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PROGETTI DI SVILUPPO ATTRAVERSO I METODI ATTIVI
di Luisa Ghianda
Un adattamento ottimale a più ambienti, compreso quello professionale, richiede una
personalità flessibile e spontanea.
I contesti organizzativi sono desiderosi di avere al loro interno persone molto flessibili, goal
focused, preparate, capaci di fornire risposte adeguate a situazioni nuove o nuove risposte a
circostanze bloccate, perché sono proprio le persone spontanee, creative, centrate al risultato,
flessibili coloro che sanno far fronte ai rapidi cambiamenti imposti dal mercato e ai continui
mutamenti introdotti da ritmi competitivi.
Evidente, quindi, la necessità di sviluppare creatività e adattabilità durante i processi formativi,
al fine di aiutare il professionista a far propria la capacità di agire in modo flessibile alla varietà
delle situazioni professionali, sostenendolo nel potenziale la trasformazione creativa del
proprio ruolo lavorativo.
Evidente, inoltre, che tutto questo non può avvenire per magia, né senza alcun sostegno
2
esterno. Perché se è vero che alcuni professionisti possono avviare tale processo in solitudine
giungendo a brillanti risultati, è altrettanto vero che processi formativi ad hoc portano ad una
buona riuscita un maggior numero di professionisti, con evidenti risvolti positivi per
l’organizzazione. E poi, l’importanza o la pressione delle situazioni nel contesto professionale
spesso impediscono all'individuo di prendere coscienza dei propri limiti o errori, per cui l’aiuto
offerto dal contesto formativo diviene quanto mai utile.
A mio avviso, tre sono le macro categorie di operazioni compiute durante l’attività
professionale fondate su competenze trasversali (capacità di carattere generale relative ai
processi di pensiero e cognizione, modalità di comportamento nei contesti sociali e
professionali, modalità di riflessione e utilizzo di strategie di apprendimento e auto-correzione
della condotta):
1. diagnosticare le caratteristiche dell’ambiente, del compito e del ruolo assegnato;
2. mettersi in relazione adeguata con l’ambiente;
3. predisporsi ad affrontare e gestire operativamente l’ambiente, il compito e il ruolo, sia
mentalmente, sia a livello della condotta finale.
Tali macro categorie si trovano al centro del sistema operativo della persona e si connettono,
da un lato, alle risorse cognitive (conoscenze) e psicosociali (valori, atteggiamenti,
motivazioni, identità) della persona e, dall’altro, alle specifiche esigenze del contesto
lavorativo. Il grado di padronanza con cui la persona gestisce queste competenze non solo
influenza la qualità della sua prestazione, attraverso le strategie che è in grado di mettere in
atto, ma influisce anche sulla possibilità di sviluppo delle sue risorse, attraverso la qualità delle
informazioni che è in grado di raccogliere, delle relazioni che sa instaurare, dei feed-back che
riesce a ottenere e di come sa utilizzarli per riorganizzare la sua conoscenza e la sua capacità
operativa.
In particolare, le competenze relative al diagnosticare permettono di effettuare un’analisi della
situazione in cui si opera a livello di compito, di ruolo professionale, di gruppo di lavoro, di
organizzazione, di problematiche e costituisce una tappa indispensabile per la progettazione
3
e l'esecuzione di una prestazione efficace. Possedere una buona capacità diagnostica crea il
presupposto per instaurare e valorizzare relazioni professionali significative, nonché affrontare
situazioni e problemi in modo efficace.
Le competenze relative al relazionarsi coinvolgono una complessa gamma di abilità che
permettono di stabilire un rapporto costruttivo con altri individui e generano, soprattutto,
appartenenza al contesto professionale. Sono le buone abilità relazionali del manager/capo
quelle che tengono alta la motivazione dei suoi collaboratori, poiché non è solo la leva del
denaro ciò che fidelizza il lavoratore, anzi gli studi in materia sostengono che un buon stipendio
da solo non è sufficiente per generare soddisfazione. Gestire una relazione efficacemente
presuppone lo sviluppo di competenze socio-emozionali (fiducia relazionale, espressione e
controllo delle emozioni, gestione dell’ansia, etc.), cognitive (leggere in modo adeguato la
situazione, percepire correttamente l’altro e le sue richieste, ecc.), comportamentali (stili di
ascolto, di comunicazione, ecc.).
