottenimento di un tampone doppio negativo). I soggetti con deficit cognitivo sono stati accompagnati da un caregiver, che ha aiutato a fornire informazioni sulla storia medica ea ricordare lo stato di salute pre-episodio acuto. Si è offerto una valutazione in due fasi: Fase 1: valutazione dell’infermiere, esami del sangue (inclusi emocromo completo, test di funzionalità epatica, test di funzionalità renale, D-dimero, test di coagulazione, test di funzionalità tiroidea e anticorpi tiroidei, glucosio, emoglobina glicata, lattato deidrogenasi, peptide natriuretico cerebrale, C- proteina reattiva), radiografia del torace, elettrocardiogramma, test di funzionalità polmonare completa con diffusione, valutazione psicologica, valutazione dei bisogni riabilitativi. Fase 2 (tre giorni dopo): consultazione malattie infettive e successivo invio alle cure primarie o ad altri specialisti (principalmente medicina respiratoria, cardiologia, neurologia, endocrinologia, medicina fisica e riabilitativa, ematologia) come ritenuto opportuno. Nella fase 1 sono state adottate diverse scale di valutazione. Per la valutazione psicologica, sono stati somministrati questionari self-report per valutare il disturbo da stress post-traumatico (PTSD), i sintomi di ansia e depressione e la resilienza. Sono state utilizzate le seguenti scale: Impact of Events Scale - Revised (IES-R), scala di ansia e depressione ospedaliera (HADS) e Scala di resilienza per adulti (RSA). Da luglio, un test di screening neuropsicologico, il test Montreal Cognitive Assessment (MoCA), è stato introdotto per tenere conto del crescente numero di pazienti che lamentano compromissione cognitiva (come memoria e deficit di attenzione). La scala utilizzata era basata su punteggi equivalenti da 0 a 4, in base all’adeguamento per età e livello di istruzione dei punteggi MoCA. In questa scala modificata, il punteggio “patologico” era “0”. I risultati dei questionari venivano sempre discussi con i pazienti al termine del colloquio psicologico clinico. Per la valutazione dei bisogni riabilitativi sono state utilizzate le scale Barthel Index e Brief Fatigue Inventory. Le condizioni preesistenti all’episodio acuto di COVID-19 sono state valutate utilizzando queste due scale, chiedendo ai pazienti di ricordare i loro sintomi. L’approvazione etica è stata concessa dal comitato etico ‘Papa Giovanni XXIII’ dell’ASST. I dati sono stati raccolti utilizzando un database Microsoft Access. Il consenso scritto è stato ottenuto da tutti i partecipanti al momento dell’arruolamento. Tutti i pazienti hanno avuto accesso al programma di follow-up indipendentemente dalla loro decisione di partecipare allo studio. Il sistema sanitario regionale ha coperto tutti i costi del servizio, ad eccezione delle visite endocrinologiche, dermatologiche e reumatologiche. Risultati. Fino al 31 luglio, 2965 pazienti soddisfacevano i criteri (946 dimessi dal PS e 2019 ricoverati). Seicentoquarantasei di loro erano morti (505 prima della dimissione) e 405 avevano rifiutato di partecipare. Dei restanti 1914, 767 avevano completato la valutazione post-dimissione in due fasi entro il 31 luglio. Nessuno di questi pazienti ha rifiutato di fornire il consenso per la raccolta dei dati per questo studio osservazionale. COVID-19 è stato confermato da una PCR SARS-CoV-2-RNA positiva in tutti tranne 46 casi, tra i quali 37 avevano una sierologia positiva (da LIAISON® , DiaSorin, Saluggia VC, fino al 10 luglio e da ElecSys® , Roche, successivamente). Le cartelle cliniche dei restanti nove pazienti sono state esaminate da uno specialista di identificazione senior e giudicate “probabile COVID-19”. Dei 767 pazienti arruolati, 252 erano donne (32,9%). L’età media era di 63 anni (S D . 13,6, range 20-92). Seicentosessantotto persone sono state ricoverate in ospedale con 66 (8,6%) di loro che hanno richiesto il ricovero nell’unità di terapia intensiva
  • 6. 6 (ICU). L’otto per cento dei pazienti ricoverati ha avuto una degenza ospedaliera totale di oltre 60 giorni. I sopravvissuti sono entrati nel nostro programma a una mediana di 81 giorni (IQR = 66–106) dopo la dimissione dal PS o dai reparti e una mediana di 105 giorni (IQR = 84–127) dopo la comparsa dei primi sintomi correlati a COVID -19. Il giorno della prima visita al nostro servizio, erano stati a casa loro per una mediana di 68 giorni (IQR = 51- 92) (332 pazienti, il 43% della nostra coorte, sono stati trasferiti in altre strutture prima di tornare a casa). Al momento della valutazione dell’ID, 394 pazienti (51,4%) riferivano di essere ancora sintomatici, con affaticamento e dispnea da sforzo come i sintomi più riportati. Le donne erano più sintomatiche degli uomini, con affaticamento segnalato quasi il doppio della frequenza. Dei pazienti sintomatici, 257 (33,5%) hanno dichiarato di “non sentirsi completamente guariti”, quando richiesto espressamente. I restanti 137 pazienti (17,9%) hanno manifestato solo sintomi minori con scarse o nessuna implicazione per le loro attività quotidiane: come tali, si consideravano “guariti”. Centottantasei pazienti (24,2%) erano ancora in trattamento medico aggiuntivo, introdotto durante il ricovero, con gli anticoagulanti come i più frequenti. La dispnea auto-riferita utilizzando la scala di dispnea del Consiglio di ricerca medica modificata (mMRC) era presente in 228 pazienti (29,8%), di cui 52 pazienti presentavano dispnea “moderata-grave”. Sulla base dei risultati della scala dell’indice di Barthel, 121 pazienti (16%) non erano più completamente indipendenti, di questi solo sei sono diventati moderatamente-severamente dipendenti. Il test Brief Fatigue Inventory ha riscontrato che 334 pazienti (44,1%) lamentavano affaticamento di nuova insorgenza (145 con affaticamento moderato-grave). Mentre l’Impact of Event Scale-Revised (IES-R) ha identificato 222 pazienti (30,5% di 727) con aspetti traumatici correlati a COVID-19, la RSA ha evidenziato che per 679 (95,5% di 711) avevano risorse sufficienti per reagire. Lo screening MoCa, introdotto a luglio, è risultato patologico solo in 2 dei 304 pazienti sottoposti a test, nonostante 69 abbiano riportato sintomi correlati. I test di funzionalità polmonare hanno identificato 27 pazienti (3,7%) con ostruzione, 85 (11,8%) con pattern restrittivo e 6 (0,9%) con pattern misto. Per 51 pazienti il risultato del test era controindicato o non diagnostico. La capacità diffusa dei polmoni per il monossido di carbonio (DLCO) è stata ridotta nel 19% dei pazienti. La proteina C-reattiva, il D- dimero e la lattato-deidrogenasi erano al di sopra del limite superiore della norma (ULN) rispettivamente nel 7%, 38% e 22% dei casi. Al follow-up sono state scoperte due trombosi subsegmentali polmonari asintomatiche, studiando l’impressionante elevazione del D-dimero. Gli anticorpi anti-tireoglobulina e perossidasi tiroidea sono stati trovati elevati nel 15% dei pazienti, con il 5% di essi (6 su 115) che mostrava una concomitante alterazione dell’ormone stimolante la tiroide (TSH). Duecentocinquantatre pazienti (32,9%) hanno avuto complicazioni correlate a SARS-CoV-2 durante la fase acuta, di cui le più frequenti sono state: Neuropsichiatrico (8,7%) (es. delirio, sindrome depressiva, psicosi, ictus, encefalite, sindrome di Guillain-Barré, polineuropatia; Cardiaco (8,5%) (ad esempio: aritmia, ischemia, miocardite); Ulteriori complicanze polmonari (7,1%) (ad esempio: polmonite batterica, versamento pleurico, pneumotorace); Trombotico (6,1%) (ad esempio: embolia polmonare, trombosi venosa profonda). Le complicanze si sono verificate quasi esclusivamente durante la fase acuta, ma sono state valutate al follow-up per evitare di perdere quelle di comparsa tardiva. Dopo la valutazione dell’ID, 379 pazienti (49,4%) sono stati indirizzati a percorsi specialistici. La maggior parte (281 pazienti; 36,6%) è stata indirizzata alla medicina respiratoria. Diversi pazienti sono stati indirizzati a più di una specialità. Discussione. A nostra conoscenza, il nostro rapporto rappresenta una delle più grandi coorti fino ad oggi, descrivendo le conseguenze a medio termine dell’infezione da SARS-CoV-2. Si tratta di uno studio monocentrico, riferito a una popolazione