Elisabetta Colombo - Il sè femminile tra clinica e ricerca
Franco Giori - Fattori Terapeutici Nei Giovani Adulti
1. Fattori di trasformazione nel lavoro clinico con giovani adulti
Franco Giori
Quando ho scelto il tema e il titolo di questa relazione l’ho fatto un po’ di getto, contento di avere
l’occasione per ripensare alcuni aspetti e risultati raggiunti nel mio lavoro clinico di questi anni con
giovani adulti; mi sono poi subito accorto che l’argomento comprende quasi tutto lo scibile del
lavoro clinico: la ricerca qualitativa, gli strumenti di verifica del cambiamento, i risultati ma anche
il processo terapeutico, il cambiamento atteso e realizzato, dove e come avviene il processo di
trasformazione, attorno al sintomo, alla struttura, alle funzioni dell’io, al sé etc. Fattori multipli,
combinazioni complesse e imprevedibili.
Ho scelto così necessariamente, in questo breve spazio, di limitarmi ad un punto focale per me
significativo e ricavato anche dal ripensamento di alcune situazioni cliniche vissute negli ultimi
tempi. Non vi porto dunque dati di ricerca dunque ma riflessioni legate alla mia esperienza,
considerando il cambiamento avvenuto nello scorcio di una seduta o come esito finale dei colloqui,
sulla base della mia percezione in parallelo ad una analoga risposta positiva del paziente, sia essa
stata esplicita o implicita. Per certi aspetti le cose che dico hanno valore trasversale per tutte le età,
ma io le ho pensate in riferimento a giovani dai 20 ai 30 anni e al loro contesto di vita.
Un primo un fattore terapeutico di carattere generale (che vedo come una sorta di condizione
preliminare) sta a mio avviso nell’equilibrio dinamico, nella sintonia evolutiva fra domanda e
risposta: saper cioè modulare tempi modi e confini dell’aiuto possibile. Penso a valutazioni e
tecnica capaci di muoversi con l’evolvere degli eventi; dobbiamo in qualche modo essere in grado
di smentirci strada facendo. Fattore terapeutico cruciale, ben colto dal paziente, sta dunque nella
nostra capacità di modulare un setting non sulla base di attese di cambiamento prestabilito ma sulla
base del nostro essere in contatto dinamico con la situazione del momento, con un movimento
continuo fra la percezione dei bisogni del cliente e le nostre attitudini e capacità di dare una risposta
utilizzabile in quel contesto clinico.
Dialogo continuo dunque con la persona che abbiamo di fronte e la situazione contingente, con
ciò che siamo e che proviamo in quel momento, (e questo il paziente lo sente anche al di là delle
nostre intenzioni). Dialogo attraversato auspicabilmente da un contatto empatico che sicuramente
costituisce un valore terapeutico di base; è anche vero tuttavia che l’empatia non è un dato scontato,
qualcosa di programmabile: (penso in tal senso ai lavori di Bolognini che superano per certi aspetti
lo stesso concetto in Kohut).
Ma il dialogo continuo dentro di noi non è solo con ciò che sentiamo ma anche con i contenuti
della nostra formazione: fattore terapeutico credo sita proprio nella disponibilità di utilizzare e
2. integrare paradigmi e modelli da noi interiorizzati adattandoli, spesso solo ad un livello preconscio,
al contesto clinico del momento. (Ritengo questa una preziosa risorsa individuale ma anche risorsa
dell’equipe e risorsa anche di un Centro Clinico).
Ricordiamo le slide di Maggiolini di questa mattina che fanno riferimento al paradigma evolutivo
e quello psicoanalitico/relazionale: non si tratta di contrapposizione ma di una
distinzione/integrazione: siamo fra l’aiuto in direzione di una possibile mentalizzazione, verso
contenuti rappresentabili in modo nuovo e più funzionale allo sblocco evolutivo e l’attenzione alla
relazione, al contenitore relazionale quando in primo piano stanno emozioni eccessive o bloccate
che rendono difficili o impossibili pensieri e parole.
