1. di GIANLUCA SCHINAIA
egli ultimi dieci anni, sono stati uccisi più autoctoni dalle
guerre per le risorse naturali nella Repubblica
Democratica del Congo che ebrei dai nazisti nella
Seconda Guerra mondiale. Non esiste nella storia
contemporanea un delitto più lungo e decimante del
genocidio di cui è stato vittima il Congo.
Jan Egeland, coordinatore delle Nazioni Unite per
l’assistenza alle emergenze, ha recentemente denunciato
con queste parole la situazione congolana: «La persistente
tragedia in Congo è l’emergenza più ignorata al mondo,
dove, solo dal 1996, sono morti tra i sei e i sette milioni
di persone a seguito delle invasioni e delle guerre
sostenute dalle potenze occidentali che mirano al
possesso delle ricchezze minerarie del Paese». Anche nel
caso del Congo, come per l’olocausto, si può parlare di
un crimine aberrante che l’esperto di diritto
internazionale Raphael Lemkin definisce così: «È un
errore, forse, chiamare queste uccisioni “atrocità”.
Un’atrocità è una brutalità gratuita. Ma il fatto è che queste
uccisioni erano sistematiche ed intenzionali». Lemkin, che
ha coniato tale definizione poi accolta dalle Nazioni Unite,
le definisce come “genocidio”, ovvero “gli atti commessi
con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un
gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.
Se volessimo procedere con metodologia investigativa sul
genocidio congolano, una volta trovata la vittima ed
identificata la fattispecie criminosa, per inquadrare il
delitto bisognerebbe prima definire quando questo è stato
consumato, quale sia l’arma ed il movente e quindi si
potrebbe giungere all’assassino. La popolazione del Congo
è vittima di genocidio da più di cento anni. Così si evince
dalle colonne di prima pagina di un numero del
Washington Times del 1905: l’autore della sferzante invettiva
è Mark Twain. «Dio è sicuramente grato del fatto che,
nonostante la repressione, le cose in Congo non siano
irrimediabilmente compromesse, tanto è vero che alcuni
nativi sono stati lasciati in vita». All’epoca delle denunce
dell’autore di Huckleberry Finn, il regime di Leopoldo II,
autarca del Congo, era già responsabile di quasi quindici
milioni di vittime. Le pressioni della comunità
internazionale obbligarono il dittatore a cedere il Paese al
Belgio. Durante la dominazione belga, tra il 1950 ed il
1960, oltre alle sistematiche uccisioni, la potenza
occidentale si è macchiata della de-umanizzazione della
popolazione congolana: tra il 1950 ed il 1960 su 14
milioni di abitanti solo 1500 persone furono qualificate
“evolute” dai belgi. La linea di sangue che spartiva l’Europa
colonizzatrice e l’Africa schiavizzata si andava
assottigliando in quegli anni e l’intellettuale caraibico-
algerino, Franz Fannon, definì con profetica sagacia il
ruolo del Paese di dominazione belga: «Se l’Africa fosse
raffigurata come una pistola, il grilletto sarebbe in Congo».
In virtù della lotta del movimento di Patrice Lumumba, il
Congo riuscì ad ottenere l’indipendenza dal re belga
Baldovino nel 1960 e fu effettivamente il primo
grimaldello importante per aprire la strada verso
l’autonomia delle colonie africane. D’altra parte, già nel
1965, il golpe di Mobutu Sese Seku nella giovane
Repubblica Democratica del Congo avviò una clepto-crazia
lunga 32 anni, strumentale nel soddisfare i grandi interessi
di Belgio, Francia e Usa. Mobutu cade nel 1997, quando le
guerre civili tra etnie hutu e tutsi che coinvolgono i vicini
Uganda, Ruanda e Burundi sfociano in Congo. La
repubblica di Lumumba è terra di sterminio: tra il 1997 ed
il 2001, si contano 3 milioni e mezzo di morti per guerra,
fame e malattie ed Amnesty International stima in 16
milioni le vittime di violazioni dei diritti umani, privati di
alimenti e farmaci. Se si considera la popolazione del
Congo, 52 milioni di abitanti, si tratta di quasi di un
congolano su due ucciso, torturato o vittima degli stenti.
Nel 2001, l’avvento di Joseph Kabila, politico gradito agli
americani, non è servito a fermare la strage. Solo negli
ultimi 4 anni, secondo l’International Rescue Committee,
sono stati uccisi almeno 3 milioni di congolani (quasi
quanto l’intera popolazione irlandese) e molti altri milioni
sono diventati profughi.
