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Dirigenti decaduti – ora spunta la “lite temeraria”
Registriamo l’articolo – a firma Tonino Morina – apparso in data 7 aprile, su Il sole 24 Ore, nel
quale si paventa il pericolo della “lite temeraria” in ipotesi di ricorso contro gli atti sottoscritti dai
dirigenti delegittimati dalla recente Corte Costituzionale (37/2015).
Corre l’obbligo di dare conto in merito a un articolo, apparso ieri, su Il Sole 24 Ore, nel quale il
prof. Tonino Morina si esprime in merito agli esiti di un eventuale ricorso contro gli atti dei
funzionari incaricati di ruoli dirigenziali senza concorso e decaduti dopo la sentenza 37/2015 della
Consulta.
La materia è di quelle particolarmente difficili da interpretare, come dimostra il dibattito che è in
corso in Dottrina: alcuni propendono per l’invalidità degli atti in questione, altri al contrario
ritengono che non vi siano ragioni sufficienti per risultare vittoriosi in caso di ricorso. Entrambi,
peraltro, sembrano concordi nell’evidenziare come la questione sia particolarmente incerta e
aleatoria e nessuno ha mai neppure paventato il pericolo di incorrere in una “lite temeraria”,
nell’ipotesi di ricorso.
Rebus sic stantibus, colpisce non poco la sicurezza con la quale l’Autore in questione afferma,
senza ombra di dubbio:
“Secondo alcune interpretazioni, sarebbero illegittimi tutti gli atti firmati dai funzionari incaricati,
nonché le conseguenti iscrizioni a ruolo. In realtà, non è così…”
Prendiamo atto di tale certezza, senza peraltro concordare con tale opinione, avuto soprattutto
riguardo alla motivazione dalla quale è sostenuta.
Il prof. Morina, infatti, fonda la propria convinzione sul richiamo (effettuato dalla stessa Consulta)
alla Cassazione 220/2014.
Orbene, come abbiamo già avuto modo di scrivere in altra occasione
Ved. http://www.paolosoro.it/news/455/Legittimi-gli-atti-compiuti-da-dirigenti-illegittimi.html
a nostro modestissimo avviso, detta citazione è riportata dalla Corte Costituzionale proprio per
evidenziare la differenza tra i vari atti oggetto di possibile declaratoria di invalidità; non certo per
avvalorare una tesi che consideri, a priori, legittimi tutti gli atti, indipendentemente da chi li
sottoscrive, sul solo presupposto che siano provenienti dall’Ufficio. In caso contrario, le norme di
legge a tal riguardo sarebbero evidentemente inutili, in quanto prive di alcun valore e significato.
Non solo: tale citazione, ci pare, assolutamente inconferente, atteso che la decisione in oggetto
(Corte di Cassazione n. 220/2014) non aveva a oggetto un avviso di accertamento regolato dall’art.
42, Dpr 600/1973, ma un diniego di definizione di lite pendente ex art. 39, comma 12, del d.l. 6
luglio 2011, n. 98; questione che nulla ha a che vedere con quanto di cui qui si discute.
È evidente – su questo concordiamo – che non è ipotizzabile, pur all’interno di tale ultima
fattispecie, la proposizione di un ricorso esclusivamente sulla base della pronuncia della Consulta:
ma non certo per ragioni di infondatezza sic et simpliciter, quanto piuttosto per motivi procedurali
che portano a una declaratoria di inammissibilità tutte quelle “nuove domande”, non
precedentemente formulate.
Il che significa che, se l’eccezione non è stata previamente sollevata, non appare certo possibile
farlo ora, dopo la citata pronuncia costituzionale.
A conferma di tale nostra tesi, possiamo citare copiosa Giurisprudenza di Legittimità (e non solo
una decisione), la quale precisa che, soltanto ove non è prevista una specifica ed espressa
sanzione di nullità in mancanza di sottoscrizione dell’atto da parte del soggetto legittimato, può
operare la presunzione generale di riferibilità dell’atto all’organo amministrativo titolare del
potere nel cui esercizio esso è adottato: Cass. 11458/12, in tema diniego di condono; Cass.
4283/10, in tema di avviso di mora; Cass. 8248/06, in tema di attribuzione di rendita; Cass.
13461/12, in tema di cartella di pagamento; Cass. 13375/09, in materia di lavoro e previdenza;
Cass. 4310/01, in tema di atto amministrativo.
E, d’altronde, parrebbe persino ovvio che una sentenza della Cassazione non possa certo
prevedere qualcosa che sia espressamente praeter legem o, addirittura, contra legem.
Detto ciò, quello che ci pare francamente esagerato (fuori, evidentemente, dai casi citati di
mancata preventiva eccezione) è che si possa finanche paventare un’ipotesi di “lite temeraria” nel
caso in cui, dovendo depositare, ora, un ricorso regolato dall’art. 42, Dpr 600/1973, lo stesso fosse
(pure principalmente) teso a far dichiarare tale vizio di legittimità.
Di conseguenza, pur rispettando le opinioni di tutti, reputiamo impossibile concordare con quanto
espresso nel “pezzo” in argomento dal citato prof. Morina, specie avuto riguardo – come già
ampiamente precisato – alle motivazioni che adduce per avvalorare la sua tesi.
Quanto, infine, alla portata mediatica dell’articolo, siamo sicuri che la Testata giornalistica in
questione (considerato il “peso” che ha e la serietà professionale che la contraddistingue), darà
pari voce anche a qualcuno di quei tanti Autori che – come noi – la pensano in maniera difforme.

