Project Work sul rapporto tra Industria Alimentare e Grande Distribuzione Organizzata a cura dei partecipanti al Master ISTUD in Food & Beverage Management: Mirco Bagnara, Alice De Franceschi, Luca Gorla, Marco Manzini ed Elettra Pasti
Organizzazione oltre la strategia: diversity management
Rapporto tra GDO e industria alimentare
1. KIA TREND
Project work “KiA – Knowledge in Action”
Il Rapporto tra Industria Alimentare
e GDO in Italia e all’Estero
Master in Food & Beverage Management 2019-2020
A cura di:
Mirco Bagnara
Alice De Franceschi
Luca Gorla
Marco Manzini
Elettra Pasti
2. Indice
1. Introduzione ............................................................................................................................ 3
2. L’Industria Alimentare ............................................................................................................. 4
2.1. Situazione globale e focus italiano ...................................................................................... 4
2.1.1. Tasso di concentrazione del comparto alimentare ............................................................. 4
2.1.2. Certificazioni di Qualità dei prodotti alimentari italiani ...................................................... 5
2.2. Canali Distributivi dell’industria Alimentare ........................................................................ 6
3. Grande distribuzione organizzata (GDO) .................................................................................. 8
4. Rapporti tra l’industria alimentare e la GDO .......................................................................... 10
4.1. I livelli di negoziazione ....................................................................................................... 10
4.2. Sconti e Trade spending .................................................................................................... 11
4.3. Marca del Distributore o Private Label .............................................................................. 12
4.4. Casi di rottura del rapporto ............................................................................................... 14
5. Ripercussioni del rapporto industria-GDO sulla filiera ............................................................ 16
6. Conclusioni ............................................................................................................................ 17
7. Bibliografia e Sitografia .......................................................................................................... 18
3. Il rapporto tra Industria Alimentare e GDO in Italia e all’Estero
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1. Introduzione
Il primo negozio specializzato nella vendita di prodotti alimentari dove il cliente poteva servirsi
da solo (self-service) nasce nel 1916 negli Stati Uniti con il nome di Piggly Wiggly. A seguire,
nel 1930 sempre negli USA, nasce il primo supermercato chiamato King Kullen e solo nel 1957
a Milano si sviluppa il primo grande magazzino gastronomico italiano con il nome di
‘Supermarket’ (oggi conosciuto come Esselunga) (Liberti & Ciconte, 2019).
L’avvento dei supermercati ha modificato il comportamento di acquisto dei consumatori e
controbilanciato il potere contrattuale delle imprese produttive oltre ad aver causato una
progressiva riduzione delle vendite eseguite tramite la distribuzione tradizionale (per esempio
attraverso le botteghe). Quest’ultimo fenomeno ha portato alla cessione di molti esercizi
commerciali a favore delle catene distributive o la loro trasformazione in punti vendita della
GDO, modificando drasticamente il format distributivo, la formula organizzativa e i criteri
gestionali esistiti fino ad ora.
Oggi, attraverso la grande distribuzione passa il 70% degli acquisti alimentari, rendendo
essenziale per l’industria alimentare sfruttare questo canale distributivo per la vendita dei
propri prodotti. La continua crescita della GDO in termini di dimensione e concentrazione ha
generato lo spostamento del potere contrattuale dall'industria produttrice alle insegne della
grande distribuzione (AA.VV., 2017).
Studiare il rapporto e i tipi di negoziazione che avvengono tra le aziende produttrici e la grande
distribuzione organizzata risulta quindi fondamentale per capire quali sono i key players che
detengono il potere contrattuale, in che termini viene esercitato e quali sono i principi
fondamentali da tenere in considerazione durante la commercializzazione dei prodotti.
In seguito sono spiegati i brevemente i contenuti dei vari capitoli per avere un’idea di che cosa
sarà trattato in questo report. Nel secondo capitolo si analizza l’industria alimentare a livello
globale (con particolare riferimento alla situazione italiana) e i canali distributivi tramite cui il
prodotto arriva all’acquirente finale. In seguito, nel terzo capitolo, viene esaminata la
condizione della GDO in Italia, come è strutturata e quali sono i players più importanti. Nel
capitolo successivo viene trattato il rapporto tra l’industria alimentare e la GDO, l’equilibrio
precario tra le due e le dinamiche in fase di negoziazione, con un focus specifico sulla
scontistica e sul fenomeno del trade spending. A seguire viene esposto il tema della private
label, che rappresenta un altro punto critico della relazione tra le due. Il quinto capitolo infine
presenta le ripercussioni del rapporto a monte della filiera produttiva, analizzando la crescente
importanza che stanno assumendo la trasparenza e la tracciabilità del prodotto per il
consumatore, sia dal punto di vista della sicurezza alimentare che per quanto riguarda la
sostenibilità sociale.
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2. L’Industria Alimentare
Con il termine industria alimentare si fa riferimento “all’insieme di tutte le imprese che si
occupano della produzione di bevande o della realizzazione di altri prodotti finiti e semilavorati
attraverso la lavorazione e la trasformazione di prodotti provenienti dalle attività primarie quali
l’agricoltura, la zootecnica, la silvicoltura e la pesca, destinati al consumo umano o animale.”
(Treccani, 2012) Questo comparto svolge in Italia un ruolo di fondamentale importanza
nell’economia nazionale.
2.1. Situazione globale e focus italiano
Secondo i dati ISTAT 2016, in Italia l’industria alimentare è al secondo posto per numero di
imprese (56'750). Di queste, la maggior parte (94%) opera nel settore Food mentre la restante
parte opera nel comparto Beverage.
