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- Aldo Perris -
FENESTA
VASCIA
(Romanzo)
CAPITOLO I
Albano Laziale (Roma) 24 aprile 1866
− È permesso? -
− Prego, prego … accomodatevi -
I due uomini rimasero un attimo a guardarsi negli
occhi.
In un attimo accadono molteplici cose, molte di più
di quante la coscienza riesca a cogliere.
Sicuramente, si piacquero dal primo sguardo. Non
si piacquero subito, però.
In quell'unico attimo, in quel primo sguardo, i due
uomini passarono dalla fase di “sconoscenza” a quella di
“curiosità” a quella di “studio dell'altro” e, infine, si
piacquero. Era passato meno di un secondo.
Colui che aveva chiesto permesso era un uomo
molto anziano, sui novanta. Malgrado un viso segnato dal
tempo, pochissimi capelli, macchie epatiche, imbolsimento
e lento incedere, manteneva una straordinaria postura
dritta per la sua età e gli occhi, color nocciola,
mostravano una vivacità indice che il tempo non aveva
deteriorato la sua mente.
L'altro era un uomo di cinquantacinque anni,
magro come un fuso, alto più della media, capelli lunghi,
occhi neri severi. Fu quest'ultimo a prendere la parola.
− Siete voi il pellegrino che mi è stato annunciato
dalla missiva di padre Giuseppe da Napoli? -
− Sissignore, sono proprio io. E voi siete l'abate
musicista? -
− Non sono un vero e proprio abate e spero
almeno di essere un musicista -
− Perché? Non lo siete per davvero? -
− Lo sono … lo sono ma, … la musica sta
cambiando e io non so se le mie competenze e il
mio talento siano ancora validi ma, prego,
mettiamoci a sedere, sarete stanco dal viaggio
… vi va un buon bicchiere di vino bianco? Da
queste parti è molto buono -.
− Vada per il vino bianco -
Mentre l'abate era voltato a versare il vino, l'uomo
ne approfittò per guardarsi intorno.
La stanza era piuttosto in penombra. L'ideale per
quella giornata soleggiata di aprile. C'era una scrivania
in radica di noce con due poltroncine poste sul davanti
che davano le spalle alla porta d'ingresso, una grande
libreria dietro la scrivania, colma di libri e manoscritti. In
un angolo vi erano ammassate valigie e scatoloni. Alla
sinistra della porta d'ingresso c'era un pianoforte chiuso
del quale il coperchio faceva da ripiano per una montagna
di spartiti. Alle spalle del pianoforte c'era un'altra porta.
Doveva essere, evidentemente, uno sgabuzzino.
L'abate si voltò coi due bicchieri e gliene porse
uno.
− Szervusz! - gli disse, alzando il bicchiere.
− Cosa? - chiese il vecchio.
− Significa “servo vostro” nella mia lingua -
− Non siete italiano? -
− No, sono magiaro. Mi chiamo Liszt, Franz Liszt,
al vostro servizio – e rialzò il bicchiere.
− Complimenti, parlate benissimo l'italiano. Io
sono Giacomo Fiorenza e sono napoletano …
cin cin! - e alzò a sua volta il bicchiere. Una
volta vuotato il bicchiere, Giacomo Fiorenza
aggiunse – Curioso! Avete stesso nome e
cognome del famoso musicista, quello che
lanciò nel mondo dei grandi il compianto
Chopin. Anche lui era ungherese. È forse un
vostro parente? -. L'abate gli sorrise.
− Abbastanza parente, … sono proprio lui! -
− No! Non ci posso credere! Non state scherzando
vero? Voi … siete … lui? -
− In carne ed ossa, … vabbé! Più ossa che carne.
Ma voi com'è che mi conoscete? -
− Sono anch'io un musicista … beh! Non proprio
un musicista e, certamente, non del vostro
spessore … sono, anzi, ero un contrabassista …
sono stato il primo contrabasso dell'orchestra
del teatro San Carlo -
− Il San Carlo? Accidenti! Ohps! Scusate questa
imprecazione. Il San Carlo … il più grande
teatro esistente al mondo ma … scusate la
maleducazione, sarete certamente stanco del
viaggio, venite con me! Vi mostro la vostra
stanza -
L'abate accompagnò il vecchio lungo un corridoio
verso quella che sarebbe diventata l'ultima dimora di un
uomo che aveva deciso di concludere i suoi giorni in pace
col mondo ma, soprattutto, lontano dal mondo.
Decisero che l'indomani si sarebbero rivisti e,
secondo una moda, mai tramontata tra coloro che avevano
fatto esperienza di vita, si sarebbero scambiati i ricordi.
CAPITOLO II
Giacomo Fiorenza
Napoli 16 aprile 1777
- Attenzione -
- Cosa? Ah! -
La cassa contenente l'arpa cadde e finì sulla gamba
del fattorino. Egli, in quel momento, stava scaricando a
terra il timpano basso. Si trattava dei nuovi strumenti
ordinati per il teatro San Carlo. Gli strumenti erano stati
condotti al teatro su un carretto.
Erano stati legati durante il viaggio ma ora, per
poggiarli a terra, le funi erano state sciolte e l'equilibrio
precario del carico s'era manifestato in tutta la sua
dirompente instabilità.
Il rumore della gamba che si spezzava, della cassa
che s'apriva, dell'arpa che si sfasciava sui “Vasuli”(la
pavimentazione stradale), furono i primi suoni che
Giacomo Fiorenza dovette sentire nella sua vita.
Fu un tripudio di frequenze.
L'arpa ha quasi lo stesso numero di corde di un
clavicembalo.
In quel momento fu come se una mano con sessanta
dita avesse pestato contemporaneamente su sessanta tasti
di un clavicembalo.
La mamma, Luisa, spaventata dal suono improvviso
dello strumento, dal rumore di piani armonici ed arti
sfasciati e dagli urli, essendo incinta di nove mesi e “uscita
di conti” ossia, pronta a partorire, ebbe quella contrazione
in più che convinse il feto ad abbandonare l'angusto spazio
del corpo minuto di sua madre e scappare verso quella che,
con ogni probabilità, era l'unica via di fuga.
Gli urli si raddoppiarono. Gli astanti non sapevano
più a chi prestare soccorso.
Napoli, però, ha la capacità di organizzarsi in pochi
secondi.
Con un tacito accordo, i soccorritori si divisero in
due fazioni. Coloro che erano provvisti di muscoli e
gonadi si diressero verso i resti dello strumento e della
gamba del fattorino. Quelli senza muscoli ma con tanta più
forza, le donne, fecero cerchio intorno alla puerpera.
Il destino volle che Giacomino nascesse proprio
davanti al posto che sarebbe diventata la sua casa, almeno
dal punto di vista lavorativo, per quasi tutta la sua vita.
Nacque da napoletano verace, a dispetto del suo
cognome che collocava la sua ascendenza nella città di
Firenze.
Napoli, a quei tempi, era il centro del mondo.
Capitale del regno borbonico, un regno che, sebbene
avesse conosciuto altre egemonie ai propri vertici, non
conosceva una vera guerra da ottocento anni.
Un regno con il più alto tasso di laureati del mondo,
con le più fiorenti industrie siderurgiche, navali e
ferroviarie. Con le terre più fertili e il miglior clima del
pianeta. Con ben cinque conservatori di musica e la più
alta densità di grandi musicisti di tutto il panorama
musicale europeo. Con circoli filosofici capaci di sfornare i
più illustri pensatori dell'epoca.
Nascere napoletano era un bel colpo di fortuna.
Il padre di Giacomo, Gaetano, era un musicista
ambulante e dilettante. Suonava il violino o il mandolino
nelle pizzerie della città e cantava. Aveva una bellissima
voce in tessitura da tenore leggero. Suonava e cantava
tanto per i turisti quanto per gli autoctoni. La sua fortuna
era di possedere uno straordinario talento e molta
musicalità.
Era un bell'uomo e sapeva abbigliarsi. Quello che
guadagnava, una volta tolte le spese per la famiglia, lo
spendeva in abiti, parrucche e orpelli vari.
Lo chiamavano “Nino il bello” e lui andava fiero di
quel soprannome che lo precedeva o lo accompagnava.
Giacomo era, quindi, il figlio di Nino il bello. La
mamma, Luisa Gargiulo, dopo quel parto non poté avere
altri figli. Poco importava. Lui era l'erede maschio tanto
atteso da papà, la “Supponta”, un termine napoletano che
sta ad indicare il bastone della vecchiaia per un genitore.
Giacomino, l'erede, doveva avere necessariamente
un futuro radioso.
Papà che, malgrado la sua avvenenza, non era
riuscito a fare carriera, riversava sul suo rampollo tutte
quelle aspettative genitoriali tipiche di chi non aveva
raggiunto grossi traguardi in prima persona.
Per lui non avrebbe badato a spese.
Il figlio cresceva forte e sano. A sei anni, superava i
suoi amici di giochi di oltre quindici centimetri.
Quando Nino il bello s'accorse che il bambino,
sebbene non avesse ereditato la sua bellezza, aveva
ereditato la sua prestanza e la sua musicalità, sperando che
il ragazzino scegliesse di succedergli nella sua attività di
musicista ambulante, gli chiese quale fosse lo strumento
che desiderava imparare.
Questa domanda la fece quando Giacomo aveva
soltanto sei anni, nell'autunno del 1783.
Le frequenze basse, contrariamente a quelle acute,
hanno la capacità di attraversare i muri. Evidentemente,
quando si sfasciò quell'arpa davanti al teatro S.Carlo, le
uniche frequenze che penetrarono il corpo di donna Luisa
furono quelle gravi.
Le frequenze gravi, o basse che dir si voglia, hanno
un effetto calmante sulle persone.
Sta di fatto che la risposta che Giacomino diede a
suo padre fu: “Voglio suonare il contrabasso”.
A sei anni era impossibile che Giacomo suonasse il
contrabasso. Papà, però, decise di fargli impartire da un
vecchio maestro, suo amico da sempre, lezioni di
solfeggio, pianoforte e clarinetto.
Il maestro Renato Casizzone era un uomo molto
alto e molto colto. Compositore per diletto ma ottimo
didatta.
Strinse col giovane Fiorenza, immediatamente, un
rapporto di grande complicità e, immediatamente, si rese
conto dell'enorme potenziale di talento che aveva il suo
allievo.
Giacomino pagava le lezioni sbrigando delle
faccende per conto del suo maestro e, nei fine settimana, di
tanto in tanto, seguiva il padre suonando nei ristoranti e
nelle pizzerie di via S.Lucia.
Dovettero passare altri sei anni perché Giacomo
Fiorenza arrivasse ad un'altezza sufficiente per vedersi
regalare, nel Natale del 1789, un contrabasso nuovo di
zecca, uno strumento di fabbricazione tedesca che, con le
sue tre belle corde di budello possedeva un suono
incredibilmente armonioso e dolce, nel contempo.
Il maestro Casizzone continuò a fargli lezione di
teoria e composizione ma lo indirizzò al maestro Nicola
Buonomo per quanto riguardava lo studio dello strumento,
un maestro che prendeva 5 tornesi a lezione. Visto che in
quei sei anni di studio, Giacomino era diventato uno di
famiglia per il suo vecchio maestro, costui decise di
pagargli di tasca sua le lezioni dal maestro Buonomo.
Giacomino, a soli dodici anni, era già alto un metro
e settanta centimetri. Aveva ereditato l'altezza del padre.
L'aveva eguagliato in altezza e si sperava, erroneamente,
che sarebbe cresciuto ancora molto. L'altezza di un metro e
settanta centimetri fu la sua misura finale, per il resto della
sua vita.
Talento ne aveva … e tanto.
In un solo anno era arrivato a livelli tecnici che altri
contrabassisti non riuscivano a raggiungere manco in
quattro o cinque anni … e il suono, il suono del suo
strumento, unito alle sue abilità, fecero in modo che, molto
presto, si parlasse in giro di Giacomo Fiorenza.
CAPITOLO III
Teatro San Carlo
Napoli 08 gennaio 1791
- Prendi lo strumento, dobbiamo uscire -
Il padre entrò in casa, trafelato.
- Cos'è successo papà, ditemi pure, ché sennò mi
fate venire l'ansia -
- Poche storie, guagliò'! Ti spiego dopo -
Non era il caso di mettersi a discutere. Giacomino
avvolse lo strumento in una coperta di sacco, che era
l'unico embrione di custodia che aveva rimediato, prese
l'archetto con relativa resina per l'attrito dei crini e seguì il
genitore.
I Fiorenza abitavano in una casa in una traversa di
via Chiaia. La destinazione finale del cammino di genitore
e figlio era a poco più di duecento metri da lì. La sala
prove del teatro S.Carlo.
Quando comprese dove si stessero dirigendo, a
Giacomino cominciarono a tremare le gambe ma,
malgrado il passo incerto, sapeva di non potersi esimere
dall'obbedire al comando paterno … e poi, in fondo, oltre
ad avere la tremarella, Giacomo era pervaso anche
dall'eccitazione e dalla curiosità.
Il custode, Aniello, era un uomo con una gamba di
legno. Non aveva trascorsi da capitano di navi pirata. La
gamba l'aveva persa proprio lì, davanti al teatro. Alcuni
anni addietro, gli era caduta addosso una cassa contenente
un'arpa nuova destinata al San Carlo. L'amministrazione
del teatro, per premiarlo dell'immolazione dell'arto per
l'arte, lo assunse come custode, visto anche che il vecchio
custode, pochi giorni addietro, aveva smesso di lavorare
nella città e s'era ritirato con la famiglia della figlia a
coltivare la terra su ai Camaldoli.
Il San Carlo fece un grosso affare, assumendolo.
Aniello era un uomo tutto d'un pezzo (malgrado il
pezzo di gamba mancante), uno di quegli uomini onesti per
compulsione.
Di solito, si pensa che l'onestà di un individuo
dipenda da uno di questi due fattori: o la rettitudine morale
o l'incapacità di mentire e fregare il prossimo.
Il custode non apparteneva ad alcuna di queste due
categorie di onesti.
Lui era onesto perché il suo cervello non concepiva
un mondo privo dell'equilibrio tra tutte le sue componenti
umane per cui, in teatro potevano affidargli in custodia
qualsiasi cosa preziosa perché, conscio che quelle cose non
appartenevano a lui, il custode avrebbe sofferto moltissimo
se non fosse riuscito a custodirle con cura e a restituirle
alla bisogna.
Anche un sacco pieno di monete d'oro sarebbe stato
restituito integro dei suoi valori contenuti. Nemmeno un
tornese vi avrebbe sottratto.
Aniello fece passare i Fiorenza senza fare storie,
sapeva che li stavano aspettando. Si limitò soltanto ad
indicargli la direzione da prendere per la sala prove.
Quando Giacomo entrò nella sala prove, ad
aspettarlo vi trovò seduti il maestro Buonomo, un paio di
signori molto eleganti che lui non conosceva. Il primo
faceva mostra di imponenti “mustacci” (baffi) e una
magrezza oltre misura. Il secondo aveva quanto mancava
al primo, il suo volto era incorniciato da una barba rada ma
priva di baffi ed esibiva una consistente pinguedine. In un
angolo, per non dare fastidio, c'era il maestro Casizzone.
Il maestro della sua infanzia era più emozionato di
Giacomino stesso. Era seduto a gambe strette e tormentava
un “muccaturo” (fazzoletto) tra le mani.
Giacomino gli sfoderò il sorriso più tranquillizzante
che aveva in repertorio. Non ebbe modo di scoprire se la
mostra dei suoi denti in una gondola di labbra avesse
sortito l'effetto di sedare il caro maestro, perché sentì uno
dei due signori, quello baffuto, dire:
- Che tieni da ridere? Pensi di stare al circo? -
- Scusatelo … - disse Nino il bello dando un sonoro
“scuppulone” (scappellotto) al figlio - … il ragazzo adesso
smette di ridere -.
Giacomo trasformò la gondola in una canoa, si
posizionò davanti ai tre signori (i due sconosciuti e il
maestro Buonomo) e attese:
- Allora? - chiese l'altro signore, il grassone.
- Che cosa devo fare? - chiese, innocentemente,
Giacomino.
- Tira fora 'stu cascione, a papà, e suona –
intervenne Nino poi, capendo che non spettava a lui
parlare, tacque immediatamente e fece una “riverenza”
(inchino).
Il ragazzo tolse il proprio contrabasso dalla
coperta/custodia, tirò i crini dell'arco, li strofinò sul pezzo
di resina e cominciò a suonare.
Il contrabasso, a quei tempi, non aveva un proprio
repertorio di brani classici e solistici. Di solito, ai provini i
contrabassisti si esibivano in scale e arpeggi.
Giacomo, preso dall'emozione, non ebbe la lucidità
sufficiente a lanciarsi in una scala o arpeggio e suonò la
prima cosa che gli venne a mente.
Eseguì “Fenesta vascia” una canzone antica,
vecchia di almeno 200 anni. Pietra miliare della melodia
aulica partenopea.
Bastarono le prime tredici note della melodia perché
le mandibole dei due signori fossero improvvisamente
attratte dalla forza di gravità.
Quando Giacomino ebbe terminata la propria
esibizione con quest'antica e dolce elegia, la commissione
esaminatrice rimase senza parole.
Il papà, abituato al talento del figlio, non sapeva se
questo silenzio era un buon segno. Allora lo incalzò:
- Giacomino, bello di papà, fai sentire a questi
illustri signori qualcosa di più movimentato -.
Il ragazzo non se lo fece ripetere e attaccò “Lo
Guarracino” una tarantella che aveva radici antiche quanto
il primo brano eseguito.
Il brano era un vero e proprio “pezzo d'abilità” e,
senza averne coscienza, Giacomo Fiorenza aveva
dimostrato di possedere anche una tecnica straordinaria.
Alla fine della sua performance, il silenzio della
commissione divenne assordante.
Il padre stava per dirgli qualcosa quando uno dei
due signori, il più autorevolmente magro, disse:
- Va bene, basta così. Ragazzo, come leggi la
musica? - Stavolta intervenne il maestro Casizzone.
- Questo ragazzo sa leggere le note molto meglio di
come legge le lettere. Lui le ... -. Era orgoglioso del suo
ragazzo e non s'era saputo trattenere dal dire la sua. Il
signore lo zittì con uno sguardo. L'altro signore disse:
- Beh! Se non è analfabeta, possiamo ben sperare –
Il maestro Buonomo e il baffuto, risero. Giacomino, che
non capiva se stessero ridendo di lui, si difese:
- Non sono analfabeta. La domenica, a messa, don
Domenico mi affida sempre le letture -
- Ottimo … - rispose il ciccione - … penso che basti
così. Maestro Buonomo, spiegate il tutto al nostro nuovo
acquisto -.
Si alzò con fatica e, insieme all'altro signore,
lasciarono la sala prove del teatro.
Fu così che, a soli tredici anni, Giacomo Fiorenza fu
arruolato come contrabassista aggiunto per le produzioni
del regio teatro.
L'opportunità di lavoro, per un aggiunto al teatro
S.Carlo, consisteva che quando l'impresario vedeva
un'ottima affluenza al botteghino, costui allargava
l'organico in buca aggiungendo altri sei violini ai
quattordici già in organico, tre viole ai sei titolari, due
violoncelli (per un totale di sei violoncelli) e un
contrabasso (che, in questo caso, fu Giacomo) agli altri tre
già ingaggiati a monte. Ovvio che, con gli incassi buoni,
l'orchestra veniva allargata anche nelle sezioni “ottoni”
(trombe, tromboni e corni) e “legni” (flauto, ottavino,
oboe, clarinetto, corno inglese e fagotto).
CAPITOLO IV
Il primo ingaggio
Napoli 12 maggio 1791
… si sentì una voce nel vicolo. Chiamava dalla
strada: “Maestro Fiorenza! Maestro Fiorenza!”.
Giacomo poggiò a terra il contrabasso e s'affacciò al
balcone del primo piano dove abitava. Vide che c'era un
bambino, uno scugnizzo.
- Guaglio', che vvuò? Il maestro Fiorenza sta a
lavoro a chest'ora. Perché lo cerchi? -.
- Deve venire alle prove al teatro San Carlo -
- Papà? Al teatro? E che deve fare papà al teatro? -
- E che ne saccio io? M'hanno detto che deve venire
subito … col Calascione -.
- 'O Calascione? -
- No! Aspettate un attimo, non era il Calascione …
ecco! Il contrabasso! -
- Il contrabasso? Ma allora … vabbè, ho capito.
Grazie, mo ce penso io! -
Giacomo infagottò lo strumento, se lo mise sulle
spalle, prese la resina e l'archetto e corse in teatro.
All'ingresso c'era il solito Aniello che, senza dire
una parola, gli indicò la direzione da prendere.
Era la sala prove dove lui, quattro mesi addietro,
aveva sostenuto il provino.
Stavolta, la sala era stracolma di musicisti. C'era
l'orchestra del San Carlo al completo. Lui, con lo sguardo,
cercò il posto dove c'erano gli altri contrabassisti. Gli altri
tre erano già al loro posto, in fondo alla sala, alle spalle dei
violoncellisti.
Quando s'avvicinò ai colleghi, il primo contrabasso,
il maestro Dominianni, chiese:
- E chi è 'sto grande solista che c'ha addirittura il
facchino che gli porta lo strumento? - gli altri due
contrabassisti risero. Giacomino rispose con la voce più
ferma che riuscì a trovare.
- No, signori. Non c'è nessun solista … sono io
l'aggiunto -.
- Guaglio' nun me fa ridere! - Fece il secondo
contrabasso, il maestro Calzolari.
Evidentemente la voce di Giacomo non era stata
sufficientemente ferma. Per dare dimostrazione che stesse
dicendo la verità, il ragazzo tolse la coperta allo strumento
e si mise ad accordarlo. Mentre il primo e il secondo
contrabasso rimasero letteralmente interdetti nell'ascoltare
il meraviglioso suono del ragazzino, il terzo contrabasso, il
maestro Bossolo, contento di non essere, almeno per una
volta, l'ultimo strumento, disse:
- Si, abbiamo capito che sei tu ma, ora non rompere
le palle -.
Entrò il maestro e, improvvisamente, calò il silenzio
in sala prove.
Il maestro Gaetano Marinelli era un uomo minuto,
molto magro, col viso sottile e una barba rossiccia poco
compatta.
Consegnò ad un signore, l'archivista del teatro, le
parti da mettere sui leggii degli orchestrali e, mentre
l'uomo svolgeva il suo compito, disse con una voce acuta
ma, non per questo, meno autorevole:
- Buongiorno a voi, gentili signori … – ottenendo
immediatamente risposta dall'orchestra. Egli continuò - …
come certamente saprete, sono il maestro Gaetano
Marinelli. Dedicheremo i prossimi giorni alle prove di una
mia opera seria, il “Lucio Papirio” che andrà in scena in
questo teatro la prossima settimana. Faremo orari lunghi,
proveremo dal mattino fino al calar della sera. Avrete
l'onore di lavorare ad una produzione artistica che vede la
firma, per quanto riguarda il libretto, nientedimeno che del
grande maestro Apostolo Zeno … -
- … e chi è? - si lasciò scappare Giacomo, a mezza
voce.
- Zitto, ignorante! - lo redarguì immediatamente il
terzo contrabasso che, essendogli molto vicino, aveva
sentito – il maestro Marinelli proseguì.
- … ma, cosa ancora più importante, per far
accorrere un pubblico numeroso alle rappresentazioni della
mia opera, il teatro San Carlo e tutta la cittadinanza
napoletana potranno godere dello straordinario talento
vocale della soprano Brigida Giorgi Banti … -
L'applauso dell'orchestra coprì l'ennesimo “e chi
è?” di Giacomo Fiorenza.
Giacomo scoprì quello stesso pomeriggio chi fosse
la famosa Brigida Giorgi Banti.
Donna Brigida, trentadue anni (anche se diceva in
giro di averne ventisei), entrò accompagnata da due
signori, l'impresario e un valletto.
Appena entrò in sala prove, l'ambiente fu permeato
dal suo profumo a base di essenza di rose. Ella teneva un
fazzoletto bianco sul naso perché la totalità dei maestri
emanava un bouquet di sudore e peti. Evidentemente aveva
bagnato il proprio “muccaturo” con lo stesso profumo che
aveva indosso per evitare i conati di vomito.
Questo utilizzo del fazzoletto imbevuto di essenze
profumate fu un chiaro indizio che la signora aveva una
lunga esperienza di sale da prove dei teatri.
Sebbene la maggior parte degli orchestrali non
avesse una grande abitudine alle abluzioni, la regola della
“fetumma” (puzza) non valeva per tutti.
In effetti, Giacomo non puzzava come i propri
colleghi.
Educato alle buone maniere e alla pulizia da Nino il
bello, che diceva sempre “Lavati tutti i giorni e profumati!
Non si sa mai”, Giacomino era un giovanotto educato e
pulito.
Non capiva il senso di quel “ … non si sa mai” ma
obbediva da buon figlio. Una volta glielo chiese cosa
significasse quel “ … non si sa mai” ma il padre rispose
“fidati guagliò! Arriverà il momento che capirai da solo”.
Mentre fantasticava sugli insegnamenti del padre,
ebbe una “scoppola” (scapaccione) dal terzo contrabasso.
- Non ti distrarre, deficiente! -.
Attaccarono a provare la prima Aria in cui cantava
donna Brigida.
A Napoli cantano. Cantano un po' tutti. Si è abituati
al talento e alle belle voci ma niente, di tutto ciò che
Giacomo aveva ascoltato fino ad allora, rassomigliava
minimamente al suono paradisiaco che usciva dall'ugola di
donna Brigida.
Aveva una tecnica vocale incredibile e un suono …
perfetto.
Ben presto, però, Giacomino dovette fare i conti con
la sua mancanza d'esperienza nelle orchestre liriche.
L'andamento delle Arie d'opera seguiva un ritmo del
tutto diverso dalla costanza ritmica della canzone popolare
napoletana … certo, anche nelle canzoni napoletane
capitava che vi fosse una “corona” ossia una sospensione
dell'andamento ritmico dove il cantante indugiava su una
parola e costringeva gli accompagnatori a rallentati o
pause ma, nell'opera, questo non avveniva per favorire il
pathos del testo.
Nel melodramma, molto semplicemente, accadeva
spessissimo di rallentare e di fermarsi su quelle note dove
il cantante, o la cantante di turno, poteva mettere più in
mostra la propria perizia.
Per fortuna, dopo il primo liscio, ossia dopo la
prima volta che tutti s'erano fermati e lui aveva continuato
a suonare e s'era beccato un'occhiataccia dal primo
contrabasso e un “Va fa 'nculo” (questa parola non ha
bisogno della traduzione dal napoletano) dal terzo
contrabasso, Giacomino si fece furbo e suonò un po' più
leggermente, facendo attenzione a tutti i passaggi a rischio
“liscio”.
