1. Sommario
Introduzione [pag. 2]
1. Paradisi per tutti i gusti... [pag 4]
- Il triangolo dell’elusione fiscale
- Il trucco del transfer pricing
- Altri semplici meccanismi per molti ma non per tutti
BOX: Il mistero del rame dello Zambia
- Gli impatti nel Sud del mondo
- Non solo finanza e tasse
2. ...E accessibili a chiunque [pag. 11]
- Elusione fiscale a portata di mouse
- Riciclaggio di denaro sporco, traffico di droga e paradisi
fiscali
BOX: Un viziaccio sempre più diffuso
3. Scudo e paradisi, la situazione in Italia
[pag. 14]
- Scudo fiscale: una sanatoria mascherata?
BOX L’economia sommersa in Italia
- Italiani in paradiso
4. I paradisi dietro l’angolo [pag. 18]
- La City di Londra, la madre dei paradisi fiscali
- Le mille contraddizioni dell’isoletta dorata di Jersey
BOX Football e paradisi fiscali
5. La comunità internazionale combatte
veramente i paradisi fiscali? [pag. 23]
- G20, tanto rumore per nulla, o quasi
- La lista vuota dell’OCSE
- La BEI e le relazioni pericolose con i tax havens
BOX La beffa della Corporate Social Responsability
Conclusioni. Come risolvere il problema,
le proposte della società civile
internazionale [pag. 28]
- Il Financial Secrecy Index
- Un po’ di misure concrete
BOX La dichiarazione di La Mada
2. PARADISI PERDUTI2
È
possibile concepire uno
Stato moderno senza le
entrate fiscali? Le tasse
costituiscono la base per
reperire le risorse necessarie ad
assicurare l’istruzione, la sanità,
i trasporti pubblici, le pensioni,
la giustizia e tutte le altre “spese
sociali”.
Senza tali entrate nessun governo potrebbe
ridistribuire il benessere prodotto da un Paese
e provare a ridurre la povertà e le ineguaglian-
ze presenti sul suo territorio. Eppure in tutto il
mondo le entrate fiscali sono messe sotto attacco.
Imprese e privati cittadini molto facoltosi si av-
valgono di navigati fiscalisti, banchieri, avvocati e
consulenti finanziari per evitare in tutti i modi di
pagare le tasse.
Stime al ribasso valutano in un
centinaio di miliardi di euro l’anno le perdite di introiti per lo
Stato Italiano a causa delle mancate entrate fiscali. Negli Usa
il conto ammonta a 300 miliardi di dollari.
I Paesi più poveri perdono tra i 500 e gli 800 miliardi di dollari – circa 200 miliardi i
guadagni spariti per l’Africa. Stiamo parlando di cifre molto più ingenti del totale di tutti i
prestiti e le donazioni elargite dai Paesi ricchi nell’arco di 12 mesi. Un ammanco che con-
danna alla miseria e all’esclusione sociale milioni di persone in giro per il Pianeta. Somme
gigantesche alle quali si aggiungono quelle legate ai traffici illeciti, alla grande crimina-
lità, alla corruzione. Il nodo gordiano di tutta la questione dei flussi illeciti di capitali e
dell’evasione e dell’elusione fiscale è da individuare nei paradisi fiscali. La crisi economica
e finanziaria globale e il conseguente bisogno degli esecutivi di tutto il mondo di cercare
fonti fresche di entrate ha fatto sì che i tax havens – come si definiscono in lingua inglese
Introduzione
3. PARADISI PERDUTI 3
– finissero alla luce della ribalta. Francia e Germania,
ovvero due economie fortemente basate sul settore
industriale sembrano avere compreso che la finan-
za ha passato il segno e che è arrivato il momento
di mettere un argine agli artifici propri del settore
finanziario. La produzione e la commercializzazione
reale di beni e servizi devono soppiantare il gioco al
massacro delle speculazioni a tutti i costi, favorito
in buona parte dai paradisi fiscali, che secondo uno
dei massimi esperti in materia, il professor Ronen
Palan1
, costituiscono la “pietra angolare dell’attuale
processo di globalizzazione”. Ma fino a questo mo-
mento il moltiplicarsi di incontri e di grandi forum
internazionali, G20 in primis, a fronte di tante parole
e dichiarazioni, ha prodotto pochi fatti per risolvere
veramente il problema.
Prova ne sia che, mentre il fenomeno è tutt’altro che
debellato e anzi in continua crescita, la lista nera dei
paradisi fiscali, già scarna in precedenza, è ora vuota.
Sgombriamo però subito il campo da possibili equi-
voci: i paradisi fiscali non sono solo esotiche isolette
dall’altra parte del mondo come le Cayman, che tanto
profondamente hanno colpito l’immaginario colletti-
vo. Sono anche Paesi a due passi da noi, pensiamo al
Lussemburgo o alla Svizzera, città o pezzi di città, Hong Kong e la City di Londra non potreb-
bero costituire esempi migliori, o addirittura Stati americani, quali il Delaware o il Nevada.
E poi non sempre, come abbiamo potuto riscontrare di persona sull’isoletta della Manica di
Jersey, chi vive in questi “luoghi ameni” se la passa benissimo.
Una lista esaustiva dei principali tax havens l’hanno stilata alcune reti della società civile inter-
nazionale, molto attive nell’offrire delle proposte su come affrontare l’argomento in maniera
efficace e nello squarciare il velo ancora esistente su come operano gli stessi paradisi fiscali.
Realtà con ramificazioni e implicazioni così estese che sono difficili da immaginare e che
giocano un ruolo chiave in una pletora di attività economiche di tutti i Paesi dell’orbe terrac-
queo. Compreso il nostro, il quale però, come vedremo più avanti, sembra fin troppo timido nel
provare a circoscrivere il problema.
1 Ordinario di economia politica internazionale all’Università di Birmingham e autore di numerosi libri e pubblicazio-
ni sulla globalizzazione e in particolare sul tema dei paradisi fiscali.
4. PARADISI PERDUTI4
passaggio finale prevede che il consumatore
di A compri il telefonino a un prezzo fissato
in 100 euro, con la conseguenza che sulla
carta la compagnia del Paese A non ha fatto
registrare nessun profitto. Niente profitti,
niente tasse da pagare, ma un bel tesoretto
in una località sicura.
Nella realtà il meccanismo adottato è più
complesso, ma i principi non si discostano
profondamente da quanto abbiamo appena
esposto. Una delle prime storie venute
a conoscenza dell’opinione pubblica
internazionale riguarda il commercio
di banane. Il quotidiano britannico The
Guardian il 7 novembre del 2007 dedicò
l’intera prima pagina a questo caso
paradigmatico. Dole,
Chiquita e Fresh Del
Monte, le corporations
che tuttora controllano
oltre due terzi del mercato
mondiale delle banane,
finirono sotto la lente
d’ingrandimento dei
giornalisti britannici che,
con l’ausilio della rete della
società civile Tax Justice
Network, scoprirono che a
fronte di un giro di affari
di 50 miliardi di dollari e
profitti per 1,4 miliardi,
tra il 2002 e il 2007 le tre
compagnie avevano pagato
solo 200 milioni di tasse.
Meno del 15 per cento
dei profitti, che alcuni
anni arrivava addirittura all’8 per cento,
nonostante il livello di tassazione negli Stati
degli Usa dove hanno le loro sedi centrali
I
l triangolo dell’elusione
fiscale. Partiamo da un
esempio di scuola molto
semplice: una multinazionale
con sede in un Paese del
Nord ricco del Pianeta (che
chiameremo A) produce
telefonini.
La realizzazione dei telefoni cellulari avviene
materialmente in uno Stato del Sud (che
invece riconosceremo con la lettera B),
per un costo totale di 10 euro, mentre il
prodotto finito viene venduto ai consumatori
di A per 100 euro. Se
ci attenessimo ai fatti
reali, l’impresa dovrebbe
pagare le tasse sui profitti
previste dalla normativa
vigente nel Paese A (in
estrema sintesi, 100-
10=90). I vertici della
corporation però sono
furbi e decidono di
costituire una filiale in
un paradiso fiscale (che
individuiamo con C). Poi
il giochino è semplice:
il produttore B vende
il telefonino alla filiale
nel paradiso fiscale C
per 10 euro. C rivende
a sua volta il manufatto
all’impresa di A per 100 euro. Il margine
di guadagno di 90 euro questa volta viene
quindi realizzato nel paradiso fiscale in C,
dove non esiste una tassazione sui profitti. Il
1. Paradisi per tutti i gusti...
5. PARADISI PERDUTI 5
Il trucco del transfer pricing
Le statistiche, corroborate dai casi che
abbiamo appena esposto, ci spiegano che
oltre il 50 per cento del commercio mondiale
transita per un paradiso fiscale. Però questi
ultimi contribuiscono solo con il tre per
cento al PIL mondiale. L’impressionante
differenza è legata al
fatto che buona parte di
questi scambi ha l’unico
obiettivo di evadere le
tasse o occultare profitti.
Basterebbero queste cifre
per farsi un’idea di come i
centri offshore incidono in
maniera diretta o indiretta
sulla nostra vita di tutti
i giorni, distorcendo
incredibilmente l’economia
globale.
Prendiamo un altro dato:
l’Organizzazione per la
Cooperazione e lo Sviluppo
Economico (OCSE) è in
grado di documentare come i due terzi
dei traffici commerciali internazionali
si svolgano non sul mercato e verso il
consumatore finale, ma tra diverse imprese
o tra rami della stessa multinazionale. La
filiale del Paese X compra o vende prodotti
si aggiri
intorno al
35 per cento. Il trucco adottato
è sempre quello della filiale
nel paradiso fiscale. La Fresh
Del Monte ne aveva – anzi,
ne ha – molte disseminate tra
Isole Cayman, Gibilterra, Isole
Vergini Britanniche, Antille
Olandesi e Bermuda. Oltre alle
tasse eluse nei Paesi del Nord e del Sud dove
opera la multinazionale, un altro pesante
effetto collaterale di questa condotta è la
corsa al ribasso dei salari dei lavoratori e dei
loro diritti, come è capitato ai raccoglitori
di banane impiegati in Costa Rica nel 1999.
Ben 4.300 di loro furono licenziati su due
piedi per far posto
ad altra forza lavoro
sottopagata.
