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Milvio Delfini
Scuola ASTRE
Dipartimento di Giurisprudenza
26/07/2016
Ricerca e Sviluppo nell’industria Italiana.
La crescita di un paese avanzato, sostengono, a ragione, economisti
autorevoli, dipende dagli investimenti in Ricerca e Sviluppo e dalla
capacità innovativa delle imprese. Per lungo tempo, si è tuttavia
ritenuto che l’innovazione delle imprese italiane potesse prescindere
da un’attività formalizzata in Ricerca e Sviluppo.
Sulla base di quanto spiegato in classe e dei testi che consulterete,
commentate questa posizione, discutendone punti di forza e di
debolezza.
1. Da Solow all’economia delle idee. La variabile A.
In un modello di concorrenza perfetta, che è quello che più si
approssima per molti aspetti alla realtà del mercato, le imprese non
sono incentivate, normalmente, ad investire in ricerca e sviluppo.
Secondo la visione classica proposta nel modello di Solow, infatti,
l’output della produzione Y è dato dal capitale e dal lavoro (K, L)
Y= f (K, L)
Per ogni unità di K ed L aggiunta alla produzione, vi sarà un
incremento Y, benché di dimensioni sempre più esigue all’aumentare
del numero di K e L.
Sono questi i rendimenti di scala decrescenti, in forza dei quali
un’impresa non dovrebbe avere bisogno, in teoria, di investire in
qualcosa di differente da K e L.
Nel corso degli anni, però, alcuni esponenti della c.d. “economia delle
idee”, una corrente che si contrapponeva alla tradizionale “economia
dei Beni” proposero una variante al modello di Solow.
L’idea di partenza si sviluppava dalla considerazione fattuale secondo
cui sempre di più, a livello pratico, la somma dei valori di K e L
risultasse minore del totale di Y ( Y > K, L ): per giustificare questo
nuovo risultato Paul Romer ritenne fosse necessario aggiungere un
quid pluris all’equazione, e cioè la variabile (A) delle idee e degli alti
effetti non catturati da K e L. Da qui la nuova formula
Y= f (A, K, L)
che si proponeva di “innovare” un modello che in precedenza era forse
troppo legato ad una logica industriale di tipo statico come poteva
essere quella statunitense del dopoguerra, in cui lo sviluppo
tecnologico e la ricerca giocavano un ruolo minore, se non marginale.
Adesso, tuttavia, sono proprio questi due fattori che incidono sempre
di più sul successo di una società, che possono cambiarne l’andamento
interno come addirittura modificare la preesistente struttura del
mercato in cui si inserisce il prodotto offerto. Si pensi all’innovazione
incrementale che può portare allo sviluppo di una nuova tecnologia
per un’azienda di telefoni cellulari: potrebbe essere facile passare
dalla concorrenza perfetta all’oligopolio.
Le idee, a differenza degli oggetti (che includono beni, servizi, capitale,
lavoro e terra) rappresentano il vantaggio di essere non rivali, di avere
la stessa efficacia di utilizzo di un’altra idea preesistente, di poter
essere costantemente migliorate.
Resta però il problema della difficoltà di sviluppare un’economia delle
idee in un mercato di concorrenza perfetta, dato che l’inventore non
può massimizzare, a quelle condizioni, i benefici che dovrebbe
ricavare dal suo investimento iniziale (infatti prezzo = costo marginale
rappresenta un ostacolo eccessivo per il recupero del’investimento
iniziale!)
Ecco manifestarsi allora una nuova “convenienza” nell’investire in
maniera puntuale e pianificata in un settore dalla parvenza forse più
astratta e dal risultato apparentemente più incerto, destinato tuttavia
ad occupare un ruolo sempre più importante nell’industria, capace di
fare la differenza.
2. Ricerca e Sviluppo in Italia: un’attività frammentata.
Esaurita questa premessa, prima di passare a esporre i possibili pro e
contra della presenza di un’attività formalizzata di ricerca e sviluppo
nell’industria italiana, è necessario esaminare i motivi per cui questa
attività formalizzata di R&S fatica a prendere piede.
Ricerca e Svilppo si inseriscono in maniera disorganica nel sistema
italiano a causa di una problematica concorrenza di fattori, in primis
per un discorso di (dis)incentivi: spesso l’ammontare degli sforzi e
delle risorse necessarie per raggiungere un determinato risultato non
restitituiscono un beneficio sufficiente, anche quando la scoperta o
l’invenzione si rivelino fondamentali, questo perché ad esempio il
numero di persone cui destinato è eccessivamente basso oppure i
costi di produzione sono eccessivamente altri. In questi casi, lo Stato
dovrebbe fornire incentivi o sussidi per far si che la ricerca sia
sostenibile.