Il concetto di evolutivo è da valorizzare in questo senso non solo in relazione ai passaggi della vita
in corso dei nostri clienti, ma anche come possibili passaggi fra polarità tecniche distinte ma
copresenti.
Proprio questo è il punto focale che intendo portare alla vostra attenzione: immaginate un’asse
con la prevalenza da un lato di interventi che mirano a promuovere insight su contenuti
interpretativi dall’altro lato fattori terapeutici più a valenza relazionale; a volte diamo cioè più
valore al contenuto, a volte più al contenitore. Gabbard distingue a questo proposito interventi
espressivi/interpretativi da quelli supportivi; altri hanno distinto i fattori specifici da quelli
aspecifici. A me pare utile questa distinzione grossolana che tuttavia trovo efficace: da una
maggiore attenzione ai contenuti del problema, ad una sua più chiara rappresentazione, avendo ben
presente obiettivi evolutivi e contesto di vita, a una maggiore attenzione alle emozioni dell’incontro
e gli ostacoli emozionali che bloccano la possibilità di un pensiero comunicabile e condivisibile. Il
nostro ruolo a seconda del contesto clinico scorre ed evolve assumendo di volta in volta accenti e
tonalità diverse lungo quest’asse che possiamo anche immaginare come in un rapporto
figura/sfondo. Penso in altri termini a un registro emozionale presimbolico, (potremmo dire anche
psicofisico-sensoriale) che richiama una funzione materna (ti accolgo e comprendo per ciò che sei),
e un registro simbolico- rappresentazionale che richiama più una funzione paterna (ti vedo e
penso per ciò che potresti essere); in questo secondo caso siamo più sintonizzati con la capacità
riflessiva del pz per un aiuto a potersi separare dal noto. Il cambiamento a mio avviso avviene
attraverso una alternanza dinamica fra questi due poli: il poter essere capiti per come si è insieme
alla fiducia condivisa per come si potrebbe diventare.(Il passato che è presente insieme al futuro che
è presente). I movimenti possono avvenire nella stessa seduta o in periodi più ampi; a volte i due
momenti sono così intrecciati da essere quasi inseparabili.
Ora Proviamo ad applicare questo punto focale all’età del giovane adulto…
3. Come si declinano e si integrano i poli dell’asse se li applichiamo al periodo di vita che va dai 20
ai 30 anni? Che succede a questa età? Qual è la scena circostanziale? Siamo in contatto qui non più
con l’età dell’ambivalenza e delle sperimentazioni adolescenziali: si esce dal romanzo
d’avventura per entrare nel romanzo di formazione Ci sentiamo a volte coautori della storia
che il giovane adulto sta provando a scrivere e noi siamo in qualche modo terapeuti-
accompagnatori nel quadro di questa costruzione decisiva: dalle sperimentazioni vitali si passa
infatti alle decisioni vitali: siamo ancora fra vecchi e nuovi oggetti ma ad un altro livello, dai
processi di individuazione labili e mobili a un processo di soggettivazione che obbliga in qualche
modo a scegliere un progetto di vita, un proprio personale modo di essere nel mondo. Chi ha
qualche esperienza con il lavoro clinico a questa età conosce certi passaggi , certi snodi delicati e
cruciali che lo attraversano. Pensiamo al ragazzo che è in bilico fra inserirsi nel lavoro familiare o
partire per un lavoro in Nuova Zelanda con la possibilità di rimanerci. Pensiamo al fascino della
partenza per l’Erasmus ma anche ai drammoni che ne derivano per il rischio che la coppia amorosa
non regga e che tutto finisca. Non sono cose da poco e nei colloqui siamo spesso testimoni di questi
momenti forti.
Ci troviamo ad affrontare una grande variabilità di situazioni cliniche nella durata dell’aiuto ma
anche in relazione ad un possibile o probabile incontro con i genitori, quasi sempre presenti
lavorando con infanzia e adolescenza, mai o quasi nell’età età adulta; nel nostro caso c’è di tutto…
Incontriamo infatti giovani di 25/30 anni già autonomi e paganti di tasca propria, con i genitori che
non vediamo mai; in altri casi venti/venticinquenni ancora post adolescenti con genitori ben presenti
sulla scena della consultazione/terapia; a volte addirittura unica presenza quando il figlio, almeno
in un primo momento, rifiuta il colloquio.