omogenea, con un’ampia maggioranza (88,4%) di pazienti ricoverati in ospedale di cui il 9,7% necessitanti di terapia intensiva: in altre coorti finora pubblicate, i criteri di selezione si basavano sul solo avere un test molecolare positivo. Dei pazienti ricoverati della nostra coorte, il 43% è stato trasferito in altre strutture almeno una volta durante la degenza ospedaliera, vivendo quello che si potrebbe definire un ‘viaggio’ tra diversi ospedali e servizi ospedalieri (l’8% dei pazienti ha avuto una degenza totale di più di 60 giorni). Si è rintracciato tutte le informazioni accessibili, caso per caso, lungo tutti questi movimenti. Un altro punto di forza di questo studio è che i pazienti sono stati cercati attivamente (via telefono e posta) ed esaminati fisicamente e intervistati (in alcuni casi, con l’aiuto di un caregiver): questo ha fornito parità di accesso al servizio di follow-up, superando le barriere poste con consulenze telefoniche e video. Infine, fintanto che COVID-19 sembra colpire diversi sistemi di organi, in alcuni casi anche senza alcuna malattia polmonare rilevante, gli ampi criteri di selezione hanno permesso di rappresentare un ampio scenario delle conseguenze di COVID-19 nella popolazione. I pazienti che sopravvivono a COVID-19 mostrano una serie complessa di condizioni, che vanno da lievi a potenzialmente pericolose per la vita (ad esempio: embolia polmonare a esordio tardivo). L’intervento dei ricercatori ha avuto il vantaggio di valutare i bisogni di salute e, allo stesso tempo, di offrire interventi per affrontarli, all’interno del quadro approvato dall’OMS di “Riconoscimento, ricerca e riabilitazione”, come invocato per i malati di COVID da lungo tempo. Trecentonovantaquattro partecipanti (51,4%) erano ancora sintomatici alla valutazione ID, il che è in linea con le osservazioni di altri autori. In particolare, il 33,5% si è descritto come “non ancora guarito”: a un tempo mediano di 105 giorni dall’esordio, queste persone rientrano probabilmente nella “definizione operativa” (ancora da definire rigorosamente) di “malati di Long COVID”. La natura dei sintomi di long COVID deve ancora essere spiegata, ma sembra ragionevole provare a separare i sintomi legati alla sindrome da stanchezza cronica post-virale, da quelli dovuti alla sindrome da malattia post-critica o disturbo da stress post-traumatico, soprattutto in una coorte ad alto tasso di ospedalizzazione e
  • 7. 7 lungodegenza, come quella oggetto del presente studio. In tale sforzo, dovrebbe essere presa in considerazione una valutazione completa e multidisciplinare dei pazienti dopo l’episodio acuto di COVID-19. Si sono adottate per ogni paziente diverse scale di autovalutazione, test di laboratorio e strumentali completi: la loro correlazione ai sintomi riportati e la loro concordanza incrociata saranno oggetto dei prossimi sforzi. Le conseguenze a medio termine di COVID-19 non si limitano alle malattie polmonari e coprono una vasta gamma di sistemi di organi: il meccanismo sottostante potrebbe essere una sorta di compromissione del microcircolo. Si propone che gli studi siano indirizzati in tale direzione. Questo studio ha una serie di limitazioni: 1) la sequenza temporale dell’arruolamento e delle valutazioni non era standardizzata: si è visto pazienti a intervalli variabili dall’insorgenza di COVID-19, rendendo meno rigorosi i confronti tra i gruppi; ciò ha a che fare con l’immediata instaurazione dell’intervento dei ricercatori, subito dopo la fine della prima ondata dell’epidemia; 2) i criteri di inclusione sono pragmatici, ma poco rappresentativi dell’effettivo carico di casi nella provincia di Bergamo; durante l’epidemia iniziale, i fattori confondenti hanno alterato il case mix ospedaliero in entrambi i modi: i pazienti gravemente malati non hanno ottenuto l’accesso, a causa del guasto del sistema di ambulanza e i pazienti meno gravemente colpiti hanno evitato di consultare il Pronto Soccorso a causa del sovraffollamento; 3) il criterio di un doppio test negativo prima dell’iscrizione ha ritardato la valutazione di una parte della coorte dello studio: non è ancora noto se i pazienti con tampone persistentemente positivo condividano caratteristiche cliniche rilevanti, per cui questo ritardo potrebbe fungere da fonte di variabilità. In quarto luogo, il bias di richiamo potrebbe aver influenzato i punteggi assegnati alla valutazione “pre-COVID”; 4) si sono censurate le osservazioni alla consultazione ID, con una percentuale rilevante dei pazienti arruolati ancora da vedere da altri specialisti, che, a loro volta, possono aggiungere ulteriori prospettive. In conclusione, un’ampia percentuale di sopravvissuti al COVID-19 presentava significativi bisogni sanitari e psicosociali in corso. Per tali pazienti dovrebbe essere presa in considerazione la fornitura di una clinica di follow-up coordinata e multidisciplinare che offra una valutazione medica e psicologica completa. Sono necessarie ulteriori ricerche per comprendere meglio l’onere della morbilità dopo l’infezione acuta da COVID-19, al fine di pianificare e finanziare servizi adeguati (Epidemiology & Infection - Cambridge University Press). Ad aprile 2021 da uno studio pubblicato (primo autore: Ziyad Al-Aly, della Washington University School of Medicine di St. Louis e del Veterans Affairs St. Louis Health Care System) emerge che il rischio di decesso dei sopravvissuti al Covid-19, anche non ricoverati in ospedale, è aumentato nei sei mesi successivi alla diagnosi del virus pure a seguito di un caso lieve di Covid-19 e aumenta con la gravità della malattia. I ricercatori hanno valutato 73.435 veterani con Covid-19 confermato ma che non erano stati ricoverati in ospedale e, come controllo, quasi cinque milioni di veterani che non avevano ricevuto una diagnosi di Covid-19 e non erano stati ricoverati durante lo stesso periodo di tempo. I veterani nello studio erano principalmente uomini, ma grazie alla grande dimensione del campione, lo studio ha potuto includere comunque 8.880 donne con casi confermati. Inoltre, gli esperti hanno
  • 8. 8 condotto un’analisi separata su 13.654 pazienti ricoverati con Covid-19 confrontandoli con 13.997 pazienti ricoverati in ospedale con influenza stagionale. Tutti i pazienti sono sopravvissuti almeno 30 giorni dopo il ricovero ospedaliero e l’analisi ha incluso sei mesi di dati di follow-up. I ricercatori hanno confermato che, nonostante inizi come virus respiratorio, il long Covid-19 può colpire quasi tutti i sistemi di organi del corpo. Secondo gli esperti, dopo i primi 30 giorni di malattia, i sopravvissuti a Covid-19 avevano un rischio di decesso aumentato di quasi il 60% nei sei mesi successivi rispetto alla popolazione generale. Al termine dei sei mesi, le morti in eccesso tra tutti i sopravvissuti a Covid-19 sono state stimate in otto persone per 1.000 pazienti. Tra i pazienti ricoverati in ospedale con Covid-19 sopravvissuti oltre i primi 30 giorni di malattia, ci sono stati 29 decessi in eccesso per 1.000 pazienti nei sei mesi successivi. Inoltre, i sopravvissuti al Covid-19 avevano un rischio di morte aumentato del 50% rispetto ai sopravvissuti all’influenza, con circa 29 decessi in eccesso per 1.000 pazienti a sei mesi, e avevano anche un rischio sostanzialmente più elevato di problemi medici a lungo termine. Al-Aly evidenzia infine che “alcuni di questi problemi, come la mancanza di respiro e la tosse, possono migliorare con il tempo, e altri problemi possono peggiorare” (Nature). A maggio 2021 desta stupore nel Regno Unito il caso unico di Jason Kelk, 49enne del West Yorkshire insegnante di informatica della scuola primaria di Leeds che ha il Long Covid da più di un anno: il caso più duraturo nel Regno Unito. Colpito dall’infezione nell’aprile 2020, non è più uscito dall’ospedale, poiché i sintomi della malattia, malgrado si sia negativizzato, non sono scomparsi. Covid ha procurato al professore danni persistenti allo stomaco, in particolare una gastroparesi, facendolo soffrire di regolari attacchi di vomito. Kelk, inoltre, non è capace di camminare da solo ed è tormentato da dispnea, nebbia cerebrale e dolori muscolari. Secondo i medici, a