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KIA TREND
Project work “KiA – Knowledge in Action”
GLOBALIZZAZIONE E CONTAMINAZIONE
TRA GLI STILI ALIMENTARI
Master in Food & Beverage Management 2019-2020
A cura di:
Ciucci Francesca
D’Orazio Maria Eugenia
Pizzuto Marco
Ricco Galluzzo Paola
Zago Stefano
Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari
Master in Food & Beverage Management 2019-2020
0
INDICE
1 Introduzione................................................................................................................................. 1
1.1 Cibo e cultura: dalla nascita ai giorni nostri ............................................................................... 1
1.2 I tre grandi stili alimentari: cultura mediterranea, orientale e western diet.................................. 3
1.2.1 Tradizione e stili alimentari orientali .................................................................................... 3
1.2.2 Tradizione e stili alimentari mediterranei............................................................................. 3
1.2.3 Western Diet....................................................................................................................... 4
2.Contaminazione alimentare nei diversi paesi del mondo.............................................................. 4
2.1 Lo studio Khoury....................................................................................................................... 4
2.2 La liberalizzazione del commercio internazionale...................................................................... 5
2.3 Gli effetti sociali della globalizzazione alimentare ..................................................................... 6
2.4 I flussi migratori ed integrazione sociale.................................................................................... 8
2.4.1 Come il cibo diventa sinonimo di integrazione sociale? ................................................... 9
3. Contaminazione alimentare il Italia.............................................................................................. 9
3.1 Focus import/export italiano dei prodotti alimentari ................................................................. 10
3.2 Esportazione delle eccellenze territoriali ................................................................................. 11
3.3 Consumo “Fuori Casa” in Italia................................................................................................ 11
3.3.1 Caso “Moltivolti”................................................................................................................ 12
3.3.2 Caso “Temakinho” ............................................................................................................ 12
3.4 Consumo “A Casa” in Italia ..................................................................................................... 13
3.4.1 Prodotti etnici sugli scaffali................................................................................................ 14
4. Conclusioni ............................................................................................................................... 16
5. Bibliografia................................................................................................................................ 18
Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari
Master in Food & Beverage Management 2019-2020
1
1 Introduzione
L’obiettivo del nostro lavoro è determinare le relazioni che oggi intercorrono tra globalizzazione e
contaminazione tra gli stili alimentari.
A tal proposito, le domande che ci siamo posti e che hanno rappresentato l’incipit dello studio da noi
condotto, sono state le seguenti: quanto veloce stanno cambiando gli stili alimentari e in che
direzione stanno andando? Omogena o pluridirezionale?
Cambiamento, ricerca del nuovo, comunicazione rapida, viaggi, curiosità, emigrazioni sono aspetti
che ci hanno fatto divenire sempre più cittadini del mondo e non più solo del nostro Paese.
Gli stili di vita si sono incrociati, confrontati, miscelati e confusi tra loro perdendo identità e singolarità.
Questa è l’era della Globalizzazione che ha intaccato e contaminato ogni singolo aspetto della nostra
vita quotidiana influenzando anche le nostre abitudini alimentari. Il cibo è sempre più ”Glocal”,
risultato di lunghe storie e tradizioni che si sommano e si sottraggono facendo scaturire risultati
nuovi. Non raccontano più la storia di un individuo o una popolazione ma quella del mondo.
L’integrazione fa da collante a tutto ciò.
Attraverso questo lavoro vogliamo quindi analizzare le varie tappe che hanno segnato l’affermarsi
della nuova era “globalizzata”, osservando i cambiamenti negli stili alimentari e nel modo di
mangiare.
Abbiamo ritenuto opportuno iniziare con un excursus storico e una descrizione dei tre macrostili
alimentari mondiali (primo capitolo); approfondendo poi nel secondo il crescere delle contaminazioni
alimentari e gli effetti sociali che ne sono derivati. Vedremo come i Paesi, infatti, diventano sempre
più interdipendenti a livello di prodotto e non solo e come l’integrazione sociale porti delle nuove
realtà in tavola.
Nel capitolo terzo abbiamo deciso di focalizzare la nostra attenzione su quanto avvenuto in Italia,
analizzando i cambiamenti delle abitudini alimentari degli italiani sia nel contesto domestico che
extra-domestico, tendente sempre più al consumo di piatti etnici e come questi abbiano influenzato
anche il commercio nostrano adattandosi all’evoluzione dei bisogni degli italiani globalizzati.
1.1 Cibo e cultura: dalla nascita ai giorni nostri
“Se un cibo è più della somma dei nutrienti che lo compongono e una dieta è più della somma dei
cibi che la compongono, allora una cultura culinaria è più della somma dei menù ad essa
riconducibili, ma abbraccia l’insieme delle abitudini alimentari e delle regole non scritte che –
congiuntamente – governano la relazione di una persona con il cibo e con l’atto di mangiare”. (1) È
con questa espressione che Michael Pollan definisce lo “stile alimentare” di un individuo,
evidenziando la dimensione sociologica del cibo e dell’atto del mangiare e ponendo lo stesso stile
alimentare, al pari di religione, lingua, costumi e altre categorie, come elemento culturale di un
popolo, nel quale l’individuo si identifica fortemente. All’origine del subentro dell’elemento culturale
nel modo di nutrirsi da parte dell’uomo vi è la scoperta del fuoco. La capacità umana di
manipolazione della natura ha segnato una tappa cruciale con la scoperta del fuoco. Utilizzato
variamente – per scaldarsi, avere luce, proteggersi dalle fiere, fare segnali, asciugare indumenti – il
fuoco ha dato luogo a sviluppi culturali progressivi di enorme importanza specialmente in campo
alimentare. Per dirla con Levi Strauss, la cottura di cibi col fuoco è “l’invenzione che ha reso umani
gli umani”. Prima di apprendere la possibilità della cottura, il cibo, in particolare la carne, veniva
mangiato crudo, avariato o putrefatto. L’uso del fuoco ha portato a una svolta decisiva. La cottura
marca dunque simbolicamente una transizione tra natura e cultura, e anche tra natura e società, dal
momento che, mentre il crudo è di origine naturale, il cotto implica un passaggio a un tempo culturale
e sociale. Da questo passaggio in poi, il cibo diventa, come fatto oggettivo, punto di partenza per
straordinari sviluppi in ogni società. Le cucine nazionali, come afferma Rozin, incarnano la saggezza
alimentare delle popolazioni e delle rispettive culture (2). Con il passare del tempo, dunque, la
tradizione alimentare di una popolazione o di un paese, determinata da componenti geografiche,
ambientali, economiche, storiche e nutrizionali, si è diretta in una direzione ben precisa e si è evoluta
Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari
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2
parallelamente all’evolversi delle vicende della popolazione stessa, determinandone le peculiarità e
i tratti che la distinguono da tutte le altre, rendendola per determinati aspetti unica. Ciò è evidenziato
dal fatto che pur essendo onnivori non seguiamo tutti la stessa dieta e dal fatto che alcuni cibi, pur
essendo edibili, non vengono mangiati in nessun caso o resi indesiderabili in determinate culture
piuttosto che in altre. Già a partire dall’epoca tardo-medioevale, in Europa, il cibo comincia a perdere
i suoi connotati originari, assumendo sempre più connotati simbolici e sensoriali. Infatti, i ceti più
abbienti lo utilizzavano come strumento di differenziazione dalle altre classi sociali. Questa
mutazione implica, innanzitutto, la commistione tra gli elementi culinari tradizionali e quelli nuovi,
sancendo un’inversione di tendenza. Con l’era moderna gli scambi di materie prime alimentari
aumentano notevolmente. L’Europa diventa protagonista indiscussa degli scambi commerciali,
divenendo la principale beneficiaria di apporti esterni. Essa ha adottato prodotti, sin dall’inizio
accessibili a tutti, come il pomodoro, il peperone, il mais, la patata, ed ancora oggi presenti sulle
nostre tavole. Invece altri prodotti come lo zucchero, il caffè, il tè, il cacao, a causa del loro prezzo,
sono stati riservati all’élite aristocratica e solo successivamente con la rivoluzione industriale sono
divenuti di largo consumo. Il gusto del nuovo era tuttavia ancora contenuto (3). I “gloriosi anni trenta”
cancellano il ricordo degli anni difficili. Tutti possono procurarsi tutto. Con la Seconda Guerra
Mondiale, il processo accelera decisamente. I prodotti, i sapori ed i piatti americani affascinano
europei e giapponesi che hanno appena conosciuto anni di penuria. Essi possono procurarsi – ed
alcuni scoprire – il corned beef, i chewing gums, insieme alle sigarette bionde. E presto verrà la
Coca Cola. I frigoriferi “Frigidaire” ed i fornelli a gas trasformano la vita quotidiana nelle cucine dove,
a poco a poco, con l’avvento del lavoro femminile, si prende l’abitudine di passarci sempre meno
tempo. Alcuni prodotti, come il pollo, il tacchino, la trota di allevamento, il prosciutto, il burro, la
pasticceria industriale ed il vino da tavola, considerati ancora di lusso prima della guerra, diventano
di ordinaria amministrazione a causa dell’industrializzazione che permise di abbassarne il prezzo
rendendoli accessibili a tutti. Nuovi prodotti conoscono un enorme successo, è la volta delle minestre
e dei purè disidratati, dei formaggi fusi da spalmare e degli pseudo-camembert che non gocciolano
più e non odorano più, della maionese e della salsa di pomodoro in tubetto, del pane in cassetta
eternamente “fresco”, degli yogurt, delle bibite edulcorate ecc... Questi ultimi sono diventati così
regolari nella presentazione e nel sapore da non fornire più alcuna sorpresa né procurare alcuna
emozione, riducendosi a mero nutrimento del corpo.
I grandi vincitori di questo tempo sono gli agri-businessmen legati alle multinazionali dell’industria
agroalimentare e della distribuzione (Cargil Inc., ConAgra, Unilever, Nestlé, Danone, ecc).
Ancora una volta l’impoverimento riguarda il gusto dei prodotti stessi, visto che i consumatori medi
sono stati abituati sin dall’infanzia a questo cibo omologato. In questi alimenti si riscontrano tre dei
sapori di base riconosciuti dalle papille gustative: il salato, il dolce, l’acido, ma mai l’amaro.
È il segno di una scelta abile ma inquietante: mantenere i consumatori allo stadio gustativo della loro
infanzia (3).
Il capolavoro di questa rivoluzione è l’hamburger originario dell’Europa settentrionale, dove si è
conservata l’abitudine medievale di mangiare su dei taglieri. L’hamburger è diventato il piatto
nazionale degli Stati Uniti: rapido e facile da consumarsi, nutriente (in calorie), a buon mercato.