Centrali sono le abilità comunicative, che richiedono la capacità di registrare, interpretare,
integrare messaggi verbali e non verbali in maniera corretta, decentrandosi da se stessi e
dalle proprie esigenze interne per rimanere centrati sull’interlocutore e le sue motivazioni,
operazione evidentemente né facile né banale, se si considerano le frequenti incomprensioni
relazionali e le altrettanto frequenti distorsioni comunicative, che tanti conflitti generano sul
posto di lavoro.
Le competenze relative all’affrontare, integrandosi con quelle relative al diagnosticare e al
relazionarsi, permettono al professionista di intervenire su un problema con migliori probabilità
di risolverlo. Più specificatamente, l’affrontare fa riferimento ad abilità che permettono
l’implementazione di strategie di azione finalizzate al raggiungimento degli scopi personali
previsti dal compito e dal ruolo professionale. Tali competenze presuppongono che il soggetto
sia in grado di definire in modo adeguato la situazione o il problema, di definire e valutare le
risorse che può mettere in campo, sia di tipo personale, sia del contesto organizzativo,
sapendo anche riconoscere i propri limiti, per eventualmente colmarli con il tempo. Ritengo
4
che anche questo punto non sia di così semplice realizzazione, poiché individuare i propri
punti di forza ma soprattutto di debolezza necessita una buona dose di intelligenza emotiva,
quella che consente di guardare con amorevolezza alla propria parte fragile, impedendo che
diventi un limite, anche attraverso la capacità di chiedere aiuto.
Diverse sono le possibili metodologie adottabili nel contesto d’aula per promuovere un
“addestramento al ruolo” che veda coinvolti fattori cognitivi, emotivi e sociali.
I Metodi Attivi sono, a mio avviso, uno strumento di grande efficacia, il cui concetto cardine è
la tendenza a valorizzare ciò che è vitale nell’individuo e nel gruppo, implementando proprio
spontaneità e creatività, forza propulsiva del progresso umano.
Gli interventi con i Metodi Attivi hanno una valenza sociale, poiché producono nelle persone
un apprendimento relazionale, acquisizione che deve necessariamente avvenire in ambito
gruppale, nel quale si evidenzia l'importanza della relazione e della identificazione tra vissuti.
Le attività di scambio e condivisione tra persone sono una ricchezza inestimabile, che amplia
l’apprendimento interno di ognuno, promuovendo consapevolezza relazionale, facilitando lo
sviluppo di sane capacità comunicative.
I Metodi Attivi incidono sullo sviluppo del “ruolo”, inteso come manifestazione dell’essere nel
mondo attraverso le relazioni. Ruolo come forme tangibili assunte dall’Io, cristallizzazione
finale di tutte le situazioni attraverso cui passa l’individuo, unità di esperienza nella quale si
fondono elementi privati, sociali, culturali. Il ruolo professionale è un ruolo sociale ed è
inevitabile che il ruolo privato eserciti una influenza decisiva nelle scelte dei comportamenti
strategici da mettere in atto anche in campo professionale. Ritengo che questo conduca alla
necessità di ristrutturare quel ruolo privato, se altamente incompatibile con gli obiettivi della
professione, oppure sostituire il ruolo professionale con uno maggiormente allineato al ruolo
privato. Ruolo professionale e ruolo personale sono inevitabilmente interconnessi e l’uno
influenza l’altro, tanto che nessun ruolo professionale potrà mai raggiungere un buon livello di
efficacia se non viene percepito come autentico e credibile.
Un buon esercizio dell’incarico professionale passa, quindi, attraverso una buona conoscenza
5
di sé e delle proprie costruzioni mentali. Conseguentemente, un lavoro efficace sullo sviluppo
di competenze trasversali non può prescindere da un lavoro sulla persona, pur senza toccare
il ruolo privato della stessa.
I Metodi Attivi offrono la possibilità di osservare il processo di ruolo, di studiarne la natura in
un contesto sperimentale, di analizzarne le interazioni con l’ambiente circostante, fino ad
allenare il comportamento nel qui e ora, indirizzandolo verso la flessibilità. Ciò significa che i
Metodi Attivi consentono di sperimentare dinamiche quali il diagnosticare, l’entrare in
relazione, l’agire, attivando processi consci e inconsci di costruzione di significati, che
producono apprendimento.