Un dato per chiarire
la dimensione del
fenomeno: il primo
importatore di banane
nell’UE risulta oggi
essere Jersey, dove
con ogni probabilità
non viene prodotta
né commercializzata
nemmeno una
banana “vera”. Si
tratta unicamente di
gigantesche partite
contabili e di scritture sulla carta dei bilanci
che avvengono nella piccola isola nel Canale
della Manica, uno dei principali territori
offshore della vecchia Europa, come vedremo
meglio in seguito.
Un dato per chiarire la
dimensione del fenomeno:
il primo importatore di
banane nell’UE risulta
oggi essere Jersey, dove
con ogni probabilità
non viene prodotta
né commercializzata
nemmeno una banana
“vera”
Una veduta
dell’isola di Jersey
nel canale della
Manica
(Istockphoto.com)
6. PARADISI PERDUTI6
alla filiale del Paese Y. Questa pratica
in lingua inglese viene individuata con
l’espressione transfer pricing. Una pratica in
sé legittima ma, come dimostra l’esperienza
degli ultimi anni, che in moltissimi casi si
risolve in una sorta di “regime anomalo”,
al di fuori delle normali regole del mercato
che permette di fissare dei prezzi del tutto
arbitrari, con il fine di pagare meno tasse.
La casistica è ricchissima, quasi infinita.
“Negli anni si sono vendute lampadine a
320 dollari, cuscini a 909 dollari e sabbia
a 1.000 dollari la tonnellata, nonostante
il prezzo medio di mercato ammontasse
rispettivamente a 66 cents, 62 cents e
12 dollari” ci ha raccontato Prem Sikka,
professore di Economia all’Università di
Colchester, in Inghilterra. Ma di esempi
ce ne sono a bizzeffe.
Tanto per citarne altri di
quelli da far strabuzzare
gli occhi, ci sono succhi
di mela venduto a oltre
mille dollari al litro e
spazzolini da denti a
5.600 dollari al pezzo.
Per spostare profitti
nell’altra direzione
si potrebbero citare i
casi di trattori agricoli
venduti a 94 dollari
l’uno, o di caviale russo stimato la miseria di
3 dollari al chilogrammo. Il meccanismo è
ancora più efficace e meno controllabile se
si riferisce al passaggio di beni intangibili,
quali loghi o brevetti. È sufficiente registrare
il marchio in una filiale appositamente
costituita in un paradiso fiscale. Tutti gli
stabilimenti produttivi e le succursali, per
utilizzare il marchio dell’impresa, dovranno
pagare i diritti
(copyright)
alla filiale
dove il
marchio è
stato registrato. In questo modo è possibile
garantire, in maniera molto semplice e quasi
automatica, un continuo trasferimento
di denaro dagli stabilimenti produttivi
alla filiale creata nel paradiso fiscale con
l’unico scopo di “custodire” il marchio.
Considerando poi che ogni impresa, entro
limiti molto elastici, è libera di attribuire
al proprio logo il valore che crede più
opportuno, è possibile comprendere la
forza di un tale meccanismo finanziario,
sulla carta del tutto legittimo, almeno
finché non si interverrà con normative
internazionali che lo
regolamenteranno in
maniera più severa.
Il transfer pricing di
marchi e loghi era
una delle specialità
della WorldCom. La
società telefonica,
protagonista nel
2002 di uno dei più
grandi fallimenti della
storia, totalizzò un
risparmio valutato in
oltre 300 milioni di dollari. Anche la Enron,
che anticipò di pochi mesi quanto accaduto
alla WorldCom, impiegava massicciamente
l’espediente dei prezzi fasulli. I vari
trasferimenti tra le oltre 300 filiali sparse
nei vari paradisi fiscali di tutto il mondo
hanno evitato alla compagnia il pagamento
delle tasse sui 1,785 miliardi di profitti fatto
registrare nel quinquennio 1996-2000.
L’OCSE è in grado di
documentare come i due
terzi dei traffici commerciali
internazionali si svolgano
non sul mercato e verso il
consumatore finale, ma tra
diverse imprese o tra rami
della stessa multinazionale
7. Altri semplici meccanismi
per molti, ma non per tutti
Una pratica simile a quella del transfer
pricing è il mispricing. La differenza sta
nel fatto che il commercio non avviene
tra succursali della stessa entità, ma
consiste comunque nel fissare un prezzo
“inadeguato” a un prodotto o una materia
prima destinata all’export o al mercato
(vedi box sullo Zambia). Un’ulteriore
pratica molto diffusa è quella di creare
delle compagnie di assicurazione interne
all’impresa, e di domiciliarle in qualche
paradiso fiscale. La casa madre stipula delle
polizze con questa compagnia pagando
i premi relativi. Un altro meccanismo
perfettamente legale e che può permettere
in maniera semplice di spostare ingenti
somme dai Paesi ad alta tassazione verso
giurisdizioni più “compiacenti”.
L’ENI ha una propria compagnia di
assicurazione in Irlanda, come apertamente
dichiarato dall’amministratore delegato
dell’impresa nel corso dell’Assemblea degli
azionisti del 2010.2
Lo stesso meccanismo
sembra essere utilizzato dall’Enel, un’altra
impresa che vede lo Stato italiano quale
azionista di maggioranza, e che ha una
sua compagnia di riassicurazione, la Enel
Re Ltd, registrata a Dublino, dove la
2 Rispondendo alla domanda di un azionista, l’ammi-
nistratore delegato dell’ENI Paolo Scaroni, durante
l’assemblea dei soci 2010, ha dichiarato testualmente:
“Noi effettivamente abbiamo una società assicurativa
che svolge un’attività captive che è tutt’ora in Irlanda,
ma devo dire che questa società agisce solo per noi per
cui è una società totalmente captive. È una procedura
che si fa sostanzialmente per risparmiare e che hanno
tutte le società del nostro settore [...]”
Lo Zambia è uno dei principali Paesi
produttori di rame al mondo. Nel 2008
metà del quantitativo di metallo estrat-
to in un anno ha lasciato la dogana del
Paese dell’Africa centro-meridionale con
destinazione Svizzera. E qui nasce il primo
problema. Nel “buco nero di Ginevra”,
come definito dai ricercatori della Ong in-
glese Christian Aid, buona parte del rame
risulta non essere mai arrivato, almeno
stando ai dati ufficiali della Confedera-
zione Elvetica. Dove finisce veramente il
rame zambiano e soprattutto quanti sono i
mancati introiti legati
al passaggio fittizio in
un paradiso fiscale?
Come se non bastasse
c’è una differenza
enorme sui prezzi del
minerale. Quelli delle
esportazioni di rame
dalla Svizzera sono di
gran lunga maggiori
rispetto agli importi di-
chiarati in Zambia, molto
più vicini alle medie mon-
diali (come previsto dalla
normativa zambiana al fine di combat-
tere ogni possibile forma di abuso). Se il
Paese africano dovesse ricevere per il suo
rame esportato in Svizzera l’equivalente
di quanto la stessa Svizzera incamera per
le sue esportazioni, il valore ricevuto nel
2008 sarebbe aumentato di oltre sei volte.
Al PIL nazionale, conteggiato in 14,3 mi-
liardi di dollari, si sarebbero dovuti quindi
aggiungere altri 11,4 miliardi. Una manna,
per i programmi sociali e per la lotta alla
povertà, che i cittadini e l’esecutivo di
Lusaka non hanno mai visto arrivare.
IL MISTERO DEL RAME
DELLO ZAMBIA
A destra,
mappa
dello Zambia
La miniera di rame
Nchanga vicino a
Chingola, Zambia
(foto: BlueSalo)
8. PARADISI PERDUTI8
totale delle tasse federali per il 24 per cento
nel 1960, per il 12 per cento nel 1996 e per
l’8 per cento nel 2002.
Nello stesso momento, si assiste a una
vera e propria corsa verso il fondo tra i
diversi Paesi, impegnati a continui tagli alle
imposte per le imprese, dietro la minaccia di
vederle delocalizzare e fuggire verso qualche
paradiso fiscale. A livello internazionale, tra
il 1997 e il 2004, in soli 8 anni la tassazione
media sulle imprese è passata dal 33,3 al
29,1 per cento. La diminuzione maggiore si
è registrata nei Paesi OCSE, dove si è passati
dal 36,4 al 29,7 per cento3
.
Gli impatti nel Sud del
mondo
“Buona parte delle pratiche adottate dalle
grandi corporations danneggia le economie
dei Paesi del Sud del mondo. Fra il 2005 e il
2007 il flusso illecito di capitali dai Paesi in
via di sviluppo agli Usa e all’Unione Europea
dovuto solo al mispricing si aggira sugli 850
miliardi di euro, e stiamo parlando di una
stima conservativa, mentre una ricerca
del 2005 stima tra i 540 e
gli 830 miliardi la fuga di
capitali annua dagli Stati
del Sud” denuncia David
McNair di Christian Aid.
“Per il raggiungimento degli
Obiettivi di Sviluppo del
Millennio delle Nazioni Unite
la Banca mondiale stima che
servano fino a 50 miliardi
di euro l’anno in più rispetto al livello
3 Tax Justice Network, “Cloosing the Floodgates – Col-
lecting tax to pay for development”, 2007
tassazione sui profitti è ferma al 12,5 per
cento, decisamente meno che nel nostro
Paese. Tradotto vuol dire che i costi dei
premi assicurativi rimangono in Italia,
contribuendo ad abbassare l’imponibile,
mentre i profitti vengono registrati
all’estero, dove sono tassati meno. Risultato:
stessi ricavi ma meno imposte pagate.