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  • 1. Dirigenti decaduti – ora spunta la “lite temeraria” Registriamo l’articolo – a firma Tonino Morina – apparso in data 7 aprile, su Il sole 24 Ore, nel quale si paventa il pericolo della “lite temeraria” in ipotesi di ricorso contro gli atti sottoscritti dai dirigenti delegittimati dalla recente Corte Costituzionale (37/2015). Corre l’obbligo di dare conto in merito a un articolo, apparso ieri, su Il Sole 24 Ore, nel quale il prof. Tonino Morina si esprime in merito agli esiti di un eventuale ricorso contro gli atti dei funzionari incaricati di ruoli dirigenziali senza concorso e decaduti dopo la sentenza 37/2015 della Consulta. La materia è di quelle particolarmente difficili da interpretare, come dimostra il dibattito che è in corso in Dottrina: alcuni propendono per l’invalidità degli atti in questione, altri al contrario ritengono che non vi siano ragioni sufficienti per risultare vittoriosi in caso di ricorso. Entrambi, peraltro, sembrano concordi nell’evidenziare come la questione sia particolarmente incerta e aleatoria e nessuno ha mai neppure paventato il pericolo di incorrere in una “lite temeraria”, nell’ipotesi di ricorso. Rebus sic stantibus, colpisce non poco la sicurezza con la quale l’Autore in questione afferma, senza ombra di dubbio: “Secondo alcune interpretazioni, sarebbero illegittimi tutti gli atti firmati dai funzionari incaricati, nonché le conseguenti iscrizioni a ruolo. In realtà, non è così…” Prendiamo atto di tale certezza, senza peraltro concordare con tale opinione, avuto soprattutto riguardo alla motivazione dalla quale è sostenuta. Il prof. Morina, infatti, fonda la propria convinzione sul richiamo (effettuato dalla stessa Consulta) alla Cassazione 220/2014. Orbene, come abbiamo già avuto modo di scrivere in altra occasione Ved. http://www.paolosoro.it/news/455/Legittimi-gli-atti-compiuti-da-dirigenti-illegittimi.html a nostro modestissimo avviso, detta citazione è riportata dalla Corte Costituzionale proprio per evidenziare la differenza tra i vari atti oggetto di possibile declaratoria di invalidità; non certo per avvalorare una tesi che consideri, a priori, legittimi tutti gli atti, indipendentemente da chi li sottoscrive, sul solo presupposto che siano provenienti dall’Ufficio. In caso contrario, le norme di legge a tal riguardo sarebbero evidentemente inutili, in quanto prive di alcun valore e significato. Non solo: tale citazione, ci pare, assolutamente inconferente, atteso che la decisione in oggetto (Corte di Cassazione n. 220/2014) non aveva a oggetto un avviso di accertamento regolato dall’art. 42, Dpr 600/1973, ma un diniego di definizione di lite pendente ex art. 39, comma 12, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98; questione che nulla ha a che vedere con quanto di cui qui si discute. È evidente – su questo concordiamo – che non è ipotizzabile, pur all’interno di tale ultima fattispecie, la proposizione di un ricorso esclusivamente sulla base della pronuncia della Consulta:
  • 2. ma non certo per ragioni di infondatezza sic et simpliciter, quanto piuttosto per motivi procedurali che portano a una declaratoria di inammissibilità tutte quelle “nuove domande”, non precedentemente formulate. Il che significa che, se l’eccezione non è stata previamente sollevata, non appare certo possibile farlo ora, dopo la citata pronuncia costituzionale. A conferma di tale nostra tesi, possiamo citare copiosa Giurisprudenza di Legittimità (e non solo una decisione), la quale precisa che, soltanto ove non è prevista una specifica ed espressa sanzione di nullità in mancanza di sottoscrizione dell’atto da parte del soggetto legittimato, può operare la presunzione generale di riferibilità dell’atto all’organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio esso è adottato: Cass. 11458/12, in tema diniego di condono; Cass. 4283/10, in tema di avviso di mora; Cass. 8248/06, in tema di attribuzione di rendita; Cass. 13461/12, in tema di cartella di pagamento; Cass. 13375/09, in materia di lavoro e previdenza; Cass. 4310/01, in tema di atto amministrativo. E, d’altronde, parrebbe persino ovvio che una sentenza della Cassazione non possa certo prevedere qualcosa che sia espressamente praeter legem o, addirittura, contra legem. Detto ciò, quello che ci pare francamente esagerato (fuori, evidentemente, dai casi citati di mancata preventiva eccezione) è che si possa finanche paventare un’ipotesi di “lite temeraria” nel caso in cui, dovendo depositare, ora, un ricorso regolato dall’art. 42, Dpr 600/1973, lo stesso fosse (pure principalmente) teso a far dichiarare tale vizio di legittimità. Di conseguenza, pur rispettando le opinioni di tutti, reputiamo impossibile concordare con quanto espresso nel “pezzo” in argomento dal citato prof. Morina, specie avuto riguardo – come già ampiamente precisato – alle motivazioni che adduce per avvalorare la sua tesi. Quanto, infine, alla portata mediatica dell’articolo, siamo sicuri che la Testata giornalistica in questione (considerato il “peso” che ha e la serietà professionale che la contraddistingue), darà pari voce anche a qualcuno di quei tanti Autori che – come noi – la pensano in maniera difforme.