Il Mc Donald’s conquista successo mondiale diventando uno dei giganti del settore agroalimentare
(3). Il suo primo ristorante fu aperto a Des Plaines, vicino Chicago, nel 1955. Oggi è diventata la più
grande azienda di ristorazione rapida del mondo. I grandi stili culinari che ad oggi guidano le scelte
alimentari di buona parte della popolazione mondiale, per diffusione e storia, sono tre: quello
orientale (cinese, giapponese, indiano e altri di minore diffusione), quello mediterraneo (anch’esso
differenziatosi in mille sfumature differenti a seconda dell’epoca e del territorio), infine quello
americano identificato con il nome di Western Diet. Occorre sottolineare che quando si parla di
grandi stili alimentari come quello orientale o della dieta mediterranea non si parla di un unico stile,
perché ci si riferisce a stili diffusi in macroaree geografiche e che, a seconda del territorio in cui ci
troviamo o della popolazione considerata, assumono connotati specifici. Ciò che dà significato al
termine “grande stile alimentare” è proprio il fatto che tutti gli stili alimentari diffusi oggi e nel corso
della storia della cucina non siano differenti in egual misura. In particolare, uno stile alimentare sarà
molto più simile e più facilmente contaminabile da una cultura culinaria della stessa matrice piuttosto
che da un'altra appartenente a un altro macrostile alimentare. In sintesi, le differenze tra i macrostili
sono notevolmente più marcate delle differenze tra due cucine appartenenti alla stessa dieta.
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1.2 I tre grandi stili alimentari: cultura mediterranea, orientale e western diet
1.2.1 Tradizione e stili alimentari orientali
La cucina orientale è frutto di una tradizione storica e culturale comparabile per importanza a quella
sviluppatasi nel bacino del Mediterraneo. Sia per storia che per estensione geografica la cultura
culinaria cinese ne è la più rappresentativa. Un tratto distintivo di questa cucina è il fatto che, In Cina,
da millenni, la salute rappresenta il centro dei comportamenti alimentari, tanto da essere considerata
nel resto del globo la cucina più salutare in assoluto. I cinesi, infatti, individuavano in una corretta e
armonica alimentazione uno dei modi principali per migliorare la salute, ricercare la longevità e
l’immortalità. Per la filosofia taoista, il mondo è un divenire continuo la cui forza propulsiva deriva
dall’opposizione dinamica dello Yin e dello Yang (il femminile e il maschile, l’oscurità e la luce, il
freddo e il caldo) che permeano anche la dietetica. Gli alimenti infatti vengono divisi in quattro
categorie a seconda della loro natura Yin e Yang: freddi e freschi sono Yin, caldi e temperati sono
Yang. L’armonia e l’equilibrio tra questi creano una cucina estremamente completa dal punto di vista
nutrizionale. Le due caratteristiche principali che differenziano la cucina cinese rispetto alle altre
sono la cottura e il taglio che insieme portano al cosiddetto “compimento ideale della sostanza
attraverso il fuoco” inseguendo l’armonia dei sapori. Rispetto alla tradizione mediterranea, più
avvezza al consumo di vino, in Cina, così come in tutte le altre culture culinarie orientali, è il tè
l’elemento caratteristico della tradizione, tanto importante da essere annoverato tra i sette prodotti
indispensabili alla vita.
1.2.2 Tradizione e stili alimentari mediterranei
Fin dal Neolitico il Mare Nostrum è stato meta di numerose migrazioni che si sono insediate fra le
comunità preesistenti alla ricerca di condizioni di vita migliori: terreni più fertili e un clima meno aspro
ha attratto popoli provenienti da Asia, Africa, Scandinavia e Germania. “Ogni gruppo, con il suo
apporto culturale specifico, ha contribuito all’arricchimento comune”. Durante il XI e il XII secolo, i
contatti tra le comunità musulmana e cristiana localizzate nella penisola iberica si sono tradotti in
intensi scambi commerciali, in cui ingenti quantità di prodotti alimentari sono stati introdotti nelle
rispettive culture gastronomiche, modificandone gli assetti (4). Dapprima, durante l’alto Medioevo,
l’antica tradizione romana, che sul modello di quella greca identificava nel pane, nel vino e nell’olio
i prodotti simbolo della tradizione di una civiltà contadina e agricola, si incontra con la cultura dei
popoli germanici che traevano dalla stessa la gran parte delle risorse alimentari (5) (6). Un ulteriore
contributo successivamente venne dato dalla cultura araba che introducendo alimenti come la canna
da zucchero, il riso, gli agrumi, la melanzana, lo spinacio e le spezie (fino a quel momento
sconosciute o utilizzate solamente dalle classi sociali più benestanti a causa degli elevati prezzi)
influenzano e contaminano per sempre il modello alimentare. Infine, la scoperta dell’America da
parte degli europei diede un’ultima sterzata a questo modello, riflettendosi in un “andirivieni” di
prodotti alimentari. Tra tutti spicca il pomodoro “curiosità esotica”, frutto ornamentale solo
tardivamente considerato commestibile. Gli elementi cardine della cultura alimentare mediterranea
sono le verdure e i cereali che assumono sfaccettature diverse a seconda delle connotazioni
geografiche e delle tradizioni di riferimento. Mentre il cereale più consumato nelle popolazioni del
bacino del mediterraneo è il grano, differentemente dalla cultura asiatica che è il riso. Nella tradizione
gastronomica mediterranea vi è dunque possibile riconoscere un tratto di irripetibilità
intrinsecamente legato alla sua storia millenaria. Il modello di alimentazione della dieta
mediterranea, quale parte dell’identità storica e culturale del Mediterraneo, non è solo un modo di
nutrirsi, ma è espressione di un intero sistema culturale, improntato, oltre che alla salubrità, alla
qualità degli alimenti e alla loro distintività territoriale, a una tradizione millenaria che si tramanda di
generazione in generazione (1). Nonostante i mutamenti delle abitudini alimentari la dieta
Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari
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mediterranea continua a essere un punto di riferimento non solo nel Mediterraneo, ma anche in altre
regioni del mondo, date le sue peculiarità.
1.2.3 Western Diet
La western diet (2), a differenza degli altri grandi stili alimentari, non presenta una tradizione
millenaria radicata profondamente nel territorio. La scarsa sedimentazione dei valori culturali tipici
di quei luoghi, insieme all’elevata tendenza alla mobilità, all’assenza di prodotti tipici ed a uno stile
di vita a stampo individualistico, hanno impedito lo sviluppo di una cultura gastronomica salubre e di
elevata qualità. Con il fatto che la cultura americana ha esercitato una forte influenza su quella
anglosassone lo scorso secolo, oggi è possibile accomunare i due paesi sotto uno stesso profilo.
Quando per gli europei cucinare era una comune pratica domestica per gli statunitensi e gli
anglosassoni era più un dovere che un piacere, con una preparazione superficiale e frettolosa delle
pietanze ed un consumo molto elevato di dolci e zuccheri. Per loro il ventaglio di ricette si riduceva
a due alimenti simbolo: la carne alla griglia e una salsa passe-partout. L’elemento determinante che
ha caratterizzato la loro tradizione culinaria è stato il cambiamento sociale delle donne, che,
impegnate nel lavoro, avevano sempre meno tempo per la cucina e sempre una maggior necessità
di pasti veloci e cibo pronto.
2.Contaminazione alimentare nei diversi paesi del mondo
Cosa mangiano a Tokyo? Molto probabilmente le stesse cose che mangiano a Parigi. Com’è
possibile? È la globalizzazione che ha reso la comunità umana sempre più multiculturale, multietnica
e multietica. Nell’attuale fase storica infatti si sta andando incontro ad una sempre più crescente
omogeneizzazione dei diversi stili alimentari grazie alla forte comunicazione, liberalizzazione del
commercio, all’aumento degli scambi di prodotti e persone. Basti pensare che in media in ogni
nazione più di due terzi delle derrate alimentari usate e coltivate ha origine in altre aree geografiche,
spesso molto lontane (7).
2.1 Lo Studio di Khoury
Come si evince da uno studio condotto da Colin Khoury, un botanico dell’International Center for
Tropical Agriculture (conosciuto con l’acronimo spagnolo CIAT) e il dipartimento di agricoltura
statunitense, il nostro sistema interno alimentare è
completamente globalizzato. Infatti, dopo aver esaminato diverse
colture, che sono centrali per le diete nazionali (fonti di carboidrati,
grassi, proteine e fibre), e i sistemi nazionali di agricoltura
(produzione, qualità, aree di ritaglio e le quantità di produzione)
sono arrivati alla conclusione che nessun singolo paese ha una
dieta composta interamente da colture “indigene”.
L’idea che le coltivazioni abbiano un loro centro d’origine è stata
evidenziata intorno agli anni ’20 dagli studi del grande esploratore
russo Nikolai Vavilov. Egli affermava che nelle regioni in cui una
coltivazione era stata originata vi si trovava la più ampia diversità
di essa, poiché lì i contadini avrebbero selezionato diverse varietà
per il maggior periodo di tempo (fig.1).
A tal proposito possiamo citare diversi casi: la Mezzaluna fertile
che con la sua profusione di erbe selvatiche, di grano e di orzo è
il primo centro di diversità per questi cereali, i peperoncini Thai
provenienti originariamente dall’America Centrale e del Sud ed i pomodori italiani provenienti dalle
Ande.
Figura 1. - Mappa delle regioni primarie
di diversità di 151 coltivazioni Fonte The
Royal Society
Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari
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Khoury e i suoi colleghi hanno quindi
esteso i metodi di Vavilov per cercare
le origini di 151 coltivazioni diverse in
23 aree geografiche (fig. 2). Hanno poi
esaminato statistiche regionali della
dieta e della produzione alimentare in
177 paesi, coprendo il 98.5% della
popolazione mondiale e determinando
in questo modo la provenienza esatta
di ogni alimento.
Dallo studio è emerso che in media il
69% delle derrate prodotte e
consumate in un paese sono originarie
in realtà di un’altra area geografica, una
cifra che ha visto oltretutto un incremento del 6% negli ultimi 50 anni, a testimonianza di una sempre
più omogeneizzazione delle diete. Ecco perché le patate che appaiono ogni giorno sulla nostra
tavola non sono una coltura di origine italiana, così come mangiamo riso dell’Asia o beviamo caffè
dell’Africa. Il gruppo di Khoury ha quindi dimostrato come il mondo sta diventando sempre più
interconnesso dal cibo (8).