L’industria alimentare si colloca inoltre al primo posto nel settore manifatturiero per fatturato
globale. Nel 2017 il fatturato del comparto si è attestato attorno a 137€ mld e nel 2018 ha
raggiunto i 140€ mld. (Srl, 2017)
Analizzando il contesto a livello europeo, l’industria alimentare italiana si inquadra come
secondo player dopo la Francia per numero di imprese, terzo dopo Francia e Germania per
numero di occupati e quinto dopo Francia, Germania, Regno Unito e Spagna per valore
aggiunto generato. (Caroli, Brunetta, & Valentino, 2019)
Osservando l’andamento degli ultimi anni si rileva una crescita costante del settore industriale
alimentare. Un‘indagine svolta dal Food Industry Monitor (2019) evidenzia, in relazione al
biennio 2019-2020, previsioni positive per il comparto agroalimentare. Nel corso del 2018,
infatti, questo settore è cresciuto del +3,1%, un valore sensibilmente superiore rispetto
all’andamento del PIL italiano, e il trend sembra destinato a crescere nel 2019 e 2020 a tassi
superiori al 3% annui.
2.1.1. Tasso di concentrazione del comparto alimentare
Il 70% dei prodotti alimentari presenti oggi in commercio appartiene a 500 marchi gestiti da 10
multinazionali denominate i Big 10 (vedi Figura 1): Nestlé, Pepsico, Coca Cola, Mondelez,
Kellog’s, Unilever, Danone, Mars, General Mills e Associated British Foods generano un
fatturato complessivo di oltre 450 miliardi di dollari l’anno. Queste aziende sono cresciute fino
a diventare multinazionali attraverso fusioni e acquisizioni, come nel caso di Nestlé, che solo
in Italia ha inglobato marchi come Buitoni, Perugina, Maggi e Acqua Vera. L’unica grande
azienda italiana che si avvicina per ricavi ad una delle Big 10 è la Ferrero, con un fatturato
annuo di circa 10 miliardi di dollari, poco meno dei 13 miliardi annui della Kellog’s. (Griseri,
2014)
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Figura 1: Le prime 10 multinazionali dell'alimentare per fatturato nel mondo (Griseri, 2014).
Il fenomeno della concentrazione dei brand riguarda praticamente tutti i settori alimentari,
fresco e confezionato. In Italia questa tendenza è meno marcata a causa della presenza
preponderante di piccole e micro imprese che ne limitano l’efficacia. Queste nel 2016
rappresentavano infatti circa il 98% delle industrie del settore, valore che negli ultimi anni sta
diminuendo a favore di quelle medie e grandi (Caroli, Brunetta, & Valentino, 2019).
2.1.2. Certificazioni di Qualità dei prodotti alimentari italiani
La peculiarità del tessuto imprenditoriale italiano che da’ vita a un mercato articolato e
frammentato ha portato i diversi produttori italiani a impegnarsi per valorizzare i propri prodotti,
al fine di ottenere vantaggi competitivi rispetto a quelli stranieri. Le eccellenze produttive
italiane hanno ottenuto un numero significativo di certificazioni DOP (Denominazione di
Origine Protetta), IGP (Indicazione Geografica Protetta) e STG (Specialità Tradizionale
Garantita). Questi marchi nascono dal Regolamento CEE n. 2081/92, oggi Reg UE n.
1151/2012 e proteggono le produzioni tradizionali, valorizzando le specificità dei prodotti
agroalimentari e la loro connessione con il territorio. I prodotti con queste certificazioni di
qualità assicurano al cliente due principali caratteristiche: la tracciabilità e la sicurezza
qualitativa del prodotto.
L’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di prodotti DOP e IGP, superando il 20% del
totale dell’Unione Europea. Aderiscono a queste denominazioni di origine oltre 70.000 aziende
agricole e quasi 6.000 aziende di trasformazione. Il 25% dei prodotti certificati è destinato
all’esportazione. (CSQA, 2019)
In generale, sui mercati internazionali, i prodotti agroalimentari italiani sono percepiti come
qualitativamente superiori, tuttavia ci sono tre fattori che stanno mettendo a rischio il vantaggio
competitivo delle nostre imprese:
1. il forte aumento degli operatori e dell’offerta di prodotti che determinano un livello
crescente di concorrenza e quindi la necessità di migliorare l’efficienza produttiva e
logistica delle imprese italiane;
2. il bisogno di adattare le caratteristiche dell’offerta in base alle diverse culture alimentari
come conseguenza della globalizzazione;
3. un certo declino dell'immagine dell’Italia che va a riflettersi sui prodotti più
rappresentativi.
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Per contrastare questo insieme di fattori le industrie italiane devono necessariamente
intraprendere azioni che invoglino il consumatore a scegliere prodotti made in Italy. Aumentare
la qualità percepita del prodotto, attuare progetti di sostenibilità e migliorare la trasparenza
delle imprese sono solo alcune delle strategie da mettere in atto per aumentare e migliorare
la presenza dell’Italia e le quote di mercato delle imprese italiane sui mercati esteri. (Caroli,
Brunetta, & Valentino, 2019).
2.2. Canali Distributivi dell’Industria Alimentare
Con il termine “canali distributivi” si fa riferimento agli intermediari che consentono il passaggio
dei beni dal produttore all’acquirente finale. L’intermediario commerciale è un individuo o
un’organizzazione che opera il passaggio del prodotto dall’industria al mercato, sia
acquistando per poi rivendere, come nel caso dei grossisti, sia negoziando le vendite per conto
di terzi, come nel caso di agenti e broker.
Si può fare una prima classificazione dei canali distributivi in base alla presenza o meno di
intermediari. Tali canali si distinguono quindi in due tipologie:
1. Il canale diretto, che si ha quando tra impresa e acquirente finale non vi sono
intermediari;
2. il canale indiretto, che si ha invece quando fra impresa e acquirente finale si
inseriscono uno o più intermediari. (Viva, 2019)
Per far fronte alle esigenze di un mercato sempre più complesso in termini di players e
consumatori, la scelta da parte delle industrie alimentari di quali canali distributivi utilizzare per
commercializzare i propri prodotti è un fattore essenziale per la sopravvivenza e la crescita
delle stesse.