In secondo luogo, altra causa di frammentarietà nell’attività R&S è
data dalla scarsa protezione legislativa della proprietà industriale
(rectius: dallo scarso range di protezione entro il quale i risultati
dell’attività di R&S possono essere ricondotte a tutela legale tramite i
meccanismi di esclusività ed inutilizzabilità previsti dal codice della
proprietà industriale). È infatti noto che i brevetti hanno una durata
limitata – relativamente breve- e che le idee, come detto sopra, non
sono tra loro rivali: questo rappresenta l’altra faccia della medaglia
dell’innovazione, e sicuramente uno svantaggio per i produttori; non è
chiaro se lo sia o meno per i consumatori, dato che una maggiore
concorrenza porta ad una diminuzione dei prezzi al consumo ma, allo
stesso tempo, rende difficile che si crei una concentrazione
dell’investimento nella ricerca “di qualità” proprio per indisponibilità
di risorse da riservare a quel settore.
Come si vede, la questione ricerca e sviluppo nel mercato italiano
assume i caratteri di un circolo vizioso per l’economia delle c.d. “nano
imprese”: se, da un lato, la presenza di un mercato quasi
perfettamente concorrenziale e le barriere in entrata rispetto a
possibili competitors nazionali (es: tradizione storica, know how ecc…)
non stimolano le imprese ad un miglioramento della qualità del
prodotto e concorrono al permanere dello status quo, dall’altro lato i
concorrenti stranieri compensano le loro carenze di tradizione
produttiva e know how proprio attraverso la ricerca e lo sviluppo
tanto da riuscire a conquistarsi ampie fette del mercato nazionale, che
invece risente del gap innovativo rispetto agli altri Stati dell’ Unione,
avvalendosi di prodotti il cui “valore di partenza” era ben inferiore al
nostro.
Giunti a questo punto del discorso, l’obiezione che più frequentemente
si fa è che le imprese italiane dovrebbero fare maggior ricorso al
credito per poter finanziare attività e settori ormai necessari, come
quello della R&S. La questione, però, è più complessa di quanto
appare. Attualmente, la via più efficace per ottenere maggiori
finanziamenti, è quella di quotare le società in borsa aprendosi così ad
un numero di investitori considerevole: tecnica questa che in Italia
collide eccessivamente con i vincoli che impongono le discipline
Consob e Banca d’Italia per la protezione degli investitori. Chi si quota
deve, in estrema sintesi, fornire molte più informazioni al pubblico di
quanto sarebbe tenuta a dichiarare altrimenti, rivelando così dettagli
riguardanti le modalità produttive, i sistemi di gestione, i fornitori, o in
generale aspetti fondamentali del “successo” di una società.
Il panorama industriale italiano è pieno di marchi di fama mondiale
che scelgono di non quotarsi proprio per queste ragioni ( per tutti:
Cuccinelli, Ferragamo) benché sicuramente si gioverebbero di un
incremento degli investimenti – che ragionevolmente verrebbero
destinati almeno in parte ai settori R&S -.
3. Conclusioni sopra una ricerca e sviluppo “a intermittenza”.
Dopo aver osservato la congerie di cause che hanno portato l’industria
italiana ad una situazione stagnante sul piano dell’innovazione, è
necessario precisare come questa situazione sia un “risultato senza
colpe” derivante da una concorrenza di situazioni di fatto cui risulta
molto difficile porre rimedio, anche perché non “sbagliati” in assoluto.
Ad ogni meccanismo protettivo del mercato e della concorrenza
(penso soprattutto a quanto detto sopra sulla tutela legale dei brevetti
e alla protezione degli investitori nelle società quotate) risponde
un’esigenza di tutela ben più ampia dell’interesse delle imprese.
Dunque, accertata la difficoltà di percorrere questo cammino,
volgiamo lo sguardo verso le nuove soluzioni che si sono formate nel
mercato per ovviare all’assenza di un’attività formalizzata di R&S: su
tutti, la nuova figura delle società di Venture Capitalism, cioè un
finanziatore esterno che sponsorizzasse le nuove invenzioni o
innovazioni in cambio di quote della società finanziata. La presenza di
un soggetto terzo rispetto alla società che fornisca il proprio apporto
appare sicuramente, a prima vista, più appetibile rispetto alla
tradizionale visione della R&S come un settore interno della società, e
questo per due ordini di motivi: in primis, perche il finanziamento
necessario proviene da una sola persona e non da una moltitudine di
piccoli investitori, il che comporta un considerevole snellimento delle
procedure ed una maggiore capacità operativa; in secondo luogo il
venture capitalist è più efficace poiché fornisce un valido riscontro
esterno su qualità e solidità della ricerca.