Mentre la dieta degli Stati Uniti dipende da coltivazioni provenienti dal Mediterraneo e ovest dell’Asia,
come il grano, l’orzo, i ceci, le mandorle ecc.., la sua economia agricola è incentrata nella
coltivazione di soia originaria dall’Asia dell’est, di mais dal Messico e dall’America centrale, e di
grano dal Mediterraneo. Mentre prodotti originari degli Stati Uniti come i girasoli, vengono coltivati e
consumati in paesi come Argentina e Cina. Dunque, si evince che le aree lontane dai centri di
biodiversità agricole, come nord America, nord Europa e Australia, sono più dipendenti dalle
coltivazioni straniere. Al contrario i paesi che stanno ancora coltivando e mangiando i loro alimenti
base, come ad esempio il sud Asia e l’Africa orientale, sono meno dipendenti dalle coltivazioni
straniere e perciò mantengono di più la propria identità. Nonostante ciò, c’è da dire che anch’essi
dipendono da coltivazioni straniere anche se solo per un quinto (9). In conclusione, si può dire che
il cibo è “GLOCAL”, secondo l’International Center for Tropical Agriculture, infatti, più di due terzi
delle derrate alimentari coltivate e/o usate viene da altre aree geografiche (10). Secondo uno studio
avvenuto nel 2013 dagli stessi autori il processo di globalizzazione del Pianeta fa sì che il tempo che
intercorre tra la scoperta di una nuova derrata e la sua adozione sia sempre minore, riflettendosi
anche sulle diete che stanno diventando sempre più omogenee tra i vari paesi sviluppati e in via di
sviluppo.
“Ciò significa che dobbiamo iniziare a comportarci come se fossimo interdipendenti”, dice Fowler in
un’intervista (9). La globalizzazione, da un punto di vista economico, è la tendenza dell’economia a
diventare globale. Questa convergenza si evidenzia a partire dagli anni 80 del ‘900, cioè da quando
l’economia assume caratteri sempre più sovranazionali, derivanti da una crescente cooperazione
economica tra soggetti geograficamente lontani (11).
2.2 La liberalizzazione del commercio internazionale
In un’ottica politico-economica, la delocalizzazione della produzione, insieme alla riduzione dei costi
di trasporto, ha posto in essere il liberalismo che è uno dei paradigmi della globalizzazione in quanto
ha permesso al sistema-mercato di orientarsi al libero scambio, aumentando così l’interdipendenza
tra vari Paesi (12).
Il commercio internazionale cresce dal secondo dopoguerra in poi, grazie anche alla riduzione dei
dazi sulle merci e dei costi di trasporto. Il primo accordo che ha facilitato la relazione tra le nazioni,
favorendo la liberalizzazione del commercio mondiale è il GATT (1947) sottoscritto da 23 paesi.
Un’altra tappa fondamentale della liberalizzazione dei mercati è avvenuta nel 1995, data in cui 164
paesi costituirono la OMC, un'organizzazione internazionale creata allo scopo di supervisionare
numerosi accordi commerciali tra gli stati membri e di ridurre o abolire le barriere tariffarie, in quanto
Figura 2 - La interconnessione tra le 23 aree geografiche individuate
dagli studiosi. “ The royal society”
Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari
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impedivano il livello di integrazione economica e monetaria e dei fattori produttivi, quali capitale e
lavoro (13).
L’intensificazione delle attività economiche sovranazionali ha
permesso un incremento del grado di apertura internazionale
delle economie nazionali, il quale viene calcolato come il rapporto
tra la somma delle esportazioni (X) e delle importazioni(T) sul
Prodotto Interno Lordo (PIL): Open= X+T/PIL (11).
Come si evince dal grafico al lato (fig.3), dal 1960 il commercio
alimentare globale è aumentato esponenzialmente, più
velocemente della produzione alimentare stessa. Quest’ultima è
raddoppiata in circa 30 anni, mentre la quantità di cibo
scambiata è aumenta di circa 10 volte nello stesso tempo. Le
esportazioni di alimenti e dei prodotti agricoli mostrano che le
quantità di esportazioni mondiali sono triplicate dal 1995 al
2012, passando da 360 a 1050 miliardi di dollari US (pari a un
aumento di 2,9 volte, mentre nello stesso periodo la produzione totale di cibo è cresciuta solo di 1,4
volte) come mostra il grafico sottostante (fig.4). I paesi industrializzati hanno visto una crescita
percentuale in linea con quella mondiale (Stati Uniti, Australia) a differenza dei paesi in via di sviluppo
che hanno visto un aumento maggiore. La Cina ha quintuplicato le esportazioni passando da 10 a
50 miliardi; la Russia è passata da 0,8 a 13 miliardi.
L’Italia dal canto suo invece è passata da 11,2 a 28,8 miliardi, pur perdendo una quota di mercato
dello 0,4% dal 1995 al 2012.
Come si può notare dal grafico a destra (fig.5), i maggiori importatori di alimenti sono i paesi
industrializzati. La Russia, a fronte dell’aumento demografico della classe media, è passata dal 9,9
a 35,9 miliardi così come gli Emirati Arabi Uniti (UAE) che hanno aumentato le importazioni da 2 a
14,8 miliardi.
L’Italia ha mantenuto stabile le importazioni con una ripida impennata tra il 2010 e il 2012 (14).
2.3 Gli effetti sociali della globalizzazione alimentare
Se da un lato la globalizzazione ha permesso che il singolo individuo potesse trovarsi all’interno di
un contesto globale affascinante, stimolante e accelerato, in cui è possibile con molta facilità venire
a contatto con quello che prima veniva identificato come “il diverso” e che adesso non soltanto può
essere conosciuto ma spesso anche integrato, dall’altro lo ha portato sempre di più a condurre uno
stile di vita omologato a quello dei suoi simili. Tale omologia è dovuta, oltre che ad una condizione
di benessere anche alla facilità di raggiungimento delle risorse ricercate. Oggi, anche se
apparentemente l’uomo sembra protagonista attivo delle scelte che compie, in realtà è un
protagonista passivo, in quanto notevolmente influenzato e condizionato da una miriade di
sollecitazioni che gli stessi tempi moderni, in cui vive, gli impongono. È rilevante sottolineare come i
mezzi di comunicazione, sempre più efficienti e tecnologici, abbiano dato un contributo cospicuo alla
diffusione di idee, tendenze e problematiche tra culture differenti in qualsiasi ambito. In particolar
modo, oggi più che mai, la globalizzazione mostra il suo volto anche in cucina. Basti pensare a
Figura 3 - Andamento del commercio
alimentare e produzione alimentare
globale. [fonte: Comtrade database]
import-export Nazioni Unite ONU]
Figura 4 - Paesi maggiori esportatori
netti. [Fonte: Unctad]
Figura 5 - Paesi maggiori importatori netti.
[Fonte: Unctad]
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quanti prodotti con i loro differenti colori, forme, profumi imbandiscono ogni giorno le nostre tavole
pur non essendo originari del nostro paese (è il caso, ad esempio, del riso dell’Asia o il caffè che ha
avuto origine in Africa). Se analizzato in un primo momento, questo aspetto risulta sicuramente
positivo considerando che siamo abituati a richiedere e ottenere una vasta gamma di prodotti in
qualsiasi momento dell’anno. Ma, se si prova a porre l’attenzione sulla tipologia di cibo o sulle
modalità attraverso cui siamo soliti nutrirci, ci si può rendere conto del fatto che siamo diventati
sempre più dipendenti da altri paesi e dalle mode che, negli stessi, vanno prendendo il sopravvento.
A tal proposito, nella società odierna, caratterizzata dalla ridotta disponibilità di tempo libero da cui
consegue la necessità di consumare pasti veloci e possibilmente in movimento e da una vita sociale
ricca di innumerevoli occasioni di convivialità, si assiste ad una vera e propria “desacralizzazione
degli stili alimentari” che induce, a sua volta, ad una “destrutturazione dei pasti”. Quest’ultima
consiste nel crescente abbandono non solo delle abitudini, ma persino delle gestualità e ritualità che
scandiscono e gestiscono l’esecuzione di un pasto (15). Lo sgretolamento dei rituali canonici
avviene su due direttive: quella spaziale e quella temporale. Ci si svincola completamente dalle
tempistiche e, in un certo senso, dai luoghi di fruizione e di consumo del pasto. In sostanza, si può
mangiare a qualsiasi ora e in qualsiasi luogo, senza la necessità di sedersi ed utilizzare posate e
piatti. Tra le forme conviviali di incontro, quelle ad oggi più diffuse e seguite dalla maggior parte delle
persone, risultano l’happy hour ma soprattutto il brunch. Quest’ultimo rappresenta l’emblema della
disintegrazione multidimensionale e simultanea di ogni precedente architettura alimentare. Il nome
stesso, fusione non molto azzardata di “breakfast” e “lunch” si estende in un arco temporale
compreso dalle 10 fino alle 18, coprendo quindi le fasce orarie dedicate solitamente a tre pasti:
colazione, pranzo e merenda. In questo modo la dimensione “tempo” del pasto viene chiaramente
relativizzata. In virtù di questa innovazione le pietanze vengono esposte in un unico buffet e nello
stesso momento; l’obiettivo è proprio quello di confondere deliberatamente ogni differenza tra
antipasto, primo, secondo e dessert. Il brunch, inoltre, polverizza ogni relazione tra alimento e
bevanda, poiché caffè, succhi di frutta, latte, acqua, birra, diventano mutuamente sostituibili nel loro
occasionale accompagnamento al cibo (15). Oltre al brunch appartengono alla categoria
denominata “ristorazione veloce”, che determina una significativa destrutturazione dei pasti,
sicuramente i fast food. Tale espressione proviene dall’inglese e significa letteralmente “cibo veloce”.
Tra le catene di fast food più diffuse nel mondo, quella che in maniera incidente la fa da padrone è
sicuramente McDonald’s, seguita da Burger king e Wendy’s. Detti fast food nascono in America in
un arco temporale che va da fine anni ‘30 al 1960 e si diffondono “a macchia d’olio” in Europa intorno
al 1970. La loro nascita è derivata probabilmente per rispondere ad una voglia sempre più sentita di
cambiamento, ma soprattutto dall’esigenza di abbattere i costi di produzione degli alimenti
velocizzando il medesimo processo mediante una vera e propria catena di montaggio a stampo
prettamente industriale. Questa è la prima volta che il “principio del taylorismo” viene applicato alla
produzione di un alimento. Tutte le catene di fast food sono accomunate dalla medesima proposta
culinaria che segue i trend del momento. Hamburger, hot dogs, patate fritte, pizze, sandwich, cipolla
fritta, associati ad un uso massiccio di varie salse come senape, maionese e ketchup erano perfetti
per una società come quella degli anni ‘80, che sempre più amava mangiare proteico e calorico così
come quella odierna che vuole pasti sempre più personalizzati e veloci (16). Il risultato di questo tipo
di cucina è inevitabilmente l’uniformazione del gusto e la totale assenza di almeno un elemento che
rimanda all’identità di un cibo e al legame che quest’ultimo ha con il territorio di origine. Per il
successo strepitoso e la diffusione “virale” al livello mondiale, oggi, quando si parla di fast food, si fa
riferimento al fenomeno della “planetarizzazione”.