I canali più utilizzati dall’industria agroalimentare sono perlopiù indiretti e tra questi si
distinguono:
1. Traditional Trade (o Normal Trade)
2. Cash&Carry
3. Modern Trade, attraverso la GDO (Grande Distribuzione Organizzata)
4. Ho.Re.Ca. (Hotellerie-Restaurant-Café)
5. Vending Machine
6. E-commerce
La vendita al dettaglio (traditional trade) consiste nella distribuzione dei prodotti ai consumatori
attraverso piccoli rivenditori che tuttavia sono in grado di assorbire il 26% circa della quota di
mercato Food.
Raramente si ha un rapporto diretto tra industria alimentare e dettaglianti principalmente a
causa della ridotta capacità di acquisto di volumi dei singoli punti vendita. Questi ultimi, quindi,
si rivolgono a degli intermediari per procurarsi le merci da vendere nei propri negozi, i grossisti.
Questa formula distributiva viene chiamata Cash and Carry, è sfruttata da utenti professionali
in possesso di partita IVA e conta circa 4,2 mld di fatturato.
Il modern trade o GDO è invece caratterizzato da una maggiore organizzazione, gestione
logistica e distributiva. È il canale distributivo per la vendita dei propri prodotti e sarà trattato
nel dettaglio nei capitoli successivi.
Un altro importante trend in crescita è rappresentato dal numero di pasti consumati fuori casa
che si stima oggi essere il 33%. Protagonista di questo mercato è sicuramente il settore
Ho.Re.Ca, che indica la distribuzione dei prodotti a hotel, ristoranti, bar e attività analoghe con
un volume di affari di 76,4 mld di euro nel 2015 rispetto ai 115 mld di euro generati dalla GDO
e vendita diretta (AA.VV., 2017).
Per aumentare le vendite, l’industria alimentare può sfruttare l’utilizzo di distributori automatici
e l’e-commerce, rispettivamente due canali distributivi in netta crescita. I prodotti
maggiormente erogati dalle vending machine sono bevande calde e fredde, ma negli ultimi
anni la gamma di prodotti disponibili si è ampiamente estesa anche a snack, merendine
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confezionate e prodotti freschi per un giro di affari che ha sfiorato i 4 mld di euro nel 2018
(AA.VV., 2019)
Per quanto riguarda l’e-commerce, stando ai dati dell’osservatorio e-commerce B2C del
politecnico di Milano, il settore Food&Grocery nel 2019 è cresciuto del 38% (Fraternali, 2018),
andamento in linea con quello del 2018 in cui era cresciuto del 34% (AA.VV, 2019) Fare la
spesa online non è più un’eccezione, ma è diventata un’attività comune poiché l’E-commerce
offre vantaggi non indifferenti, come l’abbattimento dei costi e la possibilità di fare acquisti in
qualsiasi luogo e a qualsiasi ora. Si pensi ad Amazon, che da piccolo E-commerce
specializzato nella vendita di libri è diventato il colosso per eccellenza delle vendite online. La
creatura di Jeff Bezos oggi costituisce una minaccia per le grandi insegne della GDO. Grazie
all’acquisizione di Whole Foods nel 2017, Amazon si è inserito anche nel settore
Food&Grocery. Al contrario, le insegne della GDO rispetto ad una realtà come Amazon non
riescono a sfruttare nel migliore dei modi il canale digitale. Una delle ragioni è da attribuire al
fatto che il consumatore fidelizzato ad Esselunga, Coop o Conad nasce offline, tra le corsie
del supermercato ed ha sviluppato nel corso degli anni un rapporto di tipo in-store con
l’insegna. Il cliente di Amazon fin dal principio nasce esclusivamente come cliente online, di
conseguenza, nell’ottica di fare acquisti si mostra più propenso a dare credito a una
piattaforma digitale poiché ne conosce i servizi e si fida dell’aspetto logistico e del sistema di
pagamento (Fraternali, 2018).
La grande distribuzione organizzata (GDO) risulta comunque essere il canale distributivo
attraverso il quale passa la maggior parte del Food&Beverage derivante dall’industria
alimentare rendendo essenziale sfruttare questo canale distributivo per la vendita dei propri
prodotti.
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3. Grande distribuzione organizzata (GDO)
Con il termine grande distribuzione organizzata (GDO) si identifica un insieme di punti vendita
a libero servizio nei quali il consumatore si può rifornire di generi alimentari e non alimentari di
largo consumo (AGCM, 2013).
La GDO si compone della “Grande distribuzione” (GD) e della “Distribuzione organizzata”
(DO). Nel primo gruppo si trovano le catene di punti vendita che aderiscono alle insegne
appartenenti a un’unica proprietà. Esempi in Italia di queste catene sono il gruppo Esselunga
e Carrefour. Al contrario, nella “Distribuzione organizzata” (DO) le catene tendono a
centralizzare le funzioni aziendali (per esempio l’amministrazione) creando diversi gradi di
integrazione tra gli operatori. Tra le catene distributive della DO rientrano Coop e Conad
(Brescia, 2017).
La GDO opera in Italia secondo quattro diversi format distributivi classificati principalmente in
base alla dimensione delle superfici di vendita.
Figura 2: Classificazione punti vendita (AGCM, 2013).
Come si può osservare dalla Figura 2, alla tipologia distributiva chiamata “Libero servizio”
appartengono la categoria dei minimarket e delle superette. I primi sono punti vendita di
dimensioni che vanno dai 100 ai 200 mq mentre i superette hanno superfici fino a 400 mq e
offrono una gamma di prodotti relativamente ampia, ma con poche marche per ciascuna
tipologia. I supermercati si dividono in piccoli, medi e grandi a seconda delle dimensioni di
vendita (400-2500 mq) e hanno un vasto assortimento di prodotti alimentari e non. Gli
ipermercati sono considerati dei supermercati con una superficie di vendita superiore ai 2.500
mq. Infine si trova il discount i cui tratti caratteristici sono la gamma di prodotti limitata, la sua
politica di prezzo (solitamente più bassa) e la tipologia dell’assortimento (Brescia, 2017)
(AGCM, 2013).