Eppure, non è facile nascondere le ombre che emergono da questa
figura: è inevitabile obiettare che il primo Venture Capitalist dovrebbe
essere lo Stato italiano, mettendo a disposizione sussidi propri o
favorendo l’ottenimento di quelli già stanziati dall’Unione Europea,
come anche non si può fare a meno di guardare con una certa
diffidenza agli “investitori di fortuna”, esponenti di un modello di fare
impresa che a mio avviso molto poco si coniuga con la logica
industriale che, seppur antiquata, ha contribuito per lungo tempo a
dare lustro e prestigio all’Italia nel mondo.
I soggetti cui si rivolge il venture capitalism non sono infatti l’azienda
tradizionalmente intesa, forte di una lunga esperienza nel campo, che
può vantare una struttura consolidata, un’esperienza sul campo di
anni e competenze preziose, no: in questo momento storico gli occhi
degli investitori sono puntati sull’azienda di rapido consumo, più
comunemente nota come start-up, facile da “scalare” e costituita con
l’obiettivo unico di essere rivenduta ad un valore molto più elevato di
quello di partenza. Pur costituendo un’ottima opportunità di inserire
giovani imprenditori nel mercato del lavoro, ritengo la start-up
inidonea ad accogliere finanziamenti per R&S per una serie di ragioni.
In primo luogo, la Ricerca, in tutte le sue forme, deve essere
necessariamente accompagnata da una progettualità a lungo termine
ed allo stesso tempo da una disponibilità a sopportare nel breve
termine una serie di fallimenti; in secondo luogo perché l’investimento
di R&S in una start-up potrà facilmente portare ad una innovazione
radicale, ma raramente ad una incrementale e mai (!) ad una scoperta,
men che mai incidentale. In terzo luogo, le start-up rischiano di
trasformarsi in un cavallo di Troia per gli investitori stranieri che
potrebbero finanziare R&S in Italia per poi ritrasferire con facilità e
senza impedimenti il lavoro ottenuto all’Estero, e con esso la
conoscenza prodotta.
Che fare, quindi?
È sicuramente necessario che lo Stato fornisca maggiore aiuto
concreto alle imprese che dimostrino di voler concretamente investire
in ricerca e sviluppo, anche partendo dalla considerazione di base
della necessarietà di una ricerca (scientifica) utile a favorire il
progresso della collettività e non per avvantaggiare unicamente il
privato interesse. Allo stesso modo è richiesto un forte controllo sugli
investitori atto a direzionare in maniera più lungimirante i capitali:
quest’ultimo processo può avvenire però solo in forza di una
sponsorizzazione istituzionalizzata delle nostre imprese in modo tale
da aumentare il grado di credibilità e l’apposizione di vincoli sulla
disponibilità dei risultati della ricerca cosicché se ne possa beneficiare
con un ritorno collettivo e condiviso.
Inoltre, la miglior parte delle start-up è quella legata alla
presentazione del progetto sul come, sul perché e sul modo in cui
verranno impiegati i capitali richiesti: ottenimento e giustificazione
del finanziamento sulla base di un piano dettagliato, convincente e
concreto. Su questa direttrice devono svilupparsi le richieste di
sostegno per la ricerca e sviluppo che le “vere” imprese aspirano ad
ottenere rivolgendosi allo Stato o ai Privati.
Infine, come corollario a quanto detto precedentemente, ritengo che lo
Stato dovrebbe essere la “prima impresa” a svolgere un’attività di
Ricerca e Sviluppo propria, integralmente autofinanziata, ponendosi
come obiettivo esclusivo il perpetrarsi del progresso scientifico per il
bene collettivo, ponendo in essere un’attività volta alla ricerca delle
Grandi Scoperte, della conservazione del metodo scientifico
tradizionale e dello sviluppo di ciò che è utile per il Paese. In pratica,
finanziandosi attraverso i contribuenti, potrebbe produrre
innovazioni utili per la collettività che ne otterrebbe un beneficio
grazie alla distribuzione alle imprese private in cambio di royalties
inferiori rispetto al prezzo di mercato realizzando così i fini di
giustizia distributiva in un’ottica open source.