Ed è proprio sulla necessità dell’uomo di apprendere che si inseriscono, accogliendo la
necessità umana di un setting espressivo che permetta di accedere a conoscenze complesse.
I Metodi Attivi favoriscono il confronto di contenuti manifesti con contenuti latenti, dotando le
vicende complesse di un senso e dimostrandosi occasione di costruzione di significati, che
possono essere percepiti, compresi e integrati con quelli precedentemente costruiti nel
sistema di riferimento della persona.
I Metodi Attivi facilitano la penetrazione della complessità del mondo professionale, perché la
“messa in scena”, strumento privilegiato, è il mezzo per vedere, per esprimere una
parte di sé in un contesto in cui è possibile dare senso all’inconsapevole, all’indistinto,
mettendolo in scena per renderlo pensabile e conoscibile.
Ogni persona ha in sé una riserva di forze ed energie sopite che aspettano di essere
rintracciate e lette, al fine di fecondare le proprie azioni. I Metodi Attivi promuovono lo sviluppo
di talenti latenti, legittimando parti di sé nascoste, grazie al vantaggio della (ri)-
sperimentazione di situazioni di vita reale. A volte la tensione della vita professionale
impedisce di cogliere gli errori personali, oppure porta a mettere in campo gesti consolidati e
ripetitivi che, sebbene fonte di successo nel passato, chiudono alla sperimentazione di nuove
strade. I Metodi Attivi, al contrario, stimolano all’espansione. L’azione (messa in scena) è
intesa come confluenza di dati spaziali, situazionali, corporei, razionali ed emotivi. La persona
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proiettata nell’azione all’interno di un contesto protetto, come quello dell’aula di formazione, è
obbligata a fronteggiare la situazione simulata, o meglio a rivivere la situazione complessa
portata in scena attingendo a risorse relative all’affrontare, al diagnosticare, al relazionarsi,
dominando mezzi più adatti per conseguire i risultati attesi, fino a focalizzare competenze
latenti.
Nella indagine dell’auto-caso, il protagonista viene aiutato a leggere gli eventi e a riscriverli in
una forma che maggiormente si armonizza al suo interno. La messa in scena consiste in una
rappresentazione di scene per lui significative, dove la situazione ricreata non è reale, perché
si svolge ovviamente in un contesto di semi-realtà, ma lo sono le emozioni prodotte. Il
formatore scandisce il ritmo della scena con le sue consegne, stimolatori mentali ed emotivi,
fermandola nei momenti di maggiore interesse, affinché il protagonista possa accrescere la
consapevolezza del tutto.
Sul palcoscenico dei Metodi Attivi la persona non è sola. Tutti i presenti, in qualsiasi momento,
possono diventare i “doppi” del protagonista, coloro pronti a vivere l’esperienza accanto a lui,
calandosi nei suoi panni, aiutandolo a dar forma al non detto. E nel doppiare c’è
apprendimento, c’è sviluppo di competenze emotive, fatte di una percezione genuinadell’altro.
La drammatizzazione offre al ruolo professionale un’opportunità espressiva, che diviene
analizzabile e modificabile, perché la messa in scena favorisce la capacità di mettersi in
relazione con gli altri per la costruzione di un pensiero cooperativo. Il ruolo professionale, agito
e osservato da diverse angolazioni, consente di ampliare i punti di vista e di comprendere con
maggiore flessibilità la realtà.
Le tecniche utilizzate dal formatore sono varie:
- l’ “inversione di ruolo”: entrare nei panni altrui, al fine di percepire eventi, emozioni,
pensieri dal punto di vista dell’Altro significativo. Prendere i panni del capo, collega,
collaboratore produce un decentramento dell’Io, che permette la ristrutturazione della
relazione con l’Altro e la ricostruzione dell’immagine di sé attraverso gli occhi di coloro che
condividono lo stesso luogo professionale. E’ sostanzialmente diverso che un manager
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“racconti" il suo rapporto professionale con un collaboratore, oppure che ne metta in scena un
momento conflittuale, entrando nei panni di quel collaboratore, tentando di captarne il punto
di vista, imparando anche a guardarsi attraverso la percezione soggettiva che questi ne ha.