Il maestro Marinelli aveva fatto scrivere i singoli
spartiti dell'orchestra dal suo anziano copista, un po'
rincitrullito dall'età. Più di una volta, fu costretto a fermare
le prove affinché fossero aggiunti dagli orchestrali quei
segni di andamento o di dinamica che erano sfuggiti a
questo suo vetusto assistente.
Al leggio di Giacomo non spettava a lui scrivere ma
al suo diretto superiore in gerarchia orchestrale: il maestro
Bossolo.
Si accorse, quando vide quest'ultimo aggiungere
l'andamento “presto”, che vuol dire “veloce” allo spartito,
che Bossolo scriveva le “esse” al contrario, come se
fossero delle “zeta”.
Provò a dirglielo ma, quando aprì la bocca per
dirglielo, l'uomo gli lo bloccò dicendogli:
- Chiudi 'sta vocca, strunz', ca o si no ve traseno 'e
muschilli (chiudi la bocca, stronzo, altrimenti vi entrano i
moscerini) -
Questa uscita poco elegante del suo vicino di leggio
lo fece desistere da fare qualsiasi osservazione.
Si! Sarebbe stata dura.
Dopo la prima giornata di prove, nella quale il
ragazzo non aveva avuto modo di far brillare il proprio
talento, fu comunicato all'orchestra che l'indomani si
sarebbero tenute le prove a teatro ed in costume.
Per questa ragione, i signori orchestrali aggiunti
erano obbligati ad andare in sartoria un'ora prima delle
prove per indossare il costume che gli sarebbe stato
affidato per tutto il periodo delle repliche e al quale
avrebbero dovuto badare personalmente sotto la propria
responsabilità, pena, in caso di macchie o strappi o
smarrimenti, un'ammenda pecuniaria che sarebbe stata
decurtata dalla loro paga.
Il secondo giorno, andò in sartoria e ne uscì con una
meravigliosa livrea olezzante naftalina.
Sembrava un uomo fatto.
Tenne il profilo e il volume basso durante tutta la
giornata e suonò tutti i brani dell'opera e le Arie degli altri
protagonisti del lavoro teatrale.
Anche gli altri cantanti lirici avevano voci possenti
e indugiavano, per altro senza gusto artistico, sulle note
della loro voce che meglio s'espandevano ma erano del
tutto carenti della grazia musicale e della perizia tecnica
che possedeva la voce di Brigida Giorgi Banti.
I talenti musicali di Giacomo avevano il vantaggio
di essere corroborati da una memoria straordinaria.
Il giorno seguente, il terzo giorno di prove, il
ragazzo non ebbe bisogno di leggere sullo spartito cosa
dovesse suonare durante le Arie d'opera, ricordava
perfettamente tutte le note e tutti i rischi che aveva corso
nella prima e nella seconda giornata di prove.
Inoltre conosceva a memoria tutte le sospensioni del
tempo a cui sarebbe stato costretto dall'esigenze della Banti
e dei suoi colleghi.
Cominciò a suonare per davvero.
Anche i suoi colleghi se ne accorsero. Il suo suono
suscitò un sorriso di piacere da parte del primo e del
secondo contrabasso, Dominianni e Calzolari ed una
smorfia di evidente fastidio da parte di Bossolo, il terzo
contrabasso.
Giacomo non si accorse dei sorrisi e delle smorfie
dei colleghi ma notò l'espressione compiaciuta che fece il
maestro Marinelli guardando verso la sezione dei
contrabassi.
Appena terminata una delle Arie che era stata
affidata proprio alla Banti, il maestro compositore e
direttore disse:
- Faccio i miei complimenti alla sezione dei
contrabassi. Era proprio questo il suono che avevo pensato
per l'Aria che abbiamo appena eseguito. Continuate così,
… ora … pausa – e abbandonò il podio.
In quel momento, Giacomino non osò guardare in
direzione dei colleghi perché non voleva far capire di
essere conscio che il merito era suo quindi, diede
un'occhiata alla scena … e li incontrò.
Incontrò gli occhi della signora Brigida che
l'osservavano con … interesse?
Lui, per nascondere il proprio imbarazzo davanti a
quegli occhi scrutatori, abbozzò un sorriso.
Brigida Giorgi Banti, gli sorrise a sua volta e,
inaspettatamente, si passò la lingua sulle labbra,
lentamente.
La spalla del contrabasso, ossia la curva superiore
dello strumento, poggia sull'inguine dei contrabassisti. Di
fronte al gesto inaspettato del soprano, Giacomino fu
costretto ad allontanare lo strumento dalla sua abituale
collocazione perché, improvvisamente, non c'era più molto
spazio.
La signora mostrò al ragazzo d'aver compreso il
senso di quel gesto e, dopo un occhiolino complice, girò le
spalle e raggiunse le quinte.
Da quella prova in poi, tutte le volte che la Banti
saliva in scena gli lanciava uno sguardo complice che lo
imbarazzava non poco.
Anche Bossolo, il terzo contrabasso, notò l'intesa tra
il famoso soprano e il ragazzino che, con suo immenso
disappunto, suonava le parti sempre meglio evitando
quegli errori tipici dei novellini. Un giorno, in conseguenza
ad un malizioso sorriso che il soprano aveva lanciato a
Giacomino, l'anziano collega gli disse a mezza voce:
- Non t'illudere, fesso! Ti sta solo prendendo in giro.
Una donna di gran classe, come quella lì, guarda a noi
orchestrali come se fossimo “scarrafoni” (scarafaggi), cosa
credi che possa pensare di te? Pensa a suonare bene invece
di fare “'o strunz'” (stronzo) -.
Giacomino avrebbe voluto rispondergli per le rime
ma si trattenne dal farlo. Voleva evitare a tutti costi di
avere attriti coi colleghi.
CAPITOLO V
Brigida Giorgi Banti
Napoli 26 maggio 1791
Arrivò il giorno del debutto.
Giacomo Fiorenza si presentò in teatro in largo
anticipo con la sua livrea lavata di fresco e profumata con
sapone di Marsiglia. Sembrava un damerino per come gli
stava bene la divisa da orchestrale.
Arrivato in teatro, gli fu detto da Aniello che
avrebbe dovuto aspettare per entrare in buca.
Stavano rivestendo il corrimano dello spazio
riservato all'orchestra con strisce di seta rossa e, ne
approfittavano per ammazzare “scarrafune e zoccole”
(scarafaggi e topi).
Oramai, però, era lì.
Per ingannare il tempo, Giacomo passò dietro le
quinte del palco e finì in un corridoio dove affacciavano i
camerini degli artisti.
Davanti alla prima porta c'era un foglietto con la
scritta “Maestro Gaetano Marinelli, compositore e direttore
d'orchestra”.
Il secondo camerino aveva la porta aperta e
Giacomo non sapeva a chi potesse appartenere finché,
passandovi davanti, vide Brigida Giorgi Banti di spalle di
fronte ad uno specchio. Nel suo camerino c'era anche una
giovane sartina che le stava stirando l'abito di scena con un
nuovissimo ferro da stiro a carbone.
La signora Banti vide Giacomo e lo riconobbe
immediatamente.
- Giovanotto, vieni qui! - Se una cantante così
famosa ti chiama nel suo camerino, non puoi certo dire di
“no”. Giacomino, timidamente, entrò. La signora si rivolse
alla sartina.
- Vai pure, cara e, uscendo, chiudi la porta – La
sartina obbedì e Giacomo Fiorenza rimase da solo con la
diva. Lei fece:
- Accomodati su quella sedia libera – Giacomo
rispose.
- Preferisco stare in piedi -
- Ah! C'ha carattere il giovane! - fece lei – …
d'accordo! Rimani pure in piedi … tanto … per ciò a cui
mi occorri, è anche meglio che tu non ti sieda.
Dopo queste parole, la signora s'inginocchiò di
fronte a lui e gli slacciò le braghe.
Sebbene Giacomo avesse da poco compiuto
quattordici anni, il suo sviluppo era già completo. Tra i
suoi coetanei, quando d'estate andavano a nuotare a Santa
Lucia, e mostravano le reciproche nudità sugli scogli posti
di fronte alla villa comunale cittadina, era soprannominato
“'O capitone!” (L'anguilla) in virtù del suo spropositato
sviluppo relativo all'apparato di riproduzione.
Queste dimensioni, nonché il profumo di pulito che
emanava dalle sue zone intime, non suscitarono esitazioni
nel famoso soprano per l'obiettivo che s'era prefissata.
Non aveva dubbi riguardo il fatto di trovarsi di
fronte ad un giovane uomo.
L'esperienza della donna riuscì a risolvere la
questione in poco più di cinque minuti alla fine dei quali,
disse:
- Complimenti, giovanotto, quanta grazia … e che
pulizia … ce l'hai una fidanzata? -
- No, signora, sono ancora troppo giovane -
- Che sciocchezze! Alla tua età i giovani hanno … a
proposito, quanti anni hai? -
- Il mese scorso ne ho compiuti quattordici – rispose
lui, innocentemente. Alla Banti, per poco, non le prese un
colpo.
- QUATTORDICI! Ma dai! Stai scherzando? -
- Nossignora! Sono nato il 16 di aprile del '77 -
- Oddio! Un bambino … uh mamma! - Giacomo,
dopo le confidenze intime con la signora, si sentiva un po'
più spavaldo. Fece:
- Come avete potuto vedere, sono tutt'altro che un
bambino … è vero! Sono molto giovane ma … -
- Niente “ma” … - lo interruppe lei - … questa cosa
non è mai accaduta … capito? - Giacomo era stato, molto
spesso, presente alle azioni galanti di Nino il bello, suo
padre. Era il momento d'imitarlo.
- Signora, sebbene io sia molto giovane, come avete
potuto vedere, so il fatto mio, sia per quanto riguarda il
lavoro che per quanto riguarda tutto il resto. Se il vostro
timore è l'indiscrezione, sappiate che sono un gentiluomo e
nulla di ciò che è accaduto in questa stanza, sarà mai
divulgato fuori da essa – La Banti tacque per soppesare le
parole del ragazzo, infine:
- E sia! Se sarai discreto come dici, … torna anche
domani prima dello spettacolo. Ora, però, va! -.
Nei giorni a seguire Giacomo scoprì, dalla signora
Banti, che era in uso, tra i soprani lirici, fare ciò che lei
faceva a lui ogni sera prima dello spettacolo.
A quanto pareva, si trattava un esercizio basilare tra
le cantanti. L'esercizio serviva a far in modo che queste
professioniste rilassassero i muscoli della gola per avere il
miglior suono possibile.
Questa non fu la sola cosa che Giacomo scoprì dalla
signora. La Banti era, come lui, figlia di un musicista
ambulante. Da ragazza fu notato il suo talento mentre si
esibiva in duo con un contrabassista gigante di Venezia con
le mani enormi e una tecnica spaventosa, un tale Domenico
Dragonetti.
La Banti, dal canto suo, scoprì con suo immenso
piacere che il ragazzo aveva l'abitudine di lavarsi tutti i
giorni.
Giacomo era felice, si sentiva un uomo a tutti gli
effetti e non s'accorgeva di essere costantemente l'oggetto
di sguardi truci e sospettosi da parte di Bossolo.
Le repliche, visto l'enorme successo cittadino
dell'opera, sarebbero andate avanti per un mese e mezzo.
CAPITOLO VI
Albano Laziale (Roma) 25 aprile 1866
− Venite, maestro Fiorenza! -
Il pomeriggio del giorno seguente, i due uomini
s'erano dati appuntamento nello studio dell'abate. Liszt lo
stava aspettando con due bicchieri di vino bianco in mano.
− Grazie, maestro ma, per piacere, fatemi la
cortesia di chiamarmi Giacomo -.
− D'accordo, Giacomo e allora voi chiamatemi
Franz -.
− Non potrei mai! Un maestro come voi -
− In queste mura c'è un solo maestro, l'altissimo.
Io per voi sarò Franz, un vostro amico -
− Ne sono onorato -.
− Venite accanto al pianoforte. Voglio farvi
ascoltare un brano -.
Giacomo prese posto su una sedia alla destra dello
sgabello pianistico sul quale si sedette Liszt e quest'ultimo
cominciò a suonare.
Il brano durò una decina di minuti. Quando smise
di suonare l'abate si voltò verso l'anziano e vide che aveva
le lacrime agli occhi.
− Cosa vi succede, amico mio? -
− È bellissimo … - disse Giacomo mentre si
asciugava gli occhi - … è vostro? -
− No, magari! Questa è una composizione del
marito di mia figlia Cosima. Lui è un tedesco, si
chiama Wagner, Richard Wagner. Quello che vi
ho fatto ascoltare è il preludio di una sua opera
lirica -
− Stupendo. Un giovane come questo Wagner, con
la sua musica avveniristica, mi dà ancora di più
l'idea che il mio mondo è finito -
− Beh! Mica è tanto giovane, mio genero. Ha solo
un paio d'anni in meno a me -.
− Ma avete detto che è il marito di vostra figlia,
giusto? -
− Beh? -
− Ohps! Scusate, noi vecchi siamo inopportuni -
− Non vi scusate, Giacomo … pur essendo quasi
un mio coetaneo, Richard rappresenta, senza
ombra di dubbio, il futuro. Sono certo che abbia
sposato mia figlia per interesse … visto
l'influenza che ho nel mondo della musica … ma
parliamo d'altro … piuttosto, parlatemi di voi.
Ne avrete viste tante. Avrete suonato coi più
grandi al mondo. Più o meno tutti sono passati
per il San Carlo -
− Si, in effetti ho suonato con molti grandissimi
musicisti anche se, dopo che si è suonato con
Mozart, questi “grandi” non ti sembrano poi
tanto … - Liszt lo interruppe.
− Un momento! Avete suonato con Mozart? Cioè
… mi state dicendo che … -
− Si. Ho suonato con lui quando avevo quattordici
anni e lui addirittura compose un brano ispirato
dal mio modo di suonare, un brano che
conservo da allora -
− Voglio sapere tutto. E voglio leggere questo
brano! Raccontatemi tutto di voi -
− La mia è una storia lunga, vista l'età, ci
vorranno giorni -
− Beh? Nessuno ci sta mettendo fretta. Me ne
racconterà un pezzettino ogni giorno. Abbiamo
tutto il tempo che vogliamo -
− Speriamo … - disse Giacomo.
CAPITOLO VII
Primo licenziamento
Teatro San Carlo 16 giugno 1791
Quella sera, dopo il quotidiano rituale pre-
spettacolo, la Banti gli disse:
- Stasera, quando abbiamo finito, torna in camerino.
Aspetta che prima siano andati via tutti e poi torna. Capito?
Ho un regalo per te -.
Finita la rappresentazione teatrale, Giacomo fece
ciò che gli era stato chiesto.
Quando vide che non c'era più nessuno in corridoio,
bussò alla porta dell'artista.
- Chi è? - fece lei.
- Giacomo -
- Entra – Appena entrato, lei gli chiese:
- T'ha visto nessuno? -
- No -
- Bene … allora … buon compleanno … -
- Ma è stato due mesi fa – fece Giacomo.
- Lo so ma, due mesi fa noi non ci conoscevamo
ancora. Mi accordi il permesso di farti un regalo, anche se
fatto con un ritardo di due mesi? -
- Certamente. Un regalo non si rifiuta mai … dov'è?
Cos'è? -
- Ecco il tuo regalo -
Dopo aver detto queste parole, Brigida Giorgi Banti
appoggiò il viso sul tavolino da toeletta e s'alzò la gonna.
Giacomo vide che non indossava le culotte. Rimase fermo
e imbarazzato. Credeva d'aver capito ma voleva esserne
certo sebbene il suo “pesce” (il pene) avesse già capito
tutto. La signora gli tolse ogni dubbio.
- Vieni a prendertelo 'sto regalo? - Lui ringraziò e
accettò il dono.
Ciò che Giacomo non sapeva era che, fuori dalla
porta dell'artista, Bossolo ascoltava ciò che stava
accadendo e, i gemiti che cominciarono di lì a poco, non
lasciarono ombra di dubbio al terzo contrabasso su cosa
stesse accadendo al di là della porta dove vi aveva visto
entrare il giovane collega.
Tutti gli strumentisti che possedevano strumenti
grandi, tipo i timpani, il clavicembalo e i contrabassi,
lasciavano i propri strumenti nella buca in teatro.
Giacomino aveva adottato la sana abitudine, ogni
pomeriggio, di recarsi a teatro e col permesso di Aniello, il
custode, nel silenzio più assoluto, ne approfittava per
studiare scale e arpeggi per non perdere la “mano”.
Quando, nel pomeriggio del 15 di giugno del 1791,
Giacomo arrivò in buca, vide i tre colleghi contrabassisti
che stavano istruendo un altro contrabassista sui passi
orchestrali dell'opera. Il suo strumento personale era stato
posizionato fuori dalla buca.
- Cosa succede qui? - chiese preoccupato il giovane.
Gli rispose il maestro Dominianni, il primo contrabasso.
- Non ne ho idea, ragazzo, ci hanno detto solo che
dovevamo istruire questo giovane che t'avrebbe sostituito -
- Non capisco, ho fatto forse qualcosa di male? -
Bossolo scoppiò in una risata.
- Qualcosa? Qualcosa di “grosso” vorrai dire! Va va,
vai in direzione che mò ti danno il benservito. Ti stanno
aspettando -
Il giovane non perse tempo a rispondere per le rime
al collega. Si precipitò in direzione, al terzo piano.
Lì dentro c'erano il maestro Marinelli in persona,
l'amministratore del teatro, l'impresario e il maestro
Buonomo. Quando entrò, senza bussare alla porta, i signori
smisero immediatamente di parlare tra di loro.
- Perché? - Urlò Giacomo.
- Non si usa bussare alla porta, guagliò? - fece
l'impresario. Giacomo non se ne curò e ripeté.
- Perché? … in cosa ho sbagliato? - a quel punto,
intervenne con dolcezza il maestro Marinelli che,
evidentemente simpatizzava per il giovane.
- Non hai sbagliato nulla … a meno che qualcuno,
in questa stanza, consideri l'essere giovani come uno
sbaglio – Si guardò intorno e tutti gli astanti evitarono il
suo sguardo.
- Allora perché mi cacciate? -
- Ragazzo non ti stiamo cacciando ma … - fece
l'impresario - … la nostra è una struttura seria e non ama
gli scandali. Stamattina, “'n aucielluzzo” (un uccellino) ci
ha riferito che, oltrepassando i limiti della tua posizione,
“te staje futtenno 'a Banti” (ti stai scopando la Banti) -
- E che cazzo! … - fece il maestro Buonomo - … un
po' di garbo, dottore! -.
- Me ne fotto del garbo … è vero guagliò? Ti chiavi
la signora? -
Giacomo arrossì, avrebbe voluto saper mentire ma il
suo volto era inequivocabilmente colpevole. Dopo un
lungo, imbarazzante silenzio, intervenne l'amministratore
del teatro.
- Tieni! … - e gli passò una busta - … qua dentro ci
sta la paga per gli spettacoli. Ci ho messo dentro una
piccola regalia dietro espressa richiesta del maestro
Marinelli -
- Non li voglio i vostri soldi! - disse Giacomo e
buttò la busta a terra.
L'amministratore si stava chinando per riprendersela
ma il maestro Buonomo fu più rapido di lui. Afferrò la
busta e disse:
- Giacomino caro, stamattina ho parlato col maestro
Marinelli. Non credere che lui non abbia notato il tuo
straordinario talento. Prendi 'sti soldi. Ti serviranno per il
viaggio che dovrai fare -. Giacomino passò dalla rabbia
alla perplessità.
- Viaggio … quale viaggio? - Buonomo gli disse,
con una punta di sorriso sulle labbra:
- Andrai a Vienna -
- Vienna? - chiese Giacomo, perplesso. Gli rispose il
maestro Marinelli.
- Si, Vienna. Dopo aver capito che non saresti
potuto rimanere in orchestra, almeno per questo spettacolo,
per evitare ogni tipo di chiacchiera o scandalo, ho cercato
il maestro Buonomo e, insieme, abbiamo convenuto che il
tuo talento andava premiato, indipendentemente dai tuoi
calori giovanili … tieni! - e gli diede una busta chiusa con
la ceralacca.
- Cosa sono? Altri soldi? - Il maestro sorrise.
- No. Qualcosa che vale molto più del denaro. È una
lettera di presentazione che porterai al signor Gustav
Brunner in Kohlmarktstraße a Vienna. In passato, m'aveva
chiesto che gli segnalassi qualche valente strumentista. Tu
sei un buon contrabassista. Questa persona mi deve dei
favori ma, sono sicuro che, dopo averti sentito suonare,
capirà che sono stato io a fargliene un altro, di favore –
Giacomo taceva. I suoi sentimenti erano passati
dalla rabbia alla vergogna alla perplessità alla riconoscenza
fino alla commozione.
Intervenne nuovamente l'impresario per riempire
quel silenzio.
- Guagliò. Non ti preoccupare perché quando torni a
Napoli lo scandalo sarà dimenticato e, se vorrai tornare,
avrò sempre piacere di riprenderti in orchestra … basta che
non ti fotti più le prime donne -
Scoppiarono tutti a ridere. Il riso contagiò anche
Giacomo. Quando smise l'attacco d'ilarità, il maestro
Marinelli disse:
- Quando andrai a salutare la signora Banti, perché
so che lo farai, non fare cenno a ciò che sappiamo su voi
due. Dille soltanto che ti abbiamo spedito a Vienna per un
importante ingaggio con l'orchestra del principe Esterhàzy,
sarebbe troppo imbarazzante per lei scoprire che noi
“sappiamo”, non credi? -
- … credo! -
Giacomo, uscendo dall'ufficio dell'amministrazione,
si precipitò immediatamente al camerino della Banti. Lei
era lì. Lo vide trafelato e disse:
- Che succede? Vai di fretta oggi? Guarda che è
ancora pre … - lui la interruppe.
- No, signora … - Giacomo non aveva mai smesso
di chiamarla “signora” malgrado tutta la confidenza che
condividevano – … il fatto è … è che sono venuto a
salutarvi … vado via – Lei si alzò di scatto e chiuse la
porta.
- Cos'è successo? C'entro io con tutto questo? -
- Per carità, no! La direzione del teatro, visto il mio
talento, mi ha dato una lettera di raccomandazione per
suonare a Vienna nell'orchestra del principe Ester … Este
… non mi ricordo -
- Esterhàzy? Accidenti! - fece lei.
- È una persona importante? -
- A parte il fatto che è un principe? No! Niente di
ché … Ma che sei? Scemo? Un principe è un principe. Non
basta essere principi per essere importanti? -
- Io … ehm, credo di si … ma mi dispiace lasciarvi,
io … se volete, rinuncio -
- Allora sei davvero scemo! Scusa Giacomo ma,
come si dice da queste parti “quanno 'ce vo', 'nce vo'”(è
necessario). Ascoltami bene, tu sei giovane e pieno di
talento. Un'occasione così capita una sola volta nella vita.
Certo! Mi mancherai ma, se non mi fossi affezionata a te,
se fossi un po' più egoista, ti direi “rimani qui” ma … al
tuo posto non ci penserei due volte. Devi assolutamente
andare a Vienna -.
Giacomo rimase muto e basito per qualche istante.
Brigida tacque insieme a lui ma poi, riprese la parola.
- Comunque hai ragione. Non era per il principe
Esterhàzy che ho avuto un sobbalzo ma perché la sua
orchestra è spesso diretta dal più grande genio della musica
… pensa che è stato anche qui, a Napoli, quand'era un
bambino … anche se qui … insomma, non ha avuto molto
successo -
- Perché? -
- Perché in una città piena di talenti, come Napoli, è
molto difficile notare la differenza col genio assoluto -
- Già … e chi è questo genio? -
- Un austriaco, Wolfgang Amadeus Mozart -.
CAPITOLO VIII
Mozart
In viaggio, 10 giugno 1991
Giacomo non rivide più la Banti prima della
partenza. Al San Carlo, le repliche si sarebbero svolte
ancora per una settimana ma con un altro quarto
contrabasso. Coi soldi guadagnati in teatro, comprò un
carretto e un cavallo, vi caricò dentro i pochi averi che
possedeva, il suo contrabasso, qualche indumento pesante,
dietro consiglio della madre “perché a nord fa freddo”,
qualche vestito nuovo e un po' di pane di somma, frutta,
provole e insaccati per non preoccuparsi del cibo almeno
per un po'.
Si unì a tutte le carovane che trovò dirette al nord.
Quando si viaggiava, a quei tempi, conveniva essere
numerosi. Usciti dal Regno delle Due Sicilie, era sovente
imbattersi in predoni. Tanto nell'entroterra dello stato
pontificio quanto tra le nebbie della pianura padana c'era
molta delinquenza e, il rischio di essere depredati era
altissimo. Le carovane viaggiavano numerose e, spesso,
erano scortate da uomini armati ben retribuiti. Un ottimo
deterrente per i malintenzionati.
Ogni sera, quando le carovane si fermavano per
cenare e dormire, tutti invitavano Giacomino ad
intrattenerli con canti di tammurriate, tarantelle e antiche
villanelle napoletane. Giacomo aveva anche una bella
voce, robusta come quella di un uomo adulto ma ancora
capace di salire in una tessitura fanciullesca. A volte
cantava “a cappella”, a volte s'accompagnava pizzicando il
contrabasso ma, se trovava una chitarra o un mandolino,
riusciva ad ottenere un effetto più incisivo sul suo
pubblico. Gli bastava imitare papà.
E fu così che la sera del primo giorno di luglio del
1991 arrivò a destinazione.
Vienna non era Napoli, nessun posto al mondo
poteva essere Napoli. Vienna era sporca, poche strade
erano lastricate, le altre vie di circolazione erano di terra
battuta. Lui prese una camera in una locanda, la “Hans
Gasthaus” nella cui stalla lasciò il cavallo e il carretto,
trasportò nella stanza il contrabasso e i suoi effetti
personali, si fece portare in camera un bagno, si lavò e
andò a dormire.
Il giorno seguente, pulito e riposato, indossò un bel
vestito e andò a trovare Herr Gustav Brunner. L'ufficio del
signor Brunner in Kohlmarktstraße era al centro. Si
passava sotto un lungo porticato e si arrivava nell'androne
di un palazzo.
Giacomo, da buon napoletano, possedeva un'ottima
mimica e riuscì a farsi dare le indicazioni giuste al punto
che, arrivato nell'androne, si diresse spedito verso la porta
dell'impresario austriaco.