Bibliografia
Charles I. Jones, Macroeconomics, December 2013 (3rd edition), W. W.
Norton & Company.

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  • 1. Milvio Delfini Scuola ASTRE Dipartimento di Giurisprudenza 26/07/2016 Ricerca e Sviluppo nell’industria Italiana. La crescita di un paese avanzato, sostengono, a ragione, economisti autorevoli, dipende dagli investimenti in Ricerca e Sviluppo e dalla capacità innovativa delle imprese. Per lungo tempo, si è tuttavia ritenuto che l’innovazione delle imprese italiane potesse prescindere da un’attività formalizzata in Ricerca e Sviluppo. Sulla base di quanto spiegato in classe e dei testi che consulterete, commentate questa posizione, discutendone punti di forza e di debolezza. 1. Da Solow all’economia delle idee. La variabile A. In un modello di concorrenza perfetta, che è quello che più si approssima per molti aspetti alla realtà del mercato, le imprese non sono incentivate, normalmente, ad investire in ricerca e sviluppo. Secondo la visione classica proposta nel modello di Solow, infatti, l’output della produzione Y è dato dal capitale e dal lavoro (K, L) Y= f (K, L) Per ogni unità di K ed L aggiunta alla produzione, vi sarà un incremento Y, benché di dimensioni sempre più esigue all’aumentare del numero di K e L. Sono questi i rendimenti di scala decrescenti, in forza dei quali un’impresa non dovrebbe avere bisogno, in teoria, di investire in qualcosa di differente da K e L. Nel corso degli anni, però, alcuni esponenti della c.d. “economia delle idee”, una corrente che si contrapponeva alla tradizionale “economia dei Beni” proposero una variante al modello di Solow.
  • 2. L’idea di partenza si sviluppava dalla considerazione fattuale secondo cui sempre di più, a livello pratico, la somma dei valori di K e L risultasse minore del totale di Y ( Y > K, L ): per giustificare questo nuovo risultato Paul Romer ritenne fosse necessario aggiungere un quid pluris all’equazione, e cioè la variabile (A) delle idee e degli alti effetti non catturati da K e L. Da qui la nuova formula Y= f (A, K, L) che si proponeva di “innovare” un modello che in precedenza era forse troppo legato ad una logica industriale di tipo statico come poteva essere quella statunitense del dopoguerra, in cui lo sviluppo tecnologico e la ricerca giocavano un ruolo minore, se non marginale. Adesso, tuttavia, sono proprio questi due fattori che incidono sempre di più sul successo di una società, che possono cambiarne l’andamento interno come addirittura modificare la preesistente struttura del mercato in cui si inserisce il prodotto offerto. Si pensi all’innovazione incrementale che può portare allo sviluppo di una nuova tecnologia per un’azienda di telefoni cellulari: potrebbe essere facile passare dalla concorrenza perfetta all’oligopolio. Le idee, a differenza degli oggetti (che includono beni, servizi, capitale, lavoro e terra) rappresentano il vantaggio di essere non rivali, di avere la stessa efficacia di utilizzo di un’altra idea preesistente, di poter essere costantemente migliorate. Resta però il problema della difficoltà di sviluppare un’economia delle idee in un mercato di concorrenza perfetta, dato che l’inventore non può massimizzare, a quelle condizioni, i benefici che dovrebbe ricavare dal suo investimento iniziale (infatti prezzo = costo marginale rappresenta un ostacolo eccessivo per il recupero del’investimento iniziale!) Ecco manifestarsi allora una nuova “convenienza” nell’investire in maniera puntuale e pianificata in un settore dalla parvenza forse più astratta e dal risultato apparentemente più incerto, destinato tuttavia ad occupare un ruolo sempre più importante nell’industria, capace di fare la differenza.