favorire la sindrome sarebbero state soprattutto alcune patologie croniche, tra cui diabete e asma (Il Giornale). Secondo uno studio pubblicato a luglio 2021 su incidenza e durata del Long Covid emerge che esso compare nel 14% delle persone che si infettano e dura in media quattro mesi. Nello studio sono stati confrontati i dati di 641 individui con malattie respiratorie ma negativi a Covid con 243 volontari che invece avevano l’infezione. In tutti i casi sono state notate variazioni frequenza cardiaca, nel ritmo sonno-veglia e nell’attività fisica, parametri che impiegano molto più tempo a tornare normali in chi è stato colpito dal Sars-Cov-2. In media la frequenza cardiaca a riposo nei pazienti Covid non ritorna normale prima di due mesi e mezzo, l’attività fisica prima di un mese mentre il ritmo sonno veglia si regolarizza intorno al giorno 24 dalla diagnosi. Per chi invece ha il ‘long Covid’, il 14% del campione considerato, i sintomi durano molto più a lungo, con la frequenza cardiaca che rimane più alta del normale per quattro mesi. I dati suggeriscono che la gravità dei sintomi iniziali, a partire dall’alterazione della frequenza cardiaca, possono essere elementi predittivi del tempo che impiegherà il paziente a guarire dall’infezione (Jama). A luglio 2021 uno studio pubblicato (condotto da Athena Akrami, dell’University College di Londra) identifica i sintomi del long-Covid cioè gli effetti a lungo termine nei soggetti che sono stati malati. L’indagine, la più ampia mai condotta, ha coinvolto 3.762 persone con long Covid confermato o sospetto in 56 Paesi e ha portato all’identificazione di 203 sintomi, 66 dei quali possono perdurare sette mesi dalla guarigione dall’infezione. Si tratta di disturbi che colpiscono dal distretto respiratorio a quello gastrointestinale, dall’urinario all’endocrino, dal cardiovascolare al muscoloscheletrico fino al neurologico. I sintomi più comuni sono affaticamento, malessere dopo uno sforzo fisico o mentale, stato confusionale. Altri sintomi includono allucinazioni visive, tremori, orticaria, cambiamenti del ciclo mestruale, disfunzioni sessuali, tachicardia, problemi di incontinenza, perdita di memoria, visione offuscata, diarrea, tinnito. A destare particolare preoccupazione i sintomi neurologici che hanno riguardato fino all’85% del campione analizzato. Mal di testa, insonnia, vertigini, nevralgie, alterazioni neuropsichiatriche, tremori, sensibilità ai rumori e alla luce, allucinazioni, acufene, e altri sintomi sensomotori erano tutti comuni, e possono indicare problemi neurologici più grandi che riguardano sia il sistema nervoso centrale che periferico. Oltre 1 su 5 degli intervistati, il 22%, ha riferito di non essere stato in grado di lavorare - per licenziamento, stato prolungato di malattia, aspettativa o dimissioni - a causa del long-Covid. Il 45% ha richiesto di passare al part-time. Molti reparti post-Covid nel Regno Unito si sono concentrate sulla riabilitazione respiratoria. Infine, gran parte dei guariti con long-Covid soffre di affanno e anche di una serie di altri problemi e sintomi cui i clinici devono rispondere con un approccio più olistico (EClinicalMedicine). Il 15 luglio 2021 una revisione della letteratura pubblicata (Olalekan Lee Aiyegbusi, dell’University of Birmingham, primo nome dello studio) indaga sulla correlazione tra quantità di sintomi e durata di Covid ed emerge che la presenza di più di cinque sintomi di Covid-19 nella prima settimana di infezione è significativamente associata allo sviluppo di long Covid, indipendentemente dall’età o dal sesso del paziente. I dati di prevalenza aggregati nella revisione evidenziano i dieci sintomi più comuni di questa patologia: affaticamento, mancanza di respiro, dolori muscolari, tosse, mal di testa, dolori articolari, dolore al petto, alterazioni dell’olfatto e del gusto, diarrea. I ricercatori hanno identificato due principali gruppi di sintomi di long Covid: 1) affaticamento, mal di testa e disturbi delle vie respiratorie superiori; 2) disturbi plurisistemici, tra cui febbre e sintomi riconducibili all’apparato gastrointestinale. Numerose prove indicano che l’impatto di Covid-19 acuto sui pazienti, indipendentemente dalla severità, si estende oltre il ricovero in ospedale in alcuni casi, e per problemi di qualità della vita, di salute mentale e occupazionali. Secondo gli esperti, le persone che convivono da tempo con Covid generalmente si sentono abbandonate e respinte dagli operatori sanitari e purtroppo riferiscono di ricevere consigli limitati o contrastanti. A
  • 9. 9 questo proposito, gli autori riportano che più di un terzo dei pazienti in uno degli studi inclusi nella revisione ha affermato di sentirsi ancora male o in condizioni cliniche peggiori dopo otto settimane rispetto all’inizio della malattia. Di fatto non sono ancora noti né i meccanismi biologici o immunologici di long Covid né la logica del motivo per cui alcune persone sono più suscettibili a questa situazione. In uno studio compreso nella revisione, che effettuava un confronto con altri coronavirus, si suggeriva che i pazienti con long Covid potrebbero essere soggetti a una traiettoria di malattia simile a quella dei pazienti che hanno avuto Sars o Mers, dato che sei mesi dopo la dimissione ospedaliera, circa il 25% dei pazienti ricoverati con Sars e Mers presentava una riduzione della funzionalità polmonare e capacità di esercizio fisico. L’ampia gamma di potenziali sintomi e complicazioni che i pazienti con long Covid possono mostrare evidenzia la necessità di una comprensione più profonda del decorso clinico della patologia. Anche in questo studio si evidenzia infine un urgente bisogno di modelli di assistenza migliori e più integrati per supportare e gestire i pazienti con long Covid in modo da ottenere migliori risultati clinici (Journal of the Royal Society of Medicine). Il 12 luglio 2021 secondo uno studio pubblicato che ha interessato la popolazione generale adulta infettata da Covid- 19 nel 2020, più di un quarto dei pazienti riferisce di non essersi completamente ripreso dopo un periodo di sei-otto mesi. I ricercatori hanno reclutato 431 individui che erano risultati positivi per Sars-CoV-2 tra febbraio e agosto 2020 all’interno del sistema di tracciamento dei contatti a Zurigo. Tutti i partecipanti hanno completato un questionario online sulla loro salute dopo un periodo medio di 7,2 mesi dalla diagnosi. I sintomi di Covid-19 erano presenti al momento della diagnosi nell’89% dei partecipanti e il 19% è stato inizialmente ricoverato in ospedale. Complessivamente, il 26% dei partecipanti ha riferito di non essersi completamente ripreso da sei a otto mesi dopo la diagnosi iniziale di Covid-19. Il 55% delle persone ha riportato sintomi di affaticamento, il 25% ha avuto un certo grado di mancanza di respiro e il 26% sintomi di depressione. Una percentuale maggiore di donne e pazienti inizialmente ricoverati ha riferito di non essersi ripresa rispetto ai maschi e ai soggetti non ricoverati, e il 40% di tutti i partecipanti ha riportato di aver effettuato almeno una visita di medico di base correlata a Covid-19 dopo la patologia acuta. Lo studio di coorte indica che è necessario offrire un’assistenza su misura per le esigenze delle persone che soffrono di sindrome post-Covid-19 (Plos One). Da uno studio del King’s College di Londra (Emma Duncan autrice principale e senior) pubblicato ad agosto 2021 si rileva un long Covid molto raro tra i più i giovani, che mostrano tempi di ripresa di una settimana. L’analisi offre la prima descrizione dettagliata della malattia Covid-19 nei bambini e ragazzi sintomatici di età compresa tra 5 e 17 anni e si è concentrata sui dati di 1.734 pazienti risultati positivi, valutando da quando sono insorti i sintomi fino alla guarigione. In genere i tempi di ripresa sono risultati compresi nell’arco di una settimana, i bambini hanno presentato pochi sintomi e la malattia in media è durata 6 giorni con 3 sintomi riscontrati. Quasi tutti i sintomatici sono guariti comunque entro 8 settimane (98,2%). Ma alcuni bambini (4,4%, cioè 77 su 1.734) hanno manifestato sintomi - in media 2 - persistenti oltre le 4 settimane. Il sintomo