In sintesi, viene completamente sovvertita la concezione derivante dall’ecologia secondo cui le
differenze biologiche sono il pilastro che sorregge le relazioni che intercorrono tra gli elementi che
costituiscono l’ecosistema. Anche in ambito culinario, la conservazione ed esaltazione delle
differenze qualitative e gustative di un dato alimento, dovrebbe rappresentare quel quid che fa la
differenza. Con l’avvento e la diffusione smisurata dei fast food o più in generale con la convergenza
tra gli stili alimentari che inevitabilmente si è venuta a creare, è scemato quel coinvolgimento emotivo
ed affettivo che è intrinseco al cibo stesso. Il cibo, che prima manteneva in vita il legame con la
cultura di origine, in modo vivo perché diretto, immediato, fisico e che evocava in qualche modo un
luogo antropologico, fatto di parole, memorie, ricordi, storie, persone, relazioni (17), adesso viene
spesso associato alla necessità di provare le novità del momento che vengono costantemente
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trasmesse dalla pubblicità e dai social network creando dei veri e propri status (2). Nell’epoca
contemporanea il cibo viene sempre più spesso acquistato pronto, da mangiare o scaldare,
perdendo ogni contatto con la dimensione del cucinare inteso nel senso pieno della creazione di
qualcosa a partire da elementi più semplici, da ingredienti di base. Rinunciare a cucinare, significa
rinunciare a sapere realmente cosa si sta mangiando, ma soprattutto significa rinunciare
all’esperienza della condivisione di qualcosa che è il frutto del lavoro dell’uomo stesso. Se si pensa
al “buono” in quanto autentico e alla varietà dell’esperienza culinaria, potremmo dire che sono
entrambi in fase di estinzione. Di fatti le diete tendono ad appiattirsi su di un modello universale che
unifica tutte le tradizioni culinarie, facendone perdere le caratteristiche fondative e distintive (2).
2.4 I flussi migratori e integrazione sociale
Quanto scritto nel 1826 da Brillat-Savarin “Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”.
«Il cibo non è soltanto il modo in cui trasformiamo gli ingredienti in ricette da esibire al consumismo.
Il cibo è cultura», spiega lo storico dell’alimentazione Università di Tor Vergata, Ernesto Di Renzo.
Una cultura che, se ben valorizzata, rappresenta una leva potente per trovare una via all’inclusione
sociale e contro i rigurgiti di intolleranza che stanno incattivendo giorno dopo giorno la nostra società.
Se l’immigrazione è una delle sfide epocali e inevitabili del ventunesimo secolo, la società moderna
la sta affrontando sempre più spesso con atteggiamenti di intolleranza verso culture e cittadini
stranieri, in maggior parte popolazioni africane e asiatiche. Non è questa l’unica via che siamo
obbligati a percorrere (18). Lo shock culturale interessa tutte le migrazioni a qualsiasi livello ed è
reso evidente da un sentimento di spaesamento, di incapacità di comprendere i meccanismi sociali
nei quali ci si trova ad agire. L’individuo coinvolto è cosciente solo della propria scelta di alienazione
forzata dalla propria società e, parallelamente chiuso in un sistema di norme e valori che non trovano
appartenenza e che non riesce ancora a decifrare. Si sviluppa una grande tensione emotiva dovuta
allo sforzo di adattamento alla nuova realtà, c’è un forte senso di privazione per ciò che si è lasciato,
senso di timore per ciò a cui si va incontro. «Questa condizione, che si presenta in genere alcuni
mesi dopo l’atto migratorio, può essere di diversa entità a seconda delle condizioni in cui si è svolta
la migrazione, delle caratteristiche psicologiche del soggetto dell’accoglienza che si riceve». La
difficoltà di reperire gli ingredienti per preparare le pietanze della cucina tradizionale è l’ostacolo più
grande da sormontare. La realtà di oggi è molto distante dal passato recente: fino a pochi anni fa,
anche nei centri più sviluppati del commercio era molto difficile e molto costoso acquistare prodotti
tipici dell’agricoltura e delle coltivazioni asiatiche o africane. L’avvento della grande distribuzione ha
facilitato il compito a milioni di migranti, favorendo però l’accesso a quei prodotti che incontrano il
gusto degli europei. L’emigrato si trova davanti ad un bivio: la possibilità, da un lato, di integrarsi
nella nuova cultura nel modo più rapido possibile, limitando così l’azione che lo shock ha su di esso,
dall’altro, il radicamento ai propri valori e il rifiuto di quelli nuovi, in aperta opposizione con la nuova
realtà in cui si trova (19). Queste due eventualità opposte formano un continuum con posizioni
intermedie e meno estreme, per cui il desiderio di integrazione si compenetra a quello di radicazione.
Ciò che permane è, comunque, il desiderio di mantenere le proprie radici, stabilire un punto
d’incontro tra se e la propria identità, ricreando, fisicamente e mentalmente, i luoghi in cui si sente a
casa. Gli elementi culturali quali la lingua, i costumi, le tradizioni, la religione, le gerarchie sociali
sono gli strumenti che permettono la creazione di questi spazi, oasi di tranquillità, per cercare di non
perdere la propria identità. Si formano così reti etniche in territorio culturale estraneo, se non, a volte,
ostile, la cui solidarietà interna è volta a ricreare ambienti, tradizioni, aspetti della vita quotidiana
familiari, in cui si parla la propria lingua, si vestono abiti della propria tradizione, si prega e si
mangiano pietanze preparate secondo i gusti e le abitudini alimentari d’origine.
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2.4.1 Come il cibo diventa sinonimo di integrazione sociale?
ll processo migratorio porta l’individuo che lo compie da una cultura, la sua, ad un’altra, con effetti
sulla persona e sul gruppo che si sono illustrati in precedenza. Nel nuovo contesto sociale, regolato
da uno schema di norme e valori, colui che migra deve imparare ad orientarsi, cominciando ad
acquisire i nuovi costumi sociali. Il processo di integrazione presiede a questo tentativo di
adattamento dell’elemento “esterno” alla società, nel rispetto delle differenti culture che si trovano in
contatto. Integrarsi vuol dire acquisire il complesso di norme che regolano il funzionamento della
società, mantenendo al contempo il sistema di valori appartenenti alla propria estrazione culturale.
A tale scopo è quindi necessario «un processo di ibridazione, di meticciato, di biculturalismo che
permetta la connessione tra elementi della cultura originaria e della cultura ospite e la nascita di
nuove più complesse configurazioni culturali». Il fenomeno dell’integrazione è dunque il modello da
seguire come miglior soluzione possibile per la creazione di una società multiculturale che valorizzi
le differenze in modo costruttivo, anziché sopprimerle e annullarle attraverso l’omologazione. Mentre
da un lato l’identità alimentare è un elemento strumentale nel sottolineare le differenze tra le culture
e serve a rafforzare l’identità di gruppo, dall’altro, attraverso l’analisi delle forme che la compongono
e delle norme che la regolano la cucina può, a ragione, essere comparata al linguaggio. «Costituisce
pertanto uno straordinario veicolo di autorappresentazione e di comunicazione: non solo è strumento
di identità culturale, ma il primo modo, forse, per entrare in contatto con culture diverse, giacché
mangiare il cibo altrui sembra più facile (anche solo all’apparenza) che codificare la lingua. Più
ancora della parola, il cibo si presta a mediare fra culture diverse, aprendo i sistemi di cucina a ogni
sorta di invenzioni, incroci e contaminazioni». La cucina è allora «la soglia più accessibile di una
cultura. È la soglia più bassa di un confine. Mangiare la cucina degli altri significa attraversare questa
soglia». Lo scambio culturale, anche grazie alla cucina, non è da intendere, come si vedrà in seguito,
come pericolo per la propria identità. Al contrario, se non esiste identità senza alterità, la conoscenza
dell’altro e il confronto con esso, attraverso gli elementi peculiari delle rispettive culture, sono motivo
di rafforzamento delle identità. Le culture appaiono «tanto più forti quanto più sono aperte verso
l’esterno e inserite in vari percorsi di scambio, d’incrocio, di contaminazione» (19).
3. Contaminazione alimentare in Italia
Questo mix ne fa degli italiani speciali. Non degli italiani a metà, o al 60%. Ma al 130%. Degli
“extraitaliani” Extra: perché la loro personalità attinge da competenze ed esperienze attinte “oltre”
confine. Extra: perché cumulano più elementi culturali, più conoscenze sociali e comunicative
(parlano, quasi sempre, più lingue). Extra: perché proiettano la loro visione oltre i limiti del nostro
mondo. Extraitaliani: italiani oltre e di più. Ilvo Diamanti.
Dopo aver fatto un excursus della situazione a livello generale facciamo un focus sulle
contaminazioni alimentari avvenute in Italia dopo la globalizzazione. Intanto definiamo “cibi etnici”
tutti gli alimenti originari da paesi diversi dall’home market, che contribuiscono ad una cultura
alimentare diversa dalla tradizione del paese ospitante. Nell’analizzare la situazione italiana si fa
riferimento essenzialmente ai prodotti di provenienza extraeuropea, i quali stanno conquistando in
Italia quote di mercato sempre più significative per tutta una serie di fattori. Tra i fattori predominanti
troviamo: la presenza di comunità straniere; la globalizzazione, che ha favorito i flussi di persone e
di tradizioni gastronomiche diverse; il ruolo avuto dall’EXPO 2015 nel far conoscere i cibi esotici; il
prezzo contenuto e la curiosità di alcune fasce della popolazione di sperimentare gusti diversi; lo
sviluppo di catene straniere operanti nel settore HO.RE.CA. La quota prevalente dei consumi di cibi
etnici è coperta dai cittadini extra-comunitari, la cui presenza nel nostro Paese ammontava al 1°
gennaio 2018, a 5.144.440 (dati forniti dal Ministero dell’Interno e diffusi dall’ISTAT) (20), cui vanno
aggiunti i non regolari, nonché i richiedenti asilo ed i rifugiati. Tuttavia, come si diceva, contribuiscono
ormai a tali consumi anche gli italiani, che hanno cominciato a conoscere questi alimenti attraverso
il racconto di parenti e amici o in occasione di viaggi all’estero ed hanno poi iniziato a sperimentarli
nei ristoranti stranieri, che stanno sorgendo sempre più numerosi nelle nostre città. Recentemente
si sta anche affermando la tendenza a consumare questi cibi a casa, acquistandoli in take away
stranieri o preparandoli. In commercio si trovano anche alimenti etnici modificati, che rappresentano
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una versione rivisitata rispetto agli “originali”, ossia rispetto al modo in cui sono preparati nei Paesi
di origine, per adattarli al gusto e alle preferenze degli italiani (21). Spesso si combinano ingredienti
importati con altri locali. Così, se da una parte l’alimentazione degli stranieri residenti in Italia viene
influenzata dalla nostra cucina, per cui li vediamo assumere pasta, pizza ed altri alimenti tipicamente
nostrani, anche noi ci stiamo orientando in una certa misura verso il consumo di cibi lontani dalla
nostra tradizione mediterranea (22). Da diversi anni ormai si assiste ad una intensa e continua
crescita dei consumi, che, secondo dati della Coldiretti sono quasi raddoppiati (+93%) dal 2007 al
2014. Gli stessi sono ulteriormente aumentati del 18% rispetto all’anno precedente (2015) (23),
dell’8% nel primo semestre del 2016 (24) e di poco meno del 7% nel primo semestre del 2017 (tra
gli altri, si è registrato un aumento del consumo di sushi, couscous, kebab, bistecca algerina e jamon
iberico) (25). Inoltre, il primo Rapporto Coldiretti/Censis sulla ristorazione in Italia, presentato al
Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione del 20 e 21 ottobre 2017 a Cernobbio,
riporta che, nel 2016, 28,7 milioni di italiani, ossia quasi la metà della popolazione, ha mangiato
regolarmente o occasionalmente in un ristorante etnico (26). Un gruppo di studio dell’Istituto
Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie ha condotto recentemente un’indagine su un campione
di 1.317 persone, allo scopo di tracciare un identikit dei consumatori di cibi etnici, inquadrandoli per
sesso, fasce di età, titolo di studio, città di residenza ecc., e di analizzare la percezione del rischio
che essi hanno rispetto a questo tipo di alimenti. Dalla ricerca è risultato che ben l’84,7% degli
intervistati ha mangiato cibi etnici almeno una volta, mentre solo il 15,3% non li ha mai provati. I
consumatori sono prevalentemente donne (52,5%), hanno un’età superiore ai 55 anni (39,1%), un
grado di istruzione medio-alto (poco meno del 46% ha un diploma di scuola media superiore e quasi
il 31% una laurea), hanno un lavoro e risiedono per il 46% circa al Nord e per il 34% al Sud e nelle
isole (27).