Riprendendo i termini dell’indagine, la popolazione del
Congo è vittima perdurante di genocidio dal 1885 (l’anno
in cui il re Leopoldo prese il potere), attuato attraverso
regimi efferati, rivoluzioni programmate, invasioni
militari. Attraverso l’arma del delitto, ovvero la successione
dei governi repressivi e delle incursioni esterne, si può
quindi giungere al movente e all’assassino. Come già visto,
sia il re Leopoldo II che Mobutu sono stati i guardiani
solerti degli interessi economici occidentali in Congo.
D’altra parte, la guerra civile che anima la Rdc dal 1997
nasce con gli stessi presupposti e per le stesse finalità. Il
boom tecnologico degli anni ‘90 del secolo scorso ha fatto
lievitare il prezzo dei minerali utili per le nano-tecnologie a
livelli pazzeschi e il Congo è un serbatoio copioso di
queste risorse. Per questo, gli Stati Uniti hanno aiutato gli
eserciti del Ruanda e dell’Uganda ad entrare nella zona più
orientale del Rdc. Nel 1998, i due eserciti avevano già il
controllo del Paese e si sono stabiliti in punti strategici per
l’estrazione dei minerali: il solo esercito ruandese
guadagna quasi 20 milioni di dollari al mese dal controllo
del commercio dei minerali congolani. Questi minerali,
indispensabili per la costruzione di cellulari e sofisticate
apparecchiature tecnologiche, sono il coltan ed il nobio,
poi c’è il cobalto, essenziale per le industrie nucleari,
chimiche, aerospaziali e della difesa. Ma il Congo è
ricchissimo anche di diamanti, stagno, rame, oro,
manganese, petrolio, carbone, piombo, uranio, zinco. In
ogni caso, è il coltan la pietra angolare dell’ultimo
conflitto. Una volta trasformato in polvere di tantalio, è
venduto ai giganti della Motorola, della Nokia, della
Compaq e della Sony. Al termine della nostra indagine,
dopo avere inquadrato il movente, appaiono quindi gli
assassini. I loro nomi sono poco conosciuti, ma sono stati
identificati. È successo grazie a due studi pubblicati da
gruppi di esperti delle Nazioni Unite e da un’ONG
congolana, ma il riflettore dei grandi media, a volte deviato
verso altre visioni, non ha illuminato i risultati di questi
studi. Dalle relazioni emerge che massacri, estorsioni,
violenze sessuali, corruzione rientrano in una rete
criminale generata e alimentata da grandi società
multinazionali. Si tratta, per citare solo le principali, di
multinazionali come la Nigncxia (cinese), la Cabot Corp.,
l’Om Group e la corporation di Nicky Oppenheimer
(americane), la Union Miniére (belga), la Swipco
(svizzera), la Filma (francese), la Lonhro (britannica), la
Bhp (australiana). Secondo gli studi, sono loro oggi
colpevoli di armare i “signori della guerra” che perpetrano
il reato secolare di genocidio in Congo a danno di un
popolo indifeso che ha il solo torto di nascere in un Paese
troppo ricco. Se volessimo concludere sul perché questa
rete non sia stata smantellata dalle istituzioni politiche
occidentali più vicine ai valori democratici e quindi contro
il genocidio, basterebbe citare un esempio. L’ex
amministratore delegato della Cabot Corp., Sam Bodman,
è stato nominato nel 2004 Ministro per l’energia del
governo Bush (per dubbi meriti, dato che la Cabot è stata,
sotto Bodman, una delle aziende più inquinanti degli Usa)
e l’attuale vicepresidente e consigliere generale della Sony,
Nicole Seligman, è stata consigliere legale di Bill Clinton.
Come scrisse Luc de Clapiers de Vauwenargues, «Ogni
ingiustizia ci offende, quando non ci procura alcun
profitto».
30 SETTEMBRE 2007 ❖ DOMENICA7
N
Africa ❖ UN’EMERGENZA IGNORATA DAL MONDO
Congo,quandoilgenocidio
èuninvestimentoduraturo
Crisi ❖ FIAMMINGHI E VALLONI VIVONO (IN PACE) SENZA UN GOVERNO NAZIONALE
IlBelgiospaccatoindue
Quindisipuò“cancellare”
di SILVIA MARCHETTI
Altro che Europa unita. Mentre avanza (con
forza) l’allargamento a Est, il cuore del
Vecchio Continente è dilaniato da spinte
secessioniste e rivendicazioni etnico-linguistiche.