  • 3. 2. Ricerca e Sviluppo in Italia: un’attività frammentata. Esaurita questa premessa, prima di passare a esporre i possibili pro e contra della presenza di un’attività formalizzata di ricerca e sviluppo nell’industria italiana, è necessario esaminare i motivi per cui questa attività formalizzata di R&S fatica a prendere piede. Ricerca e Svilppo si inseriscono in maniera disorganica nel sistema italiano a causa di una problematica concorrenza di fattori, in primis per un discorso di (dis)incentivi: spesso l’ammontare degli sforzi e delle risorse necessarie per raggiungere un determinato risultato non restitituiscono un beneficio sufficiente, anche quando la scoperta o l’invenzione si rivelino fondamentali, questo perché ad esempio il numero di persone cui destinato è eccessivamente basso oppure i costi di produzione sono eccessivamente altri. In questi casi, lo Stato dovrebbe fornire incentivi o sussidi per far si che la ricerca sia sostenibile. In secondo luogo, altra causa di frammentarietà nell’attività R&S è data dalla scarsa protezione legislativa della proprietà industriale (rectius: dallo scarso range di protezione entro il quale i risultati dell’attività di R&S possono essere ricondotte a tutela legale tramite i meccanismi di esclusività ed inutilizzabilità previsti dal codice della proprietà industriale). È infatti noto che i brevetti hanno una durata limitata – relativamente breve- e che le idee, come detto sopra, non sono tra loro rivali: questo rappresenta l’altra faccia della medaglia dell’innovazione, e sicuramente uno svantaggio per i produttori; non è chiaro se lo sia o meno per i consumatori, dato che una maggiore concorrenza porta ad una diminuzione dei prezzi al consumo ma, allo stesso tempo, rende difficile che si crei una concentrazione dell’investimento nella ricerca “di qualità” proprio per indisponibilità di risorse da riservare a quel settore. Come si vede, la questione ricerca e sviluppo nel mercato italiano assume i caratteri di un circolo vizioso per l’economia delle c.d. “nano imprese”: se, da un lato, la presenza di un mercato quasi perfettamente concorrenziale e le barriere in entrata rispetto a possibili competitors nazionali (es: tradizione storica, know how ecc…) non stimolano le imprese ad un miglioramento della qualità del
  • 4. prodotto e concorrono al permanere dello status quo, dall’altro lato i concorrenti stranieri compensano le loro carenze di tradizione produttiva e know how proprio attraverso la ricerca e lo sviluppo tanto da riuscire a conquistarsi ampie fette del mercato nazionale, che invece risente del gap innovativo rispetto agli altri Stati dell’ Unione, avvalendosi di prodotti il cui “valore di partenza” era ben inferiore al nostro. Giunti a questo punto del discorso, l’obiezione che più frequentemente si fa è che le imprese italiane dovrebbero fare maggior ricorso al credito per poter finanziare attività e settori ormai necessari, come quello della R&S. La questione, però, è più complessa di quanto appare. Attualmente, la via più efficace per ottenere maggiori finanziamenti, è quella di quotare le società in borsa aprendosi così ad un numero di investitori considerevole: tecnica questa che in Italia collide eccessivamente con i vincoli che impongono le discipline Consob e Banca d’Italia per la protezione degli investitori. Chi si quota deve, in estrema sintesi, fornire molte più informazioni al pubblico di quanto sarebbe tenuta a dichiarare altrimenti, rivelando così dettagli riguardanti le modalità produttive, i sistemi di gestione, i fornitori, o in generale aspetti fondamentali del “successo” di una società. Il panorama industriale italiano è pieno di marchi di fama mondiale che scelgono di non quotarsi proprio per queste ragioni ( per tutti: Cuccinelli, Ferragamo) benché sicuramente si gioverebbero di un incremento degli investimenti – che ragionevolmente verrebbero destinati almeno in parte ai settori R&S -. 3. Conclusioni sopra una ricerca e sviluppo “a intermittenza”. Dopo aver osservato la congerie di cause che hanno portato l’industria italiana ad una situazione stagnante sul piano dell’innovazione, è necessario precisare come questa situazione sia un “risultato senza colpe” derivante da una concorrenza di situazioni di fatto cui risulta molto difficile porre rimedio, anche perché non “sbagliati” in assoluto. Ad ogni meccanismo protettivo del mercato e della concorrenza (penso soprattutto a quanto detto sopra sulla tutela legale dei brevetti