Nel Grafico 1 sono mostrati i maggiori key players in Italia e la quota di mercato che ciascuno
occupa. Conad, con l’acquisizione di Auchan lo scorso maggio, ha raggiunto una quota di
mercato del 19%, superando Coop che rimane a 14,2% (Allievi, 2019). In successione segue
Selex 9.9%, Esselunga 9%, Gruppo Carrefour 6,1%, Eurospin 5,6% e altri distributori a seguire
con meno del 4% (Brescia, 2017).
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Grafico 1: Key players in Italia (Rielaborazione da (Brescia, 2017))
Dal Grafico 1 si può inoltre notare come in Italia il mercato della GDO sia particolarmente
frammentato, nessuna impresa detiene una quota di mercato significativa e non può
influenzare il risultato del settore. Questo si può osservare anche dal Grafico 2 che mostra il
confronto della quota detenuta dai primi tre operatori in Francia, Germania, Spagna, Regno
Unito e Italia. Infatti, l’Italia ha un grado di concentrazione e una presenza di grandi gruppi
decisamente inferiore rispetto ai principali Paesi Europei, anche se la recente acquisizione di
Auchan da parte di Conad ha in parte ridotto notevolmente questo gap di circa 8 punti
percentuale passando da 33 a 41 punti percentuale (Allievi, 2019). Nonostante la differenza
dello scenario italiano rispetto a quello estero, le dinamiche di contrattazione in Italia, malgrado
veda in gioco la presenza di più attori, sono del tutto simili agli altri Paesi europei. Questo è
dato dal fatto che la GDO ricopre la maggior parte del business dell'industria alimentare,
obbligandola di fatto a creare un rapporto commerciale e di negoziazione.
Grafico 2: Quota dei primi 3 distributori nelle vendite suddivisi per Stato ( (Allievi, 2019)
(AA.VV., 2017))
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4. Rapporti tra l’industria alimentare e la GDO
4.1. I livelli di negoziazione
Ante la stesura di un qualsiasi contratto tra GDO e industria alimentare sono presenti varie
forme di negoziazione dipendenti principalmente dalla dimensione economica delle parti in
causa. Entrambi gli attori infatti nel corso degli anni hanno cercato di rafforzarsi in termini di
“potere di negoziazione” tramite fusioni, assorbimenti e alleanze. Per contrastare questo
elevato potere contrattuale e ottenere delle condizioni migliori anche le GDO italiane hanno
stretto alleanze con quelle estere così da poter concentrare la domanda e ottenere condizioni
economiche migliori nei confronti di queste superpotenze. Questa alleanza si realizza in
termini di supercentrali europee di acquisto come AgeCore SA per Conad e Coopernic per
Coop Italia (Brescia, 2017). I fornitori con i quali effettuare trattativa vengono generalmente
individuati incrociando i fatturati di ciascuno di essi presso le catene associate alla
supercentrale e selezionando quelli di interesse comune per fatturato o volume di affari
generato. Per la GDO sarà più conveniente stipulare un contratto di fornitura a livello europeo
con un'industria alimentare se in termini logistici e dimensionali questa è in grado di fornirla.
Quindi in ordine di importanza riportiamo i livelli contrattuali presenti ad ora sul mercato:
1. Supercentrale europea: contratto a livello europeo dove si determina una percentuale
di sconto che verrà applicato a tutti i soci della supercentrale stessa,
indipendentemente dalla dimensione relativa di questi. Generalmente questo tipo di
contratto è considerato “bloccante” in quanto se non viene chiuso da entrambe le parti
porta al blocco della fornitura di quel determinato prodotto. Questo contratto ha durata
di due o tre anni.
2. Contratto nazionale o contratto quadro: questo tipo di contratto viene stipulato
direttamente tra industria alimentare e centrali di coordinamento. A questo livello di
contrattazione si determina generalmente il prezzo di vendita e le quantità minime di
acquisto; si programmano inoltre il numero e l’entità delle promozioni a livello
nazionale. Anche in questo caso si tratta di un contratto “bloccante” mentre la durata è
annuale.
3. Consorzi periferici o negoziazione di secondo livello: a questo livello di contrattazione
partecipano singolarmente i consorzi periferici o le cooperative associate sotto
l’insegna nazionale, in questa sede si determinano le offerte riservate solamente al
singolo gruppo. Anche in questo caso il contratto è di tipo annuale e può essere
bloccante in relazione alla importanza che ha quel gruppo per la centrale nazionale.
4. Contrattazione a livello di punto vendita: ultimo livello di negoziazione, a questo livello
partecipano la figura del capo reparto o del buyer locale ed un rappresentante della
azienda fornitrice. Ciò accade soprattutto per i grandi ipermercati che possiedono una
maggiore autonomia nella impostazione degli assortimenti e nella definizione delle
attività di comunicazione locale. Il tema della discussione riguarda la possibilità di dare
maggiore visibilità ad alcuni prodotti per quanto riguarda il posizionamento o anche
l’utilizzo di scaffalature o frigoriferi brandizzati.
Nel caso di catene più piccole della Distribuzione Organizzata il livello di contrattazione
può riguardare una gamma più ampia di prodotti e/o iniziative promozionali proprio in
virtù della maggiore autonomia di cui godono queste realtà.
La percentuale di acquisti che ciascuna catena fa transitare tramite supercentrale varia
notevolmente da catena a catena e da una supercentrale all’altra. Essa si aggira attorno al
50% dei prodotti complessivamente acquistati, l’incidenza più elevata risulta nei prodotti LCC
(Largo Consumo Confezionato), mentre è molto inferiore per prodotti freschi e locali (Viviano,
Gigio, Ciapanna, & Colonna, 2012).
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Le figure professionali che vengono generalmente coinvolte nelle contrattazioni sono buyer e
category manager e altre figure facenti parte del team per il prodotto specifico o categoria di
prodotto. In generale, per l’industria alimentare le figure coinvolte fanno parte del reparto
vendite, come il sales manager e l’account manager ed altre figure del team nelle aziende più
grandi. Questi players si occupano della gestione delle politiche di acquisto e di vendita di
ciascuna categoria di prodotti. Quando tuttavia si tratta di negoziazioni nei livelli più alti o con
i produttori maggiormente rappresentativi, considerando l’elevato valore della trattativa,
vengono coinvolti anche i responsabili della direzione acquisti e/o della direzione vendite. Alle
figure di buyer e category non è affidata solo la responsabilità nella trattativa ma anche la
gestione delle politiche di vendita di ciascuna categoria di prodotti come assortimenti, layout e
talvolta persino dei prezzi di vendita.