In pericolo è il concetto stesso di nazione. Eh già,
perché non c’è soltanto la Padania, il Sud Tirolo o
il Friuli Venezia Giulia che reclamano maggior
indipendenza e la libertà di decidere da quale
“parte” della frontiera stare. Insomma, l’Italia non
è l’unico Paese europeo in preda a ciò che
possono essere chiamati oggi “i moti
insurrezionalisti” del Terzo Millennio. C’è la
Spagna tormentata dalla questione basca, la
Francia messa alle strette dall’isola ribelle della
Corsica, l’Inghilterra e la Scozia, la Grecia e Cipro,
ma il caso forse più eclatante è quello del Belgio
diviso in fiamminghi e valloni. I primi si trovano
prevalentemente al Nord, discendono dagli
olandesi (parlano una lingua simile) e votano per
i partiti fiamminghi; i secondi abitano nel Sud,
sono francofoni (lontani parenti dei galli), e
votano per i partiti valloni. Una frammentazione
linguistica, culturale, politica e geografica. Ma
anche economica: il nord, con il grande porto di
Anversa, beneficia dell’influsso dei Paesi Bassi e
dello sbocco al mare ed è più ricco del sud, che
ha l’unico vanto di ospitare la capitale (europea)
Bruxelles, con la sua atmosfera internazionale, le
moules, le frites e la Grand Place.
Così è stato per secoli, dai tempi
dell’indipendenza del Belgio del 1831, ma oggi la
frattura tra nord e sud è precipitata in una vera
crisi politica. Dal 10 giugno, ossia da più di tre
mesi, i belgi non hanno un governo: in virtù del
particolare sistema elettorale, i partiti fiamminghi
e i partiti francofoni non riescono a formare una
maggioranza necessaria a governare il Paese. Ma
poco importa: i due gruppi conducono vite
parallele e il fatto che non ci sia un governo
(nazionale) non sembra turbarli più di tanto.
Ciascuno si sente rappresentato a sufficienza dal
proprio partito di riferimento. A tal punto che il
quotidiano britannico The Economist titola
provocatoriamente “È giunta l’ora di abolire il
Belgio”, un Paese che avrebbe “fatto il suo
dovere” e che non ha oggi più ragione di esistere
se non come quartiere generale dell’Unione
europea. I belgi, insomma, non hanno bisogno
del Belgio: sarebbe più facile per loro creare due
nuovi mini-Stati o fondersi con la Francia e
l’Olanda (sempre se sono i benvenuti).
Dopotutto, lo stesso premier designato, Yves
Leterme, che a luglio fece una gaffe sbagliando
l’inno nazionale, crede che i belgi non abbiano
niente in comune eccetto «il re, la squadra di
calcio e alcune birre» e descrive il proprio Paese
come «un incidente della Storia». A. Insomma, il
Belgio è oggi uno Stato in cui il potere è stato così
devoluto a livello territoriale che a livello centrale
c’è praticamente il vuoto.
E la frattura inter-linguistica si allarga. In una
scuola media vicino a Bruxelles agli insegnanti è
stato imposto di parlare soltanto in francese ai
genitori che sono di madre lingua fiamminga,
mentre in un distretto di polizia sono state
aumentare le buste paga a tutti i poliziotti che
imparano a parlare più lingue europee e non
soltanto l’olandese. Casi estremi che tuttavia
fanno capire come prima di sentirsi belgi, i
cittadini si identificano nel ceppo vallone o
fiammingo. A tal punto che l’orgoglio etnico
trova la sua massima espressione nelle feste
tradizionali che vengono organizzate ogni anno
tra fiumi di birra, musica folk, riti pagani e
omaggio alle vecchie divinità. Proprio come
accade alle grigliate “celtiche” della Lega.
La prossima kermesse del popolo Vallone, una
tre giorni di festeggiamenti con concerti e danze, è
in programma per fine mese in un bosco fuori
Bruxelles e si preannuncia di fuoco visto il
delicato momento politico. Insomma, i vecchi
rancori non si sono estinti, anzi. Nonostante i
matrimoni misti tra francofoni e fiamminghi, il
problema dell’appartenenza resta e aumenta con
il prolungarsi del vuoto governativo. E così,
paradosso vuole che oggi la più profonda
disgregazione identitaria del Vecchio Continente
avvenga proprio nel cuore di uno dei Paesi
fondatori dell’Unione europea: il Belgio, sede
delle istituzioni comunitarie e faro per il resto
dell’Europa.