Ulteriori casi riguardano filiali di imprese
che prestano soldi ad altre filiali. Il fine è
sempre quello: spostare le risorse e i profitti
all’interno dell’impresa in modo da fare
risultare gli utili dove la pressione fiscale
è minore – o nulla – e “ottimizzare” così il
carico fiscale. Una pratica che, ovviamente,
lavoratori dipendenti, operai, impiegati
e tutti coloro che si trovano le trattenute
fiscali direttamente in busta paga, non
possono sfruttare. Ecco
così che il grosso del
carico fiscale finisce per
gravare su lavoratori
e imprese oneste,
mentre i più facoltosi si
sottraggono in maniera
semplice, e purtroppo
legale, sfruttando trucchi
e falle nella legislazione
e l’esistenza dei paradisi fiscali. Negli ultimi
decenni si è assistito a uno spostamento del
carico fiscale dalle imprese ai cittadini. Negli
Usa, le compagnie private contribuivano al
“Buona parte delle
pratiche adottate dalle
grandi corporations
danneggia le economie
dei Paesi del Sud del
mondo”
Istockphoto.com
9. PARADISI PERDUTI 9
parte opera nei cosiddetti servizi finanziari,
con campi d’azione ben precisi a seconda
della specializzazione. Gli svizzeri, come si è
accorta anche l’amministrazione Obama,
sono bravissimi nel garantire il segreto
bancario. Nelle isole Cayman è registrato
l’80 per cento degli hedge funds del
Pianeta, ovvero i
fondi speculativi
ad altissimo rischio
che sono in buona
parte responsabili
dell’attuale crisi
finanziaria. Prendiamo
però il caso della
Liberia, Paese con
una popolazione di
soli quattro milioni
di persone, tra i più
poveri al mondo e
appena uscito da una
sanguinosa guerra
civile dalla durata
ultradecennale.
Eppure quello
spicchio di Africa
può contare sulla
seconda più grande
flotta di petroliere del globo, oltre 400 a
fronte dell’ottantina registrate in Regno
Unito e Stati Uniti. Il motivo è presto detto:
la Liberia non ha ratificato la convenzione
internazionale che prevede l’obbligo del
doppio scafo per le grandi oil tanker in
modo da limitare il rischio di sversamenti in
mare a seguito di incidenti. Agli esponenti
del settore petrolifero che vogliono evitare
di sottostare a costosi requisiti minimi di
sicurezza non resta che issare bandiera
liberiana sulla propria nave. I loro profitti
attuale di aiuti, che non supera di molto i
120 miliardi. Se pensiamo che le mancate
entrate fiscali delle realtà più povere del
Pianeta superano
abbondantemente
una cifra a due
zeri, ci rendiamo
perfettamente
conto del danno
che subiscono”
chiarisce McNair.
Aggiungiamo
che lo status quo
favorisce alcune
elite corrotte dei
Paesi più poveri
– che sfruttano
a loro volta i
benefici dei
paradisi fiscali
–, contribuisce
all’instabilità
finanziaria
globale,
aumentando
il rischio di crisi – particolarmente
devastanti per gli Stati indigenti – e
rafforza un sistema di concorrenza
sleale tra le multinazionali e le imprese
locali. Quest’ultime si ritrovano a essere il
classico vaso di coccio fra vasi di ferro molto
smaliziati e a conoscenza di ogni possibile
espediente per eludere il pagamento delle
tasse.
Non solo finanza e tasse
I paradisi fiscali non servono solo a eludere
o evadere le tasse dovute al proprio Paese di
origine. Possono essere “impiegati” anche
per tante altre finalità. Certo, la maggior
Flussi finanziari Sud - Nord
(Fuga di capitali)
830 Mld $ l’anno
Flussi finanziari Nord - Sud
(Cooperazione internazionale)
120 Mld $ l’anno
10. PARADISI PERDUTI10
aumenteranno, la Terra sarà più a rischio
inquinamento. Ma, come abbiamo potuto
notare, sono in tanti a non farsi troppi
scrupoli.
Nella definizione più ampia, un paradiso
fiscale è un territorio o una giurisdizione che
permette di evadere o eludere una legge di
un altro Paese. Gli esperti
hanno iniziato a distinguere
tali giurisdizioni in paradisi
fiscali propriamente
detti, paradisi societari e
paradisi giudiziari. Quelli
societari permettono
alle multinazionali
di costituire filiali e
succursali in maniera
semplice e “discreta”, quelli
giudiziari, come nel caso
delle petroliere liberiane,
consentono di aggirare leggi
e normative internazionali.
Secondo alcuni ricercatori, in questa
definizione più ampia anche l’Olanda
potrebbe essere considerata un paradiso
fiscale, in particolare per le sue leggi
che tutelano in maniera estremamente
vantaggiosa le imprese che investono
all’estero. Delle leggi che risalgono alla
secolare tradizione commerciale degli
olandesi, i quali hanno promosso un sistema
normativo in grado di tutelare i propri
investimenti oltremare. Per le imprese
multinazionali tali normative sono molto
interessanti. Mettiamo che un’impresa
realizzi un investimento in un Paese del
Sud senza curarsi troppo delle normative
ambientali o dei diritti dei lavoratori. In
caso di disputa vanno applicate le leggi e
i trattati internazionali tra il Paese dove
viene realizzato l’investimento e quello
dove ha sede l’impresa. Se quest’ultima
ha provveduto a realizzare l’investimento
tramite una filiale creata ad hoc nei Paesi
Bassi, ecco che può chiedere l’applicazione
del sistema normativo di questa nazione,
potendo cosi probabilmente contare su
norme più vantaggiose rispetto
a quelle che vigono in patria.
Insomma, le categorie dei
tax havens sono molteplici e
attive a 360 gradi nel contesto
dell’economia e della finanza
internazionale. È oggi possibile
affermare che non esiste un
“paradiso fiscale perfetto”.
Ogni Paese si specializza in
poche operazioni mirate,
rispondendo a precise richieste
del “mercato” dell’evasione e
dell’elusione fiscale, societaria e giuridica.
Stuoli di consulenti, avvocati e banchieri
strapagati sono pronti a fornire consigli
per assistere di volta in volta il cliente nel
trovare la soluzione – e la giurisdizione – più
appropriata. Lì dove possibile, “aiutano”
ad aggirare fastidiose restrizioni e obblighi
presenti nella maggioranza dei Paesi.
Oltre a questa caratteristica, i loro comuni
denominatori sono il segreto bancario
quasi totale, la mancanza di scambio di
informazioni e di trasparenza e la tassazione
bassa o nulla per particolari enti giuridici
e per i non residenti. Un altro dettaglio
da non sottovalutare è la facilità con cui
si può usufruire dei “servizi” garantiti da
un paradiso fiscale. Basta farsi un giro su
internet.
Nella definizione più
ampia, un paradiso
fiscale è un territorio
o una giurisdizione
che permette di
evadere o eludere
una legge di un altro
Paese
11. PARADISI PERDUTI 11
a sottolineare che è tutto legale. Dal punto
di vista “tecnico” ha pienamente ragione, an-
che se la serie di pubblicazioni reclamizzate
sul suo sito web – ma anche altrove – con
titoli tipo “Come pagare zero tasse, i Paradisi
fiscali nel 2010” oppure “Come usare una
società offshore per pagare meno tasse o tas-
se zero” sono alquanto esem-
plificative della tipologia
delle operazioni proposte. “A
differenza di quanto credo-
no anche molti colleghi, le
società offshore non servono
esclusivamente per eludere
le tasse. Il principale van-
taggio è l’occultamento della
proprietà con tutti i vantaggi
inerenti dei Paradisi Fisca-
li, che vanno dall’elusione
d’imposte relative al “tetto
fiscale”, alla protezione del
capitale da coniugi o creditori” si legge nella
presentazione del primo dei manuali succi-
tati.
E
lusione fiscale a
portata di mouse.
Provate a digitare
“trova paradisi fiscali” su un
qualsiasi motore di ricerca.
Uno dei primi siti web che
vi apparirà sulla schermata
del computer è www.
paradisifiscali.org
Non è l’unico nel suo genere, anzi, ne abbia-
mo incontrati anche altri, ma sicuramente
uno dei più completi e apparentemente
molto efficienti. La presentazione non lascia
adito ad alcun dubbio su quale sia l’attività
della OPM, società registrata a Panama nel
1992 e a cui fa capo il sito web. “Attraverso
le società anonime e le fondazioni d’interes-
se privato proteggiamo il
vostro capitale e le vostre
attività, in modo tale da
ridurre il carico fiscale. I
paradisi fiscali sono una
delle principali chiavi per
gli investitori, ma solo
pochi professionisti li
utilizzano propriamente.
Noi forniamo la chiave
offshore, finora riservata ai
grandi nomi della finanza
internazionale, anche ai
piccoli investitori. Offria-
mo la migliore relazione qualità - prezzo,
tanto che vi invitiamo, senza timore, a con-
frontare i nostri prezzi e servizi con quelli
della concorrenza”. La OPM ci tiene anche
2. ...e accessibili a chiunque
“A differenza di quanto
credono anche molti
colleghi, le società
offshore non servono
esclusivamente per
eludere le tasse. Il
principale vantaggio è
l’occultamento della
proprietà...”
12. PARADISI PERDUTI12
che non hanno obbligo di registrazione
e che potrebbero addirittura essere
milioni sparsi in tutto il mondo. A loro
si rivolgono anche facoltosi privati citta-
dini che preferiscono “spostare” altrove
i loro guadagni ed evitare così la scocciatura
del pagamento delle tasse. A livello interna-
zionale si presume che nei paradisi fiscali i
capitali depositati dalle sole persone fisiche
– attenzione non da quelle giuridiche – si
aggirino sugli 11.500 miliardi di dollari, con
mancati introiti fiscali non inferiori ai 250
miliardi l’anno.
Riciclaggio di denaro
sporco, traffico di droga e
paradisi fiscali
“Molti cittadini di qualsiasi Paese del mondo
al momento hanno facilmente accesso ai
paradisi fiscali e il risultato è che le realtà
più povere del Pianeta perdono in termini
fiscali almeno tre volte più
di quello che ricevono in
forma di aiuti da parte della
comunità internazionale”.
Se a parlare in questo modo
è uno dei massimi esperti
della materia, ovvero Jeffrey
Owens, il direttore del dipar-
timento sulle politiche fiscali
dell’OCSE, ci si può fidare.
Né si può far fatica a crede-
re che lo strumento dei tax
havens possa venire adope-
rato da soggetti che hanno obiettivi ancora
meno legittimi di quello di evadere le tasse o
imboscare profitti.