Andò l'impresario stesso ad aprirgli la porta e,
quando gli chiese “Was willst du?” (cosa desideri?), per
tutta risposta il ragazzo gli porse la lettera. L'uomo lesse il
nome del mittente ed entrò in casa seguito a distanza da
Giacomo. L'austriaco era un uomo di circa sessant'anni,
alto un metro e ottanta, corpulento, con un colorito
epidermico eccessivamente roseo. La pelle era molto
porosa e presentava le macchie della vecchiaia. Aveva una
mascella squadrata e un naso lungo e dritto che, su quel
viso rubicondo, sembrava una mezza piramide sulla sabbia.
Non lo aspettava ma, quando lesse la lettera
d'accompagnamento, il suo sguardo severo s'aprì in un
sorriso compiaciuto. Disse, in un perfetto italiano.
- Ah! Bene bene. Proprio stamattina mi hanno fatto
una richiesta per un gruppo di musica da camera e stavo
per scegliere gli elementi dell'orchestra -
- Voi siete italiano? - chiese Giacomo, che non
s'aspettava questa facilità di comunicazione. Durante il
viaggio, aveva studiato quante più parole potesse imparare
della lingua austriaca.
- No, ragazzo, sono Viennese ma, come saprai, la
musica parla in italiano e, chi lavora nel mondo dell'arte, è
tenuto a conoscere questa lingua … tu, piuttosto, non sei
troppo giovane perché il maestro Marinelli ti abbia spedito
qui? Sicuro di essere un buon contrabassista? Guarda che
qui non è mica facile … -
- Lo sono, signore. Sono un buon contrabassista,
così mi dicono ... -.
- Ah si? Vedremo … quando posso ascoltarti? -
- Anche subito. Ho lo strumento nella locanda dove
ho preso in affitto una stanza -
- E dov'è questa locanda? -
- Si tratta della Hans Gasthaus -
- Conosco il posto. Bene! Va lì. Ti raggiungo tra
circa un'ora -
Giacomo andò via di corsa. Voleva avere il tempo di
scaldare la mano per fare la più bella figura possibile. Fece
scale, arpeggi, ripassò i brani più difficili che aveva in
repertorio. Non s'accorse che erano passate quasi tre ore
finché non sentì d'avere fame. “Ecco!” pensò “Non verrà!
E cosa farò adesso io in una città dove non conosco
nessuno e nessuno mi conosce? E parlano pure un'altra
lingua … ”. Posò il contrabasso in un angolo della stanza e
s'affacciò alla finestra. Proprio in quell'istante vide apparire
Herr Brunner da dietro l'angolo della via. Accanto a lui
c'era un tipo molto singolare.
Era leggermente più basso di Giacomo. Indossava
una livrea celeste che sarebbe stata elegante se non fosse
stata tutta sgualcita. Aveva le calze bianche tutte sporche di
fango al punto che non si capiva dove finissero le calze e
cominciassero le scarpe. Aveva i capelli color ruggine e la
fronte eccessivamente prominente. Camminava lentamente
come chi ha i postumi di una malattia, o di una sbornia.
“Certo che frequenta proprio dei brutti personaggi questo
Brunner” pensò. Si allontanò dalla finestra e si sedette sul
letto aspettando che bussassero alla porta.
Impiegarono molto tempo per arrivare davanti alla
sua porta e bussare. Lui li aveva sentiti parlare come se
stessero litigando ma non poteva giurarci sul litigio perché
non conosceva bene la lingua austriaca.
Aprì la porta mentre i due continuavano a
battibeccare. Era Herr Brunner il più animoso dei due.
L'uomo sgualcito, che aveva in mano un boccale di birra
che doveva aver preso nella taverna della locanda, fece un
cenno all'omone per indicare che la porta s'era aperta e, per
chiudere ogni discorso, si lanciò con la mano tesa verso
Giacomo.
- Piacere, Wolfgang! - Parlava un italiano perfetto.
- Piacere, Giacomo Fio … Wolfgang? Per caso
Wolfgang Amadeus Mozart, il genio? -
- Magari! - fece lui. Gustav Brunner intervenne:
- Non dargli retta, ragazzo, è proprio lui -
Giacomo era perplesso. La sua idea di “genio” era
un uomo enorme, eroico, vestito sontuosamente e con
l'alterigia che solitamente contraddistingue i grandi
personaggi. Quello che aveva d'avanti era un ometto liso
nel vestire e nei modi, con un'evidente passione per il bere.
Mentre fantasticava su questo pensiero, Herr
Brunner disse:
- Beh? Abbiamo fretta. Facci sentire se sei davvero
bravo come ha detto il maestro Marinelli -.
Giacomo afferrò il contrabasso. Non era impaurito
da Mozart. Pensava che Brigida Banti avesse esagerato nel
giudizio e che un uomo, così dismesso, non poteva fargli
paura dopo aver sostenuto il provino con i grossi
parrucconi del San Carlo. Questa mancanza di soggezione
giocò in suo favore. Con spavalderia attaccò subito con
una tarantella e, quando finì di eseguirla, senza che glielo
chiedessero, suonò immediatamente “Fenesta vascia”.
Quando terminò l'esibizione, Wolfgang tirò da sotto
la livrea un foglio di musica tutto sgualcito. Prese la penna
d'oca e una boccetta con l'inchiostro dal piccolo scrittoio
nella camera di Giacomo, si stese sul pavimento e si mise a
scrivere.
- Cosa … ? - provò a chiedere Giacomo.
- Shhh! - lo zittì Brunner.
Dopo un minuto, Mozart si rialzò e gli tese il foglio.
- Cos'è? - chiese Giacomo.
- Mi piace quell'elegia che hai suonato e, visto che
sei bravo a suonare le tarantelle, ho scritto una variazione
di quell'elegia in forma di tarantella -
− Così? Su due piedi? -
− Beh! Vista la posizione in cui ho scritto, direi “Così,
su due palle” Ah! Ah! Ah! - e scoppiò in una risata
cristallina.
Anche Giacomo e Gustav Brunner furono contagiati
dall'ilarità del genio.
Lui, improvvisamente, smise di ridere e, con molta
serietà, disse:
- Allora? Andiamo a mangiare? Vieni con noi,
ragazzo. Offre Brunner … Ah! Ah! Ah! -
Quel giorno, Giacomo Fiorenza lo ricordò per tutta
la vita.
Conobbe in Mozart un individuo straordinario,
dotato di un'energia non comune. Era come una fiamma
alta in un caminetto, emanava spontaneamente luce e
calore ma, essendo cresciuto in un paese caldo, Giacomo
non poteva sapere che più alta era la fiamma, più bruciava
in fretta.
Wolfgang era di carattere allegro, molto curioso, lo
tempestò di domande. Dopo pranzo, seduti al tavolino di
un'elegante osteria del centro cittadino, mentre Brunner
sonnecchiava con la testa appoggiata sul tavolo, davanti
all'ennesima birra, gli chiese:
- Sei italiano a quanto vedo ma di dove sei, di
preciso, Lombardo? Piemontese? Vieni da qualche
signoria? -
- Borbonico. Vengo da Napoli -
- Ah, Napoli, che delusione è stata per me Napoli –
fece lui, tra sé e sé -
- Delusione? E perché? -
- Sai, Giacomino, ho girato tutta l'Europa. Ho
visitato spesso l'Italia ma Napoli … ah, Napoli … -
- Non capisco … – fece lui - … cos'ha Napoli di
tanto brutto da essere così deludente? -
- Brutto? No! Napoli è bellissima … è il centro del
mondo -
- Ma, … allora … ? -
- Guarda, non è semplice ma … sai … fin da
bambino sono stato sempre trattato da “fenomeno”, un po'
da tutti ma … -
Intanto, buttò giù un'altra lunga sorsata di birra
fredda, ne ordinò un'altra e continuò.
- Ecco … a Napoli non mi è andata così bene. Non
fui accolto come credevo. Mio padre stesso mi sgridò
attraverso una lettera che mi spedì poco tempo dopo che
ero stato in quella città. Mi redarguì dicendomi che avevo
commesso un grosso errore nell'andare a Napoli con la
presunzione che m'avrebbero spalancato le porte di teatri e
palazzi. Napoli è il centro del mondo. Il posto con la più
alta concentrazione di conservatori, teatri e … artisti. Mio
padre mi scrisse che sarei dovuto andare a Parigi, Roma o
in qualunque altra parte dell'Europa o dell'Italia dove non
c'è tanta concentrazione di talenti e di bellezza ma …
lasciamo perdere -.
- Mi spiace, maestro -. Disse Giacomo, che provava
simpatia per lo stravagante artista.
- Non dispiacertene. Ho avuto tante soddisfazioni
durante questa mia vita che non posso essere proprio io a
lamentarmi … piuttosto, sappi che, comunque, grazie alla
forte superstizione dei napoletani, mi sono anche divertito
… e non poco -.
- Ditemi … - A Giacomo piacevano gli aneddoti.
- Suonai in una sala da concerti. Eseguii alcune mie
composizioni alla tastiera e, mentre suonavo, m'accorsi che
tutto il pubblico fissava la mia mano destra. Lo vedi
quest'anello? -
- Bello! -
- A Napoli e ai napoletani, anche se non fui
apprezzato come speravo, non sfuggì il mio talento e,
mentre suonavo una mia composizione che, per quella
specifica occasione, io riempii di variazioni ed
improvvisazioni, si sollevò un mormorio dall'auditorio al
punto che mi dovetti fermare -
- La ragione? -
- Qualcuno s'era convinto che la mia bravura
dipendesse da chissà quali poteri magici di quest'anello …
assurdo, non ti pare?-
- Ah ah ah … ebbene? -
- Ebbene … mi tolsi l'anello con gesto plateale e lo
poggiai sul pianoforte. Solo in quel momento, scatenai
tutta la mia inventiva e il mio talento lasciandoli tutti di
sasso -
- Grande! Avrei voluto esserci -
- È stato tanto tempo fa e tu sei molto giovane, non
credo che a quei tempi … a proposito! Quanti anni hai? -
- Quattordici, maestro -
- Quattordici? Accidenti! Sei un ragazzino! … però
suoni come un uomo … dimmi … hai già fatto sesso? -
- Sissignore! -
- Ottimo! Vediamoci stasera alle sei. Vengo a
prenderti e ti porto in un posto molto divertente. Vengo in
carrozza. Tu porta il contrabbasso … Gustav! Paga tu il
conto -
Si alzò, salutò e andò via.
CAPITOLO IX
Fine di un sogno
Vienna 1 luglio 1791
Quella sera andarono in un casino nella zona più
malfamata della città.
Un edificio buio e puzzolente ma, all'interno, nel
grosso salone d'ingresso, c'era un ottimo clavicembalo.
Giacomo era piuttosto imbarazzato nel muoversi
con l'ingombrante fardello del proprio strumento ma,
affacciandosi all'ingresso, s'accorse che nessuno avrebbe
fatto caso a lui, vista la quantità di ragazze che giravano
nude per l'ambiente.
Entrarono e Mozart disse alla tenutaria:
- Guter Abend madame, … - e le sussurrò qualcosa
all'orecchio a cui lei, con un ghigno, rispose. Poi,
rivolgendosi a Giacomo, con un sorriso, Wolfgang disse -
… bene! Ha detto di si! -
- A cosa? A cos'ha detto di si? -
- Ha detto che, se suoniamo per mezz'ora e
facciamo divertire i clienti e le ragazze, dopo, possiamo
scegliere quella che più ci piace e portarcela su, in una
camera -
Suonarono.
Mozart eseguiva tutti brani che Giacomo non aveva
mai sentito prima di allora. Evidentemente erano sue
composizioni.
Il genio austriaco non aveva portato con sé alcun
tipo di spartito. Pretendeva che il giovane contrabassista
napoletano eseguisse “a orecchio” quei brani a lui
sconosciuti.
Giacomo suonò. Suonò tutto o quasi.
In quella performance mise a frutto l'esperienza che
aveva acquisito, fin da piccolo, seguendo il padre nelle sue
esibizioni di musica da strada più che gli studi accademici
fatti col maestro Buonomo ma, anziché bearsi della
dimostrazione del proprio talento, era incantato dalla
concretezza musicale delle composizioni del maestro
Mozart.
Era una musica … come dire … logica! Il
susseguirsi dei temi musicali era quanto di più spontaneo e
cantabile avesse mai sentito.
Fino a quel tempo, tutti i compositori che aveva
sentito suonare si rifacevano allo stile aulico, praticamente
al barocco.
Lo stile musicale di Mozart era più paragonabile
alla musica popolare che al contrappunto antico. C'era la
melodia e c'erano gli accordi … niente di più spontaneo.
Si capiva che, lo stesso Mozart, scriveva le proprie
composizioni affidandosi all'orecchio anziché alle regole
accademiche.
Era qualcosa di totalmente nuovo. Ora Giacomino,
finalmente, capiva di trovarsi alla presenza di un
caposcuola, un artista che avrebbe cambiato, per sempre, il
rapporto tra i compositori e il pubblico perché la musica di
quell'artista poteva essere capita e apprezzata anche dalle
prostitute e dai loro clienti.
Mentre si lasciava trasportare da quei suoni, Mozart
interruppe un brano a metà, salì sulla sedia posta davanti al
clavicembalo e disse:
- Signore e signori, questo giovanotto che suona un
violino rubato ad un gigante, ora vi eseguirà un brano della
sua terra, Napoli -.
Tutti lo guardarono sbigottiti. Non avevano capito
una sola parola di quanto aveva detto Wolfgang perché
aveva parlato in italiano. Chiese a Giacomo:
- Perché mi guardano così? -
- Maestro … - fece Giacomo - … ma qui, tutti
parlano in italiano? -
- Italiano? Ah! Si, è vero! scusa … meine Damen
und Herren … - e ripeté la presentazione in tedesco poi,
rivolgendosi al ragazzo, disse:
- Suona quell'elegia che mi hai fatto sentire
stamattina! -
− - Ma, maestro, ve la ricordate? L'avete sentita solo
una volta … -
- Certo che me la ricordo … mah! Vuoi vedere che,
allora, sono proprio un genio? Tu che ne dici? … eh! eh!
eh! Suona, va tranquillo e … visto che ci sei, suona pure la
variazione che ti ho scritto in forma di tarantella -.
Il maestro accompagnò Giacomo nel suo assolo e
improvvisò un contrappunto sul tema di “Fenesta vascia”.
Giacomo la suonò come non l'aveva mai suonata
prima di allora ma, lo sapeva, il merito era di Mozart.
Giacomo l'aveva sentita cantare e accompagnare
dalle chitarre un milione di volte ma mai avrebbe potuto
immaginare l'armonia e i bassi che poteva contenere quella
semplice melodia.
Per lui fu come scoprirla per la prima volta.
Alla fine dell'esibizione, vi fu quasi un minuto di
applausi e di urla di gioia.
La stessa tenutaria del bordello dovette essere
rimasta molto colpita dai due al punto che, con un
entusiasmo difficile da trovare in un simile individuo, disse
qualcosa in tedesco a Wolfgang e Giacomo.
Mozart scoppiò a ridere e batté le mani.
Giacomino si precipitò a chiedere:
− Cos'ha detto? - e Mozart, con un sorriso, rispose.
− Ha detto che siamo stati così bravi che ci offre
due delle sue più capaci ragazze … a testa -
− Due? -
− Beh! Se proprio non ce la fai con due, passane
una a me -
− Io … no! Ce la faccio, ce la faccio … -
Giacomino passò una notte indimenticabile con due
professioniste del sesso.
Non immaginava di poter provare simili sensazioni.
Certo! Con la signora Banti c'era stato qualcosa di
diverso. Fosse stato anche solo perché si trattava della sua
“Iniziazione” ma l'esperienza di quelle due ragazze che
avevano pochi anni più di lui gli insegnarono quanti modi
esistevano per godere la sessualità.
Il fatto stesso di non parlare la medesima lingua, gli
evitava tutta una serie di imbarazzanti bugie.
Silenzio e copula!
All'una di notte, Mozart lo riaccompagnò alla Hans
Gasthaus e, dopo di allora, Giacomo Fiorenza rivide il
maestro solo dalla postazione di orchestrale il giorno in cui
il genio si esibì nella direzione di un proprio concerto per
clarinetto e orchestra il 7 di ottobre. Un concerto che, poi,
sarà catalogato con la sigla “K 622”.
Aveva fatto due giorni di prove con l'orchestra e il
clarinettista ma, in quei due giorni, Mozart non si presentò
mai alle prove. Il maestro sostituto era un allievo di
Mozart, un tale Franz Sussmayr, un individuo che a
Giacomo non piacque affatto.
La sera stessa del concerto, Mozart era in ritardo.
L'orchestra evitava di salire sul palco per non far
notare ancor di più l'assenza del maestro.
Mentre attendeva nella stanza dov'erano stipati gli
orchestrali e un disperato Gustav Brunner copriva tutta la
stanza a grandi passi, Giacomo si affacciò dalla porticina
per vedere quanta gente vi fosse in sala e vide, in fondo
alla sala, un tipo piuttosto inquietante e comico nel
contempo.
− Herr Brunner! - chiamò. Lui corse da Giacomo
immediatamente.
− È arrivato? - chiese con ansia.
− Non ancora … mi spiace -
− Allora perché mi hai chiamato? -
− Chiedo scusa. Volevo distrarvi un attimo …
altrimenti impazzirete nell'attesa del maestro –
Brunner cominciò a parlare da solo.
− Questa è l'ultima … gliela faccio pagare … con
me ha chiuso … genio o non genio … non si fa
così … - poi, vedendo che il ragazzo attendeva
che lui si calmasse così da dirgli il motivo per
cui l'aveva chiamato accanto alla porticina
laterale, gli chiese - … cosa volevi dirmi? -
− Sapreste dirmi chi è quel giovane che sembra
una scimmia vestita in modo elegante? -
− Dove? -
− Laggiù … guardate … - e gli indicò un punto in
ombra in fondo alla sala.
− Ah, ah, ah, … ragazzo, ma come ti vengono
queste battute? È proprio vero, allora, che voi
napoletani avete … beh! Comunque, … quello lì
è un ragazzo che sto tenendo d'occhio. Me
l'hanno indicato come il futuro della musica di
Mozart -
− Futuro? Una musica più moderna di questa? -
Giacomo era basito.
− Certo! Mozart ha aperto nuovi orizzonti nella
musica … ora qualcuno dovrà vedere cosa c'è
oltre l'orizzonte e … questo ragazzo ha … come
dire? … ha i mezzi per arrivarci e andare oltre.
Alcuni anni fa, questo giovanotto venne per
prendere lezioni da Wolfgang ma non vi riuscì
per problemi famigliari. Ora che è più maturo,
voglio coltivarlo un po' prima di presentarlo al
maestro. Voglio conoscere le sue idee … e poi
… Mozart, in questo periodo … un po' mi
preoccupa … non è più lui … non so ... -.
Giacomo, che oramai venerava Mozart, di fronte
a queste parole, inorridì come chi avesse sentito
bestemmiare in chiesa. Non poteva immaginare
un altro artista che non fosse il suo amico e
idolo Wolfgang. Comunque, con un moto di
disgusto, chiese:
− E come si chiamerebbe questa specie di scimmia
ammaestrata? -
− Lui viene da Bonn, al nord, e si chiama Ludwig
… si! Ludwig van Beethoven Ah! Ecco Mozart
… forza! Andate a posizionarvi sul palco -. E,
con una manata, spinse Giacomo verso il palco,
subito seguito dagli altri orchestrali.
Mozart era visibilmente ubriaco eppure, rispetto alla
direzione canonica di Sussmayr, egli diresse a mani nude,
senza bacchetta di direzione ma con l'eleganza di chi, quel
brano, l'aveva partorito dalla propria mente. Sembrava che
stesse ballando accarezzando l'aria.
Lui, da orchestrale, sentiva che ogni colore, ogni
“rubato”, ogni “rallentando”, ogni dinamica aveva un
senso logico.
Ogni qual volta toccava a lui suonare, Mozart gli
strizzava l'occhio e gli sorrideva mezza battuta prima.
La serata finì con grandi applausi per il maestro e il
solista ma, mentre s'inchinava, Wolfgang crollò a terra.
Brunner si precipitò a soccorrerlo e s'accorse che il
maestro s'era addormentato.
Tranquillizzò tutti dicendo che il maestro aveva
perso i sensi perché, in quegli ultimi giorni, stava
riposando poco per un'opera enorme che gli era stata
commissionata e che, con un po' di riposo, sarebbe tornato
in forma.
Nessuno immaginava che quella sarebbe stata
l'ultima uscita pubblica del genio.
Nei giorni successivi, Herr Brunner diede molto
lavoro a Giacomo … certo! Non si trattava di suonare in
sale da concerto con un genio della musica. Spesso lo
chiamava per piccole feste e con maestri di spessore molto
infimo ma Giacomo giustificava la cosa pensando che,
dopo Mozart, era normale che tutti gli altri musicisti gli
sembrassero peggiori … e poi … in fondo, la paga era
buona.
Stava imparando il tedesco e pensava che,
probabilmente, sarebbe rimasto a Vienna per sempre …
… ma venne il 6 di dicembre del 1991.
Era quasi ora di pranzo, erano due giorni che
Giacomo non incontrava Gustav Brunner che, essendo un
uomo solitario tutto dedito al lavoro, apprezzava l'idea di
pranzare, di tanto in tanto, col giovane napoletano. Tra di
loro s'era creata una sincera amicizia.
Giacomo bussò e, quando vide il viso sconvolto e
rigato di lacrime di Herr Brunner, gli prese un colpo.
− Che cosa è successo Herr Gustav? - L'uomo,
evidentemente, aveva smesso da poco di
singhiozzare perché non riusciva a parlare. Di
fronte al viso spaventato di Giacomo, aprì la
bocca ma, anziché parlare, riprese a piangere.
Giacomo lo prese per un braccio e lo condusse a
sedersi al tavolo. Gli versò un bicchiere di vino dalla
bottiglia mezza vuota che era sul mobile e aspettò che i
suoi singhiozzi si calmassero.
Non sapeva che, di lì a poco, sarebbe toccato
all'amico Gustav di confortarlo. Infatti, appena ebbe fiato
per pronunziare almeno quattro parole, le sue quattro
parole furono:
− Ieri, Mozart è morto! -.
CAPITOLO X
Salieri
Vienna 6 dicembre 1791
Quella mattina stessa c'erano stati i funerali.
Brunner era arrivato al camposanto che la vedova,
appoggiata al braccio di Franz Sussmayr, stava già facendo
ritorno. Lasciò dei soldi alla signora Mozart quando seppe
che il genio era stato sotterrato in una fossa comune.
Non immaginava che, malgrado la quantità di lavori
scritti, Wolfgang navigava in cattive acque, schiacciato dai
debiti.
Si rammaricava di non averlo potuto nemmeno
omaggiare con un ultimo saluto.
Rammarico, dolore e rabbia furono gli stessi
sentimenti che esplosero in Giacomo al racconto
dell'amico. Anch'egli cominciò a piangere e fu la volta di
Gustav a fare da consolatore.
Aprirono, per alleviare il senso di vuoto, altre tre
bottiglie di vino e ogni brindisi lo dedicarono al “genio”.
Si svegliarono all'imbrunire. Erano entrambi stesi
sul pavimento. Il dolore non era sparito anzi, ora era
coadiuvato da un fortissimo mal di testa post-sbornia.
Nei giorni successivi, Giacomo non mise il naso
fuori dall'albergo. Fu Herr Brunner che, il 10 di dicembre,
andò a bussare alla sua porta.
Quando si videro, s'abbracciarono e solo per pudore
virile non si misero a piangere entrambi, anche se
l'avrebbero fatto volentieri.
Quando passò l'emozione, Gustav disse:
− Prepara lo strumento. Stasera noi abbiamo un
concerto ma … sappi che non è pagato –
Giacomo impiegò qualche secondo a capire la
fine della frase. Poi, rispose:
− Non è pagato? E chi è questo spilorcio? -
− Io – fece Gustav.
− Voi? … ah! … va bene, se si tratta di fare un
piacere a voi, io … -
− Ti assicuro, caro amico, che sarai felice di
suonare stasera. Si tratta di un concerto privato.
C'è un coro e una bella orchestra ma suoneremo
in un capannone alla periferia di Vienna … solo
per noi … e per Wolfgang -.
− Wolfgang? Come sarebbe a dire … ? -
− Si tratta di suonare l'ultimo capolavoro del
genio, un “Requiem”. L'ha creato sul letto di
morte e l'ha dettato ad un suo caro amico. Un
maestro molto generoso, è un italiano. Antonio
Salieri -.
Quella sera, l'atmosfera era silenziosa. I musicisti e i
coristi presero posto senza fare i soliti schiamazzi tipici
degli orchestrali.
Salì sul podio Antonio Salieri, un uomo magro e
austero che, in altre occasioni avrebbe incusso molta
soggezione. Ora era curvo, piegato dal dolore della perdita.
Non disse nulla. Aspettò che i musicisti gli
rivolgessero la giusta attenzione e partì.
L'attenzione di tutti era totale.
Mentre eseguiva le ultime note che il genio aveva
composto con quel Requiem, molti pensieri invasero
l'anima di Giacomo Fiorenza.
Innanzitutto, faticava a leggere. Non perché la
grafia, che non era di Wolfgang, fosse poco chiara, anzi! Il
fatto era che … suonava e piangeva. Più volte cercò di
cacciare indietro le lacrime ma, quando guardò il viso di
colui che aveva scritto, sotto dettatura di Mozart, quegli
spartiti e lo vide solcato dalle lacrime, non riuscì più a
trattenere l'emozione.
La seconda cosa che gli rendeva faticoso il suonare
fu quando s'accorse di quanto fosse ispirata quella
creazione. Era consapevole che stava eseguendo una
composizione come mai ve n'erano state prima di allora.
Infine, di conseguenza, fu proprio mentre suonava
quel requiem che s'accorse d'aver preso la decisione di
lasciare Vienna.
Non avrebbe mai più voluto suonare in quella città
ora che il più grande di tutti era morto.
Quando finirono di suonare, i musicisti rimasero
fermi con i loro strumenti in mano. I coristi avevano gli
occhi fissi sugli spartiti. Qualcuno si soffiò il naso per
nascondere le lacrime. Salieri prese la parola:
− Gentili maestri, vi ringrazio di cuore per aver
omaggiato col vostro talento il più grande
musicista di tutti i tempi. Lo conoscevo da anni.
Lui, col suo genio, m'ha mostrato la mia
pochezza. L'ho amato e l'ho odiato ma ora darei
la mia vita per avere la gioia di sentire ancora
una volta un suo nuovo capolavoro. Ho tirato su
tanti giovani talenti e lo farò ancora finché Dio
me ne darà la forza. Lui non ha mai avuto
bisogno dei miei insegnamenti … piuttosto,
sono io che ho imparato tanto da lui. Mozart è
morto. Lunga vita a Mozart! -
− Lunga vita a Mozart – fecero tutti in coro.