più comune era l’affaticamento (84%), seguito da mal di testa e perdita dell’olfatto, ognuno dei quali sperimentato dal 77,9% dei bambini a un certo punto nel corso della malattia. Tuttavia, il mal di testa era più comune all’inizio della malattia, mentre la perdita dell’olfatto tendeva a manifestarsi più tardi e a persistere più a lungo. Dei bambini che hanno sviluppato sintomi almeno 2 mesi prima della fine del periodo di studio, meno del 2% li ha avuti per più di 8 settimane. I bambini più grandi sono stati generalmente malati più a lungo di quelli in età da scuola primaria (durata media della malattia 7 giorni nei bambini di età compresa tra 12 e 17 anni, contro 5 giorni nei bambini di età compresa tra 5 e 11 anni) e avevano anche maggiori probabilità di manifestare sintomi dopo 4 settimane (5,1% dei 12-17enni contro 3,1% dei 5-11enni), ma non vi erano grosse differenze fra i bambini che avevano ancora sintomi dopo 8 settimane. Si è ancora scoperto che quasi un quarto dei bambini sintomatici risultati positivi durante la seconda ondata Covid del Regno Unito non ha riportato sintomi principali, suggerendo che la politica di testing britannica dovrebbe essere riconsiderata (The Lancet Child & Adolescent Health). Uno studio condotto in Cina (prima firma: Lixue Huang, MD, Department of Pulmonary and Critical Care Medicine, Capital Medical University, Beijing, China) e pubblicato il 28 agosto 2021, effettua un confronto completo delle conseguenze tra 6 e 12 mesi dopo l'insorgenza dei sintomi tra i sopravvissuti ospedalieri con COVID-19, considerando che l'intera gamma delle conseguenze sulla salute a lungo termine di COVID-19 nei pazienti dimessi dall’ospedale è in gran parte poco chiara: emerge che circa la metà delle persone ricoverate in ospedale con Covid-19 ha mantenuto almeno un sintomo persistente fino a 12 mesi dopo l’infezione. La ricerca, che ha interessato circa 1.276 pazienti di Whuan, ha rilevato che una persona su tre soffriva ancora di problemi respiratori e alcuni di questi presentavano anche problemi polmonari, in particolare per i casi di infezione grave da Covid-19. Molti dei vari sintomi, però, si sono risolti sempre nel giro di un anno. I risultati di studio suggeriscono che il recupero per alcuni pazienti richiederà più di un anno. Un dato che deve essere preso in considerazione per pianificare la risposta e la fornitura di servizi sanitari post-pandemia. I partecipanti allo studio erano stati dimessi tra il 7 gennaio e il 29 maggio del 2020 e sono stati sottoposti a controlli sanitari a sei e 12 mesi dalla data in cui hanno manifestato la recrudescenza. Il team dei ricercatori ha rilevato che molti dei sintomi si sono risolti nel tempo, indipendentemente dalla gravità dell’infezione iniziale. La percentuale di pazienti che hanno manifestato ancora almeno un sintomo dopo un anno è scesa dal 68% dopo sei mesi e al 49% dopo 12 mesi. I ricercatori hanno affermato
  • 10. 10 che l’affaticamento e la debolezza muscolare erano i sintomi più comunemente riportati dopo i sei mesi, percentuale che è diminuita ad un paziente su cinque dopo un anno. Quasi un terzo degli individui interessati dalla ricerca ha riferito di aver riscontrato mancanza di respiro fino a 12 mesi e più del 30% ha riportato gli stessi sintomi dopo i sei mesi. Al controllo dei sei mesi, circa 353 partecipanti allo studio sono stati sottoposti ad una Tac toracica e circa la metà ha mostrato anomalie polmonari. Per questi pazienti è stato poi proposto un nuovo esame al raggiungimento dei 12 mesi. Nei 118 pazienti che hanno accettato e completato l’esame la percentuale con anomalie è diminuita sostanzialmente in tutti i gruppi, ma è risultata più alta nel gruppo che aveva sviluppato una infezione grave. Altri dati della ricerca indicano che, rispetto agli uomini, le donne sono risultate 1,4 volte più vulnerabili nel riportare affaticamento o debolezza muscolare, due volte di più nel manifestare ansia o depressione e quasi tre volte in più nella probabilità di avere danni polmonari dopo 12 mesi. Inoltre, le persone trattate con corticosteroidi durante la fase acuta della loro malattia hanno avuto una probabilità 1,5 volte maggiore di provare affaticamento o debolezza muscolare dopo 12 mesi, rispetto a quelle non trattate con la stessa cura. Gli autori hanno anche sottolineato che questi risultati saranno importanti da seguire nelle ricerche future per capire meglio perché i sintomi di Covid persistono. Sempre gli stessi autori affermano che, solo per i casi gravi analizzati, ci si è soffermati su un singolo ospedale e che quindi gli esiti potrebbero non essere applicabili ad altri contesti. I ricercatori aggiungono che, sempre per i casi molto gravi, lo studio ha incluso solo un piccolo numero di pazienti ricoverati in terapia intensiva (94) e i risultati relativi agli individui con più criticità dovrebbero essere interpretati con cautela. Entro 1 anno dall'infezione acuta, la maggior parte dei sopravvissuti ospedalieri con COVID-19 ha avuto un buon recupero fisico e funzionale nel tempo ed è tornata al lavoro e alla vita originari, ma lo stato di salute era ancora inferiore a quello della popolazione di controllo. Compromissione della diffusione polmonare e anomalie radiografiche erano ancora comuni nei pazienti critici a 12 mesi. per i ricercatori è infine necessario un follow-up longitudinale continuo per caratterizzare meglio la storia naturale e la patogenesi delle conseguenze sulla salute a lungo termine del COVID- 19 (The Lancet). Il 9 settembre 2021 da uno studio pubblicato su long Covid e rischio renale, analizzando i dati relativi a oltre 1,7 milioni di veterani statunitensi, tra cui 90.000 sopravvissuti a long Covid con sintomi prolungatisi per almeno 30 giorni, emerge una maggiore esposizione al rischio di nuovi problemi renali rispetto alle persone che non avevano contratto l’infezione da coronavirus. Questa osservazione era valida anche per i sopravvissuti non ospedalizzati, benché il calo nella funzionalità renale fosse “più profondo” in presenza di un’infezione più grave. Circa il 5% del gruppo long Covid ha sviluppato una riduzione di almeno il 30% nel tasso di filtrazione glomerulare stimato (eGFR). In generale, i soggetti con long Covid avevano il 25% in più delle probabilità rispetto alle persone non infettate di subire un calo pari al 30% nel eGFR, con rischi superiori nei sopravvissuti a forme più gravi di malattia. Anche se la funzionalità renale spesso si riduce con l’età, il danno in questi pazienti era eccessivo rispetto a quanto accade con il normale invecchiamento. I risultati di studio evidenziano la fondamentale importanza di prestare attenzione alla funzionalità renale e alla malattia nella cura dei pazienti che affetti da Covid -19 (Journal of the American Society of Nephrology). Da un altro studio pubblicato a settembre 2021 (autore principale: Claire Steves, del King’s College di Londra), in merito ai vaccini e rischio long Covid emerge che dopo due dosi è più che dimezzato il rischio. I ricercatori,