Secondo John Christensen, direttore del Tax
Justice Network, “I paradisi fiscali sono una
Un’altra azienda di
cui a prima vista “ci
si può fidare” è la Prime Investment Corpo-
ration, con sede in uno dei più eleganti sob-
borghi settentrionali di Londra, che assicura
di essere specializzata “nella costituzione
di società offshore e trust, aperture di conti
correnti bancari esteri e nella risoluzione
di contenziosi bancari sia in via giudiziaria
che stragiudiziaria”. La Prime Investment
Corporation ci tiene a precisare che è “in
forte espansione che opera in questa nicchia
di mercato da oltre dieci anni”. E che la nic-
chia di mercato nella quale svolgono le loro
attività la Prime Investment Corporation,
ma anche altre società di consulenza oppure
le grandi banche internazionali, si stia allar-
gando ci sono ben pochi dubbi.
Abbiamo già visto come le
grandissime beneficiarie dei
tax havens siano le multi-
nazionali che, in base ai
dati raccolti dal settimanale
britannico The Economist,
tra il 1990 e il 2003 hanno
visto aumentare le loro
filiali offshore da 175mila a
875mila, con un rapporto
che è variato da cinque a
tredici filiali per impresa.
Secondo uno studio del Tax
Justice Network, le 97 principali compagnie
di Francia, Regno Unito e Olanda hanno
tutte tranne una almeno una diramazione
nei paradisi fiscali. Ma non sono da sotto-
valutare i cosiddetti trust e le fondazioni,
“Le realtà più povere
del Pianeta perdono
in termini fiscali
almeno tre volte più
di quello che ricevono
in forma di aiuti da
parte della comunità
internazionale”
Flussi di capitali illeciti dai Paesi del Sud del Mondo
(da un totale di 500/800 miliardi di dollari)
da commercio/imprese
da attività criminale
da corruzione
13. PARADISI PERDUTI 13
smi, gli attori in gioco e le giurisdizioni che
consentono e facilitano l’evasione fiscale, il
riciclaggio del denaro sporco, i traffici illeciti
e la corruzione. È impossibile identificare
discontinuità tra l’impresa che elude alcune
normative per “ottimizzare” il proprio carico
fiscale e le mafie internazionali che sfrutta-
no i paradisi fiscali per i traffici più abietti.
Esiste una gigantesca “zona grigia” nella
legislazione internazionale, o meglio nella
sua assenza, che consente il proliferare di
tali operazioni.
vera maledizione, in quanto rappresentano
tutto quanto c’è di più opaco, illegale e spor-
co nella finanza internazionale”.
Secondo le stime più attendibili, sul totale
dei flussi finanziari illeciti che viaggiano dal
Sud verso il Nord del mondo, poco più del
5 per cento è da imputare alla corruzione
internazionale. Il 35 per cento circa è dovuto
ai traffici illegali e alla criminalità inter-
nazionale, e il 60 per cento è direttamente
legato all’elusione e all’evasione fiscale delle
imprese multinazionali del Nord del mondo
che operano nei Paesi del Sud. Al di là delle
cifre, sono esattamente gli stessi i meccani-
“Un enorme giro di evasione
fiscale internazionale, tra Sviz-
zera e Lussemburgo, è stato
scoperto dalla guardia di finan-
za di Roma. Le fiamme gialle
hanno sequestrato 3 milioni di
euro riciclati e denunciato 14
persone per riciclaggio ed eva-
sione fiscale internazionale. A
capo dell’organizzazione alcuni
dirigenti di una banca italiana.
Tra gli evasori individuati ci
sono una famosa clinica della
capitale, imprenditori, anti-
quari, agenzie di viaggi e anche
un sacerdote” questo è uno
stralcio di una news rilanciata
dall’agenzia di
stampa Ansa lo
scorso 1 aprile. Non è un pesce
d’aprile, anzi, di notizie di que-
sto tipo se ne leggono ormai
a iosa tutti i mesi dell’anno.
Ogni tanto spunta una lista di
grandi evasori fiscali, i cui beni
si troverebbero al sicuro in
qualche località offshore. Come
l’ormai celeberrima “lista Fal-
ciani”, che conterrebbe i nomi
di settemila correntisti italiani
sospettati di evasione fiscale in
Svizzera grazie a conti segreti
presso la banca HSBC. Proprio
un ex dipendente dell’istituto
di credito, Hervé Falciani,
è entrato in possesso della
controversa lista, al momento
al vaglio della magistratura
italiana. Le autorità giudiziarie
del nostro Paese sono al mo-
mento alle prese con numerosi
casi di concittadini che hanno
fatto “buon uso” dei tax ha-
vens, tanto che nell’agosto del
2009 Attilio Befera, direttore
generale dell’Agenzia delle
Entrate, si è spinto ad indica-
re in circa 170mila i soggetti
presunti evasori con capitali
all’estero.
Un viziaccio sempre più diffuso
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14. PARADISI PERDUTI14
Secondo uno studio della Banca d’Italia, su
85 miliardi di euro di regolarizzazioni poco
meno di 35 sarebbero stati effettivamente
rimpatriati, mentre oltre 50 miliardi
sarebbero stati sanati ma tenuti all’estero.4
In secondo luogo per regolarizzarli è previsto
il pagamento di un’imposta una tantum pari
unicamente al 5 per cento del
valore dei capitali stessi. Con
la proroga del provvedimento
tale percentuale è stata portata
prima al 6 e poi al 7 per cento,
comunque ben al di sotto di
quanto deciso da analoghe
misure di altre nazioni
europee.
Lo scudo fiscale italiano si
distingue da quello di altri
Paesi anche per la garanzia
di anonimato concessa a
4 Dossier della rivista Valori dell’aprile 2010, con cita-
zione di fonti della Banca d’Italia.
3.
S
cudo fiscale: una
sanatoria mascherata?
Dopo lo scoppio
della crisi finanziaria, il
ministro dell’Economia e
delle Finanze italiano Giulio
Tremonti è stato uno dei
primi a schierarsi contro
le giurisdizioni offshore,
dichiarando già all’Ecofin di
fine 2008: “sui paradisi fiscali
cambierà tutto”.
Purtroppo non sembra che al momento a
queste dichiarazioni siano seguite azioni
altrettanto incisive. Al contrario, lo stesso
Tremonti ha promosso uno scudo fiscale
che è stato duramente criticato e spesso
considerato dagli analisti come
un’amnistia nemmeno troppo
mascherata per evasori e capitali
“dubbi”.
Lo scudo fiscale permette
di regolarizzare i capitali
illecitamente detenuti all’estero
da privati o da alcune tipologie
di persone giuridiche al 31
dicembre 2008. Sono diverse le
argomentazioni molto critiche
riguardo il provvedimento
adottato. In primo luogo non è
necessario rimpatriare i capitali
all’estero, ma è sufficiente dichiararli al
fisco, conservandoli nei Paesi stranieri.
Scudo e paradisi:
la situazione in Italia
È possibile che
capitali illeciti,
frutto di attività
criminali, siano
stati riciclati
e reintrodotti
nell’economia
legale grazie allo
scudo fiscale?
15. PARADISI PERDUTI 15
chi aderisce, anche
se su questo punto
le interpretazioni
sembrano ancora non
univoche in caso di richieste esplicite
da parte dell’Agenzia delle Entrate. È
possibile che capitali illeciti, frutto di
attività criminali, siano stati riciclati e
reintrodotti nell’economia legale grazie
allo scudo fiscale? Poniamo il caso di
un’organizzazione criminale che dispone di
enorme liquidità, frutto di traffico di droga o
altro. È ipotizzabile che tale organizzazione
possa sfruttare lo scudo fiscale per
denunciare i proventi delle proprie attività
criminali e averli così a disposizione in
maniera totalmente legale quanto anonima,
pagando una commissione di appena il 5 per
cento?
I dubbi sono legittimi in quanto, secondo
l’Agenzia delle Entrate, i contribuenti
che hanno aderito all’iniziativa sarebbero
stati circa 200mila, ma le segnalazioni
a cui sarebbero tenuti gli intermediari
finanziari in caso di “sospette operazioni di
riciclaggio” sarebbero state unicamente una
cinquantina. Lo stesso governatore della
Banca d’Italia ha segnalato come il numero
sia davvero esiguo, considerando che
parliamo di capitali detenuti illecitamente
all’estero fino al momento dell’adesione allo
scudo fiscale.
Se lo scudo fiscale ha destato più di una
perplessità, parlando di capitali e operazioni
italiane all’estero una questione ancora più
spinosa riguarda la presenza delle imprese
nostrane in quelli che vengono considerati i
peggiori paradisi fiscali del Pianeta.
L’ECONOMIA
SOMMERSA
IN ITALIA
Una ricerca della Banca
mondiale, pubblicata
nel luglio 2010, fa i
conti sulla dimensione
dell’economia sommer-
sa, o shadow economy,
per 167 Paesi del mondo tra il 1999 e il 2007.
Le cifre sono spaventose, tanto nel Nord
come nel Sud del mondo. In molti Paesi poveri
questa economia sommersa arriva al 30 o al
40 per cento del PIL ufficiale del Paese. Nei
25 Paesi OCSE la media nel 2006 era del 18,7
per cento.
L’Italia è ai primi posti tra i Paesi più svi-
luppati in questa poco invidiabile classifica.
Secondo la Banca mondiale, l’economia
sommersa nel nostro Paese avrebbe raggiunto
nel 2006 il 28,9 per cento del PIL, in quasi
costante crescita dal 25,5 per cento del 1996.
Peggio di noi, su scala europea, c’è unicamen-
te la Grecia, dove il dato più recente superava
di poco la soglia del 30 per cento. Considera-
ta l’attuale situazione economica del Paese
ellenico, si tratta di un dato che dovrebbe fare
riflettere.
Grecia e Italia staccano nettamente tutti gli
altri Paesi europei. Il più vicino, con un 24,7
per cento di economia sommersa sul PIL,
ovvero oltre 4 punti percentuali meglio di noi,
è il Portogallo, un altro dei “PIGS”, ovvero
dei Paesi meno affidabili secondo i mercati
finanziari.
I Paesi più vicini all’Italia per popolazione
e dimensione dell’economia, ovvero Gran
Bretagna, Francia e Germania, viaggiano tra
il 12 e il 16 per cento di economia sommersa.
Questo significa che, rispetto a tali nazioni, in
Italia abbiamo qualcosa come un 15 per cento
di PIL in più fatto di economia sommersa,
ovvero illegale e ovviamente non soggetta ad
alcun prelievo fiscale.