Il giorno seguente, Giacomo lasciò Vienna.
Salutò Herr Gustav Brunner ringraziandolo di tutto
quanto aveva fatto per lui.
Rimasero con l'accordo che si sarebbero scritti
spesso, cosa che fecero puntualmente.
CAPITOLO XI
Albano Laziale (Roma) 26 aprile 1866
− Sapete, Giacomo, stanotte ho faticato molto a
prendere sonno e, quando finalmente ci sono
riuscito, ho avuto sonni agitati -
− Come mai, maestro? -
− Vi prego, chiamatemi Franz … altrimenti mi
offendo -
− Va bene, Franz … allora? Cosa vi ha turbato? -
− Il vostro racconto su Mozart. Voi lo avete visto
negli ultimi giorni della sua vita, vi stimava, ha
condiviso con voi momenti di intimità musicale.
Quasi quasi vi invidio … e farò ammenda -.
− Vi prego, Franz, non dite così. Io ho avuto molto
piacere nel condividere con voi questa storia -
− E ve ne ringrazio molto … a proposito di storia
… cosa successe quando poi faceste ritorno a
Napoli? Tornaste al San Carlo? -
− Non subito. Avevo timore di presentarmi lì e
chiedere lavoro ma non me ne stetti con le mani
in mano: trovai lavoro al teatro dei Fiorentini,
poco distante dal San Carlo, e lì ebbi modo di
fare la conoscenza di Giovanni Paisiello – Liszt
sobbalzò.
− Quello di “Nel cor più non mi sento”? -
− Si, mio caro Franz. Quello di “Nel cor più non
mi sento” e di tante altre belle composizioni.
Con lui ebbi modo di scoprire il potere della
sfogliatella frolla -
− Non capisco … la sfoglia … - Giacomo gli corse
in aiuto.
− La sfogliatella! Un dolce tipico napoletano
inventato in una bottega di via Toledo, una via
che ora vogliono chiamare “via Roma” … che
vergogna! … comunque … è un dolce morbido
fatto con farina e ricotta contenuti in una crosta
dura -
− Dev'essere deliziosa questa sfogliatella -
− Lo è! -
Rimasero in silenzio per qualche istante poi Liszt
chiese a Giacomo.
− E … qual'è stato il suo potere? Il potere della
sfogliatella di cui mi stavate dicendo … -
− Ora ve lo racconto … -
CAPITOLO XII
Paisiello
Napoli 20 gennaio 1792
Il ritorno a Napoli fu più lento del viaggio d'andata
a Vienna. Era inverno e c'erano da attraversare le Alpi.
Malgrado le difficoltà, quella sera Giacomino bussò alla
porta di casa.
Passò del tempo prima che i suoi servigi fossero
nuovamente nuovamente richiesti dal teatro San Carlo ma,
in fondo, il San Carlo non era l'unico teatro di Napoli.
Napoli, una città con una vita artistica così densa,
aveva molti teatri … certo! Non tutti i teatri erano adatti al
grande allestimento operistico ma una buca per l'orchestra,
fosse anche un piccolo organico, ce l'avevano tutti.
Fu così che, lunedì 20 febbraio 1792, Giacomo
Fiorenza fu ingaggiato dal teatro dei Fiorentini, in una
strada poco distante da casa sua. Quello stesso giorno
cominciò le prove con un musicista che aveva già sentito
nominare. Un compositore che aveva eseguito le proprie
opere in tutta Europa.
Il compositore era Giovanni Paisiello e l'opera, che
non era tanto una vera opera quanto una commedia
giocosa, era “La locanda o sia il fanatico in Berlina” che
sarebbe andato in scena il martedì grasso, in chiusura del
carnevale ossia il 28 febbraio.
Quell'anno era bisestile e, anche se un antico
proverbio recitava “Anno bisesto, anno funesto” l'arte a
Napoli non conosceva periodi di sospensione della propria
espressione … per nessun motivo. Tantomeno si faceva
fermare dalla quaresima.
Infatti, l'opera sarebbe andata in scena fino al
giovedì santo, il 5 di aprile in barba all'antica tradizione
veneziana, di due secoli prima, che prevedeva la chiusura
di tutti i teatri per tutto il periodo di quaresima.
Giovanni Paisiello era un uomo che da poco aveva
passato i cinquant'anni e che, malgrado l'imbolsimento
dovuto all'età, conservava nello sguardo quel languore
giovanile che riusciva a far dimenticare la sua effettiva
anzianità.
Il teatro non aveva una buca enorme per cui,
Giacomo era il solo ed unico contrabassista dell'organico
strumentale.
Evitò noie. Tenne un basso profilo e, soprattutto,
evitò rapporti con le cantanti del cast.
In orchestra, scoprì che Paisiello era l'autore di “Nel
cor più non mi sento” una bellissima aria che era stata
scritta per l'opera “Nina pazza per amore” un capolavoro
teatrale di qualche anno prima.
Il senso melodico dell'anziano compositore gli
ricordava un po' l'amico Wolfgang sebbene lo stile
compositivo di Paisiello fosse più sobrio e scevro da
eccessivi fronzoli. Tanto, ci pensavano i cantanti a variare
le melodie originali coi loro melismi (fioriture) vocali.
Ogni compositore odia sentire profanate le opere
partorite dalla propria mente e Giovanni Paisiello non era
esente dal mostrare il proprio disgusto per questa malsana
abitudine dei cantanti di alterare l'idea originaria.
Egli faceva buffe smorfie con la bocca ad ogni
iniziativa personale dei cantanti.
A Giacomo, spesso scappava da ridere guardando
l'espressione del viso del maestro ogni qual volta un
cantante, o una cantante, si prendeva la libertà arbitraria di
trasformare la melodia originale in un'occasione per fare
sfoggio della propria tecnica e della propria estensione
vocale. Una sera, lo stesso Paisiello, notò l'ilarità del
giovane. Fu l'unica volta che il volto angelico del
compositore divenne una maschera di rabbia.
Giacomo rimase mortificato dal duro sguardo di
rimprovero di Giovanni Paisiello.
La notte, tornando a casa, Giacomo incrociò il padre
che, a sua volta, si stava ritirando. Il papà notò subito il
turbamento sul viso del ragazzo e gliene chiese il motivo.
Giacomino raccontò a Nino il bello cosa fosse accaduto tra
lui e il maestro, in buca, durante la replica di quella sera.
− Giacomi', bello de papà, tu stai diventando un
uomo e come uomo ti devi comportare -.
− Cosa mi consigliate, papà? -
− Domani, prima dello spettacolo, passa per una
pasticceria e compra qualche sfogliata per il
maestro … poi, bussa al suo camerino e donagli
il presente porgendogli le tue sentite scuse per
l'atteggiamento poco dignitoso durante la
replica. Vedrai che, se è una brava persona,
considererà chiuso l'incidente -.
L'indomani, Giacomo Fiorenza diede ascolto al
consiglio del padre e, mezz'ora prima dello spettacolo,
bussò al camerino del maestro con un vassoio di
sfogliatelle tra le mani.
− Avanti! - fece lui.
− Maestro, maestro Paisiello … -
− Chi è? Ah! sei tu? Il contrabassista, vero? E cosa
vuoi? - chiese distrattamente.
− Maestro, v'ho portato un piccolo pensiero per
chiedere scusa per il mio comportamento
maleducato di ieri – Paisiello lo guardò un
attimo senza capire di cosa stesse parlando il
ragazzo poi, ricordò. A quel punto, doveva far
valere quelle scuse e, dandogli le spalle, disse:
− Sei stato un vero maleducato, ragazzo e, se pensi
che un vassoio di … di … - mosso da curiosità
si girò nuovamente verso di lui - … a proposito,
cosa hai in quel vassoio? -
− Sono sfogliatelle frolle, una stupenda invenzione
di Pintauro, un pasticciere di via Toledo –
rispose, prontamente Giacomino, aprendo la
confezione e mostrandogli il contenuto. Il
maestro stava sostituendo in maniera repentina
l'espressione imbronciata con un'espressione di
comica golosità ma non aveva intenzione di
fargliela passar liscia troppo facilmente.
− Bene … ehm! Assaggerò questi dolci … per
pura curiosità … poi, deciderò cosa dovrò farne
di te -.
Paisiello ne mangiò tre di seguito e, alla fine
dell'”assaggino”, col viso imbrattato di zucchero a velo,
disse:
− Ragazzo … perché ti stavi prendendo gioco di
me, ieri? -
− Maestro, non mi prendevo gioco di voi, lo giuro
… io, ridevo perché … ecco … voi fate delle
buffe espressioni quando i cantanti vi cambiano
la melodia … -
− Ah, te ne sei accorto? E lo credo bene che faccio
espressioni di disgusto! … quei cani … pur di
riuscire a strappare un applauso, canterebbero
col culo di fuori … -
− Non fatemici pensare! Immaginate il Liparini, la
Tomiati o la Ragazzoni col culo di fuori … che
orrendo spettacolo -.
− Il Liparini col … ah ah ah … hai ragione …
davvero orrendo … vabbé! Fa cosi! Lascia qui il
resto del vassoio e considereremo chiuso
l'incidente -.
… e fu così che, da quel giorno in poi, tutte le sere
Giacomino portava un vassoio di sfogliatelle frolle al
maestro Paisiello ed egli gli strizzava l'occhio durante le
repliche ogni qual volta un cantante, o una cantante,
alterava le melodie originali per il proprio tornaconto.
Finì la quaresima, passò la Pasqua e Giacomo
Fiorenza era di nuovo disoccupato. Non aveva il coraggio
di ripresentarsi al San Carlo ma, oramai, era abituato a
lavorare e a guadagnare per cui, pur di non stare fermo,
decise di esibirsi col padre Gaetano facendo la “posteggia”
(il musicista ambulante) nei vari ristoranti e pizzerie
intorno alla zona del porto.
Nino il bello, papà Gaetano, ne fu molto contento
perché, seppure dovessero dividere le mance tra loro due,
grazie al talento del figlio, le mance raddoppiavano.
Inoltre, abitando sotto lo stesso tetto, i soldi entravano
nella stessa casa.
CAPITOLO XIII
Ritorno al San Carlo
Napoli 16 aprile del 1793.
Giacomo compiva 16 anni.
Era molto cambiato. Aveva una peluria diffusa sul
volto e, la sua abitudine a suonare all'aria aperta, gli aveva
conferito un incarnato molto più colorito.
Un altro vantaggio che aveva ricavato dal suonare
in posti dove la risonanza non veniva trattenuta e ampliata
in un ambiente sonoro consono ma, invece, veniva
dispersa nel vento, fu quello di aver notevolmente
aumentato il volume di suono.
Fu così che, quel 16 aprile, mentre suonava le prime
note della propria esibizione in una pizzeria di via Santa
Lucia, dal tavolo nell'angolo, un uomo che era seduto
dandogli le spalle s'alzò di scatto e si voltò basito.
− Giacomino? Giacomino Fiorenza? Accidenti,
quanto sei cresciuto!-
Era Gaetano Marinelli.
− Maestro! Che immensa gioia vedervi – Il volto
del maestro, subito, si rabbuiò.
− Ma, insomma! Sei a Napoli e non me lo hai fatto
sapere? Ma che modi sono questi. Se non avessi
riconosciuto quel tuo meraviglioso suono,
nemmeno mi sarei girato … -
− Scusate, maestro, nemmeno sapevo che eravate
a Napoli -
− Ma che accidenti dici? È tappezzata di manifesti
la tua città … -
− Io … io … - Allora, intervenne Nino il bello,
che stava suonando col figlio.
− Figliolo, poche storie, il maestro ha ragione …
scusati con lui – Solo in quel momento, il
compositore, notò l'uomo che era con Giacomo.
− Voi dovete essere il padre, mi sbaglio? -
− Non sbagliate, maestro, Gaetano Fiorenza, per
servirvi! -
− Ah, abbiamo anche lo stesso nome! -
− Un nome importante … credo … credo che sia
originario di Gaeta, bel posto … - fece Nino il
bello.
− Ci siete stato? -
− Io, … no … ma … - Per la prima volta, il figlio
vide che il padre, tanto abile con le parole, era in
evidente imbarazzo. Il maestro, allora, tolse
dall'imbarazzo il papà del suo contrabassista
preferito.
− Se è per questo, nemmeno io ci sono stato ma,
effettivamente, mi hanno detto che è molto bella
… allora, caro don Gaetano … -
− Prego, maestro, chiamatemi pure Nino e
levatemi il “don”. Non sono una campana … eh
eh eh -
− Giusto! Sentite, Nino, vi dispiace se rapisco
vostro figlio per una mezz'ora, ho bisogno di
parlargli … -
− Ma ci mancherebbe, maestro. Giacomi', a papà,
puosa 'o cascione dinto a n'angolo e vatte a
assettà cu 'o maestro (riponi il contrabasso in un
angolo e vai a sederti col maestro), io posso
suonare anche da solo -
− Grazie, Nino – fece Marinelli.
Giacomo andò a sedersi a tavola col maestro.
Insieme a lui, erano seduti altri due tizi che Giacomo non
conosceva.
− Signori … - fece Gaetano Marinelli – … voglio
presentarvi questo giovane, Giacomo Fiorenza,
un abile strumentista, di quelli che fanno
comodo ad un teatro serio … come è il San
Carlo … Giacomo, lascia che ti presenti il dottor
Campoli e l'impresario Amendola. Questi due
signori hanno grossi progetti per il San Carlo -.
I commensali si scambiarono i convenevoli di rito.
Marinelli ordinò al cameriere quattro pizze “Marinare”
poi, rivolgendosi a Giacomo:
− Giacomino, allora? L'hai conosciuto Mozart?
Com'era? -
Il ragazzo parlò della sua avventura viennese fino
alla fine del pasto, a partire dalla storia riguardante la sua
audizione e la composizione della “Tarantella della
Fenesta” composta dal genio fino alla prima esecuzione
privata della “Messa da requiem” dopo la sua morte.
Quando finirono di mangiare, lui disse:
− Maestro, non chiamatemi “scostumato” ma papà
m'aspetta -.
− Figurati! … anzi! Portagli da parte mia questo
Carlino d'argento per ringraziarlo della sua
pazienza e gentilezza ... -.
− Non se ne parla proprio … - provò a rifiutare il
giovane.
− Non dire sciocchezze! Tuo padre ci ha allietato
lo stesso, malgrado la tua assenza, con la sua
bella musica e la sua bella voce e … la bella
musica va pagata … piuttosto! Mi puoi fare due
favori? -
− Tutto quello che volete, maestro -
− Il primo favore che ti chiedo è quello di andarmi
a suonare questa “Tarantella della Fenesta” -
− Consideratelo fatto … e il secondo favore? -
− Domani mattina, alle 9,00 presentati al San
Carlo … e porta con te il contrabasso … ché
cominciamo le prove -.
La mattina seguente, alle 8,30, Giacomo Fiorenza
rimise piede nel tempio del melodramma.
Aniello, il custode, lo fermò con un “addò jate?”
(dove andate?) ma poi, osservandolo meglio, disse:
− Giacomi'? Site vuje? (Giacomino, siete voi?) …
Maronna mia quanno site crisciuto! (Madonna
mia, quanto siete cresciuto!) … accomodatevi,
accomodatevi pure … -
− Grazie, Aniello -
− Prego, prufesso' (professore) -
Giacomo era invaso da due sentimenti contrastanti.
C'era la soddisfazione di sentirsi chiamare “professore”.
C'era l'emozione di ripercorrere quei corridoi. C'era il
timore di essere fuori forma dopo un periodo di forzato
riposo dalla disciplina orchestrale. C'era la gratitudine
verso il maestro che continuava a credere in lui e nel suo
talento … tutti questi sentimenti furono spazzati via
quando, prendendo posto in sala prove come quarto
strumento della sezione, trovò Bossolo come primo
contrabasso.
− Ah! È tornato il “cretinetto”? - furono le parole
d'accoglienza che, il vecchio maestro, riservò a
Giacomo.
Giacomo evitò di rispondere. Tolse le coperte dal
proprio strumento e tirò i crini dell'archetto. Non
soddisfatto dalla reazione del giovane, il vecchio lo
incalzò:
− Questi due colleghi che vedi affianco a me sono
dei veri maestri d'orchestra, Carmine Laido e
Pasquale Mappaluna. Non se lo fanno succhiare
dalle prime donne. Sanno stare al loro posto -.
In quel momento capì chi fosse stato, a suo tempo,
colui che aveva fatto la spia facendolo allontanare dal San
Carlo. Giacomo alzò la testa e lo guardò intensamente
negli occhi. Il suo sguardo non era più quello di un
ragazzino timoroso. Ora era un uomo. Se avesse voluto,
avrebbe potuto spezzare in due Bossolo.
Bossolo capì perfettamente la pericolosità di quello
sguardo e, malgrado la paura che sentiva, fece di tutto per
non abbassare lo sguardo. Giacomo parlò, fece una
domanda. La domanda era innocente, il tono lo era molto
meno.
− Che fine hanno fatto i maestri Dominianni e
Calzolari? - Bossolo provò, senza riuscirci, a
non far tremare la propria voce.
− Uno è andato a Parigi. L'altro ora lavora per il
Papa -
− Di loro spontanea volontà? … o ci avete pensato
voi a farli … -
In quel momento entrò Gaetano Marinelli e si fece il
silenzio in sala.
Consegnò ad un signore, l'archivista del teatro, le
parti da mettere sui leggii degli orchestrali e, mentre
l'uomo svolgeva il suo compito, disse:
- Buongiorno signori, come certamente saprete,
sono il maestro Gaetano Marinelli. Dedicheremo i prossimi
giorni alle prove di una mia opera buffa, “I vecchi delusi”
che andrà in scena in questo teatro tra dieci giorni. Faremo
orari lunghi, proveremo dal mattino fino al calar della sera.
La novità per questo lavoro teatrale sarà l'utilizzo di un
corpo di ballo … -
Si sentì subito qualche fischio di approvazione e
qualche commento scurrile proveniente dall'orchestra. Il
maestro riprese a parlare:
- … ecco! Appunto! … ora, … conoscendo il
temperamento focoso di alcuni maestri d'orchestra (guardò
Giacomo in tralice), vi pregherei di astenervi da
atteggiamenti poco rispettosi verso queste signorine che
porteranno grazia ed eleganza allo spettacolo -.
L'entusiasmo si smorzò immediatamente.
Gli spartiti erano stati posti sui leggii.
- Date un'accordata! … mi raccomando … - disse
Bossolo alla sua fila – evitiamo di fare figure di m... -
- Contrabassisti? Scusatemi un attimo … - gridò
Gaetano Marinelli interrompendo Bossolo.
- Si, maestro? - fece, ossequiosamente, il vecchio
strumentista.
- Come avrete potuto notare, è stato aggiunto un
altro elemento alla vostra sezione -.
- Francamente, maestro, col dovuto rispetto … non
ci serviva un quarto contrabasso. In tre eravamo più che
sufficienti – Gaetano Marinelli, a quel punto, cambiò
totalmente il tono della propria voce. La serenità, che
contraddistingueva il suo tono vocale, fu sostituita dalla
severità.
- Infatti … - disse - … non vi serviva un quarto
strumento ma, vorrei ricordarvi che l'opera che state per
eseguire l'ho scritta io! A me serve! -
- Vi chiedo scusa ma... - Bossolo stava per dire
“maestro” ma Marinelli lo bloccò.
- Niente “ma”! A me serve il suono del giovane
Fiorenza … e non mi serve come quarto elemento della
sezione … ma come primo strumento – A Bossolo, per
poco, non prese un colpo. Biascicò:
- Col dovuto rispetto, maestro, in orchestra abbiamo
le nostre gerarchie ed io sono … - Fu interrotto
nuovamente dal compositore.
- Visto che parlate di “rispetto”, vi pregherei di
rispettare la mia scelta. Non m'interessano le vostre
gerarchie, m'interessa il risultato finale della mia opera …
anzi! Vi dirò di più. Forse avete ragione! Forse non
servono quattro contrabassi … vorrà dire che, per questa
produzione, farò a meno dei vostri servigi … ora lasciate il
posto da primo strumento al maestro Fiorenza e non fatemi
perdere altro tempo! -
Per quanto Giacomo fosse felice di fare il primo
contrabasso e, sebbene Bossolo fosse una carogna, il
giovane tenne gli occhi bassi per tutto il tempo che il
vecchio contrabassista impiegò nel liberare il proprio posto
e che lasciasse la sala prove, tra sputi e bestemmie a mezza
voce rivolti a colui che stava sostituendolo.
Gli altri due contrabassisti, Laido e Mappaluna,
evitarono di guardare la scena tenendo, a loro volta, gli
occhi bassi.
Appena s'accorse che nessuno lo sentiva, però,
Carmine Laido si rivolse a Giacomo a bassa voce.
- È il tuo amichetto, quel frocio del maestro? -
Giacomo gli rispose a mezza voce.
- Se ti sento mancare di rispetto una sola volta ad
una persona perbene come è il maestro Marinelli, ti taglio
la gola da parte a parte. Sono stato chiaro? -
Laido, per tutta risposta, abbassò la testa e tacque.
Le prove si svolsero regolarmente e Giacomo,
riconoscente verso l'atto di fiducia del maestro, superò se
stesso in precisione, intonazione e sonorità.
Gli altri due colleghi contrabassisti lo seguirono
pedissequamente e a proprio vantaggio. Condivisero i
complimenti del maestro e degli altri orchestrali durante
tutti i giorni di prova.
Le prove furono trasferite in teatro dopo i primi tre
giorni di lettura delle note e, lì, Giacomo ebbe un'altra
sorpresa.
Durante la sua giovane esistenza aveva visto ballare
un'infinità di “saltarelli”, “tarantelle” e “montemaranesi”
ma non era preparato alla bellezza e all'eleganza di un
balletto d'opera.
Tutte le ragazze sembravano nude. Indossavano
delle calzamaglie rosa che lasciavano scoperte le braccia.
In vita avevano un gonnellino di tulle non abbastanza
lungo da coprire le ginocchia.
Malgrado gli ammonimenti del maestro Marinelli,
quello spettacolo sollevò in buca una tempesta ormonale e
i professori d'orchestra non poterono esimersi da emettere
qualche fischio e qualche esclamazione di compiacimento.
Per fortuna, non vi furono commenti scurrili e oscenità
tipiche dei maschi in calore.
Le danzatrici, incuranti di chi occupava la buca, si
muovevano con sinuosità elegante e non volgare, nel pieno
rispetto delle indicazioni del maestro, sui movimenti di
scena.
L'eleganza dei loro movimenti le faceva sembrare
come tanti angeli in volo e, tra tanti angeli, Giacomo vide
una Dea.
Non aveva mai visto nulla di simile. Giacomo non
si soffermò a posare il proprio sguardo sulle forme
scultoree del corpo della ragazza ma si perse nel suo
sguardo verde chiarissimo, nelle efelidi del suo volto, nel
colore rosso dei suoi capelli, si focalizzò su quel nasino
proporzionato perfettamente all'ovale del suo viso e su
quelle labbra sottili ma ben disegnate che ora si
schiudevano in un sorriso … per lui?
La danza si muoveva frenetica. La ragazza gli volse
le spalle per eseguire la coreografia assegnatale e Giacomo
pensò d'aver immaginato quella dedica ma, quando a fine
prove, il maestro disse “Per oggi, basta così!” e la ragazza
dalla quale lui non aveva mai staccato gli occhi per tutta la
giornata (poté farlo perché aveva imparato a memoria ogni
nota di contrabasso che avrebbe suonato e non era
obbligato a guardare lo spartito), alzò la mano nella sua
direzione in segno di saluto, il cuore di Giacomo Fiorenza,
per poco, non gli balzò fuori dal petto.
Possibile che quella divinità piovuta dal cielo avesse
degnato lui, che non era più di un umile orchestrale, della
propria benevolenza?
CAPITOLO XIV
Emma
Napoli 20 aprile 1793
Uscendo dal retro del teatro, l'uscita degli artisti e
degli addetti ai lavori, Giacomo s'attardò a parlare con
Aniello, il custode.
Voleva vedere quella ragazza e capire se s'era
immaginato tutto.
Si mise a parlare del lavoro, del tempo, chiese ad
Aniello di raccontargli la storia di come avesse perso la
gamba, ciarlò di qualsiasi cosa gli venisse in mente ma il
suo sguardo guizzava ripetutamente dagli occhi del suo
interlocutore alla scala dalla quale scendevano tutti gli
artisti.
A un certo punto Aniello, che la sapeva lunga, gli
disse:
− Se non te lo dico subito, fra poco comincerai a
raccontarmi pure d'aver visto “'o Munaciello”
(personaggio di fantasia della superstizione
napoletana) -
− Non capisco … io … -
− Tu non capisci, maestro, ma io si … -
− ? -
− Stanno facendo le pulizie nel corridoio di sopra
ed è stato bloccato temporaneamente questo
andito -
− Ancora non … -
− Le ballerine stanno uscendo … dall'ingresso
principale -
Aniello non aveva ancora finito di parlare che
Giacomo s'era fiondato a fare il giro dell'edificio per
raggiungere l'ingresso principale.
Il custode gli urlò, mentre il giovane spariva dalla
sua vista, “'A Maronna t'accumpagni” (Che la Madonna
t'accompagni, una specie di “buona fortuna”).
Giacomo aveva gambe buone. Impiegò meno di
dieci secondi per svoltare l'angolo tra l'uscita artisti e
l'ingresso principale e di corsa … andò a sbattere
violentemente contro una persona che veniva, a passo
spedito, dalla direzione opposta alla sua.
Il botto fu forte. Caddero entrambi a terra ma lui si
rialzò in fretta intenzionato a continuare la propria corsa.
L'educazione gli imponeva, però, di chiedere scusa ed
aiutare l'altro ad alzarsi sincerandosi che non si fosse fatto
male nell'urto.
Si sentì doppiamente mortificato quando capì di
aver travolto una donna e triplicemente mortificato ma,
stranamente felice, quando capì che si trattava proprio di
lei.
− Scusate, scusate, scusate! – le disse mentre le
tendeva la mano per aiutarla a rialzarsi.
− Scusate? Se mi fosse passato addosso una
carrozza trainata da un tiro di otto cavalli,
probabilmente, m'avrebbe fatto meno male! -
− Vi siete fatta male, signorina? -
− Giacomi'! … ma insomma! Nun m'e cunusciuto?
