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Cecchini di una guerra possibile
di Luigi Manconi
Il manifesto - Edizione del 28.07.2018
Sono la persona al mondo che meno crede alle teorie e alle sub-teorie del complotto e che meno è
sensibile alle ideologie e alle cripto-ideologie della cospirazione. Al punto che quando – in occasione di
quelle due o tre circostanze nel corso di un’intera vita – mi è capitato di essere sfiorato da una qualunque
forma di macchinazione, ci sono cascato dentro con tutte le scarpe. Si può facilmente immaginare, dunque,
quanto abbia resistito agli argomenti di un ottimo giornalista come Paolo Brogi che, nei giorni scorsi,
quando un proiettile sparato da un’arma ad aria compressa ha colpito una bimba di 15 mesi, ha
minuziosamente ricostruito l’elenco dei più recenti episodi simili. Ed eccolo, quell’elenco.
Nello scorso gennaio, a Napoli, un bambino straniero viene colpito alla testa da un piombino. Poi, nel corso
dei mesi successivi, le aggressioni si sono ripetute in varie città. Bersagli sono ora immigrati e ora rom,
come la bambina di cui già si è detto. L’altro ieri, a Caserta, un richiedente asilo, viene colpito in pieno volto
da due giovani a bordo di un motorino. E, infine, ieri mattina, a Vicenza, un operaio originario di Capo
Verde, sospeso su una pedana mobile a 7 metri di altezza, viene colpito da un proiettile sparato da un
uomo che spiega: «Miravo a un piccione». Complessivamente, le persone colpite da armi pneumatiche dal
gennaio 2018 a oggi sono state undici.
Dunque, in Italia qualcuno ha pianificato una serie di attentati con armi ad aria compressa contro immigrati
e rom? Questo si domanda Paolo Brogi e sembra dare in qualche modo una risposta prudente ma positiva.
Io resto scettico, ma la mia interpretazione dei fatti è, per certi versi, perfino più inquietante. Ritengo, cioè,
che quelle aggressioni siano il frutto di una terribile dinamica di emulazione. Una vera e propria
competizione silenziosa tra oscuri cecchini, dissimulati nella vita sociale e mossi da un rancore criminale e
meschino nella sua anonima codardia. Certo, andrebbe verificato quale sia il numero totale degli attentati,
realizzati con quelle stesse armi e non indirizzati contro bersagli “etnici”: ma una prima e sommaria
indagine sembra evidenziare come la componente razziale sia sovrarappresentata.
Dunque, sembra assai probabile che in più luoghi del nostro Paese, più soggetti decidano di individuare e
colpire bersagli immediatamente identificabili come estranei alla popolazione autoctona. Sia chiaro: non
siamo ancora a una vera e propria “caccia all’uomo nero” ma già si evidenziano numerosi segnali del
possibile manifestarsi di una simile tendenza. E questa attività, per giunta, trova nel tipo di arma “minore”
utilizzata non solo il suo marchio e la sua identificabilità pubblica, ma anche, per così dire, la sua
attenuante. Più che una azione di guerra, l’annuncio di una guerra possibile. Una strategia
dell’intimidazione e della minaccia, altamente pericolosa e cruenta, ma non ancora violenza dispiegata.
Dopo tutto si tratta di pistole e fucili ad aria compressa. E di ferite non mortali (anche se il morto o
l’invalido permanente ci può sempre scappare). E’ proprio il fatto che non sia ancora una fase di guerra
aperta a limitare la portata dei rischi e a incrementare il numero degli attentatori e degli aspiranti
attentatori.
Il pericolo appare minore e più controllabile e meno rilevanti le conseguenze. Si tenga conto, infatti, che la
detenzione di quel tipo di pistola o di fucile non richiede porto d’armi ma solo un documento d’identità al
momento dell’acquisto (almeno fino ad una media potenza). E questo rende non solo facilmente
accessibile la disponibilità di quelle armi, ma anche più occultabile il loro possesso e utilizzo. E, soprattutto,
chi vi ricorre può arrivare a pensarsi come il necessario diffusore di un allarme o uno strumento di
prevenzione e non certo come un potenziale omicida volontario. Insomma, come fosse il combattente di
un microterrorismo latente e difensivo che può arrivare a colpire una bambina fino a paralizzarla, così,
quasi per gioco. Uno sport estremo: una guerra civile a bassissima intensità.

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