4.2. Sconti e Trade spending
Se da un lato le catene della GDO di sovente elaborano strategie di marketing indirizzate al
ribassamento dei prezzi per il consumatore finale (promozioni 3x2, prodotti “sottocosto” etc.)
con lo scopo di erodere quote di mercato alla concorrenza e incrementare il sell-out, dall’altro
le imprese dell’industria alimentare puntano a valorizzare i propri prodotti, affinché questi ultimi
siano presenti e accessibili al pubblico in quello che risulta essere il canale distributivo più
rilevante (Liberti & Ciconte, 2019). Seppur distinte, sia l’industria alimentare che le catene del
modern trade hanno in comune lo stesso obiettivo economico: garantirsi il margine di profitto
più alto possibile. La grandezza della fetta di guadagno varia da impresa a impresa, anche in
funzione del tipo di rapporto instauratosi nel tempo con le diverse insegne della GDO.
Nel caso dell’industria di marca, nella maggior parte dei casi, è proprio quest’ultima a
raggiungere un livello di profitability molto più alto rispetto a quello del retailer, sebbene ad
oggi i più illuminati del canale moderno stiano sviluppando un Marketing Mix per fare profitto
sostenibile anche attraverso le proprie private label. Senza ombra di dubbio, la partita tra
industria e trade risulta alquanto complessa e delicata, in quanto caratterizzata da equilibri
fragili e, molto spesso, precari. In questo rapporto, l’elemento che funge da ago della bilancia
è il peso del singolo attore in termini di potere contrattuale.
Di norma, imprese come Barilla o Ferrero nell’esercitare la loro forza negoziale possono far
leva su uno dei loro asset di maggior valore, ovvero la brand equity. Inoltre, tenere il passo
con i trend di mercato rimanendo coerenti con le proprie strategie di prezzo, senza cedere ad
accordi penalizzanti e senza sfociare nell’abuso di posizione dominante, può rivelarsi con
buona probabilità una scelta vincente per questo tipo di aziende. Viceversa, aziende del tutto
prive o dotate di un patrimonio di marca di basso valore saranno esposte con più probabilità a
condizioni contrattuali meno vantaggiose e correranno un maggior rischio di essere escluse
dallo scaffale del retailer (delisting), essendo più facilmente sostituibili. Ciò nonostante, come
vedremo in seguito, non mancano all’appello casi in cui è stata l’industria di marca ad essere
estromessa dal circuito distributivo di un’insegna della GDO. Episodi del genere accadono dal
momento che, in fase di contrattazione, fornitori e distributori non si limitano a definire solo
quelle condizioni di acquisto e vendita strettamente correlate alla fornitura, come ad esempio
il listino prezzi e il numero di referenze, ma si “battono” su più fronti. Di conseguenza, ciò
contribuisce a incrementare le aree di conflittualità.
Di fatto, l’accordo commerciale posto in essere generalmente è composto anche da una serie
di voci che riguardano principalmente sconti e contributi di varia natura. In linea di principio,
sconti e contributi possono essere fissi o variare in base al raggiungimento di uno specifico
obiettivo solitamente legato al fatturato o al volume di vendita. Nella fattispecie, per “sconto”
si intende una riduzione del prezzo di vendita della merce applicata dal fornitore al distributore,
mentre si parla di “contributo” per definire l’importo versato dal produttore per l’acquisto di un
servizio finalizzato a promuovere, esporre e, in generale, distribuire i propri prodotti all’interno
dei punti vendita del modern trade (AGCM, 2013). Tutte le attività di questo genere rientrano
nello spettro di azione di chi all’interno di un’impresa si occupa di trade marketing. Per trade
marketing si intendono tutte le attività di marketing rivolte al distributore, con l’obiettivo di
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incentivare quest’ultimo a inserire o a mantenere in assortimento i prodotti della propria
impresa, di assicurarsi una rotazione efficace dei prodotti all’interno dei punti vendita, evitando
rotture di stock. Questa strategia di sell-in supportata dal marketing è funzionale ad
incrementare la penetrazione della marca, aumentare la quota di mercato e attirare il maggior
numero di consumatori finali, accrescendo il fatturato (Cocuzza, Glossario Marketing, 2019).
Nel 2013, l’Antitrust ha condotto un’indagine conoscitiva che ha messo in luce alcuni aspetti
relativi al ruolo della GDO all’interno della filiera agroalimentare, e non solo. Lo studio ha
prodotto un lungo documento nel quale sono state catalogate le complesse pratiche
commerciali messe in atto nei contratti tra industria alimentare e modern trade. Dall’indagine,
infatti, sono state individuate le diverse tipologie di sconti generalmente applicati: sconti
condizionati (di fine periodo o anno), dipendenti da un target di fatturato o volume di vendita,
e incondizionati; sconti logistici, sconti finanziari e recupero marginalità.
Inoltre, sono stati riportati i vari tipi di contributi pattuiti, noti anche con il termine di trade
spending poiché dal lato dei fornitori rappresentano delle voci di spesa. Al tavolo di
contrattazione i contributi negoziati fino all’ultimo centesimo sono: operazioni volantino,
versamenti per l’inserimento di uno o più prodotti del fornitore all’interno di flyer promozionali;
attività di co-marketing e operazioni promo-pubblicitarie, operazioni attivate in collaborazione
tra distributore e industria per sviluppare piani promozionali e pubblicitari con l’intento di
potenziare le vendite di determinati prodotti, sfruttando il vantaggio di ripartirsi i costi. In questo
tipo di operazione rientrano, ad esempio, la vendita di prodotti del fornitore in formato speciale,
la vendita con gadget od operazioni a premio che prevedono l’affiancamento di loghi o prodotti
dell’industria a quelli del retailer (AGCM, 2013).