Vi porto solo un flash clinico, fra i tanti possibili, di una situazione intermedia: un solo colloquio
avuto con i genitori di una giovane di 24 anni, a terapia in corso, ha permesso ai genitori stessi di
dare un senso della crisi universitaria della figlia in quel momento; la ragazza stava infatti
scoprendo una nuova libertà emozionale con nuove esperienze cruciali per la sua maturazione ma
incompatibili con l’essere la perfettina di prima, la coatta del trenta. Non sentendosi capace di far
capire ai suoi il senso di quel rallentamento negli esami avevamo concordato questo aiuto parallelo
davvero utilissimo per ridurre le pressioni familiari e anche salvare la loro fiducia nel mio aiuto. In
altri casi è utile e opportuno che sia un collega dell’equìpe a vedere i genitori.
A questa variabilità di situazioni cliniche corrisponde anche grande variabilità di fattori
terapeutici; a questo proposito riprendo ora quel che dicevo a proposito dei fattori di
trasformazione con il riferimento a quell’asse di cui parlavo con da una parte la prevalenza di fattori
legati a una riflessività condivisa dall’altra a fattori emozionali.
4. A volte otteniamo cambiamento attraverso un allargamento dell’area dei significati a partire dai
contenuti del racconto; in primo piano sta qui il momento riflessivo condiviso attorno a un modo
diverso di affrontare il problema, un nodo conflittuale o decisionale; anche con giovani adulti in
questi casi siamo vicini alla tecnica dell’analisi del sé in adolescenza, tecnica avviata da Senise nei
primi anni ottanta fino ai successivi sviluppi e contributi di Charmet.
A volte siamo invece inevitabilmente spostati a prestare più attenzione ai movimenti relazionali
nel corso della seduta, quando fattori emozionali presenti nell’incontro assumono importanza
centrale e, a volte con il senno di poi, anche prezioso valore terapeutico:
Vi porto tre flash clinici riferiti proprio a casi di questo tipo, quando in primo piano sta il
contatto con le forti emozioni presenti nella relazione: il momento riflessivo è presente ma in
un secondo piano o in un momento successivo; qui il cambiamento sta soprattutto nel riuscire a
favorire l’espressione di emozioni bloccate, impresentabili, o a contenerle quando allagano il campo
relazionale; in alcuni casi è davvero importante anche saper tollerare e modulare i tempi per il
disvelamento di segreti traumatici (penso a due casi di abuso, uno comunicatomi dopo alcune
settimane, l’altro dopo mesi, il tempo necessario).
Vi porto un paio di esempi clinici:
Emozione in primo piano: dolore e pianto:
Dopo un anno e mezzo di chiusura a casa dopo la maturità,con ribaltamento notte e giorno,
Michele accetta di uscire dal suo bunker e di conoscermi; altissima la temperatura emotiva del
colloquio per entrambi… Per parecchi incontri potrò solo accogliere il suo pianto silenzioso dando
grande valore al coraggio dell’essere riuscito ad uscire e a fidarsi di potermi conoscere ; accetta
tuttavia dalle mie parole solo vaghi riferimenti alla somma delle vicende traumatiche che l’avevano
portato a rinchiudersi (e che io in quel momento conosco nella versione dei suoi genitori incontrati
a lungo); come mi spingo un po’ oltre nei contenuti, attorno al senso storico del suo dolore, mi
ferma, mi fa capire che è troppo; dopo una decina di colloqui sarà in grado di fidarsi passando da
monosillabi al racconto, finalmente il suo racconto.