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16. PARADISI PERDUTI16
Quattro di queste imprese sono registrate
in una località elvetica il cui nome appare
quanto mai azzeccato: Paradiso. Tra queste
spicca la Fiat Group International SA, con
un capitale sociale di 100 milioni di franchi
svizzeri, e al 100 per cento di proprietà della
Fiat S.p.A..
Ancora più interessante la lettura dei
bilanci di Eni e Enel, società in cui lo
Stato è azionista di maggioranza relativa,
in particolare tramite il ministero
dell’Economia e delle Finanza e la Cassa
Depositi e Prestiti, controllata dallo stesso
ministero, che dovrebbe avere tra i suoi
obiettivi principali il contrasto ai paradisi
fiscali e all’elusione ed evasione fiscale. Il
cane a sei zampe controlla una cinquantina
di imprese registrate in Olanda e altre alle
Bahamas, alle Bermuda, nelle Isole Vergini
Britanniche, a Cipro,
nell’Isola di Jersey,
in Lussemburgo,
in Svizzera e
nell’immancabile
Delaware.
Proprio il
Delaware risulta
particolarmente
gradito all’Enel, che
lì controlla ben 69
imprese, oltre ad
alcune sparse tra la
Svizzera, Panama, il Lussemburgo, le Isole
Cayman e altre giurisdizioni.
Tra le maggiori imprese quotate, sono però
le Assicurazioni Generali ad attrarre in
modo particolare l’attenzione. Un colosso
presente dalla Nuova Zelanda al Kazakistan,
Italiani in
paradiso
Scorrendo i bilanci
delle imprese quotate
alla Borsa Valori di
Milano, è possibile
trovare l’elenco delle
società controllate e con “partecipazioni
strategiche”. I dati che emergono da
una tale lettura sono sicuramente molto
interessanti. Limitiamoci a considerare le
compagnie a maggiore capitalizzazione,
ovvero quelle incluse nell’elenco delle 50
più grandi imprese d’Europa, e prendiamo
in considerazione i bilanci consolidati al
31/12/2009.
Partendo dalle due maggiori banche italiane,
scopriamo che Unicredit ha delle società
controllate o collegate alle
Barbados, alle Bermuda,
alle Isole Cayman, a
Cipro, a Hong Kong, in
Irlanda, in Lussemburgo,
a Singapore, nel Delaware
e via discorrendo. Intesa
SanPaolo risponde con
l’Irlanda, il Liechtenstein,
68 controllate in
Lussemburgo, in Svizzera
e nel Delaware. Lo Stato
americano è in testa alla
poco lusinghiera classifica del Financial
Secrecy Index delle giurisdizioni meno
trasparenti del mondo (di cui tratteremo
a breve), vede anche la presenza di ben 49
imprese collegate o controllate dalla Fiat.
La casa automobilistica italiana controlla
anche, tra le altre, 16 imprese in Svizzera.
il Delaware risulta
particolarmente gradito
all’Enel, che lì controlla ben
69 imprese, oltre ad alcune
sparse tra la Svizzera,
Panama, il Lussemburgo,
le Isole Cayman e altre
giurisdizioni
17. PARADISI PERDUTI 17
ovvero nei territori che
l’immaginario collettivo
identifica come paradisi
fiscali. Risalendo
lungo l’elenco, ci si accorge però che le
controllanti, subito prima della casa madre
in Italia, si trovano in territori solitamente
“insospettabili”: tipicamente l’Olanda, la
Gran Bretagna, e in particolare la City di
Londra, e il Delaware, negli Usa. Un sintomo
di come le piccole giurisdizioni possano
essere utilizzate per scopi specifici, ma come
i grandi capitali e le leve di comando siano
detenute altrove, in territori e giurisdizioni a
noi molto più vicini.
e la cui lettura del bilancio sembra
un elenco quasi esaustivo dei territori
considerati a vario titolo come paradisi
fiscali. Iniziamo con una decina di
imprese registrate alle Bahamas, per
passare alle Barbados, alle Bermuda
e alle Isole Vergini Britanniche. 52
controllate in Austria, 51 in Israele, 17
in Belgio, 37 in Olanda e 26 in Svizzera.
Non mancano il Liechtenstein, Malta,
Montecarlo (5 controllate), l’Isola
di Guernsey (8 imprese registrate),
l’Irlanda o Singapore. Il Leone di
Trieste è presente a Hong Kong come
a Panama, nelle Filippine e a Madeira,
territorio a controllo portoghese, fino al
solito Delaware.
Per fare un esempio tra i tanti possibili,
l’esotica Erasmus Management Ltd è
registrata a Nassau, nelle Bahamas, ed
è al 100 per cento della BSI Trust Corp.
(Bahamas) Ltd, anch’essa registrata a
Nassau e al 100 per cento di proprietà della
BSI SA di Lugano, Svizzera, controllata a sua
volta al 100 per cento dall’impronunciabile
holding Participatie Maatschappij
Graafschap Holland N.V di Amsterdam,
al 71 per cento di proprietà diretta di
Assicurazioni Generali S.p.A. e per il resto di
altre società del gruppo.
Oltre al numero di compagnie controllate
e alla diffusione del fenomeno presso tutte
le grandi imprese italiane, colpisce in modo
particolare un altro dato. In queste catene
di imprese controllate e controllanti, salta
all’occhio come solitamente gli ultimi
anelli della catena siano rappresentati da
società registrate in piccole isole tropicali,
Mappa dello Stato del
Delaware negli Stati Uniti
(Nationalatlas.gov)
18. PARADISI PERDUTI18
I paradisi dietro l’angolo
Enrico Primo riconobbe
lo status particolare
del Golden Mile, come
viene anche chiamato, mentre la City non
si sottomise alla sua sovranità, tanto che
per entrare nei suoi confini un regnante
tuttora deve prima ‘deporre le armi’”. Per
Glasman la City era già nei secoli scorsi un
impero, che però aveva come fine il denaro
e non la terra. “Potremmo dire che il suo
obiettivo non era la solidità, ma la liquidità”.
I possedimenti oltremare britannici erano
utili fintantoché si potevano fare affari con
loro. “Non a caso quando l’Inghilterra ruppe
l’equilibrio instauratosi con gli Stati Uniti e
scoppiò la guerra di secessione, la City aiutò
economicamente, e forse anche con l’invio di
truppe, George Washington, che considerava
L
a City di Londra, la
madre dei paradisi
fiscali.
Lo square mile, il miglio
quadrato più celebre al
mondo, affonda le sue radici
negli anni della dominazione
romana. Il porto di
Londinium, sul Tamigi, aveva
un’importanza strategica
fondamentale per l’Impero,
spintosi fino in Britannia
per soddisfare le sue brame
espansionistiche.
Proprio la centralità nei flussi commerciali
marittimi ne ha in qualche modo segnato
per sempre la sua intima essenza. “I
Romani avevano regolamentato a fondo
il commercio sulla terra ferma, mentre
quello marittimo non presentava dei limiti
ben precisi, era fortemente basato sulle
speculazioni, sull’azzardo economico.
Londra in proposito ricalcava quanto già
accadeva per il porto di Ostia”, argomenta
Maurice Glasman, professore di storia e
politologia al King’s College di Londra. “In
teoria dovremmo indicare come Londra
solo il suo fulcro, ovvero la City, mentre
tutti gli altri agglomerati non sono che
villaggi che pian piano si sono aggiunti per
formare la metropoli attuale. Ma la City ha
sempre fatto vita a sé, sia dal punto di vista
economico che amministrativo. Nel 1132 Re
4.
Veduta della City di
Londra. Foto Luca
Manes
19. PARADISI PERDUTI 19
un valido ‘partner commerciale’. È evidente
che con l’espansione dell’impero britannico
cresceva il potere della City, che non a caso
contribuì a fondare altri poli finanziari di
importanza mondiale come la borsa di Hong
Kong e Wall Street”. Non va dimenticato che
i primi vagiti della globalizzazione si sono
uditi nei paraggi dello square mile, dove i
banchieri italiani (e i loro capitali) trovarono
ospitalità a Lombard Street – la via dei
lombardi – già nel Tredicesimo Secolo.
Anche oggi la City non dipende
dall’amministrazione
comunale, bensì è
una realtà a parte.
Per l’esattezza una
corporazione a sé stante
– la dizione esatta è City
of London Corporation
– che ha un suo sindaco,
un suo organo consiliare
composto da 100 membri,
suoi magistrati e forze
dell’ordine.
L’elezione dei consiglieri
è prerogativa dei (pochi,
solo 8mila) residenti e
delle (molte, solo le banche
sono oltre 500) compagnie
attive nella City, con il piccolo dettaglio
che chi ha più dipendenti e di conseguenza
un giro d’affari maggiore ha più potere di
voto. Tanto per fare un esempio, un’impresa
con 3.500 membri di staff ha diritto a
ben 79 voti. Chi comanda disegna a suo
piacimento le norme e i regolamenti per
la maggior parte destinati a limitare al
massimo la pressione fiscale. Uno strumento
indispensabile
per attirare
denaro che si
accumula nei
forzieri dello
Square Mile.
”La City è interamente
controllata dal settore
finanziario che tiene
le fila di tutta l’economia britannica. Da
qui partono flussi finanziari segreti diretti
verso le banche di tutto il mondo, spesso
nascosti dietro un istituto
giuridico inventato proprio
in Inghilterra: il trust. A
causa dell’enorme potere
della City, visto anche
alla luce dell’attuale crisi
economica, il Governo
del Regno Unito sembra
incapace di tenerle testa,
concedendo la quasi assenza
di regole sui prodotti
finanziari, sugli assetti
societari e sulla trasparenza.
Quando si è provato a
cambiare qualcosa, la City
ha sfoderato le sue immense
capacità di lobbying e fatto
ricorso ai migliori avvocati
del Regno per ribaltare i provvedimenti
dell’esecutivo. In Inghilterra c’è la ‘madre
dei paradisi fiscali’ ma la comunità
internazionale sembra fare finta di niente”
si lamenta Glasman. Eppure basta scorrere
l’elenco delle attività e delle movimentazioni
della City per capire come sia il fulcro
della finanza mondiale: nei suoi moderni
grattacieli in vetro e acciaio di scambiano
Anche oggi la
City non dipende
dall’amministrazione
comunale, bensì è una
realtà a parte [...] che
ha un suo sindaco,
un suo organo
consiliare composto
da 100 membri, suoi
magistrati e forze
dell’ordine
Lo stemma della City
di Londra
20. PARADISI PERDUTI20
programmi di liberalizzazione dei capitali
promossi dalla Banca mondiale e dal Fondo
monetario internazionale avevano fatto
sì che per i ricchi imprenditori e le grandi
multinazionali fosse più
semplice evadere le tasse.