Tra le voci di contributo maggiormente conosciute rientra il listing o slotting fee, tariffa di
accesso richiesta al fornitore per inserire a scaffale nuovi prodotti. Il pagamento di questa fee
impegna il distributore a vincolare uno specifico spazio a scaffale (slot) per un prodotto ancora
sconosciuto ai consumatori, pronto per essere lanciato sul mercato per la prima volta.
Trattandosi di un prodotto il cui potenziale di vendita risulta ignoto, il listing fee viene
corrisposto a titolo di copertura del rischio commerciale assunto dal distributore, il quale
“sacrifica” una referenza, di cui è già noto il tasso di rotazione, per una la cui performance a
scaffale è ancora un’incognita. La somma versata varia in relazione a diversi fattori: il potere
contrattuale del fornitore che si traduce in brand awareness, la posizione e il tipo di esposizione
nel punto vendita, e il livello di copertura garantito dal trade (Cocuzza, 2019).
A questi si aggiungono: l’esposizione preferenziale, collocazione dei prodotti del fornitore in
punti particolarmente “caldi” del punto vendita, come ad esempio testate di gondola,
avancasse e isole; servizi di centrale, fee concessi per remunerare le attività delle centrali e
delle supercentrali. I contributi vengono versati per remunerare altri servizi tra cui la gestione,
il presidio e il mantenimento dell’assortimento, le nuove aperture e i cambi insegna; gli
anniversari, le fiere, le manifestazioni e gli eventi; il controllo qualità e la cessione dei dati.
L’indagine dell’Antitrust sopra citata ha stabilito che sconti e contributi incidono del 24,2% sul
fatturato che il fornitore ha con l’insegna cliente (AGCM, 2013). La numerosità delle poste da
trattare ai tavoli di negoziazione conferma quanto possa essere complessa la relazione tra i
due attori oggetto di studio, caratterizzata anche da rapporti piuttosto muscolari e da questioni
spinose.
4.3. Marca del Distributore o Private Label
La marca del distributore (MDD) è costituita da prodotti che si trovano nei punti vendita della
GDO con lo stesso marchio dell’insegna o con un marchio di fantasia. Si differenzia dalla
marca industriale (MI) la quale, al contrario, è un brand creato da un’impresa di produzione
(per esempio Barilla, Alce Nero) (ADM, 2019).
Come si può osservare in Figura 3, in Italia i prodotti MDD raggiungono nel 2018 una quota di
mercato media del 20%. Questa percentuale aumenta se si prendono in considerazione altri
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mercati come quelli di Germania e Regno Unito (Caputo & Bresesti, 2018) (Magazine F. ,
2019) (Bunte, 2011).
L’Italia è il paese europeo con la più bassa penetrazione della marca del distributore in quanto
è caratterizzata da un trade storicamente molto meno strutturato e dalla multicanalità.
Con questo termine si vuole alludere al fatto che l’Italia è composta da migliaia di comuni e
quindi il canale della vendita tradizionale al dettaglio copre circa 1/4 della distribuzione totale.
In questo modo, essendoci meno insegne (per esempio supermercati, ipermercati) rispetto ad
altri paesi, la private label sta entrando nel mercato più lentamente.
Figura 3: Private label-la quota di mercato per paese in volume (Magazine F. , 2019).
La MDD nasce con l’obiettivo di dare un’alternativa meno costosa ai noti brand preesistenti,
infatti è sempre stata associata a prodotti di minor valore rivolti ai clienti con scarso potere di
acquisto.
Oggi, con la MDD le insegne riescono a fidelizzare sempre di più il cliente aggiungendo valore
commerciale al proprio brand (brand equity), progettando packaging semplici e intuitivi e
creando linee diverse, come per esempio il biologico o il premium (GFK, 2017). Inoltre, poiché
la GDO utilizza co-packer al 91,5% italiani (soprattutto piccole e medie imprese), la MDD viene
identificata con il made in Italy (Caputo & Bresesti, 2018).
Utilizzando la fidelity card, una carta che premia gli acquisti dei consumatori, le insegne
possono tracciare quali sono i bisogni che hanno i loro clienti e soddisfarli in meno tempo
rispetto alle aziende produttrici. A conferma di questo si può pensare al caso di Coop che è
stata la prima insegna in tutta Europa a mettere il marchio “Palm free” su tutti i suoi prodotti,
osservando le dinamiche di acquisto dei suoi clienti (Coop, 2017).
La grande distribuzione organizzata riesce ad offrire, con le molteplici linee della sua private
label, prodotti differenziati per i consumatori con esigenze diverse e in continuo mutamento.
Facendo l’esempio di Esselunga, ai consumatori cosiddetti “prudenti”, i quali vogliono
risparmiare ma essere rassicurati sulla qualità, offre i prodotti a marchio che garantiscono
qualità e freschezza a prezzi competitivi, mentre per i “cacciatori” in cerca di prodotti a basso
prezzo è presente la linea SMART, economica e con un packaging minimale. Per gli “esperti”,
quella classe di consumatori attenta alle etichette, Esselunga ha ideato la linea Bio e
Naturama, prodotti a filiera controllata, e la linea TOP nella quale rientrano tutte le eccellenze
italiane. Esselunga, oltre ad essere retail sta diventando con il tempo lei stessa industria
alimentare, infatti ha un suo stabilimento produttivo (GFK, 2017) (Esselunga, 2019).
Sugli scaffali dei supermercati quindi, accanto a Coca-Cola, Barilla, Ferrero si trovano ormai
le marche della GDO (Terra, 2017). L’industria alimentare può quindi scegliere se differenziare
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due linee produttive (una per la private label e un’altra mantenendo il proprio brand) oppure
scegliere una delle due. La rinuncia al proprio marchio, specialmente se totale, può assicurare
grandi volumi di vendita, tuttavia si viene a creare una asimmetria contrattuale dove l’attore
principale è la GDO che controlla l’accesso nel mercato di altre miriadi di imprese. Alcune
aziende che hanno deciso di continuare a produrre con il proprio brand, ma anche di vendere
i loro prodotti a terzi, sono Bauli, Galbusera e Balconi. Questo meccanismo è chiamato
“scouting” ovvero l’azienda avendo capacità produttiva inutilizzata decide di produrre alcuni
prodotti per le insegne, aumentando così il fatturato.