  • 11. 11 utilizzando dati provenienti dal Covid Symptom Study del Regno Unito (informazioni auto-riferite attraverso l’App Zoe dall’8 dicembre 2020 al 4 luglio 2021) hanno calcolato che, su oltre 1,2 milioni di adulti che hanno ricevuto almeno una dose dei vaccini di Pfizer/Biontech, Oxford-Astrazeneca o Moderna, meno dello 0,5% ha riportato una cosiddetta infezione breakthrough più di 14 giorni dopo la prima dose (6.030 casi positivi dopo 1.240.09 prime dosi di vaccino). E tra gli adulti che hanno ricevuto due dosi, meno dello 0,2% ha avuto una reinfezione più di 7 giorni dopo la seconda (2.370 positivi dopo 971.504 seconde dosi di vaccino). Fra i ricontagiati le probabilità che la nuova infezione fosse asintomatica erano del 63% maggiori dopo la prima dose di vaccino e del 94% superiori dopo la seconda. Il rischio di ospedalizzazione era ridotto di circa il 70% dopo una o due dosi, mentre il pericolo di contrarre una malattia grave (5 o più sintomi nella prima settimana) appariva circa un terzo inferiore. Dopo due dosi di vaccino le probabilità di long Covid sono diminuite del 50%. Dopo una o due dosi di vaccino, quasi tutti i sintomi Covid (affaticamento, tosse, febbre e perdita del gusto e dell’olfatto) sono stati riportati meno frequentemente nei vaccinati rispetto ai non vaccinati (The Lancet). Ancora a settembre 2021 uno studio approfondisce una relazione tra Long Covid e capsulite adesiva (Ca), più nota come “spalla congelata” per l’improvvisa rigidità e impossibilità di movimento. Da marzo 2020 a settembre 2021, il numero di persone con questo disturbo è aumentato in modo rilevante. In epoca pre-Covid, esso colpiva quattro persone su cento, mentre durante la pandemia giunge finanche a 50 su 100. Ad esserne più colpite sono soprattutto le donne tra 45 e 60 anni ansiose ma anche con predisposizione a malattie autoimmuni, come diabete e tiroide (Rehabilitación). A ottobre 2021 uno studio (primo autore: Francesco Ursini, reumatologo del Rizzoli) coordinato e pubblicato dalla struttura di Reumatologia dell’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna (con il contribuito delle Università de L’Aquila e di Torino e del Campus Biomedico di Roma), indagando sulla relazione tra Covid-19 e fibromialgia emerge che essa è fattore predisponente allo sviluppo di tale sindrome, che causa tra l’altro dolore diffuso a muscoli e ossa e affaticamento. I ricercatori hanno inizialmente constatato “il crescente afflusso agli ambulatori di reumatologia di pazienti che, dopo aver contratto la malattia da Covid-19, lamentavano sintomi articolari tra cui dolore, gonfiore e rigidità”. Ursini evidenzia che nello “studio, grazie a un’indagine condotta su oltre 600 persone con postumi a lungo termine di un’infezione sintomatica da Covid-19, quello cioè che si intende per long-Covid, si è osservato per la prima volta al mondo che circa il 30% dei pazienti manifesta sintomi compatibili con la diagnosi di fibromialgia anche a distanza di sei mesi e oltre dalla guarigione dell’infezione acuta”. I ricercatori hanno definito tale sindrome ‘FibroCovid’; tra i principali fattori di rischio per il suo sviluppo ci sono il sesso maschile e l’obesità. “Mentre l’obesità è un noto fattore predisponente per la fibromialgia e per le malattie muscoloscheletriche in generale il sesso maschile è generalmente meno interessato da questa condizione”. Questo dato, “concorda con l’accertata tendenza a sviluppare forme più severe di Covid-19 nei soggetti di sesso maschile; pertanto, nell’interpretazione del team di studio, lo sviluppo di ‘FibroCovid’ potrebbe essere legato a forme di Covid-19 particolarmente severe che si riverberano sull’apparato muscoloscheletrico, sul sistema nervoso e su quello immunitario per molti mesi dopo la guarigione dell’infezione primaria, generando così la sintomatologia dolorosa”. In definitiva, lo studio “conferma quello che i reumatologi di tutto il mondo stanno sperimentando quotidianamente nei loro ambulatori: un incremento importante del numero di casi di fibromialgia, patologia per la quale, purtroppo, esistono ancora poche opzioni terapeutiche”. L’obiettivo nel futuro prossimo è “seguire questi pazienti nel tempo per valutare se il decorso della malattia sia autolimitante, come in genere avviene nelle malattie post-virali, o se tenda a cronicizzare come nella fibromialgia primaria; inoltre, si è orientati ad avviare un programma di intervento riabilitativo loro dedicato, basato su tecniche di attività fisica adattata, in collaborazione con il gruppo di ricerca coordinato da Maria Grazia Benedetti, Direttrice della struttura di Medicina fisica e riabilitativa del Rizzoli” (Rheumatic and Musculoskeletal Diseases). A novembre uno studio revisionato e pubblicato dell’Università del Michigan basato sulla revisione di 40 precedenti studi condotti in 17 Paesi, in merito ai casi di long Covid nel mondo stima che oltre il 40% dei sopravvissuti all’infezione abbia avuto o abbia effetti persistenti dopo la malattia. La prevalenza aumenta al 57% tra i sopravvissuti che sono stati ricoverati. Si sono esaminate le esperienze dei pazienti con long Covid in base alla presenza di sintomi nuovi o persistenti dopo quattro o più settimane dall’infezione. Il tasso stimato di sintomi post- infezione è risultato pari al 49% in Asia, 44% in Europa e 30% in Nord America. Tra i sintomi più comuni l’astenia è stata segnalata dal 23% delle persone; dispnea, dolore articolare e problemi di memoria interessano ognuno il 13% dei soggetti. I ricercatori dello studio evidenziano infine che “sulla base della stima dell’OMS di 237 milioni di infezioni da long COVID-19 nel mondo, si può affermare che circa 100 milioni di individui attualmente presentano o hanno presentato conseguenze a lungo termine di COVID-19 sulla salute” (medRxiv). A dicembre 2021 i ricercatori del National Institutes of Health nel Maryland hanno condotto e pubblicato uno studio per una ulteriore comprensione del meccanismo di azione di Sars-CoV-2 e perché lascia una sorta di “coda” nell’organismo. Pertanto hanno esaminato tessuti prelevati da 44 persone decedute a seguito di Covid, contratto nel primo anno di pandemia. Si è scoperto che l’Rna di Sars-CoV-2 rimane in varie parti dell’organismo, incluso cuore e cervello, fino a 230 giorni dopo l’insorgere dei sintomi. Questa sorta di “smaltimento” ritardato del virus, anche dopo la negativizzazione, è la possibile causa della sindrome Long Covid (Nature). Di conseguenza, a
  • 12. 12 ragion veduta Ziyad Al-Aly, Direttore del centro di epidemiologia clinica presso il Veterans Affairs St. Louis Health Care System nel Missouri, che ha condotto diversi studi sugli effetti del Long Covid, dichiara che “questo è un lavoro straordinariamente importante; (…) per molto tempo ci si è chiesto perché Covid colpisca per lungo tempo molti organi e questo lavoro può aiutare a spiegare perché il Long Covid può verificarsi anche in persone che hanno avuto una malattia acuta, lieve o asintomatica” (Bloomberg). Lo studio ha quindi chiarito che, anche se la carica virale più elevata del virus si trova nelle vie aeree e nei polmoni, si può in realtà diffondere molto velocemente anche nelle cellule e negli organi di tutto il corpo, compreso il cervello. Raina MacIntyre, docente di biosicurezza globale presso l’Università del New South Wales a Sydney, ha spiegato nell’articolo come questa ricerca: “metta in allarme sui pericoli dell’infezione da Covid, sia negli adulti che nei bambini, che non si limita solo alla semplice positività”. MacIntyree parlato inoltre di una correlazione supportata anche da precedenti studi che mostrano come il virus uccida direttamente le cellule del muscolo cardiaco per cui poi i pazienti sopravvissuti possono subire “deficit cognitivi”. L’ipotesi dei ricercatori del NIH è che l’infezione del sistema polmonare può causare una fase “viremica” precoce in cui Sars-CoV-2 è presente nel flusso ematico dell’organismo e ciò spiegherebbe la diffusione nei vari organi. Lo studio sui pazienti deceduti ha poi rilevato come il virus sia stato trovato sia in quelli morti a un mese dal contagio, sia in quelli precedenti, fino addirittura in un morto da 230 giorni. Lo studio evidenzia che ciò “può aiutare a comprendere il declino neurocognitivo o la “nebbia cerebrale” e altre manifestazioni neuropsichiatriche di Long Covid” (Nature). L’11 gennaio 2022 dalla prima tranche di visite eseguite nell’ambito del programma di monitoraggio avviato a novembre 2021 dalla Regione Lombardia per la comprensione dello stato di salute dei Covid positivi a mesi di distanza dalle dimissioni ospedaliere emerge che solo il 58% degli ex ricoverati non presenta alcuna disabilità, mentre un quarto di pazienti con storia severa di Covid soffre di sintomi da long Covid a distanza di molti mesi. In particolare, l’obiettivo del programma avviato dalla Regione (con il coinvolgimento di tutte le Pneumologie e i servizi di Fisiopatologia respiratoria delle Strutture sanitarie pubbliche e private accreditate a contratto di Regione Lombardia) è la valutazione dell’entità del danno polmonare in pazienti già ricoverati per infezione da Covid- 19. La raccolta dati, come richiesto da Regione Lombardia, è stata effettuata attraverso visite specialistiche con spirometria e compilazione di questionari per valutare