Quasi sette
milioni
di persone
morte a causa
delle guerre
sostenute
dalle potenze
occidentali
per il possesso
delle ricchezze
minerarie
di LIVIA BELARDELLI
uardo la mia città fra le rovine silenziose,
eppure una volta qui fiorivano i parchi e
i viali, e noi uscivamo a passeggiare
lungo i viali (…) Groznyj è una città dei
sogni e dei desideri irrealizzabili»: così fa
una canzone di Timur Mucuraev,
popolare cantautore ceceno, e la sua
melodia, assieme alle voci dimenticate
di un popolo, si perde tra le macerie e gli
orrori della Cecenia “pacificata”. Tra
queste voci, in un coro disperato di
testimonianze simili e similmente
terrificanti, rivivono anche le storie di
giovani e giovanissimi che, nei loro
emozionanti componimenti scolastici,
raccontano la propria esperienza di vita
in un paese drammaticamente immerso
nella morte.
«In che cosa siamo peggiori? Perché ci
succede tutto ciò?» si domanda
candidamente Larisa Ajubova
abbandonando appena in tempo la città
di Groznyj prima che i bombardamenti
dell’ottobre 1999 provocassero uno
sterminio di massa.
E mentre il genocidio ceceno viene
oscurato dal Cremlino, dimenticato
dall’Occidente, quella guerra
formalmente finita, durata più di un
decennio, continua ancora oggi
“silenziosa” accanto al processo di
ricostruzione, tra sparizioni, spedizioni
punitive, stupri e pestaggi.
Nelle pagine di La Cecenia dei bambini
(Einaudi), antologia di racconti curata
da Francesca Gori, il silenzio viene
finalmente rotto dalla voce di chi è nato
respirando la guerra, camminando a
braccetto con la morte, abituato ad una
vita la cui felicità nasce dalla
«consapevolezza di essere ancora vivi».
Si tratta di bambini e adolescenti che
non hanno sentito parlare della guerra
dalla stampa e nemmeno sbirciando i
titoli di un telegiornale, ma che spiegano
come «la nuova generazione dei ceceni
l’ha conosciuta non dai libri o dai film –
essa ha attraversato come un turbine
terribile i nostri destini, le nostre vite».
E così un conflitto sepolto nell’oblio,
soprattutto ora che non si svolgono più
massicce operazioni militari e non
scoppiano più bombe, torna a farsi
sentire attraverso le testimonianze di
narratori non professionisti che, pur
senza la carica di denuncia di Anna
Politkovskaya o dell’ex spia del kgb
Aleksandr Litvinenko, accomunati dalla
medesima sorte, sono riusciti ad essere
altrettanto efficaci.
La prima guerra cecena scoppiata nel
1994 e la seconda iniziata nel 1999,
richiamano inevitabilmente alla
memoria le persecuzioni e la
deportazione del 1944 quando un
intero popolo venne strappato dalla
propria terra e la gente arsa viva come
nell’eccidio efferato degli abitanti del
villaggio di Chajbach. Le emozioni si
fondono in un’unica memoria, in un
unico passato recentissimo di cui i
piccoli protagonisti si fanno testimoni
storici raccontando le proprie esperienze
unite a quelle terribili di nonni e
bisnonni.
«Mi sembrava di essere svuotata di ogni
sentimento. Provavo soltanto voglia di
morire» racconta una giovane impotente
di fronte alla morte del nonno.
Ma l’enormità della tragedia che questi
bambini hanno sopportato non ha
spento la speranza nel futuro.
«Siamo un popolo forte, qualunque cosa
possano farci il nostro spirito non si
piega. E noi crediamo che la nostra
Cecenia rinascerà dalla cenere» spiega
uno di loro.
Un ottimismo portato avanti dal motore
del senso di identità che si fa strada nella
consapevolezza di un passato atroce che
non può e non deve offuscare il futuro.
Anche il sentimento familiare si fa più
forte, rinasce dalle ceneri di nuclei
familiari distrutti, nelle testimonianze di
ragazzi che hanno assistito smarriti alla
morte di genitori e fratelli.
«Volevamo vivere nonostante tutto!
Ogni tanto avevamo così voglia di
ridere! (…) Così poca gioia ci è stata
data e noi siamo stanchi della
disperazione e della sofferenza eterna!»
Dal terrore alla speranza di un futuro
migliore: a dirlo sono le nuove
generazioni.
LaCecenia
salvata
daibimbi
«G
È la nuova generazione che conserva e tra-
manda la memoria di una tragedia. E co-
sì salva dall’oblio il massacro. Dalle cene-
ri della guerra una nuova speranza.
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