4.4. Casi di rottura del rapporto
A causa dei grandi interessi in gioco, non sempre in passato il rapporto tra grande distribuzione
organizzata e industria alimentare ha avuto risvolti positivi. L’ente terzo che si occupa di
effettuare controlli e raccogliere denunce da una posizione o dall’altra è l’AGCM (Autorità
Garante della Concorrenza e del Mercato), che applica un complesso di norme giuridiche
chiamate Antitrust. Questa autorità amministrativa indipendente ha una funzione di tutela della
concorrenza e del mercato e vigila contro gli abusi di posizione dominante, intese o cartelli che
possono essere restrittivi verso la concorrenza, controlla le operazioni di concentrazione che
superano un certo valore e altre attività meno inerenti all’ambito trattato in questo progetto. La
complessità e la segretezza degli accordi fra le parti tuttavia non rende facile individuare la
linea sottile che esiste tra una normale negoziazione e una pratica scorretta. Di conseguenza,
sono necessarie numerose indagini al fine di stabilire una colpa ed eventualmente una
sanzione.
Si possono comunque distinguere due tipi di fallimento del rapporto: un fallimento dovuto al
non rispetto delle regole del libero mercato e un fallimento dovuto al mancato raggiungimento
di un accordo comune a entrambe le parti. Per quanto riguarda il mancato raggiungimento di
un accordo, spesso questa situazione si ritrova quando è presente una elevata differenza in
termini di potere contrattuale. Per semplificare, una qualsiasi insegna può fare a meno di un
piccolo fornitore così come una grande azienda nell’alimentare può fare a meno di una piccola
catena distributiva. Quando si tratta di un accordo tra grandi aziende di solito è invece
interesse di entrambe trovare un compromesso. Un’ eccezione storica a questa teoria viene
fornita dalla vicenda che nel 1984 ha visto l’uscita di Barilla dagli scaffali di Esselunga per
cinque anni. La causa risiede in una politica commerciale differenziata riguardante i prezzi tra
ipermercati e supermercati che l’azienda di origine parmense voleva imporre. Questa mossa
favoriva di fatto la concorrenza di Esselunga che aveva un numero maggiore di ipermercati.
Solo con l’ingresso in azienda di Giuseppe Caprotti, che ha intavolato una nuova trattativa con
Barilla quest’ultima è rientrata all’interno di Esselunga.
Sempre Esselunga nel 1998 è stata vittima in un caso di abuso di potere dominante che ha
interrotto il rapporto con Coca-Cola per due anni e mezzo. In questo caso il fallimento della
negoziazione è legato al mancato rispetto delle regole di mercato: Coca-Cola nel dettaglio
imponeva a Esselunga di aumentare del 25% lo spazio a scaffale di Fanta e delle Cole,
togliendo quindi spazio alla concorrenza a fronte di 11 miliardi di contributi. Inoltre, il colosso
americano voleva inserire frigo-vetrine all’interno degli store a suo piacimento e controllare gli
ordini, così da mantenere sempre pieni i magazzini di Esselunga. A fine novembre del 1998
Esselunga si aggrega a Pepsico nella denuncia nei confronti di Coca-Cola. L'Antitrust inizia
quindi le dovute indagini, e il 7 dicembre 1999 Coca-Cola viene definitivamente condannata a
pagare la multa di 30,6 miliardi di lire per abuso di potere dominante. A commento della
sentenza, Giuseppe Caprotti, vice-presidente e direttore commerciale di Esselunga, rilasciò
questa dichiarazione: "Nel caso di Coca-Cola ci siamo rivolti all'Autorità per salvaguardare la
libertà delle nostre scelte commerciali e difendere quelle dei consumatori, altrimenti
danneggiati dalla politica commerciale della multinazionale americana avente come obiettivo
l'eliminazione dei concorrenti sugli scaffali. Da notare che nel 1989 Coca-Cola era stata
costretta dall'Autorità europea della concorrenza ad impegnarsi a modificare le proprie
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politiche commerciali, che ha invece mantenuto inalterate fino alla sentenza di ieri. Questa
vicenda ci ha impegnato pesantemente per un lungo periodo, con un grosso dispendio di
energie molto gravoso per una piccola/media impresa italiana". L'anno successivo Coca-Cola
fece ricorso al tribunale regionale del Lazio che però confermò la condanna; successivamente
si rivolse anche al Consiglio di Stato, che però respinse la sua istanza. Il risultato pratico di
questa disputa è stata la nascita del marchio privato Esselunga nel segmento delle cole che
aveva come fornitore Cott (Caprotti, 2016).
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5. Ripercussioni del rapporto industria-GDO sulla
filiera
La dura negoziazione che avviene tra le aziende della GDO e le industrie alimentari, per
ottenere prezzi più vantaggiosi rispetto ai competitors, attiva un meccanismo di ricerca della
marginalità che si ripercuote su tutta la filiera produttiva. Le industrie di trasformazione, al fine
di non ridurre eccessivamente il loro margine di guadagno, cercano di reperire le materie prime
dalle aziende agricole al minor prezzo possibile. Queste, a loro volta, tagliano i costi sulla loro
prima voce di spesa: la manodopera. In tale contesto emergono diverse criticità associate allo
sfruttamento dei lavoratori nei campi, tra cui il lavoro sottopagato e i diritti negati, che
convergono nel cosiddetto caporalato (Ciconte & Liberti, 2017).