Nel primo caso prevale il racconto e il filtro razionale, nel secondo caso prevale l'azione, che
amplia la consapevolezza della situazione disfunzionale. L’inversione di ruolo obbliga ad
entrare in relazione emotiva con l’altro essere umano coinvolto nella relazione, spostando
l’attenzione dal proprio contenuto interno al contenuto interno altrui, fino a una nuova forma di
integrazione di tale contenuto nel sistema di riferimenti relazionali ed oggettuali della persona.
La capacità di mettersi nei panni degli altri e vedere le cose dal loro punto di vista segna il
passaggio dall'egocentrismo alla capacità di relazione sociale sana, implementando
competenze emozionali, relazionali e comunicative.
- Il “soliloquio” è l’esternazione del vissuto emotivo nel clou dell’azione scenica. Tale
tecnica offre la possibilità di verbalizzare a voce alta i propri pensieri e le proprie sensazioni,
che è un modo per focalizzare i proprio vissuti, muovendo all’insight (scoperta di nuove
consapevolezze).
- La “tecnica del doppio”: il conduttore o un altro partecipante verbalizzano alcuni dei
sentimenti e/o pensieri che il protagonista non riesce ad esprimere. Tale tecnica aiuta a fare
chiarezza interiore e offre spunti sui quali riflettere.
- La “tecnica dello specchio” consiste nel rimandare al protagonista cosa si vede di lui,
permettendogli di “vedersi da fuori”, stimolando un confronto tra l’auto e l’etero percezione.
- La “proiezione nel futuro” consta nel far agire il protagonista in una situazione
significativa da affrontare in futuro, preparandolo, così, a comportarsi con maggior
adeguatezza.
- Lo “sharing” (momento conclusivo del lavoro) allena all’auto-espressione, privata di critiche
e giudizi di valore e, sebbene, sia un processo guidato, mette in discussione comportamenti
socialmente accettati nel quotidiano, quali il continuo giudizio reciproco o la classificazione
degli individui in base ai loro comportamenti, dimostrandosi un prezioso momento educativo
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di sana convivenza sociale.
Il gruppo di Metodi Attivi, metafora del gruppo di lavoro, insegna, così, a mantenere un ruolo
propositivo al suo interno, educando alla cooperazione, indirizzando a mettere in relazione i
propri punti di vista con quelli altrui, allenando ad ascoltare, dote rara quanto preziosa.
- La “sociometria” rende evidenti le relazioni esistenti all’interno di un gruppo, strumento
facilitante una maggior coscienza sociale, rivelandosi molto utile, ad esempio, in un intervento
di team building.
- Il “role playing” trova la sua collocazione in vari momenti del processo formativo, proprio
per la sua duplice possibilità di coinvolgere il gruppo attorno ad un tema centrale e di
permettere, al tempo stesso, un apprendimento individualizzato per ogni partecipante.
Il potere dei Metodi Attivi consiste, sostanzialmente, nella capacità di sollecitare e lasciare
agire due parti della persona: l’Io attore e l’Io osservatore. La contrapposizione fra azione ed
osservazione ha lo scopo di codificare l’esperienza, sottoponendola a diverse chiavi
d’interpretazione legate al ruolo: l’individuo arriva a cogliere le motivazioni intrinseche che
regolano il comportamento agito. Il senso di responsabilità nei confronti dei comportamenti
aumenta, col vantaggio di sentirsi più autodiretti e meno etero-diretti, a favore di un’autonomia
psicologica.
I protagonisti di un intervento formativo con Metodi Attivi hanno modo di rivisitare il proprio
atomo professionale in funzione delle nuove percezioni di sé e della capacità di agire gesti
nuovi, che l’agire sulla scena offre ai loro occhi. Essi non interpretano un copione, ma ne
compongono la trama durante lo svolgersi dell’azione, amplificando il proprio potenziale
evolutivo, comprendendo i propri comportamenti, focalizzando i propri obiettivi.
Il cambiamento frutto di questo tipo di formazione non è una mera applicazione
comportamentale, bensì un nuovo stato di equilibrio interno, dove nuovi stilemi emotivi,
cognitivi, relazionali e comportamentali vengono messi a fuoco. Una volta riqualificato il
significato associato ad un comportamento a livello di pensiero, valori ed emozioni, il
comportamento stesso diventa naturale e non richiederà alcuno sforzo per essere agito,
9
poiché sarà perfettamente integrato con ogni parte della persona.