Il couscous è un alimento tradizionale del Maghreb, diffuso anche in tutto il Nord Africa e in
Medioriente, in particolare in Israele, Palestina, Giordania e Libano che ha trovato ampio mercato
anche nel nostro paese. È costituito da granuli di semola di frumento duro impastati con poca acqua
e cotti al vapore. I granuli vengono serviti con verdure lessate in un brodo piccante e carne di pollo,
agnello o montone, ma in alcuni luoghi si ritrovano anche varianti a base di pesce. In questo caso la
contaminazione occidentale ha modificato altamente il processo di preparazione rispetto a quello
tradizionale per tempi e laboriosità (un tempo le donne passavano giorni interi a dare forma ai grani)
rendendolo disponibile negli scaffali dei supermercati in forma precotta riducendone drasticamente
i tempi di cottura.
Il Sushi e il sashimi sono piatti della cucina giapponese molto diffusi ed apprezzati da diversi anni
anche in occidente, in particolare sulle nostre tavole. Differiscono sostanzialmente fra loro per il fatto
che il sushi è una pietanza a base di riso con diversi ingredienti, crudi o cotti (molluschi, alghe, carne
o vegetali), e varie salse e condimenti, mentre il sashimi è costituito da pesce, molluschi o crostacei
rigorosamente crudi, tagliati a fettine sottili di 5-8 millimetri, perché risulti il più tenero possibile, senza
altri ingredienti (20).
L’intensa crescita dei consumi di cibo etnico ha comportato un incremento sensibile delle
importazioni, il cui fatturato, facendo riferimento alla sola GDO, ha raggiunto nel 2015 quasi i 160
milioni di euro, con un incremento del 18,6% rispetto all’anno precedente e circa il doppio rispetto al
2007 (28). Si possono distinguere tre macroaree di provenienza: l’Oriente, l’America latina e il Nord-
Africa. In particolare, secondo EURISPES, nel carrello della spesa degli italiani prevalgono i prodotti
per la cucina cinese o giapponese (38,8%), latino-americana/messicana (25,7%), araba-
mediorientale (14,2%), Sud-Est asiatica (10,6%) e africana (5,4%) (29).
3.1 Focus import/export italiano dei prodotti alimentari
La quantità delle materie prime agricole del nostro Paese non è sufficiente per soddisfare la
domanda del consumo intero nazionale, dunque le importazioni di materie prime, da un lato hanno
una particolare importanza sulla nostra economia di consumo, dall’altro, grazie alla capacità
produttiva ed al know how dell’industria di trasformazione, pongono in essere l’esportazione delle
stesse sottoforma di prodotti finiti. Ciò è fonte di redditi e assicura valore aggiunto del potenziale
industriale.
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Il grafico a sinistra (fig.6) presenta
l’andamento dal 1970 al 2012 delle
esportazioni, delle importazioni e la loro
differenza che determina il saldo
commerciale, da cui si può evincere come
il valore delle importazioni agroalimentari è
superiore a quello delle esportazioni, il
quale comunque registra una performance
positiva (determinando un saldo
commerciale in deficit, in quanto il valore
delle importazioni di merci supera quello
delle esportazioni).
Nel tempo si nota come l’andamento di
queste due variabili aumenta gradualmente
(l'unica eccezione è rappresentata proprio
dall'anno 2009, che è stato condizionato
pesantemente dalla crisi). È per questo che
possiamo definirci un Paese sempre più contaminante e contaminato.
Nella maggioranza dei comparti il nostro Paese, con la propria produzione, non riesce a coprire il
fabbisogno interno della sua popolazione e della sua industria. Apparentemente le uniche filiere
definibili “autosufficienti” sono quelle del riso, della frutta fresca e trasformata, del pomodoro e dei
suoi derivati e, infine, quella del vino (30).
3.2 Esportazione delle eccellenze territoriali
In un mondo sempre più globalizzato l’esportazione di “eccellenze locali” può diventare
un’opportunità di successo per le aziende del territorio. Questa diventerebbe così occasione di
diffondere “l’identità territoriale” e allo stesso tempo si rifletterebbe in maniera benefica, sull’intera
economia della zona di provenienza dello stesso prodotto. Prendiamo ad esempio la linea dei
prodotti a marchio “Gustoso” ed analizziamola da vicino.
La Rete d’Impresa “Gustoso Sicilian Food Excellence” nasce per favorire e promuovere l’export
dell’agroalimentare d’eccellenza siciliano sui mercati esteri attraverso un unico Brand, Gustoso (31).
Per raggiungere tali obiettivi è necessario costituire un marchio che comunichi non solo l’indiscussa
qualità dei prodotti agroalimentari, ma anche le qualità organolettiche che rendono unici e preferibili
i prodotti della tradizione territoriale rispetto a quelli industriali.
Qualità, che unite ad un packaging studiato ed elaborato nei minimi dettagli ed una strategia di
marketing ad hoc per ogni potenziale consumatore, va a sviluppare l’export dell’agroalimentare
territoriale di eccellenza. E’ dunque di fondamentale importanza che la “mission” aziendale sia ben
definita e chiara per decollare verso nuovi mercati. Del resto, non è forse vero che i clienti acquistano
anche un “pezzetto” del luogo di provenienza insieme ai prodotti?
3.3 Consumo “Fuori Casa” in Italia
Il cibo etnico, ormai approdato anche nel nostro Paese, sembra piacere molto agli italiani. Secondo
un’indagine Nielsen sono 14 milioni gli italiani che dichiarano di aver mangiato in ristoranti e locali di
cucina etnica tra gennaio e marzo 2018 (32). Infatti, un’elaborazione dati del registro delle imprese
al 31 dicembre 2017, 2016 e 2012 da parte della Camera di commercio di Milano Monza Brianza
Lodi, indica che la ristorazione in Italia è sempre più internazionale con quasi 23mila locali, di cui
14mila ristoranti e 9 mila da asporto. Ciò attesta che la crescita della ristorazione etnica è stata di
oltre il 40% negli ultimi cinque anni, con un’occupazione di circa 83mila addetti e una media di una
persona su otto che nel nostro territorio lavora per un’impresa di stranieri. Sempre secondo i dati, è
Milano la prima città nel Paese per imprese di ristoratori stranieri (sono 3.137, il 40% delle imprese
del settore, con una crescita del 6,2% in un anno e del 48% in cinque) con 12.889 addetti (il 15%
Figura 6 - Bilancia commerciale agroalimentare italiana(1970-2012).
[fonte: Ns. elaborazioni su INEA – Annuario dell’agricoltura italiana,
varie annate]
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del totale italiano); seguono Roma (2.357 imprese, +5,5 % dal 2016 e oltre 7mila addetti) e Torino
(1.277 imprese, +7,4% e 4mila addetti). Alle loro spalle Brescia e Bologna per numero di imprese
(rispettivamente 742 e 673) e Firenze e Venezia per addetti (2.924 e 2.824) (33). Un aspetto questo
che ci fa comprendere come il mercato del consumo fuori casa stia cambiando adattandosi ai trend
del momento, alle richieste dei clienti italiani e non.
La metà degli italiani che ha provato almeno una volta la cucina etnica frequenta abbastanza spesso
i ristoranti stranieri: il 19% lo fa almeno una volta al mese, il 30,1% due o tre volte all’anno, mentre
il 51% più raramente. Il ristorante cinese è quello più ricercato dagli italiani (40,4%), seguito dal
giapponese (16,2%) e dal messicano (15,1%). I giovani (ossia coloro che hanno tra i 18 e i 34 anni)
sono i maggiori frequentatori di ristoranti etnici: il 64,2% di essi ha sperimentato almeno una volta la
cucina straniera, mentre se si analizzano le fasce di età successive la percentuale si abbassa al
47,5% per 10 la fascia 35-54 anni e al 45% per gli over 54. Inoltre, i residenti al Nord e al Centro
tendono a frequentare tali locali più spesso rispetto a coloro che abitano al Sud (34).
Dati questi che rispecchiano il cambiamento, la globalizzazione e le nuove frontiere, proiettandoci in
un’era del tutto diversa rispetto a qualche decennio fa.
In un contesto di multiculturalità in cui molte tradizioni si incontrano e si integrano, il cibo diviene
quasi uno strumento di rilevazione di questa promiscuità. Di seguito riportiamo infatti due casi di
integrazione sociale. Il primo “Molti Volti” è un ristorante in cui si vive l’esperienza di più culture a
tavola; il secondo, “Temakinho” è una catena ristorativa nippo-brasiliana che propone piatti che sono
il risultato del perfetto adattamento di un popolo, quello giapponese, in Brasile.
3.3.1 Caso “Moltivolti”
Il Moltivolti (35) può essere considerato un nuovo modello di impresa sociale basato sulle relazioni,
e non solo un semplice ristorante. Un vero e proprio laboratorio di rappresentazione di una nuova
società in cui gli scambi fra il “diverso” sono alla base dello sviluppo. Dall’integrazione all’interazione,
la cucina come metafora per una nuova ricetta di convivenza e sviluppo sostenibile.