(riconosciuto) -
− Io … beh! … la faccia … in effetti … -
− Cretino! Sono Emma -
− Emma … Emma … Emma? -
− Ma sei proprio un deficiente. Sono Emma
Fusco, 'a figlia di “Nanninella 'a levatrice”
(Anna l'ostetrica) . Ti andavi a fare i bagni a
Megaride cu fratemo, Ciccio (mio fratello,
Francesco). Qualche volta, venivo io pure con
voi -. Emma arrossì nel dire quest'ultima frase
ma Giacomo, cercando di capire chi ella fosse,
non ebbe modo di accorgersene.
− Ciccio Fusco? … No! Tu sei Pupetta? -
− Ah! Mo l'hai capito? -
− E cosa è successo? Tu eri 'na criatura (bambina)
e mo … -
− Ma che ti credevi? … che solo tu saresti
cresciuto? Guarda che ho quindici anni e mezzo.
Sono del 6 dicembre del '77. Non portiamo
nemmeno un anno di differenza – tacquero
entrambi per qualche interminabile secondo.
Giacomo cercò qualcosa da dire. La trovò.
− Già … ehm! … a proposito! Sei proprio brava -
− Grazie – Altro silenzio. Stavolta toccò ad Emma
parlare.
− A te non c'è bisogno di dirtelo che sei bravo. Ti
sento studiare spesso. Ti alleni parecchio … e
hai talento -.
− Grazie … -
In quel momento passò un carretto ambulante che
vendeva una bevanda che era diventata di moda proprio in
quel periodo. Pare che questa bevanda fosse stata
importata da Gerusalemme. In quella terra remota, la
chiamavano “Kahvè”. A Napoli era diventata “'O Ccafè”
(il caffè). L'ambulante aveva l'abitudine di urlare il nome
del santo del giorno e poi pubblicizzare la sua bevanda.
Questa distrazione offrì un nuovo argomento a Giacomo.
− Ti posso offrire un caffè? Ti piace? -
− A dire il vero, non lo so -.
− Non sai se posso offritelo oppure … - lei lo
interruppe.
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Fenesta vascia (pt1)

  • 1. - Aldo Perris - FENESTA VASCIA (Romanzo)
  • 2.
  • 3. CAPITOLO I Albano Laziale (Roma) 24 aprile 1866 − È permesso? - − Prego, prego … accomodatevi - I due uomini rimasero un attimo a guardarsi negli occhi. In un attimo accadono molteplici cose, molte di più di quante la coscienza riesca a cogliere. Sicuramente, si piacquero dal primo sguardo. Non si piacquero subito, però. In quell'unico attimo, in quel primo sguardo, i due uomini passarono dalla fase di “sconoscenza” a quella di “curiosità” a quella di “studio dell'altro” e, infine, si piacquero. Era passato meno di un secondo. Colui che aveva chiesto permesso era un uomo molto anziano, sui novanta. Malgrado un viso segnato dal tempo, pochissimi capelli, macchie epatiche, imbolsimento e lento incedere, manteneva una straordinaria postura dritta per la sua età e gli occhi, color nocciola, mostravano una vivacità indice che il tempo non aveva deteriorato la sua mente. L'altro era un uomo di cinquantacinque anni, magro come un fuso, alto più della media, capelli lunghi, occhi neri severi. Fu quest'ultimo a prendere la parola.
  • 4. − Siete voi il pellegrino che mi è stato annunciato dalla missiva di padre Giuseppe da Napoli? - − Sissignore, sono proprio io. E voi siete l'abate musicista? - − Non sono un vero e proprio abate e spero almeno di essere un musicista - − Perché? Non lo siete per davvero? - − Lo sono … lo sono ma, … la musica sta cambiando e io non so se le mie competenze e il mio talento siano ancora validi ma, prego, mettiamoci a sedere, sarete stanco dal viaggio … vi va un buon bicchiere di vino bianco? Da queste parti è molto buono -. − Vada per il vino bianco - Mentre l'abate era voltato a versare il vino, l'uomo ne approfittò per guardarsi intorno. La stanza era piuttosto in penombra. L'ideale per quella giornata soleggiata di aprile. C'era una scrivania in radica di noce con due poltroncine poste sul davanti che davano le spalle alla porta d'ingresso, una grande libreria dietro la scrivania, colma di libri e manoscritti. In un angolo vi erano ammassate valigie e scatoloni. Alla sinistra della porta d'ingresso c'era un pianoforte chiuso del quale il coperchio faceva da ripiano per una montagna di spartiti. Alle spalle del pianoforte c'era un'altra porta. Doveva essere, evidentemente, uno sgabuzzino. L'abate si voltò coi due bicchieri e gliene porse
  • 5. uno. − Szervusz! - gli disse, alzando il bicchiere. − Cosa? - chiese il vecchio. − Significa “servo vostro” nella mia lingua - − Non siete italiano? - − No, sono magiaro. Mi chiamo Liszt, Franz Liszt, al vostro servizio – e rialzò il bicchiere. − Complimenti, parlate benissimo l'italiano. Io sono Giacomo Fiorenza e sono napoletano … cin cin! - e alzò a sua volta il bicchiere. Una volta vuotato il bicchiere, Giacomo Fiorenza aggiunse – Curioso! Avete stesso nome e cognome del famoso musicista, quello che lanciò nel mondo dei grandi il compianto Chopin. Anche lui era ungherese. È forse un vostro parente? -. L'abate gli sorrise. − Abbastanza parente, … sono proprio lui! - − No! Non ci posso credere! Non state scherzando vero? Voi … siete … lui? - − In carne ed ossa, … vabbé! Più ossa che carne. Ma voi com'è che mi conoscete? - − Sono anch'io un musicista … beh! Non proprio un musicista e, certamente, non del vostro spessore … sono, anzi, ero un contrabassista … sono stato il primo contrabasso dell'orchestra del teatro San Carlo - − Il San Carlo? Accidenti! Ohps! Scusate questa
  • 6. imprecazione. Il San Carlo … il più grande teatro esistente al mondo ma … scusate la maleducazione, sarete certamente stanco del viaggio, venite con me! Vi mostro la vostra stanza - L'abate accompagnò il vecchio lungo un corridoio verso quella che sarebbe diventata l'ultima dimora di un uomo che aveva deciso di concludere i suoi giorni in pace col mondo ma, soprattutto, lontano dal mondo. Decisero che l'indomani si sarebbero rivisti e, secondo una moda, mai tramontata tra coloro che avevano fatto esperienza di vita, si sarebbero scambiati i ricordi.
  • 7. CAPITOLO II Giacomo Fiorenza Napoli 16 aprile 1777 - Attenzione - - Cosa? Ah! - La cassa contenente l'arpa cadde e finì sulla gamba del fattorino. Egli, in quel momento, stava scaricando a terra il timpano basso. Si trattava dei nuovi strumenti ordinati per il teatro San Carlo. Gli strumenti erano stati condotti al teatro su un carretto. Erano stati legati durante il viaggio ma ora, per poggiarli a terra, le funi erano state sciolte e l'equilibrio precario del carico s'era manifestato in tutta la sua dirompente instabilità. Il rumore della gamba che si spezzava, della cassa che s'apriva, dell'arpa che si sfasciava sui “Vasuli”(la
  • 8. pavimentazione stradale), furono i primi suoni che Giacomo Fiorenza dovette sentire nella sua vita. Fu un tripudio di frequenze. L'arpa ha quasi lo stesso numero di corde di un clavicembalo. In quel momento fu come se una mano con sessanta dita avesse pestato contemporaneamente su sessanta tasti di un clavicembalo. La mamma, Luisa, spaventata dal suono improvviso dello strumento, dal rumore di piani armonici ed arti sfasciati e dagli urli, essendo incinta di nove mesi e “uscita di conti” ossia, pronta a partorire, ebbe quella contrazione in più che convinse il feto ad abbandonare l'angusto spazio del corpo minuto di sua madre e scappare verso quella che, con ogni probabilità, era l'unica via di fuga. Gli urli si raddoppiarono. Gli astanti non sapevano più a chi prestare soccorso. Napoli, però, ha la capacità di organizzarsi in pochi secondi. Con un tacito accordo, i soccorritori si divisero in due fazioni. Coloro che erano provvisti di muscoli e gonadi si diressero verso i resti dello strumento e della gamba del fattorino. Quelli senza muscoli ma con tanta più forza, le donne, fecero cerchio intorno alla puerpera. Il destino volle che Giacomino nascesse proprio davanti al posto che sarebbe diventata la sua casa, almeno dal punto di vista lavorativo, per quasi tutta la sua vita.
  • 9. Nacque da napoletano verace, a dispetto del suo cognome che collocava la sua ascendenza nella città di Firenze. Napoli, a quei tempi, era il centro del mondo. Capitale del regno borbonico, un regno che, sebbene avesse conosciuto altre egemonie ai propri vertici, non conosceva una vera guerra da ottocento anni. Un regno con il più alto tasso di laureati del mondo, con le più fiorenti industrie siderurgiche, navali e ferroviarie. Con le terre più fertili e il miglior clima del pianeta. Con ben cinque conservatori di musica e la più alta densità di grandi musicisti di tutto il panorama musicale europeo. Con circoli filosofici capaci di sfornare i più illustri pensatori dell'epoca. Nascere napoletano era un bel colpo di fortuna. Il padre di Giacomo, Gaetano, era un musicista ambulante e dilettante. Suonava il violino o il mandolino nelle pizzerie della città e cantava. Aveva una bellissima voce in tessitura da tenore leggero. Suonava e cantava tanto per i turisti quanto per gli autoctoni. La sua fortuna era di possedere uno straordinario talento e molta musicalità. Era un bell'uomo e sapeva abbigliarsi. Quello che guadagnava, una volta tolte le spese per la famiglia, lo spendeva in abiti, parrucche e orpelli vari. Lo chiamavano “Nino il bello” e lui andava fiero di quel soprannome che lo precedeva o lo accompagnava.
  • 10. Giacomo era, quindi, il figlio di Nino il bello. La mamma, Luisa Gargiulo, dopo quel parto non poté avere altri figli. Poco importava. Lui era l'erede maschio tanto atteso da papà, la “Supponta”, un termine napoletano che sta ad indicare il bastone della vecchiaia per un genitore. Giacomino, l'erede, doveva avere necessariamente un futuro radioso. Papà che, malgrado la sua avvenenza, non era riuscito a fare carriera, riversava sul suo rampollo tutte quelle aspettative genitoriali tipiche di chi non aveva raggiunto grossi traguardi in prima persona. Per lui non avrebbe badato a spese. Il figlio cresceva forte e sano. A sei anni, superava i suoi amici di giochi di oltre quindici centimetri. Quando Nino il bello s'accorse che il bambino, sebbene non avesse ereditato la sua bellezza, aveva ereditato la sua prestanza e la sua musicalità, sperando che il ragazzino scegliesse di succedergli nella sua attività di musicista ambulante, gli chiese quale fosse lo strumento che desiderava imparare. Questa domanda la fece quando Giacomo aveva soltanto sei anni, nell'autunno del 1783. Le frequenze basse, contrariamente a quelle acute, hanno la capacità di attraversare i muri. Evidentemente, quando si sfasciò quell'arpa davanti al teatro S.Carlo, le uniche frequenze che penetrarono il corpo di donna Luisa furono quelle gravi.
  • 11. Le frequenze gravi, o basse che dir si voglia, hanno un effetto calmante sulle persone. Sta di fatto che la risposta che Giacomino diede a suo padre fu: “Voglio suonare il contrabasso”. A sei anni era impossibile che Giacomo suonasse il contrabasso. Papà, però, decise di fargli impartire da un vecchio maestro, suo amico da sempre, lezioni di solfeggio, pianoforte e clarinetto. Il maestro Renato Casizzone era un uomo molto alto e molto colto. Compositore per diletto ma ottimo didatta. Strinse col giovane Fiorenza, immediatamente, un rapporto di grande complicità e, immediatamente, si rese conto dell'enorme potenziale di talento che aveva il suo allievo. Giacomino pagava le lezioni sbrigando delle faccende per conto del suo maestro e, nei fine settimana, di tanto in tanto, seguiva il padre suonando nei ristoranti e nelle pizzerie di via S.Lucia. Dovettero passare altri sei anni perché Giacomo Fiorenza arrivasse ad un'altezza sufficiente per vedersi regalare, nel Natale del 1789, un contrabasso nuovo di zecca, uno strumento di fabbricazione tedesca che, con le sue tre belle corde di budello possedeva un suono incredibilmente armonioso e dolce, nel contempo. Il maestro Casizzone continuò a fargli lezione di teoria e composizione ma lo indirizzò al maestro Nicola
  • 12. Buonomo per quanto riguardava lo studio dello strumento, un maestro che prendeva 5 tornesi a lezione. Visto che in quei sei anni di studio, Giacomino era diventato uno di famiglia per il suo vecchio maestro, costui decise di pagargli di tasca sua le lezioni dal maestro Buonomo. Giacomino, a soli dodici anni, era già alto un metro e settanta centimetri. Aveva ereditato l'altezza del padre. L'aveva eguagliato in altezza e si sperava, erroneamente, che sarebbe cresciuto ancora molto. L'altezza di un metro e settanta centimetri fu la sua misura finale, per il resto della sua vita. Talento ne aveva … e tanto. In un solo anno era arrivato a livelli tecnici che altri contrabassisti non riuscivano a raggiungere manco in quattro o cinque anni … e il suono, il suono del suo strumento, unito alle sue abilità, fecero in modo che, molto presto, si parlasse in giro di Giacomo Fiorenza.
  • 13. CAPITOLO III Teatro San Carlo Napoli 08 gennaio 1791 - Prendi lo strumento, dobbiamo uscire - Il padre entrò in casa, trafelato. - Cos'è successo papà, ditemi pure, ché sennò mi fate venire l'ansia - - Poche storie, guagliò'! Ti spiego dopo - Non era il caso di mettersi a discutere. Giacomino avvolse lo strumento in una coperta di sacco, che era l'unico embrione di custodia che aveva rimediato, prese l'archetto con relativa resina per l'attrito dei crini e seguì il genitore. I Fiorenza abitavano in una casa in una traversa di via Chiaia. La destinazione finale del cammino di genitore e figlio era a poco più di duecento metri da lì. La sala prove del teatro S.Carlo. Quando comprese dove si stessero dirigendo, a
  • 14. Giacomino cominciarono a tremare le gambe ma, malgrado il passo incerto, sapeva di non potersi esimere dall'obbedire al comando paterno … e poi, in fondo, oltre ad avere la tremarella, Giacomo era pervaso anche dall'eccitazione e dalla curiosità. Il custode, Aniello, era un uomo con una gamba di legno. Non aveva trascorsi da capitano di navi pirata. La gamba l'aveva persa proprio lì, davanti al teatro. Alcuni anni addietro, gli era caduta addosso una cassa contenente un'arpa nuova destinata al San Carlo. L'amministrazione del teatro, per premiarlo dell'immolazione dell'arto per l'arte, lo assunse come custode, visto anche che il vecchio custode, pochi giorni addietro, aveva smesso di lavorare nella città e s'era ritirato con la famiglia della figlia a coltivare la terra su ai Camaldoli. Il San Carlo fece un grosso affare, assumendolo. Aniello era un uomo tutto d'un pezzo (malgrado il pezzo di gamba mancante), uno di quegli uomini onesti per compulsione. Di solito, si pensa che l'onestà di un individuo dipenda da uno di questi due fattori: o la rettitudine morale o l'incapacità di mentire e fregare il prossimo. Il custode non apparteneva ad alcuna di queste due categorie di onesti. Lui era onesto perché il suo cervello non concepiva un mondo privo dell'equilibrio tra tutte le sue componenti umane per cui, in teatro potevano affidargli in custodia
  • 15. qualsiasi cosa preziosa perché, conscio che quelle cose non appartenevano a lui, il custode avrebbe sofferto moltissimo se non fosse riuscito a custodirle con cura e a restituirle alla bisogna. Anche un sacco pieno di monete d'oro sarebbe stato restituito integro dei suoi valori contenuti. Nemmeno un tornese vi avrebbe sottratto. Aniello fece passare i Fiorenza senza fare storie, sapeva che li stavano aspettando. Si limitò soltanto ad indicargli la direzione da prendere per la sala prove. Quando Giacomo entrò nella sala prove, ad aspettarlo vi trovò seduti il maestro Buonomo, un paio di signori molto eleganti che lui non conosceva. Il primo faceva mostra di imponenti “mustacci” (baffi) e una magrezza oltre misura. Il secondo aveva quanto mancava al primo, il suo volto era incorniciato da una barba rada ma priva di baffi ed esibiva una consistente pinguedine. In un angolo, per non dare fastidio, c'era il maestro Casizzone. Il maestro della sua infanzia era più emozionato di Giacomino stesso. Era seduto a gambe strette e tormentava un “muccaturo” (fazzoletto) tra le mani. Giacomino gli sfoderò il sorriso più tranquillizzante che aveva in repertorio. Non ebbe modo di scoprire se la mostra dei suoi denti in una gondola di labbra avesse sortito l'effetto di sedare il caro maestro, perché sentì uno dei due signori, quello baffuto, dire: - Che tieni da ridere? Pensi di stare al circo? -
  • 16. - Scusatelo … - disse Nino il bello dando un sonoro “scuppulone” (scappellotto) al figlio - … il ragazzo adesso smette di ridere -. Giacomo trasformò la gondola in una canoa, si posizionò davanti ai tre signori (i due sconosciuti e il maestro Buonomo) e attese: - Allora? - chiese l'altro signore, il grassone. - Che cosa devo fare? - chiese, innocentemente, Giacomino. - Tira fora 'stu cascione, a papà, e suona – intervenne Nino poi, capendo che non spettava a lui parlare, tacque immediatamente e fece una “riverenza” (inchino). Il ragazzo tolse il proprio contrabasso dalla coperta/custodia, tirò i crini dell'arco, li strofinò sul pezzo di resina e cominciò a suonare. Il contrabasso, a quei tempi, non aveva un proprio repertorio di brani classici e solistici. Di solito, ai provini i contrabassisti si esibivano in scale e arpeggi. Giacomo, preso dall'emozione, non ebbe la lucidità sufficiente a lanciarsi in una scala o arpeggio e suonò la prima cosa che gli venne a mente. Eseguì “Fenesta vascia” una canzone antica, vecchia di almeno 200 anni. Pietra miliare della melodia aulica partenopea. Bastarono le prime tredici note della melodia perché le mandibole dei due signori fossero improvvisamente
  • 17. attratte dalla forza di gravità. Quando Giacomino ebbe terminata la propria esibizione con quest'antica e dolce elegia, la commissione esaminatrice rimase senza parole. Il papà, abituato al talento del figlio, non sapeva se questo silenzio era un buon segno. Allora lo incalzò: - Giacomino, bello di papà, fai sentire a questi illustri signori qualcosa di più movimentato -. Il ragazzo non se lo fece ripetere e attaccò “Lo Guarracino” una tarantella che aveva radici antiche quanto il primo brano eseguito. Il brano era un vero e proprio “pezzo d'abilità” e, senza averne coscienza, Giacomo Fiorenza aveva dimostrato di possedere anche una tecnica straordinaria. Alla fine della sua performance, il silenzio della commissione divenne assordante. Il padre stava per dirgli qualcosa quando uno dei due signori, il più autorevolmente magro, disse: - Va bene, basta così. Ragazzo, come leggi la musica? - Stavolta intervenne il maestro Casizzone. - Questo ragazzo sa leggere le note molto meglio di come legge le lettere. Lui le ... -. Era orgoglioso del suo ragazzo e non s'era saputo trattenere dal dire la sua. Il signore lo zittì con uno sguardo. L'altro signore disse: - Beh! Se non è analfabeta, possiamo ben sperare – Il maestro Buonomo e il baffuto, risero. Giacomino, che non capiva se stessero ridendo di lui, si difese:
  • 18. - Non sono analfabeta. La domenica, a messa, don Domenico mi affida sempre le letture - - Ottimo … - rispose il ciccione - … penso che basti così. Maestro Buonomo, spiegate il tutto al nostro nuovo acquisto -. Si alzò con fatica e, insieme all'altro signore, lasciarono la sala prove del teatro. Fu così che, a soli tredici anni, Giacomo Fiorenza fu arruolato come contrabassista aggiunto per le produzioni del regio teatro. L'opportunità di lavoro, per un aggiunto al teatro S.Carlo, consisteva che quando l'impresario vedeva un'ottima affluenza al botteghino, costui allargava l'organico in buca aggiungendo altri sei violini ai quattordici già in organico, tre viole ai sei titolari, due violoncelli (per un totale di sei violoncelli) e un contrabasso (che, in questo caso, fu Giacomo) agli altri tre già ingaggiati a monte. Ovvio che, con gli incassi buoni, l'orchestra veniva allargata anche nelle sezioni “ottoni” (trombe, tromboni e corni) e “legni” (flauto, ottavino, oboe, clarinetto, corno inglese e fagotto).
  • 19. CAPITOLO IV Il primo ingaggio Napoli 12 maggio 1791 … si sentì una voce nel vicolo. Chiamava dalla strada: “Maestro Fiorenza! Maestro Fiorenza!”. Giacomo poggiò a terra il contrabasso e s'affacciò al balcone del primo piano dove abitava. Vide che c'era un bambino, uno scugnizzo. - Guaglio', che vvuò? Il maestro Fiorenza sta a lavoro a chest'ora. Perché lo cerchi? -. - Deve venire alle prove al teatro San Carlo - - Papà? Al teatro? E che deve fare papà al teatro? - - E che ne saccio io? M'hanno detto che deve venire subito … col Calascione -. - 'O Calascione? - - No! Aspettate un attimo, non era il Calascione … ecco! Il contrabasso! -
  • 20. - Il contrabasso? Ma allora … vabbè, ho capito. Grazie, mo ce penso io! - Giacomo infagottò lo strumento, se lo mise sulle spalle, prese la resina e l'archetto e corse in teatro. All'ingresso c'era il solito Aniello che, senza dire una parola, gli indicò la direzione da prendere. Era la sala prove dove lui, quattro mesi addietro, aveva sostenuto il provino. Stavolta, la sala era stracolma di musicisti. C'era l'orchestra del San Carlo al completo. Lui, con lo sguardo, cercò il posto dove c'erano gli altri contrabassisti. Gli altri tre erano già al loro posto, in fondo alla sala, alle spalle dei violoncellisti. Quando s'avvicinò ai colleghi, il primo contrabasso, il maestro Dominianni, chiese: - E chi è 'sto grande solista che c'ha addirittura il facchino che gli porta lo strumento? - gli altri due contrabassisti risero. Giacomino rispose con la voce più ferma che riuscì a trovare. - No, signori. Non c'è nessun solista … sono io l'aggiunto -. - Guaglio' nun me fa ridere! - Fece il secondo contrabasso, il maestro Calzolari. Evidentemente la voce di Giacomo non era stata sufficientemente ferma. Per dare dimostrazione che stesse dicendo la verità, il ragazzo tolse la coperta allo strumento e si mise ad accordarlo. Mentre il primo e il secondo
  • 21. contrabasso rimasero letteralmente interdetti nell'ascoltare il meraviglioso suono del ragazzino, il terzo contrabasso, il maestro Bossolo, contento di non essere, almeno per una volta, l'ultimo strumento, disse: - Si, abbiamo capito che sei tu ma, ora non rompere le palle -. Entrò il maestro e, improvvisamente, calò il silenzio in sala prove. Il maestro Gaetano Marinelli era un uomo minuto, molto magro, col viso sottile e una barba rossiccia poco compatta. Consegnò ad un signore, l'archivista del teatro, le parti da mettere sui leggii degli orchestrali e, mentre l'uomo svolgeva il suo compito, disse con una voce acuta ma, non per questo, meno autorevole: - Buongiorno a voi, gentili signori … – ottenendo immediatamente risposta dall'orchestra. Egli continuò - … come certamente saprete, sono il maestro Gaetano Marinelli. Dedicheremo i prossimi giorni alle prove di una mia opera seria, il “Lucio Papirio” che andrà in scena in questo teatro la prossima settimana. Faremo orari lunghi, proveremo dal mattino fino al calar della sera. Avrete l'onore di lavorare ad una produzione artistica che vede la firma, per quanto riguarda il libretto, nientedimeno che del grande maestro Apostolo Zeno … - - … e chi è? - si lasciò scappare Giacomo, a mezza voce.
  • 22. - Zitto, ignorante! - lo redarguì immediatamente il terzo contrabasso che, essendogli molto vicino, aveva sentito – il maestro Marinelli proseguì. - … ma, cosa ancora più importante, per far accorrere un pubblico numeroso alle rappresentazioni della mia opera, il teatro San Carlo e tutta la cittadinanza napoletana potranno godere dello straordinario talento vocale della soprano Brigida Giorgi Banti … - L'applauso dell'orchestra coprì l'ennesimo “e chi è?” di Giacomo Fiorenza. Giacomo scoprì quello stesso pomeriggio chi fosse la famosa Brigida Giorgi Banti. Donna Brigida, trentadue anni (anche se diceva in giro di averne ventisei), entrò accompagnata da due signori, l'impresario e un valletto. Appena entrò in sala prove, l'ambiente fu permeato dal suo profumo a base di essenza di rose. Ella teneva un fazzoletto bianco sul naso perché la totalità dei maestri emanava un bouquet di sudore e peti. Evidentemente aveva bagnato il proprio “muccaturo” con lo stesso profumo che aveva indosso per evitare i conati di vomito. Questo utilizzo del fazzoletto imbevuto di essenze profumate fu un chiaro indizio che la signora aveva una lunga esperienza di sale da prove dei teatri. Sebbene la maggior parte degli orchestrali non avesse una grande abitudine alle abluzioni, la regola della “fetumma” (puzza) non valeva per tutti.