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Il successo di una organizzazione: far crescere le persone

  • 1. 1 PROGETTI DI SVILUPPO ATTRAVERSO I METODI ATTIVI di Luisa Ghianda Un adattamento ottimale a più ambienti, compreso quello professionale, richiede una personalità flessibile e spontanea. I contesti organizzativi sono desiderosi di avere al loro interno persone molto flessibili, goal focused, preparate, capaci di fornire risposte adeguate a situazioni nuove o nuove risposte a circostanze bloccate, perché sono proprio le persone spontanee, creative, centrate al risultato, flessibili coloro che sanno far fronte ai rapidi cambiamenti imposti dal mercato e ai continui mutamenti introdotti da ritmi competitivi. Evidente, quindi, la necessità di sviluppare creatività e adattabilità durante i processi formativi, al fine di aiutare il professionista a far propria la capacità di agire in modo flessibile alla varietà delle situazioni professionali, sostenendolo nel potenziale la trasformazione creativa del proprio ruolo lavorativo. Evidente, inoltre, che tutto questo non può avvenire per magia, né senza alcun sostegno
  • 2. 2 esterno. Perché se è vero che alcuni professionisti possono avviare tale processo in solitudine giungendo a brillanti risultati, è altrettanto vero che processi formativi ad hoc portano ad una buona riuscita un maggior numero di professionisti, con evidenti risvolti positivi per l’organizzazione. E poi, l’importanza o la pressione delle situazioni nel contesto professionale spesso impediscono all'individuo di prendere coscienza dei propri limiti o errori, per cui l’aiuto offerto dal contesto formativo diviene quanto mai utile. A mio avviso, tre sono le macro categorie di operazioni compiute durante l’attività professionale fondate su competenze trasversali (capacità di carattere generale relative ai processi di pensiero e cognizione, modalità di comportamento nei contesti sociali e professionali, modalità di riflessione e utilizzo di strategie di apprendimento e auto-correzione della condotta): 1. diagnosticare le caratteristiche dell’ambiente, del compito e del ruolo assegnato; 2. mettersi in relazione adeguata con l’ambiente; 3. predisporsi ad affrontare e gestire operativamente l’ambiente, il compito e il ruolo, sia mentalmente, sia a livello della condotta finale. Tali macro categorie si trovano al centro del sistema operativo della persona e si connettono, da un lato, alle risorse cognitive (conoscenze) e psicosociali (valori, atteggiamenti, motivazioni, identità) della persona e, dall’altro, alle specifiche esigenze del contesto lavorativo. Il grado di padronanza con cui la persona gestisce queste competenze non solo influenza la qualità della sua prestazione, attraverso le strategie che è in grado di mettere in atto, ma influisce anche sulla possibilità di sviluppo delle sue risorse, attraverso la qualità delle informazioni che è in grado di raccogliere, delle relazioni che sa instaurare, dei feed-back che riesce a ottenere e di come sa utilizzarli per riorganizzare la sua conoscenza e la sua capacità operativa. In particolare, le competenze relative al diagnosticare permettono di effettuare un’analisi della situazione in cui si opera a livello di compito, di ruolo professionale, di gruppo di lavoro, di organizzazione, di problematiche e costituisce una tappa indispensabile per la progettazione
  • 3. 3 e l'esecuzione di una prestazione efficace. Possedere una buona capacità diagnostica crea il presupposto per instaurare e valorizzare relazioni professionali significative, nonché affrontare situazioni e problemi in modo efficace. Le competenze relative al relazionarsi coinvolgono una complessa gamma di abilità che permettono di stabilire un rapporto costruttivo con altri individui e generano, soprattutto, appartenenza al contesto professionale. Sono le buone abilità relazionali del manager/capo quelle che tengono alta la motivazione dei suoi collaboratori, poiché non è solo la leva del denaro ciò che fidelizza il lavoratore, anzi gli studi in materia sostengono che un buon stipendio da solo non è sufficiente per generare soddisfazione. Gestire una relazione efficacemente presuppone lo sviluppo di competenze socio-emozionali (fiducia relazionale, espressione e controllo delle emozioni, gestione