Si fa portavoce di un messaggio ben chiaro: “la diversità etnica e culturale è, e può divenire, simbolo
di sviluppo e occasione di confronto che la cucina trasmette in ogni suo piatto e che il cliente vive
attraverso una vera e propria esperienza sensoriale che va oltre il mero piano olfattivo/gustativo”. Il
cliente si immerge ed è circondato da un locale con un’identità indefinibile nato da un mix frizzante
di più culture (Senegal, Zambia, Afghanistan, Bangladesh, Francia, Spagna, Gambia e Italia). Il loro
motto è: “la mia terra è dove poggio i miei piedi”. Nel lungo periodo lo scambio tra culture attraverso
il cibo crea delle variazioni alimentari, le quali, se possiedono radici solide, riescono a modificare le
abitudini in modo irreversibile e duraturo. In casi estremi il fenomeno può raggiungere dimensioni
tali da portare ad una vera e propria omologazione del gusto. In questo caso le preziose differenze
che costituiscono le singole realtà alimentari, e sono fonte di infinite variazioni nella preparazione
degli alimenti, vengono uniformate per ottenere un gusto unitario, uguale per tutti, con inesorabili
perdite delle caratteristiche individuali proprie di ogni cultura alimentare. Le contaminazioni derivanti
dal contatto culturale presuppongono, in linea generale, una sintesi che, però, è direzionata verso
una delle due culture. Difficilmente si ha una compenetrazione tale per cui gli elementi che entrano
in contatto si equilibrano perfettamente nella forma e nei gusti. Una delle due prevale, anche
lievemente, sull’altra, mantenendo comunque aspetti di entrambe le parti in gioco. Se la sintesi
ottenuta tiene conto degli elementi tradizionali, territoriali, regionali di una determinata cultura, si
mantengono intatte le peculiarità date dalle differenze così dà ottenere un arricchimento culturale.
Riportiamo in allegato un’intervista effettuata ad un cofondatore dell’associazione Molti Volti
Giovanni Zinna (allegato1).
3.3.2 Caso Temakinho
Temakinho è una catena ristorativa che propone ai clienti una cucina fusion, mescolando nei temaki
i sapori sudamericani alla cucina nipponica, rappresentando così l’emblema dell’unione di due
culture alimentari. Progetto nato nel 2012 da tre ideatori italiani che hanno creduto nella nuova moda
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nippo-brasiliana che si stava diffondendo. Temakinho, infatti, con i suoi piatti ci narra la storia di un
incontro avvenuto nei primi anni del secolo scorso tra la comunità brasiliana e quella giapponese.
Nel 1908 un centinaio di famiglie provenienti dal Giappone, guidate da Kasato Maru, sbarcarono
sulle coste di San Paolo in Brasile. Ne nacque una felice e pacifica convivenza, accentuatasi poi
dopo le due guerre mondiali, con l’esodo dei nipponici verso il Brasile in cerca di fortuna. Ad oggi il
Brasile vanta il più importante nucleo di giapponesi naturalizzati all’estero. Questa felice unione di
due culture molto diverse tra loro ha dato vita ad una serie di contaminazioni, tra cui la fusione in
cucina dei sapori brasiliani con i piatti tradizionali giapponesi. Il TEMAKI, il cono di riso avvolto in
un’alga nori con ingredienti brasiliani, è divenuto così uno dei piatti simbolo del Brasile
contemporaneo, in cui, velocità, gusto e leggerezza si uniscono in gustosi piatti. Dal Brasile questa
tendenza ha preso piede in tutto il mondo tanto che nel 2012 i tre giovani ideatori italiani partono
con il progetto ristorativo “Temakinho” in Italia. In poco tempo hanno riscontrato un successo tale da
aprire punti vendita anche nel Regno Unito e nelle isole spagnole (Ibiza e Formentera), venendo
citato persino da importanti riviste quale il Gambero Rosso (36).
3.4 Consumo “A Casa” in Italia
Quanto cibo “etnico” è entrato a far parte dell’alimentazione dei Paesi occidentali? In Italia così come
in Germania, Francia e Spagna, a fronte di un mercato alimentare che vale complessivamente 321
miliardi di euro, la quota cosiddetta "etnica" relativa agli alimenti per uso domestico ammonta a circa
3 miliardi di euro (37).
Le due modalità di distribuzione dei prodotti etnici sono negozi gestiti da stranieri e le GDO. Nei primi
si tende ad acquistare per lo più prodotti etnici (38,7%), ma si comprano anche prodotti di uso
comune (33,9%). Ci si rivolge a tali attività perché si trovano prodotti difficilmente reperibili nei negozi
tradizionali (51,8%), o perché sono vicini a casa (19,6%), o più convenienti (16,1%). Alcuni invece
si recano per pura curiosità (12,5%). La fiducia che gli italiani ripongono in tali negozi è però molto
scarsa: il 61,8% li reputa poco o per niente affidabili a causa di una scarsa qualità nei prodotti venduti
(66,3%), perché sono poco curati (22,1%) e perché, infine, sono frequentati in prevalenza da
clientela straniera (11,5%). Per tale ragione la presenza degli italiani nei negozi etnici presenti sul
territorio è piuttosto rara. Appena il 21,4% riferisce di aver fatto acquisti in questi negozi, di cui la
frequenza settimanale è pari al 14,1%, mentre neppure una volta all’anno il 64,1%. Ad essere più
interessata è la popolazione nella classe di età intermedia (26,7%) e residente al Centro (25,5%)
(34).
Se l’acquisto di prodotti etnici avviene raramente nei negozi gestiti da stranieri, più probabile è il loro
acquisto nei secondi (GDO): ben il 33,3% degli intervistati dice di aver preso dagli scaffali tali
alimenti. In questo caso l’acquisto è molto più frequente: il 40,7% dice di fare uso di prodotti etnici
almeno una volta al mese e il 26,4% almeno una volta all’anno. Più interessata è la popolazione tra
i 33 e i 54 anni (41,6%) e quella residente nelle aree centrali d’Italia (36,8) (34).
Come si presenta un prodotto etnico all’interno di un punto vendita della GDO? E come può essere
guidato il consumatore all’acquisto?
La grande distribuzione si sta adattando al trend mediante la presentazione dei prodotti in maniera
digitalizzata. Riesce a seguire molto da vicino tutte le esigenze dei consumatori. In particolare i
prodotti etnici necessitano di essere presentati in maniera “adeguata” ai diversi tipi di consumatori
che si diversificano per localizzazione geografica e di conseguenza per culture ed abitudini
alimentari. Oltre a limitarsi alla descrizione della composizione del singolo prodotto e ad esprimerne
le caratteristiche organolettiche e compositive, vengono suggerite delle ricette per il loro impiego in
cucina esaltandone i punti di forza. La GDO è passata da una comunicazione vecchia ed ormai
datata come i volantini cartacei o le pubblicità su quotidiani e settimanali (che hanno indubbiamente
la loro efficacia) al digital marketing. Riempire la cassetta delle lettere ogni settimana con nuovi
depliant era lo strumento di marketing più usato, mentre oggi si è passati ad una comunicazione
personalizzata per ogni consumatore “one to one” o il “real time marketing” (la customer care attiva
24 su 24, 7 giorni su 7 ed i contenuti creativi da condividere sul web per animare il dialogo ed il
rapporto con i clienti, rendendolo più interattivo). La crescita economica, i cambiamenti
sociodemografici e la rivoluzione tecnologica in atto, influenzano l’evoluzione delle marche
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distributrici che sono chiamate ad intercettare le nuove esigenze dei clienti e a valorizzare
continuamente nuove opportunità di sviluppo. Le aspettative positive di crescita per l’economia
italiana interesseranno anche i consumi alimentari delle famiglie, la cui spesa secondo le stime di
The European House-Ambrosetti, passerà dai 454 euro mensili del 2017 a 473 Euro nel 2020 (+4,1
per cento). I cambiamenti socio-demografici, l’invecchiamento della popolazione, l’aumento delle
famiglie mononucleari, la multietnicità influenzeranno gli stili di consumo, con un aumento della
domanda di prodotti salutistici e di qualità (”free from“, prodotti biologici e origine locale, prodotti
freschi e freschissimi), prodotti ”ready to eat“ e cibo etnico (38). La capacità della GDO di rispondere
a tutte le esigenze dei consumatori è racchiusa dalla logica del tutto “a portata di mano” e “disponibile
tutto l’anno”. Grazie all’elevato potere contrattuale, ad un’alta efficienza logistica, alla facilità con cui
riesce a raggiungere i “colossi” dell’industria alimentare, la GDO riesce a rispondere perfettamente
alle esigenze di un’ampia fetta di consumatori. Influenzare le scelte dei consumatori ed interpretare
i loro trend, ha contribuito a rendere la grande distribuzione organizzata leader indiscusso del settore
distributivo con una quota di mercato in Italia pari a circa il 70% e in molti altri Paesi della CE
addirittura maggiore. La riorganizzazione dell’assortimento e del displaying praticati a frequenza
sempre maggiore dai retailers ci dà un’idea di quanto velocemente cambino le abitudini alimentari
dei consumatori. Così, secondo le nuove mode alimentari, è oggi sempre più consueto trovare
prodotti come quelli Bio, vegetariani, vegani, alimenti rich in e free from, etnici assenti dagli scaffali
fino a pochi anni fa. Una ricerca Nielsen, attraverso lo studio sui claim delle etichette alimentari e i
dati sulle vendite, mostra come si è evoluta la spesa alimentare negli ultimi anni. Dall’analisi dei
principali trend si evince che:
- il biologico continua a crescere, assieme ai prodotti integrali e senza zuccheri aggiunti;
- il “free from” (“senza olio di palma”, “senza OGM”, “Senza coloranti’, “senza conservanti”, “senza
additivi”) rallenta lievemente, consolidando il boom registrato negli anni passati. Questi
rappresentano il 18,4% dei 64.800 prodotti alimentari monitorati dall’Osservatorio Immagino [27% in
valore, ndr] e realizzano un giro d’affari di 6,8 miliardi di euro;
- emergono nuovi trend, come i claim ‘senza antibiotici’– di cui Coop ha tracciato la via e l‘agricoltura
sostenibile’;
- le indicazioni ‘non fritto’, ‘rustico’, ‘aromatizzato’ compaiono su un numero crescente di prodotti.
Gli alimenti biologici occupano ormai quasi il 10% dei prodotti alimentari considerati dall’Osservatorio
Immagino. 6.656 referenze, sostanziosa crescita delle vendite (+6,4%) stimolata anche da un
sostanziale ampliamento dell’offerta (+9,0%). Uova, cereali per la prima colazione e confetture sono
stati i prodotti che hanno dato il maggior contributo alla crescita del giro d’affari del claim bio, anche
se l’incremento è abbastanza generalizzato e ha coinvolto quasi tutte le categorie dell’alimentare. I
prodotti ‘identitari’ inseriti nella categoria lifestyle es. vegetariano, vegano, halal, kosher, oltre al
biologico – hanno messo a segno nel 2018 un +5,5%, raggiungendo i 2,4 miliardi di euro di giro
d’affari tra super e ipermercati. Sebbene lo sviluppo della categoria sia rallentato, rispetto al +10,7%
del 2017, il lifestyle copre infatti il 13,4% dei prodotti e l’8.6% del giro d’affari complessivo dei cibi
confezionati (39). Tra i claim emergenti con dati ancora poco rilevanti ma performance positive vi è
la rivendicazione ‘agricoltura sostenibile. Il food to go o tradotto il ‘pronto da mangiare’, che con
un’alta componente di servizio consente di preparare con facilità o riscaldare pasti ‘gourmet’, sembra
a sua volta emergere con successo. Le vendite di tali prodotti sono cresciute del 12,3%, superando
quota 1,3 miliardi di euro (40).