  • 23. In effetti, Giacomo non puzzava come i propri colleghi. Educato alle buone maniere e alla pulizia da Nino il bello, che diceva sempre “Lavati tutti i giorni e profumati! Non si sa mai”, Giacomino era un giovanotto educato e pulito. Non capiva il senso di quel “ … non si sa mai” ma obbediva da buon figlio. Una volta glielo chiese cosa significasse quel “ … non si sa mai” ma il padre rispose “fidati guagliò! Arriverà il momento che capirai da solo”. Mentre fantasticava sugli insegnamenti del padre, ebbe una “scoppola” (scapaccione) dal terzo contrabasso. - Non ti distrarre, deficiente! -. Attaccarono a provare la prima Aria in cui cantava donna Brigida. A Napoli cantano. Cantano un po' tutti. Si è abituati al talento e alle belle voci ma niente, di tutto ciò che Giacomo aveva ascoltato fino ad allora, rassomigliava minimamente al suono paradisiaco che usciva dall'ugola di donna Brigida. Aveva una tecnica vocale incredibile e un suono … perfetto. Ben presto, però, Giacomino dovette fare i conti con la sua mancanza d'esperienza nelle orchestre liriche. L'andamento delle Arie d'opera seguiva un ritmo del tutto diverso dalla costanza ritmica della canzone popolare napoletana … certo, anche nelle canzoni napoletane
  • 24. capitava che vi fosse una “corona” ossia una sospensione dell'andamento ritmico dove il cantante indugiava su una parola e costringeva gli accompagnatori a rallentati o pause ma, nell'opera, questo non avveniva per favorire il pathos del testo. Nel melodramma, molto semplicemente, accadeva spessissimo di rallentare e di fermarsi su quelle note dove il cantante, o la cantante di turno, poteva mettere più in mostra la propria perizia. Per fortuna, dopo il primo liscio, ossia dopo la prima volta che tutti s'erano fermati e lui aveva continuato a suonare e s'era beccato un'occhiataccia dal primo contrabasso e un “Va fa 'nculo” (questa parola non ha bisogno della traduzione dal napoletano) dal terzo contrabasso, Giacomino si fece furbo e suonò un po' più leggermente, facendo attenzione a tutti i passaggi a rischio “liscio”. Il maestro Marinelli aveva fatto scrivere i singoli spartiti dell'orchestra dal suo anziano copista, un po' rincitrullito dall'età. Più di una volta, fu costretto a fermare le prove affinché fossero aggiunti dagli orchestrali quei segni di andamento o di dinamica che erano sfuggiti a questo suo vetusto assistente. Al leggio di Giacomo non spettava a lui scrivere ma al suo diretto superiore in gerarchia orchestrale: il maestro Bossolo. Si accorse, quando vide quest'ultimo aggiungere
  • 25. l'andamento “presto”, che vuol dire “veloce” allo spartito, che Bossolo scriveva le “esse” al contrario, come se fossero delle “zeta”. Provò a dirglielo ma, quando aprì la bocca per dirglielo, l'uomo gli lo bloccò dicendogli: - Chiudi 'sta vocca, strunz', ca o si no ve traseno 'e muschilli (chiudi la bocca, stronzo, altrimenti vi entrano i moscerini) - Questa uscita poco elegante del suo vicino di leggio lo fece desistere da fare qualsiasi osservazione. Si! Sarebbe stata dura. Dopo la prima giornata di prove, nella quale il ragazzo non aveva avuto modo di far brillare il proprio talento, fu comunicato all'orchestra che l'indomani si sarebbero tenute le prove a teatro ed in costume. Per questa ragione, i signori orchestrali aggiunti erano obbligati ad andare in sartoria un'ora prima delle prove per indossare il costume che gli sarebbe stato affidato per tutto il periodo delle repliche e al quale avrebbero dovuto badare personalmente sotto la propria responsabilità, pena, in caso di macchie o strappi o smarrimenti, un'ammenda pecuniaria che sarebbe stata decurtata dalla loro paga. Il secondo giorno, andò in sartoria e ne uscì con una meravigliosa livrea olezzante naftalina. Sembrava un uomo fatto. Tenne il profilo e il volume basso durante tutta la
  • 26. giornata e suonò tutti i brani dell'opera e le Arie degli altri protagonisti del lavoro teatrale. Anche gli altri cantanti lirici avevano voci possenti e indugiavano, per altro senza gusto artistico, sulle note della loro voce che meglio s'espandevano ma erano del tutto carenti della grazia musicale e della perizia tecnica che possedeva la voce di Brigida Giorgi Banti. I talenti musicali di Giacomo avevano il vantaggio di essere corroborati da una memoria straordinaria. Il giorno seguente, il terzo giorno di prove, il ragazzo non ebbe bisogno di leggere sullo spartito cosa dovesse suonare durante le Arie d'opera, ricordava perfettamente tutte le note e tutti i rischi che aveva corso nella prima e nella seconda giornata di prove. Inoltre conosceva a memoria tutte le sospensioni del tempo a cui sarebbe stato costretto dall'esigenze della Banti e dei suoi colleghi. Cominciò a suonare per davvero. Anche i suoi colleghi se ne accorsero. Il suo suono suscitò un sorriso di piacere da parte del primo e del secondo contrabasso, Dominianni e Calzolari ed una smorfia di evidente fastidio da parte di Bossolo, il terzo contrabasso. Giacomo non si accorse dei sorrisi e delle smorfie dei colleghi ma notò l'espressione compiaciuta che fece il maestro Marinelli guardando verso la sezione dei contrabassi.
  • 27. Appena terminata una delle Arie che era stata affidata proprio alla Banti, il maestro compositore e direttore disse: - Faccio i miei complimenti alla sezione dei contrabassi. Era proprio questo il suono che avevo pensato per l'Aria che abbiamo appena eseguito. Continuate così, … ora … pausa – e abbandonò il podio. In quel momento, Giacomino non osò guardare in direzione dei colleghi perché non voleva far capire di essere conscio che il merito era suo quindi, diede un'occhiata alla scena … e li incontrò. Incontrò gli occhi della signora Brigida che l'osservavano con … interesse? Lui, per nascondere il proprio imbarazzo davanti a quegli occhi scrutatori, abbozzò un sorriso. Brigida Giorgi Banti, gli sorrise a sua volta e, inaspettatamente, si passò la lingua sulle labbra, lentamente. La spalla del contrabasso, ossia la curva superiore dello strumento, poggia sull'inguine dei contrabassisti. Di fronte al gesto inaspettato del soprano, Giacomino fu costretto ad allontanare lo strumento dalla sua abituale collocazione perché, improvvisamente, non c'era più molto spazio. La signora mostrò al ragazzo d'aver compreso il senso di quel gesto e, dopo un occhiolino complice, girò le spalle e raggiunse le quinte.
  • 28. Da quella prova in poi, tutte le volte che la Banti saliva in scena gli lanciava uno sguardo complice che lo imbarazzava non poco. Anche Bossolo, il terzo contrabasso, notò l'intesa tra il famoso soprano e il ragazzino che, con suo immenso disappunto, suonava le parti sempre meglio evitando quegli errori tipici dei novellini. Un giorno, in conseguenza ad un malizioso sorriso che il soprano aveva lanciato a Giacomino, l'anziano collega gli disse a mezza voce: - Non t'illudere, fesso! Ti sta solo prendendo in giro. Una donna di gran classe, come quella lì, guarda a noi orchestrali come se fossimo “scarrafoni” (scarafaggi), cosa credi che possa pensare di te? Pensa a suonare bene invece di fare “'o strunz'” (stronzo) -. Giacomino avrebbe voluto rispondergli per le rime ma si trattenne dal farlo. Voleva evitare a tutti costi di avere attriti coi colleghi.
  • 29. CAPITOLO V Brigida Giorgi Banti Napoli 26 maggio 1791 Arrivò il giorno del debutto. Giacomo Fiorenza si presentò in teatro in largo anticipo con la sua livrea lavata di fresco e profumata con sapone di Marsiglia. Sembrava un damerino per come gli stava bene la divisa da orchestrale. Arrivato in teatro, gli fu detto da Aniello che avrebbe dovuto aspettare per entrare in buca. Stavano rivestendo il corrimano dello spazio riservato all'orchestra con strisce di seta rossa e, ne approfittavano per ammazzare “scarrafune e zoccole” (scarafaggi e topi).
  • 30. Oramai, però, era lì. Per ingannare il tempo, Giacomo passò dietro le quinte del palco e finì in un corridoio dove affacciavano i camerini degli artisti. Davanti alla prima porta c'era un foglietto con la scritta “Maestro Gaetano Marinelli, compositore e direttore d'orchestra”. Il secondo camerino aveva la porta aperta e Giacomo non sapeva a chi potesse appartenere finché, passandovi davanti, vide Brigida Giorgi Banti di spalle di fronte ad uno specchio. Nel suo camerino c'era anche una giovane sartina che le stava stirando l'abito di scena con un nuovissimo ferro da stiro a carbone. La signora Banti vide Giacomo e lo riconobbe immediatamente. - Giovanotto, vieni qui! - Se una cantante così famosa ti chiama nel suo camerino, non puoi certo dire di “no”. Giacomino, timidamente, entrò. La signora si rivolse alla sartina. - Vai pure, cara e, uscendo, chiudi la porta – La sartina obbedì e Giacomo Fiorenza rimase da solo con la diva. Lei fece: - Accomodati su quella sedia libera – Giacomo rispose. - Preferisco stare in piedi - - Ah! C'ha carattere il giovane! - fece lei – … d'accordo! Rimani pure in piedi … tanto … per ciò a cui
  • 31. mi occorri, è anche meglio che tu non ti sieda. Dopo queste parole, la signora s'inginocchiò di fronte a lui e gli slacciò le braghe. Sebbene Giacomo avesse da poco compiuto quattordici anni, il suo sviluppo era già completo. Tra i suoi coetanei, quando d'estate andavano a nuotare a Santa Lucia, e mostravano le reciproche nudità sugli scogli posti di fronte alla villa comunale cittadina, era soprannominato “'O capitone!” (L'anguilla) in virtù del suo spropositato sviluppo relativo all'apparato di riproduzione. Queste dimensioni, nonché il profumo di pulito che emanava dalle sue zone intime, non suscitarono esitazioni nel famoso soprano per l'obiettivo che s'era prefissata. Non aveva dubbi riguardo il fatto di trovarsi di fronte ad un giovane uomo. L'esperienza della donna riuscì a risolvere la questione in poco più di cinque minuti alla fine dei quali, disse: - Complimenti, giovanotto, quanta grazia … e che pulizia … ce l'hai una fidanzata? - - No, signora, sono ancora troppo giovane - - Che sciocchezze! Alla tua età i giovani hanno … a proposito, quanti anni hai? - - Il mese scorso ne ho compiuti quattordici – rispose lui, innocentemente. Alla Banti, per poco, non le prese un colpo. - QUATTORDICI! Ma dai! Stai scherzando? -
  • 32. - Nossignora! Sono nato il 16 di aprile del '77 - - Oddio! Un bambino … uh mamma! - Giacomo, dopo le confidenze intime con la signora, si sentiva un po' più spavaldo. Fece: - Come avete potuto vedere, sono tutt'altro che un bambino … è vero! Sono molto giovane ma … - - Niente “ma” … - lo interruppe lei - … questa cosa non è mai accaduta … capito? - Giacomo era stato, molto spesso, presente alle azioni galanti di Nino il bello, suo padre. Era il momento d'imitarlo. - Signora, sebbene io sia molto giovane, come avete potuto vedere, so il fatto mio, sia per quanto riguarda il lavoro che per quanto riguarda tutto il resto. Se il vostro timore è l'indiscrezione, sappiate che sono un gentiluomo e nulla di ciò che è accaduto in questa stanza, sarà mai divulgato fuori da essa – La Banti tacque per soppesare le parole del ragazzo, infine: - E sia! Se sarai discreto come dici, … torna anche domani prima dello spettacolo. Ora, però, va! -. Nei giorni a seguire Giacomo scoprì, dalla signora Banti, che era in uso, tra i soprani lirici, fare ciò che lei faceva a lui ogni sera prima dello spettacolo. A quanto pareva, si trattava un esercizio basilare tra le cantanti. L'esercizio serviva a far in modo che queste professioniste rilassassero i muscoli della gola per avere il miglior suono possibile. Questa non fu la sola cosa che Giacomo scoprì dalla
  • 33. signora. La Banti era, come lui, figlia di un musicista ambulante. Da ragazza fu notato il suo talento mentre si esibiva in duo con un contrabassista gigante di Venezia con le mani enormi e una tecnica spaventosa, un tale Domenico Dragonetti. La Banti, dal canto suo, scoprì con suo immenso piacere che il ragazzo aveva l'abitudine di lavarsi tutti i giorni. Giacomo era felice, si sentiva un uomo a tutti gli effetti e non s'accorgeva di essere costantemente l'oggetto di sguardi truci e sospettosi da parte di Bossolo. Le repliche, visto l'enorme successo cittadino dell'opera, sarebbero andate avanti per un mese e mezzo.
  • 34. CAPITOLO VI Albano Laziale (Roma) 25 aprile 1866 − Venite, maestro Fiorenza! - Il pomeriggio del giorno seguente, i due uomini s'erano dati appuntamento nello studio dell'abate. Liszt lo stava aspettando con due bicchieri di vino bianco in mano. − Grazie, maestro ma, per piacere, fatemi la cortesia di chiamarmi Giacomo -. − D'accordo, Giacomo e allora voi chiamatemi Franz -. − Non potrei mai! Un maestro come voi - − In queste mura c'è un solo maestro, l'altissimo. Io per voi sarò Franz, un vostro amico - − Ne sono onorato -. − Venite accanto al pianoforte. Voglio farvi ascoltare un brano -. Giacomo prese posto su una sedia alla destra dello sgabello pianistico sul quale si sedette Liszt e quest'ultimo cominciò a suonare. Il brano durò una decina di minuti. Quando smise di suonare l'abate si voltò verso l'anziano e vide che aveva le lacrime agli occhi. − Cosa vi succede, amico mio? - − È bellissimo … - disse Giacomo mentre si
  • 35. asciugava gli occhi - … è vostro? - − No, magari! Questa è una composizione del marito di mia figlia Cosima. Lui è un tedesco, si chiama Wagner, Richard Wagner. Quello che vi ho fatto ascoltare è il preludio di una sua opera lirica - − Stupendo. Un giovane come questo Wagner, con la sua musica avveniristica, mi dà ancora di più l'idea che il mio mondo è finito - − Beh! Mica è tanto giovane, mio genero. Ha solo un paio d'anni in meno a me -. − Ma avete detto che è il marito di vostra figlia, giusto? - − Beh? - − Ohps! Scusate, noi vecchi siamo inopportuni - − Non vi scusate, Giacomo … pur essendo quasi un mio coetaneo, Richard rappresenta, senza ombra di dubbio, il futuro. Sono certo che abbia sposato mia figlia per interesse … visto l'influenza che ho nel mondo della musica … ma parliamo d'altro … piuttosto, parlatemi di voi. Ne avrete viste tante. Avrete suonato coi più grandi al mondo. Più o meno tutti sono passati per il San Carlo - − Si, in effetti ho suonato con molti grandissimi musicisti anche se, dopo che si è suonato con Mozart, questi “grandi” non ti sembrano poi
  • 36. tanto … - Liszt lo interruppe. − Un momento! Avete suonato con Mozart? Cioè … mi state dicendo che … - − Si. Ho suonato con lui quando avevo quattordici anni e lui addirittura compose un brano ispirato dal mio modo di suonare, un brano che conservo da allora - − Voglio sapere tutto. E voglio leggere questo brano! Raccontatemi tutto di voi - − La mia è una storia lunga, vista l'età, ci vorranno giorni - − Beh? Nessuno ci sta mettendo fretta. Me ne racconterà un pezzettino ogni giorno. Abbiamo tutto il tempo che vogliamo - − Speriamo … - disse Giacomo.
  • 37. CAPITOLO VII Primo licenziamento Teatro San Carlo 16 giugno 1791 Quella sera, dopo il quotidiano rituale pre- spettacolo, la Banti gli disse: - Stasera, quando abbiamo finito, torna in camerino. Aspetta che prima siano andati via tutti e poi torna. Capito? Ho un regalo per te -. Finita la rappresentazione teatrale, Giacomo fece ciò che gli era stato chiesto. Quando vide che non c'era più nessuno in corridoio, bussò alla porta dell'artista. - Chi è? - fece lei. - Giacomo - - Entra – Appena entrato, lei gli chiese: - T'ha visto nessuno? -
  • 38. - No - - Bene … allora … buon compleanno … - - Ma è stato due mesi fa – fece Giacomo. - Lo so ma, due mesi fa noi non ci conoscevamo ancora. Mi accordi il permesso di farti un regalo, anche se fatto con un ritardo di due mesi? - - Certamente. Un regalo non si rifiuta mai … dov'è? Cos'è? - - Ecco il tuo regalo - Dopo aver detto queste parole, Brigida Giorgi Banti appoggiò il viso sul tavolino da toeletta e s'alzò la gonna. Giacomo vide che non indossava le culotte. Rimase fermo e imbarazzato. Credeva d'aver capito ma voleva esserne certo sebbene il suo “pesce” (il pene) avesse già capito tutto. La signora gli tolse ogni dubbio. - Vieni a prendertelo 'sto regalo? - Lui ringraziò e accettò il dono. Ciò che Giacomo non sapeva era che, fuori dalla porta dell'artista, Bossolo ascoltava ciò che stava accadendo e, i gemiti che cominciarono di lì a poco, non lasciarono ombra di dubbio al terzo contrabasso su cosa stesse accadendo al di là della porta dove vi aveva visto entrare il giovane collega. Tutti gli strumentisti che possedevano strumenti grandi, tipo i timpani, il clavicembalo e i contrabassi, lasciavano i propri strumenti nella buca in teatro. Giacomino aveva adottato la sana abitudine, ogni
  • 39. pomeriggio, di recarsi a teatro e col permesso di Aniello, il custode, nel silenzio più assoluto, ne approfittava per studiare scale e arpeggi per non perdere la “mano”. Quando, nel pomeriggio del 15 di giugno del 1791, Giacomo arrivò in buca, vide i tre colleghi contrabassisti che stavano istruendo un altro contrabassista sui passi orchestrali dell'opera. Il suo strumento personale era stato posizionato fuori dalla buca. - Cosa succede qui? - chiese preoccupato il giovane. Gli rispose il maestro Dominianni, il primo contrabasso. - Non ne ho idea, ragazzo, ci hanno detto solo che dovevamo istruire questo giovane che t'avrebbe sostituito - - Non capisco, ho fatto forse qualcosa di male? - Bossolo scoppiò in una risata. - Qualcosa? Qualcosa di “grosso” vorrai dire! Va va, vai in direzione che mò ti danno il benservito. Ti stanno aspettando - Il giovane non perse tempo a rispondere per le rime al collega. Si precipitò in direzione, al terzo piano. Lì dentro c'erano il maestro Marinelli in persona, l'amministratore del teatro, l'impresario e il maestro Buonomo. Quando entrò, senza bussare alla porta, i signori smisero immediatamente di parlare tra di loro. - Perché? - Urlò Giacomo. - Non si usa bussare alla porta, guagliò? - fece l'impresario. Giacomo non se ne curò e ripeté. - Perché? … in cosa ho sbagliato? - a quel punto,
  • 40. intervenne con dolcezza il maestro Marinelli che, evidentemente simpatizzava per il giovane. - Non hai sbagliato nulla … a meno che qualcuno, in questa stanza, consideri l'essere giovani come uno sbaglio – Si guardò intorno e tutti gli astanti evitarono il suo sguardo. - Allora perché mi cacciate? - - Ragazzo non ti stiamo cacciando ma … - fece l'impresario - … la nostra è una struttura seria e non ama gli scandali. Stamattina, “'n aucielluzzo” (un uccellino) ci ha riferito che, oltrepassando i limiti della tua posizione, “te staje futtenno 'a Banti” (ti stai scopando la Banti) - - E che cazzo! … - fece il maestro Buonomo - … un po' di garbo, dottore! -. - Me ne fotto del garbo … è vero guagliò? Ti chiavi la signora? - Giacomo arrossì, avrebbe voluto saper mentire ma il suo volto era inequivocabilmente colpevole. Dopo un lungo, imbarazzante silenzio, intervenne l'amministratore del teatro. - Tieni! … - e gli passò una busta - … qua dentro ci sta la paga per gli spettacoli. Ci ho messo dentro una piccola regalia dietro espressa richiesta del maestro Marinelli - - Non li voglio i vostri soldi! - disse Giacomo e buttò la busta a terra. L'amministratore si stava chinando per riprendersela
  • 41. ma il maestro Buonomo fu più rapido di lui. Afferrò la busta e disse: - Giacomino caro, stamattina ho parlato col maestro Marinelli. Non credere che lui non abbia notato il tuo straordinario talento. Prendi 'sti soldi. Ti serviranno per il viaggio che dovrai fare -. Giacomino passò dalla rabbia alla perplessità. - Viaggio … quale viaggio? - Buonomo gli disse, con una punta di sorriso sulle labbra: - Andrai a Vienna - - Vienna? - chiese Giacomo, perplesso. Gli rispose il maestro Marinelli. - Si, Vienna. Dopo aver capito che non saresti potuto rimanere in orchestra, almeno per questo spettacolo, per evitare ogni tipo di chiacchiera o scandalo, ho cercato il maestro Buonomo e, insieme, abbiamo convenuto che il tuo talento andava premiato, indipendentemente dai tuoi calori giovanili … tieni! - e gli diede una busta chiusa con la ceralacca. - Cosa sono? Altri soldi? - Il maestro sorrise. - No. Qualcosa che vale molto più del denaro. È una lettera di presentazione che porterai al signor Gustav Brunner in Kohlmarktstraße a Vienna. In passato, m'aveva chiesto che gli segnalassi qualche valente strumentista. Tu sei un buon contrabassista. Questa persona mi deve dei favori ma, sono sicuro che, dopo averti sentito suonare, capirà che sono stato io a fargliene un altro, di favore –
  • 42. Giacomo taceva. I suoi sentimenti erano passati dalla rabbia alla vergogna alla perplessità alla riconoscenza fino alla commozione. Intervenne nuovamente l'impresario per riempire quel silenzio. - Guagliò. Non ti preoccupare perché quando torni a Napoli lo scandalo sarà dimenticato e, se vorrai tornare, avrò sempre piacere di riprenderti in orchestra … basta che non ti fotti più le prime donne - Scoppiarono tutti a ridere. Il riso contagiò anche Giacomo. Quando smise l'attacco d'ilarità, il maestro Marinelli disse: - Quando andrai a salutare la signora Banti, perché so che lo farai, non fare cenno a ciò che sappiamo su voi due. Dille soltanto che ti abbiamo spedito a Vienna per un importante ingaggio con l'orchestra del principe Esterhàzy, sarebbe troppo imbarazzante per lei scoprire che noi “sappiamo”, non credi? - - … credo! - Giacomo, uscendo dall'ufficio dell'amministrazione, si precipitò immediatamente al camerino della Banti. Lei era lì. Lo vide trafelato e disse: - Che succede? Vai di fretta oggi? Guarda che è ancora pre … - lui la interruppe. - No, signora … - Giacomo non aveva mai smesso di chiamarla “signora” malgrado tutta la confidenza che condividevano – … il fatto è … è che sono venuto a
  • 43. salutarvi … vado via – Lei si alzò di scatto e chiuse la porta. - Cos'è successo? C'entro io con tutto questo? - - Per carità, no! La direzione del teatro, visto il mio talento, mi ha dato una lettera di raccomandazione per suonare a Vienna nell'orchestra del principe Ester … Este … non mi ricordo - - Esterhàzy? Accidenti! - fece lei. - È una persona importante? - - A parte il fatto che è un principe? No! Niente di ché … Ma che sei? Scemo? Un principe è un principe. Non basta essere principi per essere importanti? - - Io … ehm, credo di si … ma mi dispiace lasciarvi, io … se volete, rinuncio - - Allora sei davvero scemo! Scusa Giacomo ma, come si dice da queste parti “quanno 'ce vo', 'nce vo'”(è necessario). Ascoltami bene, tu sei giovane e pieno di talento. Un'occasione così capita una sola volta nella vita. Certo! Mi mancherai ma, se non mi fossi affezionata a te, se fossi un po' più egoista, ti direi “rimani qui” ma … al tuo posto non ci penserei due volte. Devi assolutamente andare a Vienna -. Giacomo rimase muto e basito per qualche istante. Brigida tacque insieme a lui ma poi, riprese la parola. - Comunque hai ragione. Non era per il principe Esterhàzy che ho avuto un sobbalzo ma perché la sua orchestra è spesso diretta dal più grande genio della musica
  • 44. … pensa che è stato anche qui, a Napoli, quand'era un bambino … anche se qui … insomma, non ha avuto molto successo - - Perché? - - Perché in una città piena di talenti, come Napoli, è molto difficile notare la differenza col genio assoluto - - Già … e chi è questo genio? - - Un austriaco, Wolfgang Amadeus Mozart -.
  • 45. CAPITOLO VIII Mozart In viaggio, 10 giugno 1991 Giacomo non rivide più la Banti prima della partenza. Al San Carlo, le repliche si sarebbero svolte ancora per una settimana ma con un altro quarto contrabasso. Coi soldi guadagnati in teatro, comprò un carretto e un cavallo, vi caricò dentro i pochi averi che possedeva, il suo contrabasso, qualche indumento pesante, dietro consiglio della madre “perché a nord fa freddo”, qualche vestito nuovo e un po' di pane di somma, frutta, provole e insaccati per non preoccuparsi del cibo almeno per un po'. Si unì a tutte le carovane che trovò dirette al nord. Quando si viaggiava, a quei tempi, conveniva essere numerosi. Usciti dal Regno delle Due Sicilie, era sovente
  • 46. imbattersi in predoni. Tanto nell'entroterra dello stato pontificio quanto tra le nebbie della pianura padana c'era molta delinquenza e, il rischio di essere depredati era altissimo. Le carovane viaggiavano numerose e, spesso, erano scortate da uomini armati ben retribuiti. Un ottimo deterrente per i malintenzionati. Ogni sera, quando le carovane si fermavano per cenare e dormire, tutti invitavano Giacomino ad intrattenerli con canti di tammurriate, tarantelle e antiche villanelle napoletane. Giacomo aveva anche una bella voce, robusta come quella di un uomo adulto ma ancora capace di salire in una tessitura fanciullesca. A volte cantava “a cappella”, a volte s'accompagnava pizzicando il contrabasso ma, se trovava una chitarra o un mandolino, riusciva ad ottenere un effetto più incisivo sul suo pubblico. Gli bastava imitare papà. E fu così che la sera del primo giorno di luglio del 1991 arrivò a destinazione. Vienna non era Napoli, nessun posto al mondo poteva essere Napoli. Vienna era sporca, poche strade erano lastricate, le altre vie di circolazione erano di terra battuta. Lui prese una camera in una locanda, la “Hans Gasthaus” nella cui stalla lasciò il cavallo e il carretto, trasportò nella stanza il contrabasso e i suoi effetti personali, si fece portare in camera un bagno, si lavò e andò a dormire. Il giorno seguente, pulito e riposato, indossò un bel
  • 47. vestito e andò a trovare Herr Gustav Brunner. L'ufficio del signor Brunner in Kohlmarktstraße era al centro. Si passava sotto un lungo porticato e si arrivava nell'androne di un palazzo. Giacomo, da buon napoletano, possedeva un'ottima mimica e riuscì a farsi dare le indicazioni giuste al punto che, arrivato nell'androne, si diresse spedito verso la porta dell'impresario austriaco. Andò l'impresario stesso ad aprirgli la porta e, quando gli chiese “Was willst du?” (cosa desideri?), per tutta risposta il ragazzo gli porse la lettera. L'uomo lesse il nome del mittente ed entrò in casa seguito a distanza da Giacomo. L'austriaco era un uomo di circa sessant'anni, alto un metro e ottanta, corpulento, con un colorito epidermico eccessivamente roseo. La pelle era molto porosa e presentava le macchie della vecchiaia. Aveva una mascella squadrata e un naso lungo e dritto che, su quel viso rubicondo, sembrava una mezza piramide sulla sabbia. Non lo aspettava ma, quando lesse la lettera d'accompagnamento, il suo sguardo severo s'aprì in un sorriso compiaciuto. Disse, in un perfetto italiano. - Ah! Bene bene. Proprio stamattina mi hanno fatto una richiesta per un gruppo di musica da camera e stavo per scegliere gli elementi dell'orchestra - - Voi siete italiano? - chiese Giacomo, che non s'aspettava questa facilità di comunicazione. Durante il viaggio, aveva studiato quante più parole potesse imparare
  • 48. della lingua austriaca. - No, ragazzo, sono Viennese ma, come saprai, la musica parla in italiano e, chi lavora nel mondo dell'arte, è tenuto a conoscere questa lingua … tu, piuttosto, non sei troppo giovane perché il maestro Marinelli ti abbia spedito qui? Sicuro di essere un buon contrabassista? Guarda che qui non è mica facile … - - Lo sono, signore. Sono un buon contrabassista, così mi dicono ... -. - Ah si? Vedremo … quando posso ascoltarti? - - Anche subito. Ho lo strumento nella locanda dove ho preso in affitto una stanza - - E dov'è questa locanda? - - Si tratta della Hans Gasthaus - - Conosco il posto. Bene! Va lì. Ti raggiungo tra circa un'ora - Giacomo andò via di corsa. Voleva avere il tempo di scaldare la mano per fare la più bella figura possibile. Fece scale, arpeggi, ripassò i brani più difficili che aveva in repertorio. Non s'accorse che erano passate quasi tre ore finché non sentì d'avere fame. “Ecco!” pensò “Non verrà! E cosa farò adesso io in una città dove non conosco nessuno e nessuno mi conosce? E parlano pure un'altra lingua … ”. Posò il contrabasso in un angolo della stanza e s'affacciò alla finestra. Proprio in quell'istante vide apparire Herr Brunner da dietro l'angolo della via. Accanto a lui c'era un tipo molto singolare.