dell’ansia, etc.), cognitive (leggere in modo adeguato la situazione, percepire correttamente l’altro e le sue richieste, ecc.), comportamentali (stili di ascolto, di comunicazione, ecc.). Centrali sono le abilità comunicative, che richiedono la capacità di registrare, interpretare, integrare messaggi verbali e non verbali in maniera corretta, decentrandosi da se stessi e dalle proprie esigenze interne per rimanere centrati sull’interlocutore e le sue motivazioni, operazione evidentemente né facile né banale, se si considerano le frequenti incomprensioni relazionali e le altrettanto frequenti distorsioni comunicative, che tanti conflitti generano sul posto di lavoro. Le competenze relative all’affrontare, integrandosi con quelle relative al diagnosticare e al relazionarsi, permettono al professionista di intervenire su un problema con migliori probabilità di risolverlo. Più specificatamente, l’affrontare fa riferimento ad abilità che permettono l’implementazione di strategie di azione finalizzate al raggiungimento degli scopi personali previsti dal compito e dal ruolo professionale. Tali competenze presuppongono che il soggetto sia in grado di definire in modo adeguato la situazione o il problema, di definire e valutare le risorse che può mettere in campo, sia di tipo personale, sia del contesto organizzativo, sapendo anche riconoscere i propri limiti, per eventualmente colmarli con il tempo. Ritengo
  • 4. 4 che anche questo punto non sia di così semplice realizzazione, poiché individuare i propri punti di forza ma soprattutto di debolezza necessita una buona dose di intelligenza emotiva, quella che consente di guardare con amorevolezza alla propria parte fragile, impedendo che diventi un limite, anche attraverso la capacità di chiedere aiuto. Diverse sono le possibili metodologie adottabili nel contesto d’aula per promuovere un “addestramento al ruolo” che veda coinvolti fattori cognitivi, emotivi e sociali. I Metodi Attivi sono, a mio avviso, uno strumento di grande efficacia, il cui concetto cardine è la tendenza a valorizzare ciò che è vitale nell’individuo e nel gruppo, implementando proprio spontaneità e creatività, forza propulsiva del progresso umano. Gli interventi con i Metodi Attivi hanno una valenza sociale, poiché producono nelle persone un apprendimento relazionale, acquisizione che deve necessariamente avvenire in ambito gruppale, nel quale si evidenzia l'importanza della relazione e della identificazione tra vissuti. Le attività di scambio e condivisione tra persone sono una ricchezza inestimabile, che amplia l’apprendimento interno di ognuno, promuovendo consapevolezza relazionale, facilitando lo sviluppo di sane capacità comunicative. I Metodi Attivi incidono sullo sviluppo del “ruolo”, inteso come manifestazione dell’essere nel mondo attraverso le relazioni. Ruolo come forme tangibili assunte dall’Io, cristallizzazione finale di tutte le situazioni attraverso cui passa l’individuo, unità di esperienza nella quale si fondono elementi privati, sociali, culturali. Il ruolo professionale è un ruolo sociale ed è inevitabile che il ruolo privato eserciti una influenza decisiva nelle scelte dei comportamenti strategici da mettere in atto anche in campo professionale. Ritengo che questo conduca alla necessità di ristrutturare quel ruolo privato, se altamente incompatibile con gli obiettivi della professione, oppure sostituire il ruolo professionale con uno maggiormente allineato al ruolo privato. Ruolo professionale e ruolo personale sono inevitabilmente interconnessi e l’uno influenza l’altro, tanto che nessun ruolo professionale potrà mai raggiungere un buon livello di efficacia se non viene percepito come autentico e credibile. Un buon esercizio dell’incarico professionale passa, quindi, attraverso una buona conoscenza