lo stato di salute e la gravità di un eventuale danno a livello polmonare in pazienti Covid-19 dimessi dalle strutture ospedaliere. L’attività di richiamo di questi pazienti si è concentrata nella giornata dell’11 dicembre, ma le strutture da due anni hanno avviato programmi di screening e di follow up dei pazienti per monitorarne i sintomi di long Covid. Michele Vitacca, Direttore Dipartimento Pneumologia riabilitativa ICS Maugeri riferisce che “dai primi dati emersi dallo screening richiesto da Regione Lombardia emerge che nella settimana dell’11 dicembre sono stati visitati dalle Pneumologie Lombarde 858 pazienti” di cui “il 21% era stato ricoverato in Terapia Intensiva, il 60% era stato sottoposti a ventilazione CPAP, solo il 58% dei casi non presentava alcun livello di disabilità mentre il 20%, il 12%, il 6% e il 4% una disabilità lieve, media, avanzata o estremamente avanzata”. “Al termine della visita il 30% ha richiesto ulteriori indagini pneumologiche, il 12% ha richiesto altro specialista e solo il 4% è stato inviato ad un ciclo di riabilitazione respiratoria/motoria. Il dato epidemiologico che emerge è che circa un quarto di pazienti con storia severa di COVID soffrono di sintomi da long COVID a distanza di molti mesi dall’episodio”. Pierachille Santus, Presidente
  • 13. 13 della Sezione Lombardia di SIP-IRS (Società Italiana di Pneumologia - Italian Respiratory Society) evidenzia che “le Pneumologie della Lombardia hanno comunque svolto, ormai da più di un anno, un’attività ambulatoriale di visite e valutazioni respiratorie che ha coinvolto più di 120.000 (dato aggiornato a marzo 2021) pazienti affetti da COVID-19, mettendo a disposizione di questi pazienti e del servizio sanitario regionale un’ampia e completa offerta di valutazione specialistica che continua comunque ad essere erogata anche attualmente; tutto ciò garantisce una continuità di cura con prestazioni specialistiche pneumologiche atte a valutare i possibili danni polmonari dell’infezione da SARS-CoV-2” (Quotidiano Sanità). A febbraio 2022 uno studio trasversale multicentrico pubblicato (coordinatrice: Arianna Di Stadio, Professore Associato di Otorinolaringoiatria presso l’Università di Catania) emerge che le alterazioni funzionali dell’olfatto rappresentano una delle manifestazioni sintomatologiche più comuni della sindrome da Long-Covid. Lo studio ha arruolato 152 adulti che riferivano disfunzione olfattiva afferenti a 3 centri terziari specializzati in disturbi olfattivi da Covid-19. Criteri di inclusione sono stati l’alterazione olfattiva dopo l’infezione da Sars-CoV-2 persistenti per oltre 6 mesi dall’infezione, età maggiore di 18 anni e inferiore a 65 anni. Dallo studio è emerso che 50 pazienti (32,8%) presentavano anosmia, 25 (16,4%) iposmia, 10 (6,6%) parosmia/cacosmia e 58 pazienti (38,2%) una combinazione di iposmia e parosmia. Sette pazienti (4,6%) soffrivano esclusivamente di cefalea e due (1,4%) avevano cefalea e confusione mentale come sintomi d’esordio. In particolare la cefalea è stata segnalata da 76 pazienti (50%) e la confusione mentale da 71 (46,7%). Inoltre gli autori rilevano che “i pazienti che riferivano cefalea, confusione mentale, o entrambe mostravano un rischio significativamente maggiore di soffrire di anosmia e/o iposmia, se confrontati con la controparte senza sintomi neurologici. Nella coorte di pazienti post-Covid-19 con sintomi olfattivi persistenti oltre i 6 mesi, la cefalea e il coinvolgimento cognitivo erano associati con deficit olfattivi più severi, coerentemente con meccanismi neuroinfiammatori mediatori di una varietà di sintomi nei pazienti con sindrome long-Covid” (Brain Sciences). A marzo è presentato uno studio (condotto dai ricercatori dell’Università di Firenze e dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi, guidati da Michele Spinicci). riporta che più della metà dei pazienti ospedalizzati a causa di Covid-19 può sperimentare sintomi post-acuti associati alla malattia. Un punto che sembra disorientare i ricercatori di tutto il mondo è che per ogni variante del virus in circolazione esiste anche una specifica forma di long Covid. La sindrome è stata riportato dai soggetti indipendentemente da età, presenza di comorbilità e gravità delle condizioni durante il ricovero. I ricercatori hanno eseguito uno studio osservazionale retrospettivo su 428 pazienti trattati presso l’AOU Careggi tra giugno 2020 e giugno 2021. I ricercatori hanno considerato la diffusione del ceppo originale di Wuhan e della variante Alpha (B.1.1.7). I sintomi più comuni all’interno della coorte erano mancanza di respiro, affaticamento cronico, problemi di sonno, difficoltà visive e confusione mentale. Le persone con le forme più gravi erano associate a un rischio circa sei volte superiore di sviluppare long Covid rispetto ai pazienti con decorso più lieve. Nel contempo, chi ha necessitato di supporto di ossigeno ad alto flusso sembrava avere il 40% di probabilità in più di avere problemi. Il rischio di Covid lungo tra le donne era quasi doppio rispetto alle controparti maschili (Congresso europeo di microbiologia clinica e malattie infettive ECCMID), A maggio 2022 si stima che siano 24 milioni gli americani che hanno sperimentato i sintomi di long Covid (American Academy of Physical Medicine and Rehabilitation) dal 10 al 30% degli individui che ha avuto il Covid hanno riportato almeno un sintomo persistente fino a sei mesi dopo dalla negativizzazione (JAMA). Da uno studio britannico su 2.320 pazienti Covid dimessi dall’ospedale nei primi 13 mesi della pandemia emerge poi che meno della metà si era completamente ripresa un anno dopo aver contratto il virus. In particolare, le donne avevano il 33% di probabilità di avere sintomi persistenti (The Lancet). Secondo l’Oms tra il 10% e il 20% dei pazienti che ha avuto il Covid ha sperimentato sintomi persistenti per mesi dopo l’infezione. Da altro studio pubblicato emerge che il 90% dei pazienti con long Covid riferisce ancora sintomi dopo nove mesi dall’inizio e il 67% di loro non è stato in grado di riprendere a lavorare come prima (News Medical). Inoltre, chi non è vaccinato avrebbe fino al 20% in più di probabilità di incorrere nella patologia, mentre per chi lo è il rischio è del 41% in meno (Office for National Statistics). Da questa ulteriore congerie di elementi si giunge quindi a considerare long Covid come “sfida medica moderna di prim’ ordine” (The Lancet). Sempre a maggio 2022 dal primo studio prospettico su long Covid condotto su bambini e adolescenti italiani, coordinato dall’azienda ospedaliera Universitaria di Parma (coordinatrice: Susanna Esposito, ordinaria di Pediatria, Direttrice della Clinica pediatrica dell’Università di Parma e responsabile del Tavolo tecnico malattie infettive e vaccinazioni della Società Italiana di Pediatria) emerge che il 17% di coloro che hanno avuto una infezione Covid- 19 manifesta a distanza di tre mesi sintomi da long Covid, tra cui i più comuni sono: congestione nasale, mal di testa e affaticamento, mentre il più persistente nel tempo sembra essere l’insonnia. Lo studio, iniziato a novembre 2021 e che terminerà a marzo 2026, condotto su 14 centri sul territorio nazionale, ha arruolato circa 1.000 bambini e adolescenti con pregressa infezione da Sars-CoV-2 di diversa gravità. Dei 670 pazienti con diagnosi Covid-19 che hanno partecipato allo studio e per i quali sono disponibili i primi risultati alla data di presentazione (51,5% maschi e 48,5% femmine) il 31% aveva una patologia pregressa e solo l’1,8% ha avuto necessità di ricovero mentre nel 15% dei casi l’infezione è stata asintomatica. A distanza di tre mesi dall’infezione, 118 bambini (17,6% del campione) manifestano almeno un sintomo di long Covid, tra cui 110 bambini (16,4%) manifestano almeno 2