3.4.1 Prodotti etnici sugli scaffali
Sono circa 20,7 milioni gli italiani che tra le mura domestiche si dilettano nella preparazione di ricette
etniche. Il cous cous dopo il riso basmati rappresenta l’ingrediente etnico che ha avuto la maggior
crescita di consumo negli ultimi 5 anni.
Ad esempio, Conad, la seconda insegna italiana per fatturato, ha una strategia di comunicazione
innovativa nel panorama distributivo italiano. Ogni canale di contatto ha un proprio ruolo e linguaggio
specifico e tutti con coerenza portano valore aggiunto alla loro insegna ed alla loro marca. Abbiamo
analizzato in dettaglio come la suddetta catena presenta ai suoi consumatori il cous cous (38). Oltre
ai due formati da 500 gr e da 250 gr che potremmo definire “standard”, il prodotto è stato inserito
Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari
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15
anche in una specifica linea che prende il nome di “verso natura veg” come alimento adatto per la
cucina vegana, con un packaging ed un posizionamento all’interno del punto vendita completamente
diverso. Osservando i packaging dei prodotti ed il sito web Conad, abbiamo preso spunto per alcune
riflessioni indicative della comunicazione con cui la catena gestisce l’alimento. Il marketing sottolinea
la “velocità di preparazione”, presentando il prodotto cous cous come alimento pronto in soli 5 minuti.
Viene classificato in funzione al target di riferimento, presentato una volta come cibo etnico, un’altra
come prodotto vegan ecocompatibile. Il cous cous che presenta un packaging arabeggiante
tendenzialmente richiama l’attenzione di consumatori che gradiscono o che vogliono provare un cibo
“diverso” e allo stesso tempo si rivolge anche ai consumatori arabi, africani o di cultura orientale al
fine di soddisfarne i bisogni di appartenenza gastronomica. Il caso specifico del cous cous della linea
“verso natura veg”, invece, sottolinea gli aspetti benefici e la leggerezza, intrinseci alla stessa
composizione del prodotto, rivolgendosi ad un consumatore che oltre ad avere il gusto dell’etnico,
predilige un’alimentazione healthy, light, vegan ed ecofriendly (38).
Un esempio di enorme successo legato al lancio di un prodotto etnico nella distribuzione italiana è
quello riscosso dai Saikebon, nudolini orientali prodotti da Star, azienda che ha fatto da apripista a
questa rivoluzione nel mondo dei piatti pronti. Da un’intervista rilasciata dall’allora PM Saikebon a
DM (rivista Distribuzione Moderna), il 10 Gennaio 2017, si evince come il successo riscosso da
Saikebon abbia dimostrato che, nonostante la cucina mediterranea rimanga la regina indiscussa del
Bel Paese, c’è sempre più curiosità nel consumatore verso sapori che valichino i nostri confini.
Attualmente, sebbene altri players stiano cercando di affacciarsi nel mondo dei Noodles, attratti
dall’enorme potenziale del mercato, Saikebon mantiene la posizione di leader indiscusso,
rappresentando una quota nelle vendite relative alla categoria superiore ai due terzi e rimanendo
sinonimo di Noodles nella mente dei consumatori. A scaffale Saikebon è posizionato tra i piatti pronti.
L’azienda, oltre a segmentare l’offerta creando più linee di prodotto, ha ritenuto opportuno investire
in un formato del tutto innovativo: la CUP. Il format, oltre ad assicurare una distintività a scaffale,
garantisce un’elevata facilità di preparazione e comodità d’uso per il consumatore (41).
La zuppa Bangkok, invece, è’ una semplice zuppa, tailandese, che rientra nella nuovissima ed
originale gamma “Gusto d’Oriente” della linea verde. È una gamma creata ad hoc dalla casa
produttrice Dimmidisì per portare l’Asia nelle nostre tavole, il packaging anche in questo caso si può
definire arabeggiante e raffigura le bacchette. Sia il reclaime sul sito web che lo spot pubblicitario
sottolineano che è una gamma di prodotti adatti ad un palato che vuole scoprire nuovi gusti e per un
consumatore amante del cibo etnico asiatico. Il pratico e comodo packaging rende le zuppe semplici
da trasportare e da consumare durante la pausa pranzo in ufficio o comunque per un rapido pasto
“fuori casa”. In particolare lo script “sintonizzati sulle frequenze dei tuoi figli” si riferisce ad un target
d’acquisto “genitoriale”, tranquillizzato sulla certezza della genuinità degli ingredienti, mentre il target
di consumo è composto dai loro “figli”, ragazzi con un’età compresa tra 14 ed i 30 anni e i genitori
stessi (42) (43).
Il kebab rientra in una nuova categoria di prodotti di piatti di carne pronti da mangiare che possiamo
comprare al supermercato. Le due marche leader del mercato delle carni bianche, Amadori e Aia,
hanno proposto un Kebab pronto all’uso, da scaldare in pochi minuti. Nel punto vendita è riposto nel
banco frigo vicino alle carni bianche preparate industrialmente, il packaging è una vaschetta in
atmosfera modificata, semplice nell’etichetta e trasparente, così che i consumatori possano
apprezzarne il contenuto.
Un altro esempio di food innovation dato da una partnership tra un brand francese ed i maggiori
retailers di ben 10 paesi della comunità europea è quello del Sushi Daily. Quest’esempio di successo
mostra prima di tutto come i trend alimentari spesso coinvolgano buona parte dei paesi sviluppati e
non sono quasi mai relegati entro i confini di un solo paese. In seconda battuta la velocità con cui
suddetti trends riescano a propagarsi divenendo in pochi anni abitudini alimentari. Sushi Daily nata
nel 2010 in Francia dall’imprenditrice Kelly Choi oggi conta più di 800 punti vendita in 10 paesi. Sul
mercato italiano è presente con oltre 150 stand all’interno delle catene Bennet, Carrefour, Il Gigante,
Pam Panorama, Iperal, Conad, Iper, La grande i, Gruppo Poli, Pewex, Tigros, Sole 365, Élite e
Simply, dove veri e propri artigiani del sushi preparano ogni giorno più di 140 ricette esclusive, da
quelle più classiche a quelle più creative, con o senza pesce crudo, sempre ispirate all’arte del sushi
(44). Anche la Coop, principale retailer italiano, vende sushi prodotto all’interno del punto vendita,
garantendo al consumatore un cibo etnico pronto all’uso.
Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari
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16
4. Conclusioni
Sulla base di quanto è stato descritto finora in questo report, emerge come le abitudini alimentari
siano in continuo divenire: se da un lato c’è un’incessante curiosità di seguire i trends del momento,
dall’altro si tende a mantenere ancora vivi anche aspetti tradizionali così da creare un sostanziale
equilibrio tra innovazione e tradizione.
Persino in un paese come l’Italia, in cui il cibo è un forte elemento di identità culturale, si sta
assistendo ad una notevole trasformazione dello stile alimentare. Secondo uno studio che Demos
ha realizzato con la Fondazione Barilla for Food & Nutrition in occasione dell’ottavo Forum
Internazionale su Alimentazione & Nutrizione di BCFN, un italiano su due pensa che da qui a dieci
anni sulle nostre tavole sarà visibile in maniera evidente questo cambiamento. Si evince che a
percepirlo sono soprattutto gli over 65 contrariamente ai più giovani. Questa differenza è dovuta
molto probabilmente al fatto che, essendo i giovani i principali attori del cambiamento, tendono quasi
a non avvertirlo. A riprova di quanto detto, gli stessi giovani sono la parte del campione che risulta
più aperto al cibo etnico e che ne consuma la quantità maggiore.
Secondo il medesimo studio nella percezione degli italiani intervistati, le variabili che maggiormente
influenzeranno le scelte alimentari da qui ai prossimi 10 anni, saranno i “cambiamenti climatici”
(citate dal 79,6% del campione), seguiti dai “prezzi delle materie prime” (78,2%), dai “social media”
(70,4%) e dalle “migrazioni e i contatti con le nuove culture (65,6%).
Ancora più interessante è notare in “cosa” e “come” questi cambiamenti di abitudini alimentari si
tradurranno sempre nei prossimi 10 anni. Per il 69,8% aumenterà il “consumo di cibi biologici”, per
il 63,2% quello dei “cibi funzionali” (ossia i senza glutine, senza lattosio, ecc.), per il 59,7% i “cibi a
Km 0” e per il 47,4% quello dei cibi etnici (37).
Durante la stesura di questo report abbiamo studiato ed analizzato non solo i differenti trends che
sono giorno per giorno sempre più “in divenire”, ma anche e soprattutto la comprensione di quanto
e come è cambiato l’atteggiamento del consumatore al momento dell’atto d’acquisto. Il nostro
consumatore è più impulsivo ed esigente in termini sia di trasparenza della qualità del prodotto sia
nel ricercare i prodotti stessi al di fuori della sua tradizione alimentare. Pertanto suggeriamo alle
G.D.O, nonché alle aziende produttrici, di dare sempre più risalto ai prodotti etnici mediante azioni
via via più innovative ed ingegnose di marketing sotto ogni sua forma (packaging, promozione e
pubblicità) da un lato, e di posizionamento da parte dei retailers, dall’altro. Visto l’interesse crescente
per “l’ethnic” da parte di un numero cospicuo di consumatori, potrebbe risultare funzionale la
creazione di vere e proprie isole di prodotti a matrice etnica, come è stato fatto in precedenza per i
prodotti bio e a Km0.
In questo modo, grazie al raggruppamento di buona parte dell’offerta alimentare etnica, i
consumatori verrebbero agevolati nello scoprire, conoscere e di conseguenza acquistare questa
tipologia di prodotto poichè diventerebbe più immediato trovarlo tra le molteplici referenze presenti
in un reparto. A nostro avviso potrebbe risultare vincente creare delle linee nuove e/o potenziare
quelle già esistenti che accomunino prodotti differenti non più solo per “categoria di prodotto” o
“utilizzo” ma che abbiano come fulcro centrale proprio la provenienza del luogo d’origine e/o
appartenenza ad una determinata cultura alimentare. L’interesse per i nuovi prodotti e nuovi brand
è in continua crescita, in particolare in Italia dove ben 45 italiani su 100 dichiarano di cercare
attivamente la novità quando vanno a fare la spesa. Questi sono i dati estrapolati dall’analisi del
nuovo carrello della spesa degli italiani grazie ad una ricerca condotta dall’osservatorio “immagino”
di Nielsen nel 2018, in cui viene confermato che il trend del “nuovo” o “novità” o “nuova formula” è
in enorme espansione. Sono proprio dati come questi che hanno stimolato le nostre riflessioni.