Mi sono quindi concentrato
sul ruolo fondamentale,
ma ben nascosto, che
giocavano i paradisi fiscali
nell’aiutare l’aumento dei
profitti delle corporation,
allo stesso tempo
penalizzando le realtà
più povere del mondo,
che venivano invece private di preziose
risorse per la loro crescita economica.
Per capire come funzionasse e operasse
un paradiso fiscale, ho quindi deciso di
lavorarci, tornando a Jersey, dove sono
nato e cresciuto. Dopo 12 anni spesi prima
presso una filiale della Deloite e poi come
consulente economico del governo locale,
posso dire che quello che ho visto non mi
è piaciuto per niente, anche se da molti
punti di vista è stato molto interessante,
dal momento che ho avuto la conferma
che buona parte delle mie convinzioni e
delle mie idee fossero giuste”. A parlare è il
coordinatore del Tax Justice Network John
Christensen, come visto originario di Jersey,
una delle Isole del Canale della Manica.
Sulle cartine geografiche è un puntino
più vicino alla Francia che all’Inghilterra.
Sui suoi 114 chilometri quadrati risiedono
circa 90mila persone che, come in molte
altre isolette di dimensioni simili, fino a
qualche decennio fa vivevano soprattutto di
agricoltura (le patate di Jersey sono famose
gli Eurobond, gli Energy Futures e ancora le
assicurazioni globali. Il Foreign Exchange è
il più importante del Pianeta, mentre la sua
capitalizzazione si aggira intorno ai 3.500
miliardi di euro5
.
La City di Londra è
con ogni probabilità il
centro finanziario del
mondo, ma non certo
l’unico territorio della
Gran Bretagna assimilato
a un paradiso fiscale.
Ricordiamo che molte
delle famigerate isolette
– dalle Cayman alle Bermuda – identificate
nell’immaginario collettivo come gli
emblemi stessi dei paradisi fiscali, sono in
realtà British Overseas Territories, ovvero
legate a doppio filo con la corona britannica.
Rapporti ancora più stretti intercorrono
poi con alcuni paradisi fiscali situati molto
più vicino, a pochi chilometri dalla vecchia
Europa, come avviene nel caso delle isole di
Jersey e Guernsey.
Le mille contraddizioni
dell’isoletta dorata di
Jersey
“Dopo essermi laureato in Inghilterra,
ho continuato a studiare economia, in
particolare quella parte relativa allo sviluppo
dei Paesi più poveri. Intanto ero entrato
in contatto con alcuni attivisti dell’Ong
Oxfam. Durante un periodo passato in
India a metà anni Ottanta, ho capito che i
5 Fonte: http://finance.mapsofworld.com/stock-market/
london-stock-exchange.html
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21. PARADISI PERDUTI 21
Poi, in concomitanza
con l’introduzione
di un livello
leggermente superiore
di trasparenza,
coincidenza ha voluto che le loro controllate
siano state dismesse o spostate
altrove.
La profonda metamorfosi che
nella seconda parte del secolo
scorso ha trasformato Jersey
in uno dei paradisi fiscali più
famosi del Pianeta si basa
come al solito sull’opacità e
sulle condizioni fiscali a dir
poco favorevoli. Per invogliare
gli speculatori della finanza
e i ricchi evasori, il governo
ha adottato un meccanismo
di tassazione che ignora qualsiasi logica
redistributiva: per le prime 50mila sterline
di reddito si paga il 20 per cento di tasse,
per la loro qualità sopraffina)
e turismo (il principale
centro abitato, Saint Helier e
numerosi tratti di costa sono
incantevoli). Ora si stima che
nella dipendenza della Corona
britannica siano custoditi
circa 500 miliardi di euro,
che fanno capo alle 33mila
imprese e trust ivi registrati.
La finanza incide sul Pil per il
57 per cento (almeno stando
ai dati ufficiali, ma c’è chi
pensa arrivi al 90 per cento),
le coltivazioni e le attività
turistiche solo per un mero 5
per cento. Basta farsi un giro
per le graziose viuzze del centro di Saint
Helier per avere la conferma di questi dati.
A ogni angolo di strada si scorgono le sedi
di alcuni dei principali istituti di credito del
mondo: BNP Paribas, Barclays, Royal Bank
of Scotland e Citigroup. E poi
è un trionfo di innumerevoli
insegne delle mailbox company.
Basta avere una scrivania,
un indirizzo postale e una
targhetta e si è ufficialmente
registrati a Jersey (e non si
pagano tasse sui proventi
dichiarati). In teoria per aprire
una filiale offshore servirebbe
l’autorizzazione governativa
locale, che però soprattutto nel
caso delle grandi compagnie
e delle banche è meno che un
pro forma. Fino al 2001, anno
in cui il registro delle imprese divenne
pubblico, operavano sull’isola anche famose
aziende italiane come Enel, Eni e Mediaset.
L’isola di Jersey
ha il terzo Pil
mondiale per
abitante, eppure
8mila dei circa
90mila residenti
nell’isola hanno
bisogno del
sussidio statale
Manifestazione a
Jersey nel 2009 contro
i paradisi fiscali. Foto
Tax Justice Network
22. PARADISI PERDUTI22
per le seguenti 50mila il 10 per cento, per
le seguenti 100mila il 3 per cento, e sopra i
200mila nessuna tassazione. Come se non
bastasse alcune imprese originarie di Jersey,
le poche che ci sono, registrano a loro volta
le loro attività offshore nella vicina isoletta
di Guernsey, che “fa concorrenza” come
paradiso fiscale.
Analizzando a fondo le statistiche si
scoprono alcuni paradossi. L’isola ha il terzo
Pil mondiale per abitante, eppure 8mila
dei circa 90mila residenti nell’isola hanno
bisogno del sussidio statale. Intanto i servizi
sociali costano sempre di più. Insomma,
se da quelle parti non si è molto ricco, alla
fin fine non ce la si passa poi tanto bene,
nonostante ci sia una piena occupazione e
i salari siano relativamente alti per tutti.
I locali hanno un’altra forte limitazione.
Mentre i cittadini europei possono vivere
e lavorare a Jersey come in qualsiasi Paese
Ue, altrettanto non possono fare i cittadini
di Jersey. Opporsi allo status quo non è
cosa semplice, visto che una famiglia su
due dipende direttamente dell’industria
della finanza e che, nonostante l’esistenza
di un parlamento e di un esecutivo
autonomo, il dibattito interno manca
quasi del tutto. Il modello di sviluppo di
Jersey e delle sue “sorelle” mostra evidenti
segnali di inadeguatezza. Ma finché i ricchi
continueranno a essere sempre più ricchi è
difficile che all’orizzonte si possano scorgere
delle rivoluzioni copernicane.
Football e paradisi fiscali
Che cosa hanno in comune il grande
Manchester United, dominatore del calcio
inglese degli ultimi due decenni, e il piccolo
Hartlepool, modesta compagine di terza
serie famosa solo per essere il team per cui
fa il tifo il personaggio dei fumetti Andy
Capp? Entrambi i club fanno capo a società
registrate in paradisi fiscali, in Nevada i
Red Devils, nelle Isole Vergini Britanniche
i Monkey Hangers. Un dato incredibile,
sorprendente, che
si evince da un
dettagliato studio
della Ong inglese
Christian Aid.
Il rapporto
“Blowing the
whistle” ci di-
mostra che delle
20 squadre che
hanno disputato
la Premier 2009-
10, ben 14 hanno
una relazione
privilegiata con i cosiddetti centri finanziari
oltremare.
Come visto, non mancano le realtà delle
divisioni minori che si sono legate a com-
pagnie registrate nei paradisi fiscali – ol-
tre all’Hartlepool, ci sono anche il Crystal
Palace, il Watford e altre. Se si esclude il
Chelsea, tutte le grandi bazzicano per Paesi
dove il segreto bancario e l’elusione fiscale
sono la regola. Bahamas e Isole Cayman,
amene località che vengono subito in mente
quando si disquisisce di paradisi fiscali, non
sono molto gettonate (scelte “solo” rispetti-
vamente da Tottenham e Birmingham City).
Meglio affidarsi a Jersey,o a qualche Stato
americano affezionato all’opacità bancaria
come il Delaware, il Wyoming o il già citato
Nevada – non a caso scelti da club quali
Aston Villa, Manchester United e Liverpool,
tutti con proprietari a stelle e strisce.
23. PARADISI PERDUTI 23
La comunità internazionale
combatte davvero i paradisi
fiscali?
G
20, tanto rumore per
nulla, o quasi
“Siamo pronti a
prendere tutte le misure
del caso contro quelle
giurisdizioni che non
rispettano gli standard
internazionali in relazione
alla trasparenza fiscale…
Entro la fine del 2009, ci
impegniamo a formulare
delle proposte che migliorino
il contesto fiscale nel cui
ambito devono operare i
Paesi in via di sviluppo…
L’era del segreto bancario è
finita”.
Questo è il passaggio più significativo che
il comunicato finale del G20 tenutosi a
Londra il 2 aprile del 2009 ha riservato
ai paradisi fiscali. Il tanto atteso summit
“scaccia-crisi”, come i più ottimisti addetti
ai lavori lo avevano definito, non ha tenuto
fede alle aspettative, partorendo solo delle
dichiarazioni di intenti e dei meri palliativi.
Se le urgenze della crisi, e la conseguente
esigenza di far cassa per far fronte ai vari
salvataggi pubblici, soprattutto in favore
delle banche, avevano finalmente indotto
i grandi del Pianeta a
occuparsi di un argomento
fino a quel momento
apparso tabù come i paradisi fiscali, la
soluzione del problema era ben lungi
dall’essere ottenuta. Troppo distanti le
posizioni di Gran Bretagna e Stati Uniti da
una parte – non a caso Paesi che ospitano
paradisi fiscali – e Francia e Germania
dall’altra. Ma i distinguo e le sfumature
negoziali hanno riguardato anche altri
Paesi. Il valore della dichiarazione formulata
nelle asettiche stanze dell’Excel Center
londinese va contestualizzato soprattutto in
relazione ai successivi incontri di Pittsburgh
(settembre 2009) e Toronto (giugno 2010).