  • 49. Era leggermente più basso di Giacomo. Indossava una livrea celeste che sarebbe stata elegante se non fosse stata tutta sgualcita. Aveva le calze bianche tutte sporche di fango al punto che non si capiva dove finissero le calze e cominciassero le scarpe. Aveva i capelli color ruggine e la fronte eccessivamente prominente. Camminava lentamente come chi ha i postumi di una malattia, o di una sbornia. “Certo che frequenta proprio dei brutti personaggi questo Brunner” pensò. Si allontanò dalla finestra e si sedette sul letto aspettando che bussassero alla porta. Impiegarono molto tempo per arrivare davanti alla sua porta e bussare. Lui li aveva sentiti parlare come se stessero litigando ma non poteva giurarci sul litigio perché non conosceva bene la lingua austriaca. Aprì la porta mentre i due continuavano a battibeccare. Era Herr Brunner il più animoso dei due. L'uomo sgualcito, che aveva in mano un boccale di birra che doveva aver preso nella taverna della locanda, fece un cenno all'omone per indicare che la porta s'era aperta e, per chiudere ogni discorso, si lanciò con la mano tesa verso Giacomo. - Piacere, Wolfgang! - Parlava un italiano perfetto. - Piacere, Giacomo Fio … Wolfgang? Per caso Wolfgang Amadeus Mozart, il genio? - - Magari! - fece lui. Gustav Brunner intervenne: - Non dargli retta, ragazzo, è proprio lui - Giacomo era perplesso. La sua idea di “genio” era
  • 50. un uomo enorme, eroico, vestito sontuosamente e con l'alterigia che solitamente contraddistingue i grandi personaggi. Quello che aveva d'avanti era un ometto liso nel vestire e nei modi, con un'evidente passione per il bere. Mentre fantasticava su questo pensiero, Herr Brunner disse: - Beh? Abbiamo fretta. Facci sentire se sei davvero bravo come ha detto il maestro Marinelli -. Giacomo afferrò il contrabasso. Non era impaurito da Mozart. Pensava che Brigida Banti avesse esagerato nel giudizio e che un uomo, così dismesso, non poteva fargli paura dopo aver sostenuto il provino con i grossi parrucconi del San Carlo. Questa mancanza di soggezione giocò in suo favore. Con spavalderia attaccò subito con una tarantella e, quando finì di eseguirla, senza che glielo chiedessero, suonò immediatamente “Fenesta vascia”. Quando terminò l'esibizione, Wolfgang tirò da sotto la livrea un foglio di musica tutto sgualcito. Prese la penna d'oca e una boccetta con l'inchiostro dal piccolo scrittoio nella camera di Giacomo, si stese sul pavimento e si mise a scrivere. - Cosa … ? - provò a chiedere Giacomo. - Shhh! - lo zittì Brunner. Dopo un minuto, Mozart si rialzò e gli tese il foglio. - Cos'è? - chiese Giacomo. - Mi piace quell'elegia che hai suonato e, visto che sei bravo a suonare le tarantelle, ho scritto una variazione
  • 51. di quell'elegia in forma di tarantella - − Così? Su due piedi? - − Beh! Vista la posizione in cui ho scritto, direi “Così, su due palle” Ah! Ah! Ah! - e scoppiò in una risata cristallina.
  • 52. Anche Giacomo e Gustav Brunner furono contagiati dall'ilarità del genio. Lui, improvvisamente, smise di ridere e, con molta serietà, disse: - Allora? Andiamo a mangiare? Vieni con noi, ragazzo. Offre Brunner … Ah! Ah! Ah! - Quel giorno, Giacomo Fiorenza lo ricordò per tutta la vita. Conobbe in Mozart un individuo straordinario, dotato di un'energia non comune. Era come una fiamma alta in un caminetto, emanava spontaneamente luce e calore ma, essendo cresciuto in un paese caldo, Giacomo non poteva sapere che più alta era la fiamma, più bruciava in fretta. Wolfgang era di carattere allegro, molto curioso, lo tempestò di domande. Dopo pranzo, seduti al tavolino di un'elegante osteria del centro cittadino, mentre Brunner sonnecchiava con la testa appoggiata sul tavolo, davanti all'ennesima birra, gli chiese: - Sei italiano a quanto vedo ma di dove sei, di preciso, Lombardo? Piemontese? Vieni da qualche signoria? - - Borbonico. Vengo da Napoli - - Ah, Napoli, che delusione è stata per me Napoli – fece lui, tra sé e sé - - Delusione? E perché? - - Sai, Giacomino, ho girato tutta l'Europa. Ho
  • 53. visitato spesso l'Italia ma Napoli … ah, Napoli … - - Non capisco … – fece lui - … cos'ha Napoli di tanto brutto da essere così deludente? - - Brutto? No! Napoli è bellissima … è il centro del mondo - - Ma, … allora … ? - - Guarda, non è semplice ma … sai … fin da bambino sono stato sempre trattato da “fenomeno”, un po' da tutti ma … - Intanto, buttò giù un'altra lunga sorsata di birra fredda, ne ordinò un'altra e continuò. - Ecco … a Napoli non mi è andata così bene. Non fui accolto come credevo. Mio padre stesso mi sgridò attraverso una lettera che mi spedì poco tempo dopo che ero stato in quella città. Mi redarguì dicendomi che avevo commesso un grosso errore nell'andare a Napoli con la presunzione che m'avrebbero spalancato le porte di teatri e palazzi. Napoli è il centro del mondo. Il posto con la più alta concentrazione di conservatori, teatri e … artisti. Mio padre mi scrisse che sarei dovuto andare a Parigi, Roma o in qualunque altra parte dell'Europa o dell'Italia dove non c'è tanta concentrazione di talenti e di bellezza ma … lasciamo perdere -. - Mi spiace, maestro -. Disse Giacomo, che provava simpatia per lo stravagante artista. - Non dispiacertene. Ho avuto tante soddisfazioni durante questa mia vita che non posso essere proprio io a
  • 54. lamentarmi … piuttosto, sappi che, comunque, grazie alla forte superstizione dei napoletani, mi sono anche divertito … e non poco -. - Ditemi … - A Giacomo piacevano gli aneddoti. - Suonai in una sala da concerti. Eseguii alcune mie composizioni alla tastiera e, mentre suonavo, m'accorsi che tutto il pubblico fissava la mia mano destra. Lo vedi quest'anello? - - Bello! - - A Napoli e ai napoletani, anche se non fui apprezzato come speravo, non sfuggì il mio talento e, mentre suonavo una mia composizione che, per quella specifica occasione, io riempii di variazioni ed improvvisazioni, si sollevò un mormorio dall'auditorio al punto che mi dovetti fermare - - La ragione? - - Qualcuno s'era convinto che la mia bravura dipendesse da chissà quali poteri magici di quest'anello … assurdo, non ti pare?- - Ah ah ah … ebbene? - - Ebbene … mi tolsi l'anello con gesto plateale e lo poggiai sul pianoforte. Solo in quel momento, scatenai tutta la mia inventiva e il mio talento lasciandoli tutti di sasso - - Grande! Avrei voluto esserci - - È stato tanto tempo fa e tu sei molto giovane, non credo che a quei tempi … a proposito! Quanti anni hai? -
  • 55. - Quattordici, maestro - - Quattordici? Accidenti! Sei un ragazzino! … però suoni come un uomo … dimmi … hai già fatto sesso? - - Sissignore! - - Ottimo! Vediamoci stasera alle sei. Vengo a prenderti e ti porto in un posto molto divertente. Vengo in carrozza. Tu porta il contrabbasso … Gustav! Paga tu il conto - Si alzò, salutò e andò via.
  • 56. CAPITOLO IX Fine di un sogno Vienna 1 luglio 1791 Quella sera andarono in un casino nella zona più malfamata della città. Un edificio buio e puzzolente ma, all'interno, nel grosso salone d'ingresso, c'era un ottimo clavicembalo. Giacomo era piuttosto imbarazzato nel muoversi con l'ingombrante fardello del proprio strumento ma, affacciandosi all'ingresso, s'accorse che nessuno avrebbe fatto caso a lui, vista la quantità di ragazze che giravano nude per l'ambiente. Entrarono e Mozart disse alla tenutaria: - Guter Abend madame, … - e le sussurrò qualcosa all'orecchio a cui lei, con un ghigno, rispose. Poi,
  • 57. rivolgendosi a Giacomo, con un sorriso, Wolfgang disse - … bene! Ha detto di si! - - A cosa? A cos'ha detto di si? - - Ha detto che, se suoniamo per mezz'ora e facciamo divertire i clienti e le ragazze, dopo, possiamo scegliere quella che più ci piace e portarcela su, in una camera - Suonarono. Mozart eseguiva tutti brani che Giacomo non aveva mai sentito prima di allora. Evidentemente erano sue composizioni. Il genio austriaco non aveva portato con sé alcun tipo di spartito. Pretendeva che il giovane contrabassista napoletano eseguisse “a orecchio” quei brani a lui sconosciuti. Giacomo suonò. Suonò tutto o quasi. In quella performance mise a frutto l'esperienza che aveva acquisito, fin da piccolo, seguendo il padre nelle sue esibizioni di musica da strada più che gli studi accademici fatti col maestro Buonomo ma, anziché bearsi della dimostrazione del proprio talento, era incantato dalla concretezza musicale delle composizioni del maestro Mozart. Era una musica … come dire … logica! Il susseguirsi dei temi musicali era quanto di più spontaneo e cantabile avesse mai sentito. Fino a quel tempo, tutti i compositori che aveva
  • 58. sentito suonare si rifacevano allo stile aulico, praticamente al barocco. Lo stile musicale di Mozart era più paragonabile alla musica popolare che al contrappunto antico. C'era la melodia e c'erano gli accordi … niente di più spontaneo. Si capiva che, lo stesso Mozart, scriveva le proprie composizioni affidandosi all'orecchio anziché alle regole accademiche. Era qualcosa di totalmente nuovo. Ora Giacomino, finalmente, capiva di trovarsi alla presenza di un caposcuola, un artista che avrebbe cambiato, per sempre, il rapporto tra i compositori e il pubblico perché la musica di quell'artista poteva essere capita e apprezzata anche dalle prostitute e dai loro clienti. Mentre si lasciava trasportare da quei suoni, Mozart interruppe un brano a metà, salì sulla sedia posta davanti al clavicembalo e disse: - Signore e signori, questo giovanotto che suona un violino rubato ad un gigante, ora vi eseguirà un brano della sua terra, Napoli -. Tutti lo guardarono sbigottiti. Non avevano capito una sola parola di quanto aveva detto Wolfgang perché aveva parlato in italiano. Chiese a Giacomo: - Perché mi guardano così? - - Maestro … - fece Giacomo - … ma qui, tutti parlano in italiano? - - Italiano? Ah! Si, è vero! scusa … meine Damen
  • 59. und Herren … - e ripeté la presentazione in tedesco poi, rivolgendosi al ragazzo, disse: - Suona quell'elegia che mi hai fatto sentire stamattina! - − - Ma, maestro, ve la ricordate? L'avete sentita solo una volta … - - Certo che me la ricordo … mah! Vuoi vedere che, allora, sono proprio un genio? Tu che ne dici? … eh! eh! eh! Suona, va tranquillo e … visto che ci sei, suona pure la variazione che ti ho scritto in forma di tarantella -. Il maestro accompagnò Giacomo nel suo assolo e improvvisò un contrappunto sul tema di “Fenesta vascia”. Giacomo la suonò come non l'aveva mai suonata prima di allora ma, lo sapeva, il merito era di Mozart. Giacomo l'aveva sentita cantare e accompagnare dalle chitarre un milione di volte ma mai avrebbe potuto immaginare l'armonia e i bassi che poteva contenere quella semplice melodia. Per lui fu come scoprirla per la prima volta. Alla fine dell'esibizione, vi fu quasi un minuto di applausi e di urla di gioia. La stessa tenutaria del bordello dovette essere rimasta molto colpita dai due al punto che, con un entusiasmo difficile da trovare in un simile individuo, disse qualcosa in tedesco a Wolfgang e Giacomo. Mozart scoppiò a ridere e batté le mani. Giacomino si precipitò a chiedere:
  • 60. − Cos'ha detto? - e Mozart, con un sorriso, rispose. − Ha detto che siamo stati così bravi che ci offre due delle sue più capaci ragazze … a testa - − Due? - − Beh! Se proprio non ce la fai con due, passane una a me - − Io … no! Ce la faccio, ce la faccio … - Giacomino passò una notte indimenticabile con due professioniste del sesso. Non immaginava di poter provare simili sensazioni. Certo! Con la signora Banti c'era stato qualcosa di diverso. Fosse stato anche solo perché si trattava della sua “Iniziazione” ma l'esperienza di quelle due ragazze che avevano pochi anni più di lui gli insegnarono quanti modi esistevano per godere la sessualità. Il fatto stesso di non parlare la medesima lingua, gli evitava tutta una serie di imbarazzanti bugie. Silenzio e copula! All'una di notte, Mozart lo riaccompagnò alla Hans Gasthaus e, dopo di allora, Giacomo Fiorenza rivide il maestro solo dalla postazione di orchestrale il giorno in cui il genio si esibì nella direzione di un proprio concerto per clarinetto e orchestra il 7 di ottobre. Un concerto che, poi, sarà catalogato con la sigla “K 622”. Aveva fatto due giorni di prove con l'orchestra e il clarinettista ma, in quei due giorni, Mozart non si presentò mai alle prove. Il maestro sostituto era un allievo di
  • 61. Mozart, un tale Franz Sussmayr, un individuo che a Giacomo non piacque affatto. La sera stessa del concerto, Mozart era in ritardo. L'orchestra evitava di salire sul palco per non far notare ancor di più l'assenza del maestro. Mentre attendeva nella stanza dov'erano stipati gli orchestrali e un disperato Gustav Brunner copriva tutta la stanza a grandi passi, Giacomo si affacciò dalla porticina per vedere quanta gente vi fosse in sala e vide, in fondo alla sala, un tipo piuttosto inquietante e comico nel contempo. − Herr Brunner! - chiamò. Lui corse da Giacomo immediatamente. − È arrivato? - chiese con ansia. − Non ancora … mi spiace - − Allora perché mi hai chiamato? - − Chiedo scusa. Volevo distrarvi un attimo … altrimenti impazzirete nell'attesa del maestro – Brunner cominciò a parlare da solo. − Questa è l'ultima … gliela faccio pagare … con me ha chiuso … genio o non genio … non si fa così … - poi, vedendo che il ragazzo attendeva che lui si calmasse così da dirgli il motivo per cui l'aveva chiamato accanto alla porticina laterale, gli chiese - … cosa volevi dirmi? - − Sapreste dirmi chi è quel giovane che sembra una scimmia vestita in modo elegante? -
  • 62. − Dove? - − Laggiù … guardate … - e gli indicò un punto in ombra in fondo alla sala. − Ah, ah, ah, … ragazzo, ma come ti vengono queste battute? È proprio vero, allora, che voi napoletani avete … beh! Comunque, … quello lì è un ragazzo che sto tenendo d'occhio. Me l'hanno indicato come il futuro della musica di Mozart - − Futuro? Una musica più moderna di questa? - Giacomo era basito. − Certo! Mozart ha aperto nuovi orizzonti nella musica … ora qualcuno dovrà vedere cosa c'è oltre l'orizzonte e … questo ragazzo ha … come dire? … ha i mezzi per arrivarci e andare oltre. Alcuni anni fa, questo giovanotto venne per prendere lezioni da Wolfgang ma non vi riuscì per problemi famigliari. Ora che è più maturo, voglio coltivarlo un po' prima di presentarlo al maestro. Voglio conoscere le sue idee … e poi … Mozart, in questo periodo … un po' mi preoccupa … non è più lui … non so ... -. Giacomo, che oramai venerava Mozart, di fronte a queste parole, inorridì come chi avesse sentito bestemmiare in chiesa. Non poteva immaginare un altro artista che non fosse il suo amico e idolo Wolfgang. Comunque, con un moto di
  • 63. disgusto, chiese: − E come si chiamerebbe questa specie di scimmia ammaestrata? - − Lui viene da Bonn, al nord, e si chiama Ludwig … si! Ludwig van Beethoven Ah! Ecco Mozart … forza! Andate a posizionarvi sul palco -. E, con una manata, spinse Giacomo verso il palco, subito seguito dagli altri orchestrali. Mozart era visibilmente ubriaco eppure, rispetto alla direzione canonica di Sussmayr, egli diresse a mani nude, senza bacchetta di direzione ma con l'eleganza di chi, quel brano, l'aveva partorito dalla propria mente. Sembrava che stesse ballando accarezzando l'aria. Lui, da orchestrale, sentiva che ogni colore, ogni “rubato”, ogni “rallentando”, ogni dinamica aveva un senso logico. Ogni qual volta toccava a lui suonare, Mozart gli strizzava l'occhio e gli sorrideva mezza battuta prima. La serata finì con grandi applausi per il maestro e il solista ma, mentre s'inchinava, Wolfgang crollò a terra. Brunner si precipitò a soccorrerlo e s'accorse che il maestro s'era addormentato. Tranquillizzò tutti dicendo che il maestro aveva perso i sensi perché, in quegli ultimi giorni, stava riposando poco per un'opera enorme che gli era stata commissionata e che, con un po' di riposo, sarebbe tornato in forma.
  • 64. Nessuno immaginava che quella sarebbe stata l'ultima uscita pubblica del genio. Nei giorni successivi, Herr Brunner diede molto lavoro a Giacomo … certo! Non si trattava di suonare in sale da concerto con un genio della musica. Spesso lo chiamava per piccole feste e con maestri di spessore molto infimo ma Giacomo giustificava la cosa pensando che, dopo Mozart, era normale che tutti gli altri musicisti gli sembrassero peggiori … e poi … in fondo, la paga era buona. Stava imparando il tedesco e pensava che, probabilmente, sarebbe rimasto a Vienna per sempre … … ma venne il 6 di dicembre del 1991. Era quasi ora di pranzo, erano due giorni che Giacomo non incontrava Gustav Brunner che, essendo un uomo solitario tutto dedito al lavoro, apprezzava l'idea di pranzare, di tanto in tanto, col giovane napoletano. Tra di loro s'era creata una sincera amicizia. Giacomo bussò e, quando vide il viso sconvolto e rigato di lacrime di Herr Brunner, gli prese un colpo. − Che cosa è successo Herr Gustav? - L'uomo, evidentemente, aveva smesso da poco di singhiozzare perché non riusciva a parlare. Di fronte al viso spaventato di Giacomo, aprì la bocca ma, anziché parlare, riprese a piangere. Giacomo lo prese per un braccio e lo condusse a sedersi al tavolo. Gli versò un bicchiere di vino dalla
  • 65. bottiglia mezza vuota che era sul mobile e aspettò che i suoi singhiozzi si calmassero. Non sapeva che, di lì a poco, sarebbe toccato all'amico Gustav di confortarlo. Infatti, appena ebbe fiato per pronunziare almeno quattro parole, le sue quattro parole furono: − Ieri, Mozart è morto! -.
  • 66. CAPITOLO X Salieri Vienna 6 dicembre 1791 Quella mattina stessa c'erano stati i funerali. Brunner era arrivato al camposanto che la vedova, appoggiata al braccio di Franz Sussmayr, stava già facendo ritorno. Lasciò dei soldi alla signora Mozart quando seppe che il genio era stato sotterrato in una fossa comune. Non immaginava che, malgrado la quantità di lavori scritti, Wolfgang navigava in cattive acque, schiacciato dai debiti. Si rammaricava di non averlo potuto nemmeno omaggiare con un ultimo saluto. Rammarico, dolore e rabbia furono gli stessi
  • 67. sentimenti che esplosero in Giacomo al racconto dell'amico. Anch'egli cominciò a piangere e fu la volta di Gustav a fare da consolatore. Aprirono, per alleviare il senso di vuoto, altre tre bottiglie di vino e ogni brindisi lo dedicarono al “genio”. Si svegliarono all'imbrunire. Erano entrambi stesi sul pavimento. Il dolore non era sparito anzi, ora era coadiuvato da un fortissimo mal di testa post-sbornia. Nei giorni successivi, Giacomo non mise il naso fuori dall'albergo. Fu Herr Brunner che, il 10 di dicembre, andò a bussare alla sua porta. Quando si videro, s'abbracciarono e solo per pudore virile non si misero a piangere entrambi, anche se l'avrebbero fatto volentieri. Quando passò l'emozione, Gustav disse: − Prepara lo strumento. Stasera noi abbiamo un concerto ma … sappi che non è pagato – Giacomo impiegò qualche secondo a capire la fine della frase. Poi, rispose: − Non è pagato? E chi è questo spilorcio? - − Io – fece Gustav. − Voi? … ah! … va bene, se si tratta di fare un piacere a voi, io … - − Ti assicuro, caro amico, che sarai felice di suonare stasera. Si tratta di un concerto privato. C'è un coro e una bella orchestra ma suoneremo in un capannone alla periferia di Vienna … solo
  • 68. per noi … e per Wolfgang -. − Wolfgang? Come sarebbe a dire … ? - − Si tratta di suonare l'ultimo capolavoro del genio, un “Requiem”. L'ha creato sul letto di morte e l'ha dettato ad un suo caro amico. Un maestro molto generoso, è un italiano. Antonio Salieri -. Quella sera, l'atmosfera era silenziosa. I musicisti e i coristi presero posto senza fare i soliti schiamazzi tipici degli orchestrali. Salì sul podio Antonio Salieri, un uomo magro e austero che, in altre occasioni avrebbe incusso molta soggezione. Ora era curvo, piegato dal dolore della perdita. Non disse nulla. Aspettò che i musicisti gli rivolgessero la giusta attenzione e partì. L'attenzione di tutti era totale. Mentre eseguiva le ultime note che il genio aveva composto con quel Requiem, molti pensieri invasero l'anima di Giacomo Fiorenza. Innanzitutto, faticava a leggere. Non perché la grafia, che non era di Wolfgang, fosse poco chiara, anzi! Il fatto era che … suonava e piangeva. Più volte cercò di cacciare indietro le lacrime ma, quando guardò il viso di colui che aveva scritto, sotto dettatura di Mozart, quegli spartiti e lo vide solcato dalle lacrime, non riuscì più a trattenere l'emozione. La seconda cosa che gli rendeva faticoso il suonare
  • 69. fu quando s'accorse di quanto fosse ispirata quella creazione. Era consapevole che stava eseguendo una composizione come mai ve n'erano state prima di allora. Infine, di conseguenza, fu proprio mentre suonava quel requiem che s'accorse d'aver preso la decisione di lasciare Vienna. Non avrebbe mai più voluto suonare in quella città ora che il più grande di tutti era morto. Quando finirono di suonare, i musicisti rimasero fermi con i loro strumenti in mano. I coristi avevano gli occhi fissi sugli spartiti. Qualcuno si soffiò il naso per nascondere le lacrime. Salieri prese la parola: − Gentili maestri, vi ringrazio di cuore per aver omaggiato col vostro talento il più grande musicista di tutti i tempi. Lo conoscevo da anni. Lui, col suo genio, m'ha mostrato la mia pochezza. L'ho amato e l'ho odiato ma ora darei la mia vita per avere la gioia di sentire ancora una volta un suo nuovo capolavoro. Ho tirato su tanti giovani talenti e lo farò ancora finché Dio me ne darà la forza. Lui non ha mai avuto bisogno dei miei insegnamenti … piuttosto, sono io che ho imparato tanto da lui. Mozart è morto. Lunga vita a Mozart! - − Lunga vita a Mozart – fecero tutti in coro. Il giorno seguente, Giacomo lasciò Vienna. Salutò Herr Gustav Brunner ringraziandolo di tutto
  • 70. quanto aveva fatto per lui. Rimasero con l'accordo che si sarebbero scritti spesso, cosa che fecero puntualmente.