Con il termine caporalato si fa riferimento a un fenomeno di reclutamento in cui la manodopera
viene assunta senza rispettare i minimi salariali ed i normali canali di collocamento. I caporali
fungono da intermediari tra la forza lavoro e l’industria alimentare e, percependo delle tangenti
da quest’ultima, assumono i lavoratori in maniera illegale. Questa pratica viene messa in atto
da molti anni nei campi di coltivazione di pomodoro presenti nel Tavoliere delle Puglie, dove i
braccianti non solo vengono sfruttati con paghe al di sotto dei minimi salariali, ma si trovano
anche costretti a dare una percentuale al loro caporale. Nel 2016 è stata approvata dal
Parlamento una norma anti-caporalato che condanna non solo i caporali, ma anche le aziende
che rendono possibile l’insorgenza di questo fenomeno (Ciconte & Liberti, 2017).
In Italia i cinque players più importanti (Conad, COOP, Gruppo Selex, Esselunga ed Eurospin)
faticano ad assumersi le responsabilità da un punto di vista sociale, anche se con il tempo si
stanno facendo alcuni passi in avanti. In un’indagine condotta da (Oxfam, 2018), delle cinque
aziende sopra citate solo tre hanno intrapreso una politica rivolta verso la sostenibilità sociale
con diversi livelli di impegno. I principali temi trattati nell’indagine riguardano la trasparenza e
tracciabilità, i diritti dei produttori di piccola scala, dei lavoratori agricoli e delle donne. I risultati
hanno visto COOP posizionarsi al primo posto con un punteggio del 27%, seguita poi da
Conad e Esselunga rispettivamente con l’11% e l’8%, mentre il gruppo Selex e Eurospin hanno
totalizzato un punteggio nullo (Oxfam, 2018).
Attualmente stanno assumendo sempre più importanza i temi della trasparenza e della
tracciabilità: il consumatore è sempre più interessato ad avere una panoramica chiara
sull’origine del prodotto, sia per una questione legata alla sicurezza alimentare sia per quanto
riguarda la sostenibilità sociale. In questo scenario si è inserita la tecnologia della blockchain,
introdotta in Europa da Carrefour nel 2018, ma già utilizzata da Walmart negli USA a partire
dal 2017. Questo sistema consiste in un database digitale che permette di tracciare ogni fase
di lavorazione del prodotto, dalla materia prima fino allo scaffale. In questo modo è risultato
possibile valutare la sostenibilità del prodotto e le norme seguite durante il processo di
produzione, rendendo così chiare al consumatore tutte le fasi precedenti la vendita. La
blockchain avrà anche il vantaggio di eliminare molte delle incognite della supply chain,
tracciando ogni alimento permetterà a tutti di dimensionare le produzioni e le spedizioni in base
alla richiesta del mercato così da limitare gli sprechi alimentari (GDONews, 2019).
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6. Conclusioni
È evidente come l’Italia sia un paese in cui la cultura e la tradizione per il cibo siano ancora
ben radicate nella popolazione rispetto ad altri paesi europei. Il mercato dell’alimentare in Italia
potrebbe quindi essere considerato un mercato “maturo”, privo cioè di innovazione e
cambiamenti, tuttavia si stanno delineando una serie di nuove tendenze i cui effetti si
ripercuoteranno anche nel rapporto fra industria alimentare e GDO. La vera sfida per gli
operatori del settore si gioca sia sugli assetti societari come fusioni e assorbimenti, sia su
quello dei contenuti. Esempi di questi ultimi sono la marca privata, il tema emergente della
sostenibilità ambientale e sociale, la tracciabilità e la trasparenza ed infine anche il progressivo
aumento del canale distributivo dell’e-commerce. La strada dell’aggregazione appare come
inevitabile sia per il sistema distributivo, che risulta ancora il più frammentato d’Europa, sia per
l’industria alimentare, che vede l’affacciarsi di aziende multibrand nell’acquisizione ogni anno
di nuove piccole/medie imprese del nostro territorio. Si sta quindi procedendo verso una
concentrazione della distribuzione spinta anche da una bassa crescita del settore alimentare
(si stima un +1,5% nel 2019 e dalla crescita dei “soft discount” e dell’e-commerce) (Mancini,
2019).
La GDO e l’industria alimentare moderna non possono ignorare il neo-concetto di
omnicanalità. La rivoluzione digitale ha modificato il modo in cui i consumatori fanno acquisti
e l’integrazione tra punti vendita fisici e online è diventato un elemento importante per
affermare il proprio business e soddisfare l’offerta. La grande sfida per le catene della
distribuzione moderna italiana è quindi quella di modificare la percezione che il consumatore
ha nei confronti degli acquisti su piattaforma e-commerce, che risulta ancora inferiore rispetto
agli altri paesi europei. È opportuno far passare il messaggio che questo tipo di esperienza e
i prodotti acquistabili on-line siano rispettivamente equiparabili per efficacia e qualità agli
acquisti in-store.
Per quanto riguarda le private label in Italia, ad oggi queste risultano ancora poco sviluppate
rispetto agli altri paesi europei a causa principalmente dell’orografia complessa del territorio
italiano e dalla presenza di un traditional trade più capillare rispetto alla grande distribuzione.
L’affermazione della private label sta segnando con il tempo il passaggio da una produzione
di “brutta copia” dei grandi marchi ad una diversificazione della marca industriale. È
ragionevole quindi supporre che i prodotti a marca del distributore avranno una convergenza
verso percentuali vicine alla media europea.
Altri trend in crescita risultano essere la tracciabilità e la trasparenza dei prodotti alimentari,
sono infatti temi che sempre di più interessano il consumatore. La possibilità di ripercorrere
tutta la filiera di un alimento garantisce un maggior controllo e una maggiore sicurezza del
prodotto. L'implementazione della blockchain nata dall’interesse dei consumatori, ma che in
realtà giova a tutti i partecipanti della filiera, costituirà elemento di distinzione per le industrie
alimentari e i canali distributivi più virtuosi.
Le dinamiche appena descritte hanno tutte un effetto più o meno marcato su uno o entrambi
gli attori del rapporto GDO/industria alimentare con conseguenze sul piano della negoziazione
e del trade spending. Coloro che sapranno meglio anticipare e interpretare i trend emergenti
otterranno infatti condizioni migliori ed un maggiore potere contrattuale, un vantaggio
importante sia nei rapporti commerciali sia nei confronti dei competitors.
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