  • 14. 14 sintomi, 84 bambini (12%) almeno 3 sintomi. Le più frequenti manifestazioni di long Covid nella popolazione censita dallo studio sono: congestione nasale (17%), mal di testa (15%), affaticamento (13%), scarso appetito (10%), insonnia (9%), tosse persistente (8%), dolore addominale (6%), confusione e perdita di concentrazione (5,2%) ed eruzione cutanea (4,9%). Tra i bambini che si sentono affaticati (13% del campione) circa 1 su 4 sente il bisogno di riposarsi più del solito, il 19% si sente più assonnato, l’11% ha meno energia del solito. Alcuni sintomi come congestione nasale, scarso appetito, eruzione cutanee tendono a manifestarsi, nella stragrande maggioranza dei casi, in maniera lieve; sintomi come affaticamento, insonnia, perdita di concentrazione e mal di testa si manifestano spesso con sintomatologia più importante. In particolare, lamentano forme da moderate a gravi di affaticamento e di mancanza di concentrazione circa il 43% dei bambini alle prese con questi disturbi. Quanto alla durata dei sintomi, i più persistenti sono: 1) mal di testa: il 10% dei bambini ne soffre anche a distanza di 4-6 mesi dall’infezione; insonnia: il 3,6% ne soffre a 6 mesi di distanza, l’1,8% sia a 7-9 mesi che a 1 anno di distanza (Società Italiana di Pediatria). A giugno 2022 uno studio pilota pubblicato (condotto presso il Policlinico Umberto I dell’Università Sapienza di Roma, in collaborazione con Raffaella Nenna, Fabio Midulla, Luigi Tarani del Dipartimento materno infantile e scienze urologiche e Antonio Minni, Dipartimento organi di senso; coordinato da Marco Fiore e Carla Petrella, dell’Istituto di biochimica e biologia cellulare del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma Cnr-Ibbc), individua biomarcatori precoci di long Covid negli adolescenti. I risultati della ricerca aprono nuovi campi di indagine nell’ambito degli effetti biologici e psicologici a lungo termine. Lo studio indica nei giovani ammalati nuovi e precoci biomarcatori, potenzialmente predittivi della sindrome post Covid. Nello studio si sono misurati i livelli di alcuni biomarcatori infiammatori e di due neurotrofine (Ngf e Bdnf), fattori proteici regolanti la crescita, la sopravvivenza e la morfologia dei neuroni, nel siero di una piccola coorte di ragazzi e ragazze con infezione contratta nella seconda ondata pandemica, tra settembre e ottobre 2020, ma negativi al momento del prelievo. I partecipanti sono stati suddivisi in 3 gruppi: asintomatici, sintomatici acuti, sintomatici acuti che nel tempo hanno sviluppato sintomi long Covid. I dati sono stati confrontati con i valori emersi da un gruppo campione privo di contratto con la malattia”. Si è riscontrato che i livelli sierici di Ngf erano inferiori in tutti gli adolescenti che avevano contratto l’infezione da Sars-Cov-2, rispetto ai controlli sani. La relazione inversa fra livelli di Ngf e sindromi da stress è ampiamente riportata dalla letteratura scientifica. La ricerca ipotizza che la diminuzione di Ngf rifletta un’attivazione persistente dell’asse dello stress, dovuta a un effetto diretto del virus o ad effetti psico-sociali conseguenti a isolamento e modifiche della routine quotidiana, riscontrate durante i periodi di quarantena. Inoltre, analogamente al biomarcatore infiammatorio Tgf-β, i livelli di Bdnf erano invece più elevati negli individui che si erano ammalati rispetto ai sani, ma solo nelle ragazze sintomatiche che poi avrebbero sviluppato sintomi long Covi. Più in particolare, il persistente aumento dei livelli sierici di Bdnf e Tgf-β era presente nelle adolescenti che presentavano sintomi respiratori durante la fase acuta dell’infezione. I ricercatori però ritengono che gli studi andrebbero approfonditi, ampliando la ricerca a una coorte di adolescenti più estesa. Comunque i dati dello studio
  • 15. 15 supportano già l’ipotesi che le variazioni sieriche di Ngf e Bdnf rappresentino un segnale di allerta per l’effetto a lungo termine di Covid-19, aprendo nuovi campi di indagine sia nell’ambito degli effetti fisici sia in quelli psicologici potenzialmente associabili al NeuroCovid (Diagnostics). Sempre a giugno 2022 uno studio pubblicato del team di ricercatori del King’s College di Londra, guidato da Claire Steves, esamina il rischio Long Covid con Omicron rispetto a Delta. sono stati analizzati i dati prelevati dallo studio ZOE COVID Symptom. Lo studio ha evidenziato che i tassi dei sintomi di Long COVID sono stati dal 20 al 50% più bassi nel periodo in cui Omicron è stata la variante dominante rispetto a quando circolava maggiormente Delta, in base ad età del paziente e al tempo trascorso dalla vaccinazione. La ricerca, in particolare, ha identificato 56.003 casi di COVID-19 tra adulti nel Regno Unito che hanno avuto un risultato positivo al test tra fine dicembre 2021 e marzo 2022, con Omicron variante dominante. Questi casi sono stati confrontati con 41.361 pazienti rilevati tra giugno e novembre del 2021, quando la variante predominante era Delta. Le analisi hanno mostrato che il 4,4% dei casi di long COVID sono stati causati da variante Omicron, rispetto al 10,8% dei casi attribuibili a Delta. “Una persona su 23 che ha avuto il COVID-19 ha lamentato sintomi per più di quattro settimane”, dato che secondo Steves, sottolinea come queste persone debbano continuare ad essere seguite “al lavoro, a casa e nell’ambito del sistema sanitario nazionale” (The Lancet). Ancora a giugno emerge da uno studio pubblicato dell’Università La Trobe di Melbourne che la condizione di Brain Fog è tra i sintomi più debilitanti di long Covid e che colpisce migliaia di persone globalmente, con un impatto sia sulla capacità di lavoro che nella vita quotidiana. I risultati dello studio indicano che possono esserci precisi paralleli fra effetti di Covid-19 sul cervello e i primi stadi di malattie neurodegenerative come Alzheimer e Parkinson (Nature Communications). Il 22 giugno è pubblicato uno studio sottoposto a revisione paritaria condotto dai ricercatori del Johnson & Johnson Office del Chief Medical Officer Health of Women Team in cui si è rilevato che le donne con long Covid presentano una varietà di sintomi tra cui: problemi a orecchie, naso e gola; disturbi dell’umore, neurologici, cutanei, gastrointestinali e reumatologici; fatica. I pazienti maschi, invece, avevano maggiori probabilità di soffrire di disturbi endocrini, come diabete e disturbi renali. L’analisi dei dati è stata condotta su circa 1,3 milioni di pazienti. Nell’ambito della revisione gli studiosi hanno limitato la ricerca di articoli accademici a quelli pubblicati tra dicembre 2019 e agosto 2020 per Covid-19 e tra gennaio 2020 e giugno 2021 per la sindrome di long Covid. La dimensione totale del campione che copre gli articoli esaminati ammontava a 1.393.355 individui unici (Current Medical Research and Opinion). Nell’ultima decade di giugno da uno studio danese emerge che il long Covid pediatrico dà più sintomi persistenti ma meno ansia rispetto ai coetanei sfuggiti all’infezione. Secondo i ricercatori la bassa quota ansiosa potrebbe essere legata al fatto che i bambini non infettati avevano più “paura della malattia sconosciuta e una vita quotidiana più limitata a causa delle misure di protezione contro il virus”. Nello studio il 40% dei neonati e dei bambini con COVID-19, a fronte del 27% dei loro coetanei non infettati dal virus, ha manifestato almeno un sintomo per più di due mesi. Nella fascia di età 4-11 anni, sintomi persistenti sono stati osservati nel 38% di quelli che si sono ammalati di COVID-19 rispetto al 34% dei bambini che sono sfuggiti all’infezione. Tra i ragazzi di età compresa tra 12 e 14 anni, il 46% degli infettati e il 41% di quelli non colpiti dal virus hanno manifestato sintomi di lunga durata. I risultati emergono da un’indagine condotta su circa 11.000 madri di bambini infettati e circa 33.000 madri di bambini non interessati dall’infezione (The Lancet Child & Adolescent Health). A inizio luglio è pubblicato il primo studio multicentrico in Italia sul long Covid, con Città della Salute di Torino capofila, realizzato in 8 Regioni su più di 650 bambini che si sono ammalati di Covid tra ottobre 2020 e giugno 2021 emerge che il 24% della popolazione pediatrica, 1 bambino su 4, che ha superato la fase acuta di Covid con sintomi lievi o assenti soffre di disturbi correlati all’infezione da Sars-CoV-2 a distanza di almeno 2 mesi dalla guarigione e fino a 9 mesi dalla stessa. Aver sviluppato sintomi in fase acuta aumenta significativamente il rischio di long Covid, portandolo dall’11,5% al 46,5%, mentre