  • 71. CAPITOLO XI Albano Laziale (Roma) 26 aprile 1866 − Sapete, Giacomo, stanotte ho faticato molto a prendere sonno e, quando finalmente ci sono riuscito, ho avuto sonni agitati - − Come mai, maestro? - − Vi prego, chiamatemi Franz … altrimenti mi offendo - − Va bene, Franz … allora? Cosa vi ha turbato? - − Il vostro racconto su Mozart. Voi lo avete visto negli ultimi giorni della sua vita, vi stimava, ha condiviso con voi momenti di intimità musicale. Quasi quasi vi invidio … e farò ammenda -. − Vi prego, Franz, non dite così. Io ho avuto molto piacere nel condividere con voi questa storia - − E ve ne ringrazio molto … a proposito di storia … cosa successe quando poi faceste ritorno a Napoli? Tornaste al San Carlo? - − Non subito. Avevo timore di presentarmi lì e chiedere lavoro ma non me ne stetti con le mani in mano: trovai lavoro al teatro dei Fiorentini, poco distante dal San Carlo, e lì ebbi modo di fare la conoscenza di Giovanni Paisiello – Liszt sobbalzò.
  • 72. − Quello di “Nel cor più non mi sento”? - − Si, mio caro Franz. Quello di “Nel cor più non mi sento” e di tante altre belle composizioni. Con lui ebbi modo di scoprire il potere della sfogliatella frolla - − Non capisco … la sfoglia … - Giacomo gli corse in aiuto. − La sfogliatella! Un dolce tipico napoletano inventato in una bottega di via Toledo, una via che ora vogliono chiamare “via Roma” … che vergogna! … comunque … è un dolce morbido fatto con farina e ricotta contenuti in una crosta dura - − Dev'essere deliziosa questa sfogliatella - − Lo è! - Rimasero in silenzio per qualche istante poi Liszt chiese a Giacomo. − E … qual'è stato il suo potere? Il potere della sfogliatella di cui mi stavate dicendo … - − Ora ve lo racconto … -
  • 73. CAPITOLO XII Paisiello Napoli 20 gennaio 1792 Il ritorno a Napoli fu più lento del viaggio d'andata a Vienna. Era inverno e c'erano da attraversare le Alpi. Malgrado le difficoltà, quella sera Giacomino bussò alla porta di casa. Passò del tempo prima che i suoi servigi fossero nuovamente nuovamente richiesti dal teatro San Carlo ma, in fondo, il San Carlo non era l'unico teatro di Napoli. Napoli, una città con una vita artistica così densa, aveva molti teatri … certo! Non tutti i teatri erano adatti al grande allestimento operistico ma una buca per l'orchestra, fosse anche un piccolo organico, ce l'avevano tutti. Fu così che, lunedì 20 febbraio 1792, Giacomo
  • 74. Fiorenza fu ingaggiato dal teatro dei Fiorentini, in una strada poco distante da casa sua. Quello stesso giorno cominciò le prove con un musicista che aveva già sentito nominare. Un compositore che aveva eseguito le proprie opere in tutta Europa. Il compositore era Giovanni Paisiello e l'opera, che non era tanto una vera opera quanto una commedia giocosa, era “La locanda o sia il fanatico in Berlina” che sarebbe andato in scena il martedì grasso, in chiusura del carnevale ossia il 28 febbraio. Quell'anno era bisestile e, anche se un antico proverbio recitava “Anno bisesto, anno funesto” l'arte a Napoli non conosceva periodi di sospensione della propria espressione … per nessun motivo. Tantomeno si faceva fermare dalla quaresima. Infatti, l'opera sarebbe andata in scena fino al giovedì santo, il 5 di aprile in barba all'antica tradizione veneziana, di due secoli prima, che prevedeva la chiusura di tutti i teatri per tutto il periodo di quaresima. Giovanni Paisiello era un uomo che da poco aveva passato i cinquant'anni e che, malgrado l'imbolsimento dovuto all'età, conservava nello sguardo quel languore giovanile che riusciva a far dimenticare la sua effettiva anzianità. Il teatro non aveva una buca enorme per cui, Giacomo era il solo ed unico contrabassista dell'organico strumentale.
  • 75. Evitò noie. Tenne un basso profilo e, soprattutto, evitò rapporti con le cantanti del cast. In orchestra, scoprì che Paisiello era l'autore di “Nel cor più non mi sento” una bellissima aria che era stata scritta per l'opera “Nina pazza per amore” un capolavoro teatrale di qualche anno prima. Il senso melodico dell'anziano compositore gli ricordava un po' l'amico Wolfgang sebbene lo stile compositivo di Paisiello fosse più sobrio e scevro da eccessivi fronzoli. Tanto, ci pensavano i cantanti a variare le melodie originali coi loro melismi (fioriture) vocali. Ogni compositore odia sentire profanate le opere partorite dalla propria mente e Giovanni Paisiello non era esente dal mostrare il proprio disgusto per questa malsana abitudine dei cantanti di alterare l'idea originaria. Egli faceva buffe smorfie con la bocca ad ogni iniziativa personale dei cantanti. A Giacomo, spesso scappava da ridere guardando l'espressione del viso del maestro ogni qual volta un cantante, o una cantante, si prendeva la libertà arbitraria di trasformare la melodia originale in un'occasione per fare sfoggio della propria tecnica e della propria estensione vocale. Una sera, lo stesso Paisiello, notò l'ilarità del giovane. Fu l'unica volta che il volto angelico del compositore divenne una maschera di rabbia. Giacomo rimase mortificato dal duro sguardo di rimprovero di Giovanni Paisiello.
  • 76. La notte, tornando a casa, Giacomo incrociò il padre che, a sua volta, si stava ritirando. Il papà notò subito il turbamento sul viso del ragazzo e gliene chiese il motivo. Giacomino raccontò a Nino il bello cosa fosse accaduto tra lui e il maestro, in buca, durante la replica di quella sera. − Giacomi', bello de papà, tu stai diventando un uomo e come uomo ti devi comportare -. − Cosa mi consigliate, papà? - − Domani, prima dello spettacolo, passa per una pasticceria e compra qualche sfogliata per il maestro … poi, bussa al suo camerino e donagli il presente porgendogli le tue sentite scuse per l'atteggiamento poco dignitoso durante la replica. Vedrai che, se è una brava persona, considererà chiuso l'incidente -. L'indomani, Giacomo Fiorenza diede ascolto al consiglio del padre e, mezz'ora prima dello spettacolo, bussò al camerino del maestro con un vassoio di sfogliatelle tra le mani. − Avanti! - fece lui. − Maestro, maestro Paisiello … - − Chi è? Ah! sei tu? Il contrabassista, vero? E cosa vuoi? - chiese distrattamente. − Maestro, v'ho portato un piccolo pensiero per chiedere scusa per il mio comportamento maleducato di ieri – Paisiello lo guardò un attimo senza capire di cosa stesse parlando il
  • 77. ragazzo poi, ricordò. A quel punto, doveva far valere quelle scuse e, dandogli le spalle, disse: − Sei stato un vero maleducato, ragazzo e, se pensi che un vassoio di … di … - mosso da curiosità si girò nuovamente verso di lui - … a proposito, cosa hai in quel vassoio? - − Sono sfogliatelle frolle, una stupenda invenzione di Pintauro, un pasticciere di via Toledo – rispose, prontamente Giacomino, aprendo la confezione e mostrandogli il contenuto. Il maestro stava sostituendo in maniera repentina l'espressione imbronciata con un'espressione di comica golosità ma non aveva intenzione di fargliela passar liscia troppo facilmente. − Bene … ehm! Assaggerò questi dolci … per pura curiosità … poi, deciderò cosa dovrò farne di te -. Paisiello ne mangiò tre di seguito e, alla fine dell'”assaggino”, col viso imbrattato di zucchero a velo, disse: − Ragazzo … perché ti stavi prendendo gioco di me, ieri? - − Maestro, non mi prendevo gioco di voi, lo giuro … io, ridevo perché … ecco … voi fate delle buffe espressioni quando i cantanti vi cambiano la melodia … - − Ah, te ne sei accorto? E lo credo bene che faccio
  • 78. espressioni di disgusto! … quei cani … pur di riuscire a strappare un applauso, canterebbero col culo di fuori … - − Non fatemici pensare! Immaginate il Liparini, la Tomiati o la Ragazzoni col culo di fuori … che orrendo spettacolo -. − Il Liparini col … ah ah ah … hai ragione … davvero orrendo … vabbé! Fa cosi! Lascia qui il resto del vassoio e considereremo chiuso l'incidente -. … e fu così che, da quel giorno in poi, tutte le sere Giacomino portava un vassoio di sfogliatelle frolle al maestro Paisiello ed egli gli strizzava l'occhio durante le repliche ogni qual volta un cantante, o una cantante, alterava le melodie originali per il proprio tornaconto. Finì la quaresima, passò la Pasqua e Giacomo Fiorenza era di nuovo disoccupato. Non aveva il coraggio di ripresentarsi al San Carlo ma, oramai, era abituato a lavorare e a guadagnare per cui, pur di non stare fermo, decise di esibirsi col padre Gaetano facendo la “posteggia” (il musicista ambulante) nei vari ristoranti e pizzerie intorno alla zona del porto. Nino il bello, papà Gaetano, ne fu molto contento perché, seppure dovessero dividere le mance tra loro due, grazie al talento del figlio, le mance raddoppiavano. Inoltre, abitando sotto lo stesso tetto, i soldi entravano nella stessa casa.
  • 79. CAPITOLO XIII Ritorno al San Carlo Napoli 16 aprile del 1793. Giacomo compiva 16 anni. Era molto cambiato. Aveva una peluria diffusa sul volto e, la sua abitudine a suonare all'aria aperta, gli aveva conferito un incarnato molto più colorito. Un altro vantaggio che aveva ricavato dal suonare in posti dove la risonanza non veniva trattenuta e ampliata in un ambiente sonoro consono ma, invece, veniva dispersa nel vento, fu quello di aver notevolmente aumentato il volume di suono. Fu così che, quel 16 aprile, mentre suonava le prime note della propria esibizione in una pizzeria di via Santa Lucia, dal tavolo nell'angolo, un uomo che era seduto dandogli le spalle s'alzò di scatto e si voltò basito.
  • 80. − Giacomino? Giacomino Fiorenza? Accidenti, quanto sei cresciuto!- Era Gaetano Marinelli. − Maestro! Che immensa gioia vedervi – Il volto del maestro, subito, si rabbuiò. − Ma, insomma! Sei a Napoli e non me lo hai fatto sapere? Ma che modi sono questi. Se non avessi riconosciuto quel tuo meraviglioso suono, nemmeno mi sarei girato … - − Scusate, maestro, nemmeno sapevo che eravate a Napoli - − Ma che accidenti dici? È tappezzata di manifesti la tua città … - − Io … io … - Allora, intervenne Nino il bello, che stava suonando col figlio. − Figliolo, poche storie, il maestro ha ragione … scusati con lui – Solo in quel momento, il compositore, notò l'uomo che era con Giacomo. − Voi dovete essere il padre, mi sbaglio? - − Non sbagliate, maestro, Gaetano Fiorenza, per servirvi! - − Ah, abbiamo anche lo stesso nome! - − Un nome importante … credo … credo che sia originario di Gaeta, bel posto … - fece Nino il bello. − Ci siete stato? - − Io, … no … ma … - Per la prima volta, il figlio
  • 81. vide che il padre, tanto abile con le parole, era in evidente imbarazzo. Il maestro, allora, tolse dall'imbarazzo il papà del suo contrabassista preferito. − Se è per questo, nemmeno io ci sono stato ma, effettivamente, mi hanno detto che è molto bella … allora, caro don Gaetano … - − Prego, maestro, chiamatemi pure Nino e levatemi il “don”. Non sono una campana … eh eh eh - − Giusto! Sentite, Nino, vi dispiace se rapisco vostro figlio per una mezz'ora, ho bisogno di parlargli … - − Ma ci mancherebbe, maestro. Giacomi', a papà, puosa 'o cascione dinto a n'angolo e vatte a assettà cu 'o maestro (riponi il contrabasso in un angolo e vai a sederti col maestro), io posso suonare anche da solo - − Grazie, Nino – fece Marinelli. Giacomo andò a sedersi a tavola col maestro. Insieme a lui, erano seduti altri due tizi che Giacomo non conosceva. − Signori … - fece Gaetano Marinelli – … voglio presentarvi questo giovane, Giacomo Fiorenza, un abile strumentista, di quelli che fanno comodo ad un teatro serio … come è il San Carlo … Giacomo, lascia che ti presenti il dottor
  • 82. Campoli e l'impresario Amendola. Questi due signori hanno grossi progetti per il San Carlo -. I commensali si scambiarono i convenevoli di rito. Marinelli ordinò al cameriere quattro pizze “Marinare” poi, rivolgendosi a Giacomo: − Giacomino, allora? L'hai conosciuto Mozart? Com'era? - Il ragazzo parlò della sua avventura viennese fino alla fine del pasto, a partire dalla storia riguardante la sua audizione e la composizione della “Tarantella della Fenesta” composta dal genio fino alla prima esecuzione privata della “Messa da requiem” dopo la sua morte. Quando finirono di mangiare, lui disse: − Maestro, non chiamatemi “scostumato” ma papà m'aspetta -. − Figurati! … anzi! Portagli da parte mia questo Carlino d'argento per ringraziarlo della sua pazienza e gentilezza ... -. − Non se ne parla proprio … - provò a rifiutare il giovane. − Non dire sciocchezze! Tuo padre ci ha allietato lo stesso, malgrado la tua assenza, con la sua bella musica e la sua bella voce e … la bella musica va pagata … piuttosto! Mi puoi fare due favori? - − Tutto quello che volete, maestro - − Il primo favore che ti chiedo è quello di andarmi
  • 83. a suonare questa “Tarantella della Fenesta” - − Consideratelo fatto … e il secondo favore? - − Domani mattina, alle 9,00 presentati al San Carlo … e porta con te il contrabasso … ché cominciamo le prove -. La mattina seguente, alle 8,30, Giacomo Fiorenza rimise piede nel tempio del melodramma. Aniello, il custode, lo fermò con un “addò jate?” (dove andate?) ma poi, osservandolo meglio, disse: − Giacomi'? Site vuje? (Giacomino, siete voi?) … Maronna mia quanno site crisciuto! (Madonna mia, quanto siete cresciuto!) … accomodatevi, accomodatevi pure … - − Grazie, Aniello - − Prego, prufesso' (professore) - Giacomo era invaso da due sentimenti contrastanti. C'era la soddisfazione di sentirsi chiamare “professore”. C'era l'emozione di ripercorrere quei corridoi. C'era il timore di essere fuori forma dopo un periodo di forzato riposo dalla disciplina orchestrale. C'era la gratitudine verso il maestro che continuava a credere in lui e nel suo talento … tutti questi sentimenti furono spazzati via quando, prendendo posto in sala prove come quarto strumento della sezione, trovò Bossolo come primo contrabasso. − Ah! È tornato il “cretinetto”? - furono le parole d'accoglienza che, il vecchio maestro, riservò a
  • 84. Giacomo. Giacomo evitò di rispondere. Tolse le coperte dal proprio strumento e tirò i crini dell'archetto. Non soddisfatto dalla reazione del giovane, il vecchio lo incalzò: − Questi due colleghi che vedi affianco a me sono dei veri maestri d'orchestra, Carmine Laido e Pasquale Mappaluna. Non se lo fanno succhiare dalle prime donne. Sanno stare al loro posto -. In quel momento capì chi fosse stato, a suo tempo, colui che aveva fatto la spia facendolo allontanare dal San Carlo. Giacomo alzò la testa e lo guardò intensamente negli occhi. Il suo sguardo non era più quello di un ragazzino timoroso. Ora era un uomo. Se avesse voluto, avrebbe potuto spezzare in due Bossolo. Bossolo capì perfettamente la pericolosità di quello sguardo e, malgrado la paura che sentiva, fece di tutto per non abbassare lo sguardo. Giacomo parlò, fece una domanda. La domanda era innocente, il tono lo era molto meno. − Che fine hanno fatto i maestri Dominianni e Calzolari? - Bossolo provò, senza riuscirci, a non far tremare la propria voce. − Uno è andato a Parigi. L'altro ora lavora per il Papa - − Di loro spontanea volontà? … o ci avete pensato voi a farli … -
  • 85. In quel momento entrò Gaetano Marinelli e si fece il silenzio in sala. Consegnò ad un signore, l'archivista del teatro, le parti da mettere sui leggii degli orchestrali e, mentre l'uomo svolgeva il suo compito, disse: - Buongiorno signori, come certamente saprete, sono il maestro Gaetano Marinelli. Dedicheremo i prossimi giorni alle prove di una mia opera buffa, “I vecchi delusi” che andrà in scena in questo teatro tra dieci giorni. Faremo orari lunghi, proveremo dal mattino fino al calar della sera. La novità per questo lavoro teatrale sarà l'utilizzo di un corpo di ballo … - Si sentì subito qualche fischio di approvazione e qualche commento scurrile proveniente dall'orchestra. Il maestro riprese a parlare: - … ecco! Appunto! … ora, … conoscendo il temperamento focoso di alcuni maestri d'orchestra (guardò Giacomo in tralice), vi pregherei di astenervi da atteggiamenti poco rispettosi verso queste signorine che porteranno grazia ed eleganza allo spettacolo -. L'entusiasmo si smorzò immediatamente. Gli spartiti erano stati posti sui leggii. - Date un'accordata! … mi raccomando … - disse Bossolo alla sua fila – evitiamo di fare figure di m... - - Contrabassisti? Scusatemi un attimo … - gridò Gaetano Marinelli interrompendo Bossolo. - Si, maestro? - fece, ossequiosamente, il vecchio
  • 86. strumentista. - Come avrete potuto notare, è stato aggiunto un altro elemento alla vostra sezione -. - Francamente, maestro, col dovuto rispetto … non ci serviva un quarto contrabasso. In tre eravamo più che sufficienti – Gaetano Marinelli, a quel punto, cambiò totalmente il tono della propria voce. La serenità, che contraddistingueva il suo tono vocale, fu sostituita dalla severità. - Infatti … - disse - … non vi serviva un quarto strumento ma, vorrei ricordarvi che l'opera che state per eseguire l'ho scritta io! A me serve! - - Vi chiedo scusa ma... - Bossolo stava per dire “maestro” ma Marinelli lo bloccò. - Niente “ma”! A me serve il suono del giovane Fiorenza … e non mi serve come quarto elemento della sezione … ma come primo strumento – A Bossolo, per poco, non prese un colpo. Biascicò: - Col dovuto rispetto, maestro, in orchestra abbiamo le nostre gerarchie ed io sono … - Fu interrotto nuovamente dal compositore. - Visto che parlate di “rispetto”, vi pregherei di rispettare la mia scelta. Non m'interessano le vostre gerarchie, m'interessa il risultato finale della mia opera … anzi! Vi dirò di più. Forse avete ragione! Forse non servono quattro contrabassi … vorrà dire che, per questa produzione, farò a meno dei vostri servigi … ora lasciate il
  • 87. posto da primo strumento al maestro Fiorenza e non fatemi perdere altro tempo! - Per quanto Giacomo fosse felice di fare il primo contrabasso e, sebbene Bossolo fosse una carogna, il giovane tenne gli occhi bassi per tutto il tempo che il vecchio contrabassista impiegò nel liberare il proprio posto e che lasciasse la sala prove, tra sputi e bestemmie a mezza voce rivolti a colui che stava sostituendolo. Gli altri due contrabassisti, Laido e Mappaluna, evitarono di guardare la scena tenendo, a loro volta, gli occhi bassi. Appena s'accorse che nessuno lo sentiva, però, Carmine Laido si rivolse a Giacomo a bassa voce. - È il tuo amichetto, quel frocio del maestro? - Giacomo gli rispose a mezza voce. - Se ti sento mancare di rispetto una sola volta ad una persona perbene come è il maestro Marinelli, ti taglio la gola da parte a parte. Sono stato chiaro? - Laido, per tutta risposta, abbassò la testa e tacque. Le prove si svolsero regolarmente e Giacomo, riconoscente verso l'atto di fiducia del maestro, superò se stesso in precisione, intonazione e sonorità. Gli altri due colleghi contrabassisti lo seguirono pedissequamente e a proprio vantaggio. Condivisero i complimenti del maestro e degli altri orchestrali durante tutti i giorni di prova. Le prove furono trasferite in teatro dopo i primi tre
  • 88. giorni di lettura delle note e, lì, Giacomo ebbe un'altra sorpresa. Durante la sua giovane esistenza aveva visto ballare un'infinità di “saltarelli”, “tarantelle” e “montemaranesi” ma non era preparato alla bellezza e all'eleganza di un balletto d'opera. Tutte le ragazze sembravano nude. Indossavano delle calzamaglie rosa che lasciavano scoperte le braccia. In vita avevano un gonnellino di tulle non abbastanza lungo da coprire le ginocchia. Malgrado gli ammonimenti del maestro Marinelli, quello spettacolo sollevò in buca una tempesta ormonale e i professori d'orchestra non poterono esimersi da emettere qualche fischio e qualche esclamazione di compiacimento. Per fortuna, non vi furono commenti scurrili e oscenità tipiche dei maschi in calore. Le danzatrici, incuranti di chi occupava la buca, si muovevano con sinuosità elegante e non volgare, nel pieno rispetto delle indicazioni del maestro, sui movimenti di scena. L'eleganza dei loro movimenti le faceva sembrare come tanti angeli in volo e, tra tanti angeli, Giacomo vide una Dea. Non aveva mai visto nulla di simile. Giacomo non si soffermò a posare il proprio sguardo sulle forme scultoree del corpo della ragazza ma si perse nel suo sguardo verde chiarissimo, nelle efelidi del suo volto, nel
  • 89. colore rosso dei suoi capelli, si focalizzò su quel nasino proporzionato perfettamente all'ovale del suo viso e su quelle labbra sottili ma ben disegnate che ora si schiudevano in un sorriso … per lui? La danza si muoveva frenetica. La ragazza gli volse le spalle per eseguire la coreografia assegnatale e Giacomo pensò d'aver immaginato quella dedica ma, quando a fine prove, il maestro disse “Per oggi, basta così!” e la ragazza dalla quale lui non aveva mai staccato gli occhi per tutta la giornata (poté farlo perché aveva imparato a memoria ogni nota di contrabasso che avrebbe suonato e non era obbligato a guardare lo spartito), alzò la mano nella sua direzione in segno di saluto, il cuore di Giacomo Fiorenza, per poco, non gli balzò fuori dal petto. Possibile che quella divinità piovuta dal cielo avesse degnato lui, che non era più di un umile orchestrale, della propria benevolenza?
  • 90. CAPITOLO XIV Emma Napoli 20 aprile 1793 Uscendo dal retro del teatro, l'uscita degli artisti e degli addetti ai lavori, Giacomo s'attardò a parlare con Aniello, il custode. Voleva vedere quella ragazza e capire se s'era immaginato tutto. Si mise a parlare del lavoro, del tempo, chiese ad Aniello di raccontargli la storia di come avesse perso la gamba, ciarlò di qualsiasi cosa gli venisse in mente ma il suo sguardo guizzava ripetutamente dagli occhi del suo interlocutore alla scala dalla quale scendevano tutti gli artisti. A un certo punto Aniello, che la sapeva lunga, gli disse:
  • 91. − Se non te lo dico subito, fra poco comincerai a raccontarmi pure d'aver visto “'o Munaciello” (personaggio di fantasia della superstizione napoletana) - − Non capisco … io … - − Tu non capisci, maestro, ma io si … - − ? - − Stanno facendo le pulizie nel corridoio di sopra ed è stato bloccato temporaneamente questo andito - − Ancora non … - − Le ballerine stanno uscendo … dall'ingresso principale - Aniello non aveva ancora finito di parlare che Giacomo s'era fiondato a fare il giro dell'edificio per raggiungere l'ingresso principale. Il custode gli urlò, mentre il giovane spariva dalla sua vista, “'A Maronna t'accumpagni” (Che la Madonna t'accompagni, una specie di “buona fortuna”). Giacomo aveva gambe buone. Impiegò meno di dieci secondi per svoltare l'angolo tra l'uscita artisti e l'ingresso principale e di corsa … andò a sbattere violentemente contro una persona che veniva, a passo spedito, dalla direzione opposta alla sua. Il botto fu forte. Caddero entrambi a terra ma lui si rialzò in fretta intenzionato a continuare la propria corsa. L'educazione gli imponeva, però, di chiedere scusa ed
  • 92. aiutare l'altro ad alzarsi sincerandosi che non si fosse fatto male nell'urto. Si sentì doppiamente mortificato quando capì di aver travolto una donna e triplicemente mortificato ma, stranamente felice, quando capì che si trattava proprio di lei. − Scusate, scusate, scusate! – le disse mentre le tendeva la mano per aiutarla a rialzarsi. − Scusate? Se mi fosse passato addosso una carrozza trainata da un tiro di otto cavalli, probabilmente, m'avrebbe fatto meno male! - − Vi siete fatta male, signorina? - − Giacomi'! … ma insomma! Nun m'e cunusciuto? (riconosciuto) - − Io … beh! … la faccia … in effetti … - − Cretino! Sono Emma - − Emma … Emma … Emma? - − Ma sei proprio un deficiente. Sono Emma Fusco, 'a figlia di “Nanninella 'a levatrice” (Anna l'ostetrica) . Ti andavi a fare i bagni a Megaride cu fratemo, Ciccio (mio fratello, Francesco). Qualche volta, venivo io pure con voi -. Emma arrossì nel dire quest'ultima frase ma Giacomo, cercando di capire chi ella fosse, non ebbe modo di accorgersene. − Ciccio Fusco? … No! Tu sei Pupetta? - − Ah! Mo l'hai capito? -
  • 93. − E cosa è successo? Tu eri 'na criatura (bambina) e mo … - − Ma che ti credevi? … che solo tu saresti cresciuto? Guarda che ho quindici anni e mezzo. Sono del 6 dicembre del '77. Non portiamo nemmeno un anno di differenza – tacquero entrambi per qualche interminabile secondo. Giacomo cercò qualcosa da dire. La trovò. − Già … ehm! … a proposito! Sei proprio brava - − Grazie – Altro silenzio. Stavolta toccò ad Emma parlare. − A te non c'è bisogno di dirtelo che sei bravo. Ti sento studiare spesso. Ti alleni parecchio … e hai talento -. − Grazie … - In quel momento passò un carretto ambulante che vendeva una bevanda che era diventata di moda proprio in quel periodo. Pare che questa bevanda fosse stata importata da Gerusalemme. In quella terra remota, la chiamavano “Kahvè”. A Napoli era diventata “'O Ccafè” (il caffè). L'ambulante aveva l'abitudine di urlare il nome del santo del giorno e poi pubblicizzare la sua bevanda. Questa distrazione offrì un nuovo argomento a Giacomo. − Ti posso offrire un caffè? Ti piace? - − A dire il vero, non lo so -. − Non sai se posso offritelo oppure … - lei lo interruppe.