Nella capitale britannica non si sono poste
le fondamenta di un’opera destinata a essere
completata in momenti successivi, bensì
5.
Sala stampa del summit
di Londra, aprile 2009
24. PARADISI PERDUTI24
direttorio mondiale si terrà nel novembre
2011 a Nizza e chissà se fino ad allora ci
potranno essere delle novità, quanto meno a
livello negoziale. Finora, il G20 si è limitato
a riconfermare l’OCSE quale istituzione
demandata ad occuparsi della tematica,
nonostante avesse già palesato un approccio
non del tutto soddisfacente.
La lista vuota dell’OCSE
L’OCSE è stata la prima organizzazione
a pubblicare una propria “lista nera”
di giurisdizioni non cooperative in
ambito fiscale, ovvero di paradisi fiscali
“conclamati”. La prima lista risale al
2000, l’ultima versione al 2009. Un
aggiornamento, realizzato proprio a margine
del G20 londinese, che però ha sollevato
forti critiche. Per compilarla, l’Ocse ha preso
in esame in primo luogo la firma e il rispetto
degli accordi sullo scambio di informazioni
in materia fiscale (Tax Information Exchange
Agreement – TIEAs). In
questi accordi lo scambio
di informazioni non
è automatico, ma su
richiesta delle autorità di
un Paese, e può richiedere
settimane, mentre i
capitali possono sparire
con pochi click di un
computer. Si tratta poi
di accordi bilaterali, che
possono essere aggirati da
operazioni di triangolazione, ovvero tramite
diversi passaggi con Paesi non firmatari.
Inoltre, giudicare se un Paese è un paradiso
fiscale sul numero di accordi firmati è
assolutamente fuorviante, visto che per
“fare numero” è possibile siglare accordi
si è persa un’occasione
importante per imporre
un vero cambiamento.
In Canada, per esempio,
ai tax havens è stata dedicata solo una
riga del corposo documento conclusivo
del vertice. Un po’ poco, per usare un
eufemismo. Ancora più incredibile il
vertice di Pittsburgh, il
cui comunicato finale
riporta il pomposo
auto-elogio secondo cui
“i nostri sforzi contro
le giurisdizioni non-
cooperative hanno
prodotto dei risultati
impressionanti”.
Nell’opinione di diversi
analisti, fino ad oggi a
impressionare è il fatto che i paradisi fiscali
continuino a proliferare, e che i flussi illeciti
siano in continua crescita.
Ora si confida nella presidenza francese
del G20. Il prossimo summit del nuovo
Manifestazione
contro il G20 a
Londra, 2009. Foto
Luca Manes
Troppo distanti le
posizioni di Gran
Bretagna e Stati Uniti
da una parte – non a
caso Paesi che ospitano
paradisi fiscali – e Francia
e Germania dall’altra
25. PARADISI PERDUTI 25
niente Hong
Kong, niente
Paesi europei o
isolette.
Per John Christensen “Il G20
serve a ‘stabilire l’umore’
generale, ma in realtà finora
non ha contribuito a fornire
delle decisioni politiche di
grande peso specifico, mentre
l’Ocse si occupa del tema
in maniera più strutturale.
Tuttavia da un lato è una sorta di think tank
internazionale, dall’altro i suoi membri
sono tutti Paesi del Nord del mondo, di
cui deve tutelare gli interessi”. Non deve
sorprendere che si limiti a svolgere un
mero compitino formale, senza studiare
delle soluzioni innovative o proporre delle
misure draconiane, in grado di estirpare
un male ormai profondamente radicato
e diffuso. Come se non bastasse, persino
alcune grandi istituzioni internazionali
sembrano agevolare, non è dato sapere
con Stati verso i quali i flussi finanziari
sono trascurabili. A inizio dello scorso anno
Jersey e Guernsey hanno firmato intese
con la Groenlandia e le Far Oer, con le
quali non intrattengono propriamente delle
relazioni così intense. Per guardare più
vicino a casa nostra, San Marino ha firmato
accordi bilaterali con l’Islanda, le Bahamas,
Andorra, il Principato di Monaco e le
gettonatissime Groenlandia e Isole Far Oer.
È forte il sospetto che tali intese abbiano il
solo e unico obiettivo di fare numero per
uscire dalle liste dell’OCSE. Analogamente,
se anche vi fosse
qualche movimento
sospetto, siamo certi
che le autorità del
Principato di Monaco
muoverebbero una
richiesta ai loro
omologhi delle
Bahamas o di Samoa,
del Liechtenstein o
di Andorra, in base
ai TIEAs firmati?
Accordi, che, è
bene ricordarlo,
prevedono scambi
di informazione solo su richiesta e non in
maniera automatica. Morale della favola,
al momento la lista nera è vuota, sebbene
ne esistano una color grigio scuro e una
grigio chiaro che includono i Paesi che
hanno adottato ma non ancora applicato gli
standard internazionali sulla trasparenza
in ambito bancario e fiscale. Per la verità
nemmeno in precedenza l’elenco dei
“cattivi” era molto popolato: fino all’aprile
del 2009 vi trovavano posto Uruguay, Costa
Rica, Filippine e Malesia. Niente Svizzera,
Per John
Christensen
del Tax justice Network,
“Il G20 serve a ‘stabilire
l’umore’ generale,
ma in realtà finora
non ha contribuito a
fornire delle decisioni
politiche di grande peso
specifico...”
Manifestazione in
Lussemburgo davanti
alla sede della BEI
26. PARADISI PERDUTI26
quanto scientemente, le compagnie private
che operano nei paradisi fiscali.
La Banca europea per gli
investimenti e le relazioni
pericolose con i tax havens
Nascosta tra le vallate del Lussemburgo e
fuori dall’attenzione dei media, la Banca
europea per gli investimenti (BEI) è il
maggior erogatore pubblico di prestiti nel
mondo. Ogni anno presta circa 45 miliardi di
euro, la maggior parte per progetti in Stati
membri dell’Unione Europea, ma in misura
crescente anche per importanti investimenti
nell’area mediterranea, nei Paesi ACP
(Africa, Caraibi, Pacifico), in America Latina
e in Asia. Insieme alla Banca mondiale e
alle altre banche multilaterali di sviluppo
dovrebbe essere una delle istituzioni cardine
per debellare la povertà nel Sud del mondo.
Al di là di una corposa serie di appunti mossi
nei suoi confronti da parte della società
civile internazionale, tra le “pecche” della
BEI c’è quella di garantire prestiti a soggetti
che hanno più di un legame con i paradisi
fiscali. Siano essi intermediari finanziari
o soprattutto banche, come la Royal Bank
of Scotland, la BNP Paribas e la Barclays,
tutte con filiali e attività nelle località
offshore. Ma in questa lista non potevano
mancare le compagnie multinazionali.
Prendiamo un paio dei presunti progetti
di sviluppo nel Sud del mondo di maggior
rilievo sostenuti economicamente negli
ultimi tempi. Il West African Gas Pipeline
è un gasdotto di centinaia di chilometri che
dalla Nigeria attraversa il Benin e il Togo
per poi arrivare in Ghana. La BEI e la Banca
La beffa della Corporate
Social Responsability
In assenza di normative internazionali vin-
colanti, nel contesto delle grandi compagnie
private negli ultimi due decenni c’è stata
una fortissima crescita della corporate social
responsability (CSR). Le imprese auto-legitti-
mano le loro credenziali sociali promettendo
una condotta etica e responsabile legata a un
mero principio volontaristico. Per il già citato
professor Prem Sikka ci troviamo di fronte a
un esercizio di stile infarcito di dosi abbon-
danti di ipocrisia, il tutto favorito dai Paesi
del Nord del mondo che non fanno altro che
avallare e incentivare questo approccio. “Le
stesse compagnie che fanno stampare mi-
gliaia di brochure nelle quali esaltano la loro
volontà di operare in maniera ‘socialmente
responsabile’ sono poi in prima fila nell’elu-
sione fiscale. È come se si formassero dei
doppi livelli, ben distinti tra loro: uno formale
e un altro informale, uno a uso interno e uno
a uso esterno. Il modo con cui il management
rappresenta la società e i suoi obiettivi al
pubblico non coincide, anzi differisce profon-
damente, dai segnali che vengono inviati ai
suoi dipendenti”.
A chiarirci ulteriormente il concetto ci viene in
soccorso ancora una volta il caso Enron. Nel
suo codice di condotta la corporation afferma-
va quanto segue: “Noi operiamo nel rispetto
delle normative locali e internazionali e…
dei più alti standard professionali ed etici.…
i dipendenti della Enron Corp e delle sue so-
cietà sussidiarie devono agire in accordo con
i più elevati standard etici”. Adesso sappiamo
che, alla luce dei fatti, quel documento era
solo carta straccia, e non sarebbe male che la
comunità internazionale lo tenesse a mente
quando deve affrontare il tema dei paradisi
fiscali e dell’elusione delle tasse.
FotoTaxJusticeNetwork
27. PARADISI PERDUTI 27
senza problemi
consorzi
registrati alle
Cayman e nelle
Isole Vergini
Britanniche.
E non si
tratta di certo
di progetti
di piccole
dimensioni,
ma parliamo
ad esempio del più lungo
oleodotto del mondo, il
BTC, realizzato per portare
il petrolio del Mar Caspio
al Mediterraneo, attraverso
Azerbaigian, Georgia e
Turchia.