Emozione in primo piano: rabbia:
Antonio è un ventitreenne che vive solo con la madre: il livello di conflittualità e di esasperazione
fra i due è molto alto, sempre al limite della violenza o del distacco traumatico: ripensando a
questo caso, il fattore terapeutico essenziale credo sia stato per quasi un anno l’esser riuscito a
reggere e contenere nella prima parte del colloquio la rabbia del ragazzo verso la madre (solo
dopo essersi sfogato bestemmiando in giro per lo studio e picchiando manate sul tavolo si calmava
ed era poi possibile riflettere sugli episodi, sulla parte che faceva lui nell’esasperare la madre;
dunque rendergli comprensibile il meccanismo della controdipendenza e riflettere su come poter
5. cambiare quella modalità di sfida: fattore terapeutico cruciale in primo piano a mio avviso non i
contenuti ma il contenitore relazionale: una funzione materna (comprensione e accoglimento
rabbia),insieme a una funzione paterna: non aver avuto troppa paura ma anche avergli dato un
limite… “abbassa la voce c’è altra gente di là”…); sullo sfondo io avevo poi bene in mente il suo
desiderio di frequentare un corso di percussioni, buona alternativa ai rischi di percussioni
domestiche e insieme anche la condivisione di una prospettiva di miglioramento delle condizioni
lavorative.
Qui vediamo dunque tre piani presenti con accenti diversi: il contenimento dell’emozione e
della impulsività, una possibile crescita della riflessione sul sé e una attenzione comunque anche la
realtà esterna, alle aspirazioni del giovane e al suo contesto di vita; (in questo senso un aiuto anche
alla madre è risultato essenziale per il buon esito del caso).
Vi porto ora o un ultimo esempio clinico significativo per mostrarvi una situazione intermedia
nella quale vedo presenti a pari livello i due fattori terapeutici che ho posto come punto focale della
mia relazione.
Siamo in un contesto di consultazione: sto conducendo un colloquio con un padre molto
arrabbiato e svalutante nei confronti del figlio: “Non lo sopporto più -dice- pensa alla sua musica
e ai vestiti che vuol lui e che costano, della scuola non gliene frega niente e se dico qualcosa mi
risponde…mentre io mi faccio un culo così per mandare avanti la famiglia”.
In quell’atmosfera il figlio rifiuta il colloquio; per di più in quei giorni il padre sta cercando di
proibirgli le uscite amicali e “musicali” e la sfida non può che proseguire. Otterrò dei risultati con
questo padre (nel senso di una sua maggiore disponibilità a capire il figlio e a parlargli con un
tono diverso) solo dopo aver dedicato un colloquio alla sua storia, al suo essere venuto a Milano
da ragazzo per sfuggire a una situazione di povertà e disagio familiare alla ricerca di un futuro
migliore. Il sentirsi capito nella sua storia, nei suoi valori etici (responsabilità, impegno e spirito di
sacrifici) permetterà poi a questo padre di ritornare sulle vicende del figlio con uno stato d’animo
diverso e in un clima di disponibilità, con una nuova capacità di comprendere che quel radicale
contrasto di atteggiamenti verso la vita era legato a situazioni di età, di tempi culturali e sociali
davvero lontanissimi fra loro; suo figlio dunque probabilmente non intendeva offenderlo ma solo
difendere i suoi spazi e i suoi interessi vitali. L’entrare in contatto autentico con questo padre,
attraversato anche da quel po’ di commozione che ho provato al suo racconto (e che lui ha notato)
ha permesso poi di ripensare il suo ruolo paterno in modo più costruttivo e riavviare una relazione
più funzionale alla crescita del figlio.
6. Dunque, per concludere, anche quando siamo più sui contenuti, sulle rappresentazioni e i
significati (penso a tanti casi meno impegnativi di questi, con giovani magari molto in crisi ma
anche ricchi di risorse) il coinvolgimento emozionale può essere cruciale: la stessa cosa detta in un
modo non passa; se cambi tono, ti accalori e usi un esempio o la metafora giusta la stessa
osservazione tocca e passa in quanto probabilmente lì sei riuscito a costruire una risposta che è
passata attraverso le tue emozioni; si tratta tuttavia di situazioni, come dicevo, poco
programmabili…
E questo è il fascino e il dramma del nostro lavoro, un po’ come nell’amore… le cose non
funzionano a comando.