  • 5. 5 di sé e delle proprie costruzioni mentali. Conseguentemente, un lavoro efficace sullo sviluppo di competenze trasversali non può prescindere da un lavoro sulla persona, pur senza toccare il ruolo privato della stessa. I Metodi Attivi offrono la possibilità di osservare il processo di ruolo, di studiarne la natura in un contesto sperimentale, di analizzarne le interazioni con l’ambiente circostante, fino ad allenare il comportamento nel qui e ora, indirizzandolo verso la flessibilità. Ciò significa che i Metodi Attivi consentono di sperimentare dinamiche quali il diagnosticare, l’entrare in relazione, l’agire, attivando processi consci e inconsci di costruzione di significati, che producono apprendimento. Ed è proprio sulla necessità dell’uomo di apprendere che si inseriscono, accogliendo la necessità umana di un setting espressivo che permetta di accedere a conoscenze complesse. I Metodi Attivi favoriscono il confronto di contenuti manifesti con contenuti latenti, dotando le vicende complesse di un senso e dimostrandosi occasione di costruzione di significati, che possono essere percepiti, compresi e integrati con quelli precedentemente costruiti nel sistema di riferimento della persona. I Metodi Attivi facilitano la penetrazione della complessità del mondo professionale, perché la “messa in scena”, strumento privilegiato, è il mezzo per vedere, per esprimere una parte di sé in un contesto in cui è possibile dare senso all’inconsapevole, all’indistinto, mettendolo in scena per renderlo pensabile e conoscibile. Ogni persona ha in sé una riserva di forze ed energie sopite che aspettano di essere rintracciate e lette, al fine di fecondare le proprie azioni. I Metodi Attivi promuovono lo sviluppo di talenti latenti, legittimando parti di sé nascoste, grazie al vantaggio della (ri)- sperimentazione di situazioni di vita reale. A volte la tensione della vita professionale impedisce di cogliere gli errori personali, oppure porta a mettere in campo gesti consolidati e ripetitivi che, sebbene fonte di successo nel passato, chiudono alla sperimentazione di nuove strade. I Metodi Attivi, al contrario, stimolano all’espansione. L’azione (messa in scena) è intesa come confluenza di dati spaziali, situazionali, corporei, razionali ed emotivi. La persona
  • 6. 6 proiettata nell’azione all’interno di un contesto protetto, come quello dell’aula di formazione, è obbligata a fronteggiare la situazione simulata, o meglio a rivivere la situazione complessa portata in scena attingendo a risorse relative all’affrontare, al diagnosticare, al relazionarsi, dominando mezzi più adatti per conseguire i risultati attesi, fino a focalizzare competenze latenti. Nella indagine dell’auto-caso, il protagonista viene aiutato a leggere gli eventi e a riscriverli in una forma che maggiormente si armonizza al suo interno. La messa in scena consiste in una rappresentazione di scene per lui significative, dove la situazione ricreata non è reale, perché si svolge ovviamente in un contesto di semi-realtà, ma lo sono le emozioni prodotte. Il formatore scandisce il ritmo della scena con le sue consegne, stimolatori mentali ed emotivi, fermandola nei momenti di maggiore interesse, affinché il protagonista possa accrescere la consapevolezza del tutto. Sul palcoscenico dei Metodi Attivi la persona non è sola. Tutti i presenti, in qualsiasi momento, possono diventare i “doppi” del protagonista, coloro pronti a vivere l’esperienza accanto a lui, calandosi nei suoi panni, aiutandolo a dar forma al non detto. E nel doppiare c’è apprendimento, c’è sviluppo di competenze emotive, fatte di una percezione genuinadell’altro. La drammatizzazione offre al ruolo professionale un’opportunità espressiva, che diviene analizzabile e modificabile, perché la messa in scena favorisce la capacità di mettersi in relazione con gli altri per la costruzione di un pensiero cooperativo. Il ruolo professionale, agito e osservato da diverse angolazioni, consente di ampliare i punti di vista e di comprendere con maggiore flessibilità la realtà. Le tecniche utilizzate dal formatore sono varie: - l’ “inversione di ruolo”: entrare nei panni altrui, al fine di percepire eventi, emozioni, pensieri dal punto di vista dell’Altro significativo. Prendere i panni del capo, collega, collaboratore produce un decentramento dell’Io, che permette la ristrutturazione della relazione con l’Altro e la ricostruzione dell’immagine di sé attraverso gli occhi di coloro che condividono lo stesso luogo professionale. E’ sostanzialmente diverso che un manager