Un progetto che vede
capofila la britannica BP e
la partecipazione di diverse
altre compagnie petrolifere,
tra cui la nostra ENI. Con
tanti Paesi direttamente
coinvolti tra Asia ed Europa,
risulta davvero curioso
osservare come l’omonimo
consorzio BTC che ha
realizzato il progetto sia
registrato dall’altra parte
del mondo, nelle famigerate
Isole Cayman. Ultima nota a margine, la
pipeline ha beneficiato di un finanziamento
di oltre 300 milioni di dollari da parte della
Banca mondiale.
mondiale hanno fornito oltre 200 milioni
di dollari per la sua realizzazione, portata
avanti grazie alla partnership pubblico-
privato voluta dai governi dei quattro
Paesi interessati dall’opera. Il consorzio
composto da Chevron-Texaco, Nigerian
National Petroleum Corporate, Shell
Overseas Holdings Limited e Takoradi Power
Company Limited è denominato WAPCO
(West African Gas Pipeline Company
Limited) ed è registrato nelle Bermuda. Il
WAPCO può agire espressamente “come
una compagnia offshore”, con tutti i
vantaggi fiscali e le “eccezioni” alle varie
normative socio-ambientali del caso. Anche
la Tenke Holding Limited, proprietaria
dell’omonima miniera di rame e cobalto
nella Repubblica Democratica del Congo, è
registrata nelle Bermuda.
La Banca europea per
gli investimenti non ha
avuto nulla da ridire al
riguardo, provvedendo
a un finanziamento
di circa 100 milioni di
euro datato luglio 2007.
Peccato che la miniera,
tra le più grandi al mondo
nel suo genere, ha fin da
subito scatenato una serie
di diatribe dovute alle
mancate compensazioni
nei confronti delle popolazioni locali e ai
considerevoli impatti socio-ambientali. Di
casi simili, soprattutto nel settore estrattivo
se ne possono menzionare a decine. Ciò che
colpisce è che anche altre istituzioni, come
la già menzionata Banca mondiale, che in
teoria dovrebbe avere delle linee guida più
stringenti rispetto alla BEI, sostengano
Tra le “pecche” della BEI
c’è quella di garantire
prestiti a soggetti che
hanno più di un legame
con i paradisi fiscali.
Siano essi intermediari
finanziari o soprattutto
banche...
Immagine di una
pipeline.
La Banca Mondiale ha fi-
nanziato con 300 milioni
di dollari il controverso
progetto BTC dal Mar
Caspio al Mediterraneo
FotoTaxJusticeNetwork
28. PARADISI PERDUTI28
Come risolvere il problema,
le proposte della società civile
internazionale
aspetto molto importante. Anche se coloro
che si avvalgono di questa segretezza
rivendicano la legalità delle loro attività,
sembra che vogliano che nessuno si
interessi dei loro affari. Di conseguenza
la riservatezza diventa fondamentale. In
secondo luogo, beneficiare di segretezza in
un Paese che non sa come gestire il denaro
non è molto utile se, come molti desiderano,
occorre poter trasferire i fondi con la
massima rapidità. Ecco perché abbiamo
aggiunto un altro semplice criterio:
affinché un Paese possa essere
identificato come un paradiso
fiscale, le sue banche devono essere
in grado di trasferire somme molto
alte” spiega Richard Murphy in un
video diffuso su You Tube.
Si scopre allora che alcuni
Paesi non applicano il segreto
bancario, ma autorizzano la
creazione di società anonime.
Molti si impegnano a ratificare le
convenzioni internazionali, ma non
rivelano alcun dettaglio riguardo
i trust. Altri Stati condannano
l’evasione fiscale, ma consentono la
ri-domiciliazione delle imprese, e
via discorrendo. La settorializzazione e le
mille sfaccettature dei centri offshore sono
palesate in base ad indicatori numerici
e fattuali che hanno scatenato mille
polemiche tra i “diretti interessati”, ma
che a ben vedere danno un’immagine reale
dell’intricato e avvolgente mondo dei tax
I
l Financial Secrecy
Index.
La rete internazionale
Tax Justice Network, grazie
al lavoro di ricerca e analisi
di esponenti di spicco dei
suoi aderenti, a inizio 2009
ha presentato il Financial
Secrecy Index.
Ovvero la lista nera
dei paradisi fiscali,
almeno stando
ai riscontri fatti
dalla società civile
globale.
L’indice si basa su una
molteplicità di indicatori,
cercando di cogliere i diversi
aspetti giuridici che possono
trasformare un territorio
in un paradiso fiscale, e su
informazioni messe a disposizione dalle
principali istituzioni internazionali (OCSE,
Fondo monetario internazionale e altri).
“Per funzionare, tali giurisdizioni creano
appositamente un velo di riservatezza
che protegge l’identità delle persone che
utilizzano il loro sistema. Questo è un
Conclusioni
Azione di ATTAC contro i
paradisi fiscali, davanti al
Ministero delle finanze, a
Roma (Foto ATTAC)
29. PARADISI PERDUTI 29
i paradisi fiscali prevede di introdurre una
rendicontazione Paese per Paese (Country
by Country reporting) dei dati contabili e
fiscali delle imprese multinazionali. A queste
ultime al momento basta riportare nei propri
bilanci unicamente dati aggregati per macro-
regioni.
In questo modo è impossibile sapere cosa
avviene in ogni Paese, e in particolare se
le imprese pagano in ogni giurisdizione le
tasse dovute per le attività di produzione
e commercio e per i profitti realizzati.
L’attuale sistema di reporting
aggregato per macroregioni
colpisce in primo luogo i
Paesi più poveri, e favorisce
la corruzione e le pratiche di
elusione ed evasione fiscale.
Le maggiori potenze
economiche devono
accordarsi su sanzioni verso
le giurisdizioni che non
collaborano, fino al blocco di
ogni operazione commerciale,
economica e finanziaria. Questo
coordinamento e questa volontà
politica nelle nazioni del Nord
fino a oggi sono mancati, permettendo a
piccoli Paesi che contano poco o nulla nello
scacchiere internazionale di proliferare e
diventare paradisi fiscali.
In maniera ancora più generale, finché
gli sforzi della comunità internazionale
si concentreranno nel prendere di mira
alcune piccole isole esotiche, è facile
prevedere il fallimento di ogni iniziativa,
per diversi motivi. Come detto, i paradisi
havens. Scopriamo allora che la capolista è il
Delaware, misconosciuto Stato americano,
seguito da due tra i soliti noti: Lussemburgo
e Svizzera. Nelle prime dieci posizioni
abbondano le realtà del Nord del mondo
ma ci sono solo due “isolette”: Cayman e
Bermuda, entrambe legate tra l’altro alla
Gran Bretagna, essendo “British Overseas
Territories”.
Un po’ di misure concrete
Se i governi del Nord del mondo sembrano
nel migliore dei casi avvolti da un fastidioso
attendismo, la società
civile ha già studiato
una serie di misure e
correttivi che potrebbero
affrontare la questione
in maniera strutturale.
Come prima cosa per
combattere i paradisi
fiscali è necessario un
trattato multilaterale, e
non una serie di trattati
bilaterali, che preveda
uno scambio automatico
di informazioni, e non
su richiesta. Oggi è
necessaria una richiesta
esplicita di uno Stato che cerchi di ottenere
informazioni sul comportamento in ambito
finanziario e fiscale di una data impresa o
di una persona all’estero. Questo significa
settimane o mesi per portare avanti indagini
internazionali, mentre i capitali possono
essere spostati e fatti sparire in altri territori
con pochi clic.
Una delle misure che singolarmente
darebbero maggiore impulso alla lotta contro
Come prima cosa per
combattere i paradisi
fiscali è necessario un
trattato multilaterale,
e non una serie di
trattati bilaterali,
che preveda uno
scambio automatico
di informazioni, e non
su richiesta
31. PARADISI PERDUTI 31
che spiegano come sfruttare i paradisi
fiscali? Quali sono le nazioni che fissano le
regole e i controlli su scala
internazionale?
Rispondendo a queste
domande possiamo vedere
come occorre sostituire,
nell’immaginario collettivo,
l’immagine della palma
tropicale con quella dei
grattacieli di vetro e cemento.
I paradisi fiscali sono un
problema delle potenze
economiche, e prima di tutto
europeo. Come primo passo è necessario
da subito fare pulizia in casa nostra.
Quante imprese nostrane hanno filiali,
sussidiarie e controllate in qualche paradiso
fiscale? Perché gli organi di controllo non
vietano alle nostre compagnie di realizzare
operazioni con tali territori? Perché governi
e banche centrali non impediscono alle
fiscali rispondono a ben precise richieste
di un gigantesco “mercato” che va,
senza soluzione di
continuità, dall’elusione
fiscale alla criminalità
organizzata. Se l’impegno
internazionale porta una
piccola giurisdizione a
modificare una propria
normativa, subito un
altro territorio sarà
pronto a sostituirsi,
guadagnando cosi un
vantaggio competitivo
nella nicchia di mercato
considerata. Per affrontare in maniera seria
la lotta contro i paradisi fiscali occorre
andare al cuore del problema. Dove sono
gli interessi che muovono i paradisi fiscali
e ne permettono l’esistenza? Dove sono i
maggiori centri finanziari ed economici
del Pianeta? Dove si concentrano gli studi
di consulenti, gli avvocati e le banche
Seychelles* 100 0,000 100,0 0,10 joint 39
St Lucia* 100 0,000 100,0 0,10 joint 39
St Vincent Grenadines* 100 0,000 100,0 0,10 joint 39
Turks Caicos Islands* 100 0,000 100,0 0,10 joint 39
Antigua Barbuda* 92 0,000 84,6 0,08 joint 46
Cook Islands* 92 0,000 84,6 0,08 joint 46
Gibilterra* 92 0,000 84,6 0,08 joint 46
Grenada* 92 0,000 84,6 0,08 joint 46
Marshall Islands* 92 0,000 84,6 0,08 joint 46
Nauru* 92 0,000 84,6 0,08 joint 46
St Kitts Nevis* 92 0,000 84,6 0,08 joint 46
US Virgin Islands* 92 0,000 84,6 0,08 joint 46
Liberia* 90 0,000 81,0 0,08 54
Liechtenstein* 87 0,000 75,7 0,08 joint 55
Anguilla* 87 0,000 75,7 0,08 joint 55
Andorra* 83 0,000 68,9 0,07 57
Maldive* 80 0,000 64,0 0,06 58
Montserrat* 79 0,000 62,4 0,06 59
Monaco* 67 0,000 44,9 0,04 60
* Le giurisdizioni segnalate con un asterisco sono posizionate in base al punteggio complessivo sull’opacità
Come primo passo è
necessario da subito
fare pulizia in casa
nostra. Quante imprese
nostrane hanno
filiali, sussidiarie e
controllate in qualche
paradiso fiscale?