la presenza di malattie concomitanti (asma, rinite allergica, ecc.) non causa alcun rischio aggiuntivo. In generale, bambini e adolescenti superano l’infezione acuta con sintomatologia spesso lieve o addirittura assente. Il problema è che molti di loro non arrivano quindi all’attenzione del pediatra, ed eventuali sintomi che si presentano a distanza dalla fase acuta possono non essere correttamente riconosciuti dai genitori né associati al Covid. Quindi i bambini devono essere monitorati dai genitori e in caso di comparsa di sintomi visitati sempre dal pediatra. I sintomi più frequentemente lamentati dai piccoli pazienti sono stati: affaticamento (7%), problemi di natura neurologica - difficoltà di concentrazione, sensazione di annebbiamento e cefalea - (6,8%) e sintomi respiratori (6%). L’incidenza di long Covid è quasi raddoppiata nei bambini più grandi e negli adolescenti rispetto ai più piccoli, passando dal 18,3% (0-5 anni) al 21,3% (6-10 anni), fino ad arrivare al 34,4% di rischio (11-16 anni). Nella fascia di età maggiore ai sintomi più tipici si possono associare ansia, agitazione, disturbi del sonno e del comportamento. L’unico tipo di patologia long Covid che si riscontra invece più frequentemente nella prima infanzia è quella respiratoria, con l’11,4% di rischio nella fascia 0- 5 anni contro il 3,8% dopo i 6. Rientrano nel gruppo di studio, coordinato dal professor Enrico Bertino e dalla dottoressa Giulia Maiocco della Neonatologia universitaria della Città della Salute di Torino, il dottor Gianfranco
  • 16. 16 Trapani, Asl1 Sanremo - Imperia, il professor Vassilios Fanos, Università di Cagliari e il professor Giuseppe Verlato, Università di Verona (Italian Journal of Pediatrics). Sempre a luglio 2022 uno da studio coordinato dall’Università di Birmingham e pubblicato emerge che tra i 62 sintomi rilevati associati a Covid-19 fino a 12 settimane dall’infezione vi sono anche perdita di capelli e calo della libido. Lo studio ha preso in esame 2,4 milioni di cartelle cliniche elettroniche di cittadini del Regno Unito. In particolare, i dati acquisiti tra gennaio 2020 e aprile 2021 riguardavano 486.149 persone che si erano contagiate con il SarsCoV2 e 1,9 milioni di persone che non indicavano infezione da coronavirus. Lo studio suggerisce che sono a maggiore rischio le donne e i giovani; coloro che appartengono a un gruppo etnico o che appartengono alle fasce più svantaggiate dal punto di vista socioeconomico. Anche fumo, sovrappeso e obesità, insieme alla presenza di patologie pre-esistenti, sono stati associate alla segnalazione di sintomi persistenti (Nature Medicine). Ad agosto da uno studio pubblicato condotto dagli scienziati dell’Università di Groningen emerge che tra gli adulti che hanno avuto Covid-19, il 21,4% potrebbe manifestare almeno un sintomo a distanza di tre-cinque mesi dalla diagnosi. Il team, guidato da Judith Rosmalen ha considerato la frequenza dei sintomi nuovi o più gravi in una coorte di pazienti affetti da Covid-19. Le informazioni sono state poi confrontate con i dati relativi a un gruppo di persone sane per stimare il rischio di long Covid. In totale, sono stati considerati 76.422 partecipanti, 4.231 dei quali avevano contratto l’infezione. Stando a quanto emerge dall’indagine, il 21,4% dei pazienti manifestava almeno un sintomo da tre a cinque mesi dopo l’infezione, mentre nel gruppo di controllo solo l’8,7% dei partecipanti aveva sviluppato condizioni cliniche nel periodo di osservazione. Dunque, un paziente su otto della popolazione generale presentava sintomi a lungo termine associati all’infezione da nuovo coronavirus. Tra gli effetti più frequenti i ricercatori riportano dolore toracico, difficoltà respiratorie, dolore durante la respirazione, dolori muscolari, perdita del gusto e dell’olfatto, formicolio alle estremità, nodo alla gola, sensazione di caldo e freddo, braccia e/o gambe pesanti e spossatezza (The Lancet). Sempre ad agosto uno studio internazionale (coordinato da Stephen Freedman, dell’Università di Calgary in Canada e condotto in otto Paesi) evidenzia che il 6% dei bambini che arriva al Pronto Soccorso per Covid va incontro a long Covid nei 90 giorni successivi. Un ricovero di 48 ore o più, quattro o più sintomi all’arrivo manifestati al reparto d’emergenza ed età dai 14 anni in su sono fattori associati a long Covid. La ricerca ha incluso 1.884 bambini con Covid, sottoposti a un follow-up di 90 giorni. Il long Covid è stato evidenziato in circa il 10% dei bambini ricoverati e nel 5% dei bambini dimessi dai reparti di emergenza. I sintomi più frequentemente riferiti dai pazienti pediatrici sono stati debolezza, tosse, difficoltà a respirare o respiro corto (Jama). A settembre uno studio condotto dal team di Suchitra Rao, specialista del Children’s Hospital Colorado, dal 1° marzo 2020 al 31 ottobre 2021 e pubblicato ha indagato in particolare i sintomi, le condizioni di salute diagnosticate e i farmaci associati al long Covid nei bambini. Il team ha esaminato le cartelle sanitarie di 659.286 pazienti da 0 a 21 anni, realizzando così la più vasta ricerca condotta finora sul long Covid nei bambini. Secondo lo studio, i sintomi, le condizioni di salute diagnosticate e i farmaci più correlati con l’infezione da SARS-CoV-2 sono stati, rispettivamente, la perdita di gusto/odore, la miocardite e i preparati per tosse e raffreddore. Dei quasi 600mila soggetti coinvolti 60mila sono risultati positivi al coronavirus e circa il 42% ha dimostrato di avere ancora almeno
  • 17. 17 un sintomo a quattro settimane dall’infezione. L’obiettivo dello studio era identificare i sintomi, le condizioni di salute diagnosticate e i farmaci associati alla Sequele Post Acute da Sars-CoV-2, nota come PASC, nei bambini. I sintomi più comuni sono dolore toracico, palpitazioni, alterazioni del battito, stanchezza e difficoltà respiratorie. Le caratteristiche sindromiche (sintomi), sistemiche (condizioni) e farmacologiche della PASC sono state identificate nei 28-179 giorni successivi alla data del test iniziale. L’incidenza di almeno 1 caratteristica sistemica, sindromica o farmacologica della PASC è stata del 41,9% tra i bambini positivi al test virale rispetto al 38,2% tra i bambini negativi. La miocardite è stata la condizione più comunemente diagnosticata associata alla PASC. In generale, è emerso che long Covid colpisce i bambini meno degli adulti e una maggiore correlazione con la PASC è stata identificata nei pazienti assistiti nell’unità di terapia intensiva durante la fase acuta della malattia, nei bambini di età inferiore ai 5 anni e nei soggetti con condizioni croniche complesse. Intanto in questo periodo si stanno osservando nuovi sintomi che possono scaturire dopo la malattia, come sindromi infiammatorie d’organo, spesso intestinali e cutanee (Jama Pediatrics). Sempre a settembre è reso noto che almeno 17 milioni di persone in Europa hanno sperimentato un long Covid nei primi 2 anni di pandemia ed è possibile che milioni debbano conviverci per molti anni a venire. La stima si basa su un modello dell’Institute for Health Metrics and Evaluation (Ihme) della School of Medicine dell’Università di Washington, Usa. “I modelli indicano un sorprendente aumento del 307% dei nuovi casi di long Covid nel periodo tra il 2020 e il 2021, indotto dal rapido aumento dei casi confermati di infezione dalla fine del 2020 e per tutto il 2021”. Le donne hanno probabilità doppie rispetto agli uomini di soffrirne. Il rischio, inoltre, cresce “drammaticamente” per chi ha avuto forme gravi di malattia, tali da necessitare un ricovero ospedaliero, con una donna su tre e un uomo su cinque che possono essere colpiti dalla sindrome (Oms Europa, 72^ Sessione). Ad ottobre da uno primo studio prospettico condotto in Italia, emerge che Covid-19 fa aumentare di oltre il 10% i sintomi di disturbi psichiatrici nei dodici mesi successivi alla malattia. E del 20% altri segnali come mancanza di concentrazione e attenzione. E così, mentre tutti gli altri sintomi dell’infezione da Coronavirus diminuiscono a un anno dal contagio, aumentano invece depressione, ansia e insonnia (Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia SINPF).