  • 7. 7 “racconti" il suo rapporto professionale con un collaboratore, oppure che ne metta in scena un momento conflittuale, entrando nei panni di quel collaboratore, tentando di captarne il punto di vista, imparando anche a guardarsi attraverso la percezione soggettiva che questi ne ha. Nel primo caso prevale il racconto e il filtro razionale, nel secondo caso prevale l'azione, che amplia la consapevolezza della situazione disfunzionale. L’inversione di ruolo obbliga ad entrare in relazione emotiva con l’altro essere umano coinvolto nella relazione, spostando l’attenzione dal proprio contenuto interno al contenuto interno altrui, fino a una nuova forma di integrazione di tale contenuto nel sistema di riferimenti relazionali ed oggettuali della persona. La capacità di mettersi nei panni degli altri e vedere le cose dal loro punto di vista segna il passaggio dall'egocentrismo alla capacità di relazione sociale sana, implementando competenze emozionali, relazionali e comunicative. - Il “soliloquio” è l’esternazione del vissuto emotivo nel clou dell’azione scenica. Tale tecnica offre la possibilità di verbalizzare a voce alta i propri pensieri e le proprie sensazioni, che è un modo per focalizzare i proprio vissuti, muovendo all’insight (scoperta di nuove consapevolezze). - La “tecnica del doppio”: il conduttore o un altro partecipante verbalizzano alcuni dei sentimenti e/o pensieri che il protagonista non riesce ad esprimere. Tale tecnica aiuta a fare chiarezza interiore e offre spunti sui quali riflettere. - La “tecnica dello specchio” consiste nel rimandare al protagonista cosa si vede di lui, permettendogli di “vedersi da fuori”, stimolando un confronto tra l’auto e l’etero percezione. - La “proiezione nel futuro” consta nel far agire il protagonista in una situazione significativa da affrontare in futuro, preparandolo, così, a comportarsi con maggior adeguatezza. - Lo “sharing” (momento conclusivo del lavoro) allena all’auto-espressione, privata di critiche e giudizi di valore e, sebbene, sia un processo guidato, mette in discussione comportamenti socialmente accettati nel quotidiano, quali il continuo giudizio reciproco o la classificazione degli individui in base ai loro comportamenti, dimostrandosi un prezioso momento educativo
  • 8. 8 di sana convivenza sociale. Il gruppo di Metodi Attivi, metafora del gruppo di lavoro, insegna, così, a mantenere un ruolo propositivo al suo interno, educando alla cooperazione, indirizzando a mettere in relazione i propri punti di vista con quelli altrui, allenando ad ascoltare, dote rara quanto preziosa. - La “sociometria” rende evidenti le relazioni esistenti all’interno di un gruppo, strumento facilitante una maggior coscienza sociale, rivelandosi molto utile, ad esempio, in un intervento di team building. - Il “role playing” trova la sua collocazione in vari momenti del processo formativo, proprio per la sua duplice possibilità di coinvolgere il gruppo attorno ad un tema centrale e di permettere, al tempo stesso, un apprendimento individualizzato per ogni partecipante. Il potere dei Metodi Attivi consiste, sostanzialmente, nella capacità di sollecitare e lasciare agire due parti della persona: l’Io attore e l’Io osservatore. La contrapposizione fra azione ed osservazione ha lo scopo di codificare l’esperienza, sottoponendola a diverse chiavi d’interpretazione legate al ruolo: l’individuo arriva a cogliere le motivazioni intrinseche che regolano il comportamento agito. Il senso di responsabilità nei confronti dei comportamenti aumenta, col vantaggio di sentirsi più autodiretti e meno etero-diretti, a favore di un’autonomia psicologica. I protagonisti di un intervento formativo con Metodi Attivi hanno modo di rivisitare il proprio atomo professionale in funzione delle nuove percezioni di sé e della capacità di agire gesti nuovi, che l’agire sulla scena offre ai loro occhi. Essi non interpretano un copione, ma ne compongono la trama durante lo svolgersi dell’azione, amplificando il proprio potenziale evolutivo, comprendendo i propri comportamenti, focalizzando i propri obiettivi. Il cambiamento frutto di questo tipo di formazione non è una mera applicazione comportamentale, bensì un nuovo stato di equilibrio interno, dove nuovi stilemi emotivi, cognitivi, relazionali e comportamentali vengono messi a fuoco. Una volta riqualificato il significato associato ad un comportamento a livello di pensiero, valori ed emozioni, il comportamento stesso diventa naturale e non richiederà alcuno sforzo per essere agito,
  • 9. 9 poiché sarà perfettamente integrato con ogni parte della persona.