  • 5. e alla protezione degli investitori nelle società quotate) risponde un’esigenza di tutela ben più ampia dell’interesse delle imprese. Dunque, accertata la difficoltà di percorrere questo cammino, volgiamo lo sguardo verso le nuove soluzioni che si sono formate nel mercato per ovviare all’assenza di un’attività formalizzata di R&S: su tutti, la nuova figura delle società di Venture Capitalism, cioè un finanziatore esterno che sponsorizzasse le nuove invenzioni o innovazioni in cambio di quote della società finanziata. La presenza di un soggetto terzo rispetto alla società che fornisca il proprio apporto appare sicuramente, a prima vista, più appetibile rispetto alla tradizionale visione della R&S come un settore interno della società, e questo per due ordini di motivi: in primis, perche il finanziamento necessario proviene da una sola persona e non da una moltitudine di piccoli investitori, il che comporta un considerevole snellimento delle procedure ed una maggiore capacità operativa; in secondo luogo il venture capitalist è più efficace poiché fornisce un valido riscontro esterno su qualità e solidità della ricerca. Eppure, non è facile nascondere le ombre che emergono da questa figura: è inevitabile obiettare che il primo Venture Capitalist dovrebbe essere lo Stato italiano, mettendo a disposizione sussidi propri o favorendo l’ottenimento di quelli già stanziati dall’Unione Europea, come anche non si può fare a meno di guardare con una certa diffidenza agli “investitori di fortuna”, esponenti di un modello di fare impresa che a mio avviso molto poco si coniuga con la logica industriale che, seppur antiquata, ha contribuito per lungo tempo a dare lustro e prestigio all’Italia nel mondo. I soggetti cui si rivolge il venture capitalism non sono infatti l’azienda tradizionalmente intesa, forte di una lunga esperienza nel campo, che può vantare una struttura consolidata, un’esperienza sul campo di anni e competenze preziose, no: in questo momento storico gli occhi degli investitori sono puntati sull’azienda di rapido consumo, più comunemente nota come start-up, facile da “scalare” e costituita con l’obiettivo unico di essere rivenduta ad un valore molto più elevato di quello di partenza. Pur costituendo un’ottima opportunità di inserire giovani imprenditori nel mercato del lavoro, ritengo la start-up inidonea ad accogliere finanziamenti per R&S per una serie di ragioni.
  • 6. In primo luogo, la Ricerca, in tutte le sue forme, deve essere necessariamente accompagnata da una progettualità a lungo termine ed allo stesso tempo da una disponibilità a sopportare nel breve termine una serie di fallimenti; in secondo luogo perché l’investimento di R&S in una start-up potrà facilmente portare ad una innovazione radicale, ma raramente ad una incrementale e mai (!) ad una scoperta, men che mai incidentale. In terzo luogo, le start-up rischiano di trasformarsi in un cavallo di Troia per gli investitori stranieri che potrebbero finanziare R&S in Italia per poi ritrasferire con facilità e senza impedimenti il lavoro ottenuto all’Estero, e con esso la conoscenza prodotta. Che fare, quindi? È sicuramente necessario che lo Stato fornisca maggiore aiuto concreto alle imprese che dimostrino di voler concretamente investire in ricerca e sviluppo, anche partendo dalla considerazione di base della necessarietà di una ricerca (scientifica) utile a favorire il progresso della collettività e non per avvantaggiare unicamente il privato interesse. Allo stesso modo è richiesto un forte controllo sugli investitori atto a direzionare in maniera più lungimirante i capitali: quest’ultimo processo può avvenire però solo in forza di una sponsorizzazione istituzionalizzata delle nostre imprese in modo tale da aumentare il grado di credibilità e l’apposizione di vincoli sulla disponibilità dei risultati della ricerca cosicché se ne possa beneficiare con un ritorno collettivo e condiviso. Inoltre, la miglior parte delle start-up è quella legata alla presentazione del progetto sul come, sul perché e sul modo in cui verranno impiegati i capitali richiesti: ottenimento e giustificazione del finanziamento sulla base di un piano dettagliato, convincente e concreto. Su questa direttrice devono svilupparsi le richieste di sostegno per la ricerca e sviluppo che le “vere” imprese aspirano ad ottenere rivolgendosi allo Stato o ai Privati. Infine, come corollario a quanto detto precedentemente, ritengo che lo Stato dovrebbe essere la “prima impresa” a svolgere un’attività di Ricerca e Sviluppo propria, integralmente autofinanziata, ponendosi come obiettivo esclusivo il perpetrarsi del progresso scientifico per il
  • 7. bene collettivo, ponendo in essere un’attività volta alla ricerca delle Grandi Scoperte, della conservazione del metodo scientifico tradizionale e dello sviluppo di ciò che è utile per il Paese. In pratica, finanziandosi attraverso i contribuenti, potrebbe produrre innovazioni utili per la collettività che ne otterrebbe un beneficio grazie alla distribuzione alle imprese private in cambio di royalties inferiori rispetto al prezzo di mercato realizzando così i fini di giustizia distributiva in un’ottica open source. Bibliografia Charles I. Jones, Macroeconomics, December 2013 (3rd edition), W. W. Norton & Company.