Sarebbe auspicabile informare il consumatore riguardo ai prodotti che desidera provare, ad esempio
mediante “cooking experiences” e “taste experiences” direttamente all’interno o nei pressi del punto
vendita, magari con apposite giornate a tema etnico. Così facendo, in quelle giornate specifiche e
calendarizzate, lo store diverrebbe un vero e proprio centro di attrazione e di incontro non solo per
stranieri ma anche per i consumatori veterani e, con molta probabilità, ne verrebbero fidelizzati di
nuovi. Si potrebbe ricorrere alla realizzazione di formule già esistenti come quella del “meet up”, già
molto in voga nei paesi stranieri, in cui diverse persone si riuniscono in un luogo/spazio per
Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari
Master in Food & Beverage Management 2019-2020
17
condividere le proprie esperienze riguardo un particolare tema o semplicemente ascoltare quelle
degli altri per scoprire qualcosa in più in merito all’argomento trattato o farsi un’idea spinti dalla
curiosità del caso. Quanto velocemente cambieranno i trends? E quanti di quelli presenti diverranno
i pilastri di quelli del futuro? Fino a che punto il marketing può arrivare per fidelizzare target di
consumatori sempre più eterogenei? Non essendovi limiti alle risposte di queste domande,
potenzialmente anche le nostre conclusioni potrebbero esserlo.
Tutto ciò che oggi viviamo come cambiamento, novità, innovazione potrebbe essere la tradizione
del domani?
Globalizzazione e Contaminazione degli stili alimentari: “perdita della tradizione o nascita di una
nuova?...”
Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari
Master in Food & Beverage Management 2019-2020
18
5.Bibliografia
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European House Ambrosetti.
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Parigi, Sorbona : s.n.
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5. A, Capatti. La cucina italiana. 1999.
6. M., Montanari. Il mondo in cucina: storia, identità, scambi. 2002.
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lontano. [Online] 11 Luglio 2016. https://www.greenme.it/mangiare/alimentazione-a-
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per scoprirlo. [Online] 2016. https://www.mondomigliore.eu/natura/cibo/.
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11. Aversa, Giovanni. bankpedia. [Online] http://www.bankpedia.org/index.php/it/103-
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enciclopedia.
12. Meriggi, Giovanni De Luna e Marco. Il segno della storia. s.l. : Pearson, 2012.
13. Costato, L. Compendio di diritto alimentare. s.l. : Cedam.
14.MIUR WaFS CeStInGeo. Waterandfoodsecurity.org. [Online]
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15. food democracy. [Online] https://foodemocracy.wordpress.com/2014/12/09/il-brunch-
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fast-food. [Online] https://cfpassistente.wordpress.com/le-diverse-forme-del-cibo-dalla-
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17. Teti, V. 1999.
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[Online] 4 12 2018.
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23. La Presse. Coldiretti: +18% consumi cibi etnici, è boom nel 2015. [Online] 6 settembre
2015. http://www.lapresse.it/coldiretti-18-consumi-cibi-etnici-e-boom-nel-2015.html.
24. Rapporto Coop. [Online] 2016. http://www.italiani.coop/rapporto-coop-2016.
25. Rapporto Coop 2017: Economia, consumi e stili di vita degli italiani di oggi. Roma : Agra
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26. Coldiretti/Censis, 78mld per mangiare fuori casa (+8%). s.l. : Coldiretti, 20 ottobre 2017.
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28. M., Ratti. Quanto vale il cibo etnico. L'Espresso. La Repubblica, 14 novembre 2016.
29. Eurispes: cibo etnico più sfizio che passione per italiani. Roma : Ansa, 26 gennaio 2017.
30. L'origine delle materie prime agroalimentari: importazioni e produzione interna in Italia.
Zuppiroli, Marco. Parma, dipartimento di economia Università degli Studi di Parma : s.n.,
2015.
Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari
Master in Food & Beverage Management 2019-2020
19
31. Gustoso. GustosoSicilianFood.it. [Online] http://www.gustososicilianfood.it.
32. Ansa- Agenzia Nazionale Stampa Associata. Cucina etnica, scelta da 14 milioni di italiani.
[Online] 18 maggio 2018.
http://www.ansa.it/canale_terraegusto/notizie/prodotti_tipici/2018/05/18/cucina-etnica-
scelta-da-14-milioni-di-italiani_2920e58d-b330-447e-a4e1-417b09d8b9ab.html.
33. Ansa. Cresce in Italia la "ristorazione etnica", +40% in 5 anni. 30 agosto 2018.
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35. Molti Volti. [Online] http://moltivolti.org .
36. Temakinho tra Giappone e Brasile. Se Milano il sushi balla a ritmo di samba. Gambero
Rosso. Vol. https://www.gamberorosso.it/notizie/articoli-food/temakinho-tra-giappone-e-
brasile-se-milano-il-sushi-balla-a-ritmo-di-samba/.
37. Leggo. [Online] 5 12 2017.
https://www.leggo.it/alimentazione/news/cibo_sostenibilita_italia_solo_settima_ma_domina
_nell_agricoltura-3409757.html.
38. Conad. [Online]
(https://www.conad.it/?utm_source=google&utm_campaign=_WPP_CONAD_BRAND-
CORPORATE-PURE-EXACT&utm_medium=cpc.
39. Food to go: in Italia è boom. Serpilli, Laura. 08 settembre 2019.
40. Nielsen. Osservatorio immagine Nielsen OI 2019 GS1 Italy. [Online] 2019.
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41. Nicola Arici, Senior PM Ready Meals. Saikebon: la rivoluzione dei piatti pronti in formato
noodles. 10 gennaio 2017.
42. Dimmidisì . [Online] https://www.dimmidisì.it/prodotti/zuppe-e-brodi/gusto-oriente/zuppa-
bangkok/.
43. Tigros. [Online]
https://www.google.com/url?q=https://www.tigros.it/shop/product/zuppa-bangkok-gr350-
dimmidisi-gusto-
doriente&sa=D&ust=1576700233627000&usg=AFQjCNEp9BEI2ncEZIUNLNy-OeqgHlLJgw.
44. [Online] https://www.horecanews.it/sushi-daily-due-nuove-aperture-a-sassari-e-cagliari/.
Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari
Master in Food & Beverage Management 2019-2020
20
ALLEGATO I
Caso Moltivolti
Intervista a Giovanni Zinna, cofondatore dell’associazione “Moltivolti”.
1) Cosa ha fatto nascere in lei l’idea di creare l’Associazione “Moltivolti”?
<<L’associazione moltivolti è composta da molte persone accomunate dall’aver vissuto dieci
anni fa un’esperienza di cooperazione internazionale in Africa, in particolare in Tanzania.
Al tempo la cooperazione era disequilibrata e rappresentava più ombre che luci. Così,
ritornato dall’Africa mi feci venire l’idea di creare un’associazione per continuare a trattare
tematiche che avessero a che fare con il Nord e Sud del mondo. Questa volta utilizzando
uno strumento di cooperazione che risultasse più simmetrico dal punto vista delle relazioni
instaurate tra i componenti dell’associazione stessa. Inoltre, l’aver vissuto in detti posti mi ha
permesso di venire a conoscenza di quegli elementi che ci hanno permesso di costruire
relazioni più e significative e durature.
La prima associazione “Moltivolti Capovolti” era in co-working. Questa, però, a distanza di un
anno risultò non sostenibile, in quanto le spese superavano i costi. Con altri soggetti facenti
parte dello stesso co-working abbiamo pensato di creare un’associazione che integrasse il
no profit e il profit e da qui è nata l’idea di Moltivolti. Ciò ha significato trasportare il Co-
working all’interno di un progetto più grande in cui il ristorante facesse da traino da un punto
di vista economico mentre il co-working ne desse la cornice valoriale. Fu così che nacque
questa intesa sociale chiamata Moltivolti.
Già nella sua compagine iniziale erano presenti individui stranieri provenienti ad esempio dal
Senegal, Zambia in maniera tale di avere già nello staff un’integrazione vera e propria,
tangibile.
Quindi lo scopo iniziale del ristorante è stato quello di finanziare un’associazione che
inizialmente, seppur avesse nobili scopi, non era economicamente sostenibile.
Ora il ristorante produce utile facendo del cibo che, provenendo da diverse culture, comunica
una visione pratica di integrazione e socializzazione. Coerentemente con la vision del
progetto, il cibo rappresenta un ottimo elemento di integrazione sociale.
L’ obiettivo principale è a stampo etico, poiché tutto si lega ad una visione del mondo in cui
le frontiere vengano abbattute, non solo quelle geografiche ma anche quelle mentali>>.
2) La scelta del Quartiere Ballarò dove avete aperto il ristorante, è stata casuale o no?
<<No, non è stata casuale. Compatibilmente alla vision del progetto era importante far
nascere questa nuova realtà in un contesto come quello del quartiere Ballarò. Questo è un
vero e proprio laboratorio sociale in cui coesistono più di 15 etnie e vengono parlate più di
28 lingue diverse. Sono presenti diversi locali, un gran numero di immigrati e coesistono altre
associazioni. In conclusione, questo progetto non poteva che svilupparsi lì al fine di innescare
dinamiche di riqualificazione del quartiere, e poter crescere con esso>>.
3) La clientela del Moltivolti ha provenienza locale o straniera?
<<Dipende dalla stagione, in estate la clientela è turistica per il 50-60%, mentre in inverno a
frequentare il locale sono soprattutto le persone del posto, sia siciliani che immigrati. Questi
ultimi frequentano volentieri il ristorante anche perché si sentono rappresentati dagli stessi
componenti dello staff che sono spesso della loro stessa nazionalità. Si trovano talmente a
loro agio che frequentemente decidono di festeggiare lieti eventi in questo locale>>.
Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari
Master in Food & Beverage Management 2019-2020
21
4) I consumatori scelgono pietanze appartenenti alla loro cultura culinaria o tendono a
provarne delle nuove?
<<Il consumatore, sapendo che è un ristorante multietnico, si lascia attrarre da proposte
culinarie varie, piatti nuovi che provengono da tradizioni diverse>>.

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Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari

  • 1. KIA TREND Project work “KiA – Knowledge in Action” GLOBALIZZAZIONE E CONTAMINAZIONE TRA GLI STILI ALIMENTARI Master in Food & Beverage Management 2019-2020 A cura di: Ciucci Francesca D’Orazio Maria Eugenia Pizzuto Marco Ricco Galluzzo Paola Zago Stefano
  • 2.
  • 3. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 0 INDICE 1 Introduzione................................................................................................................................. 1 1.1 Cibo e cultura: dalla nascita ai giorni nostri ............................................................................... 1 1.2 I tre grandi stili alimentari: cultura mediterranea, orientale e western diet.................................. 3 1.2.1 Tradizione e stili alimentari orientali .................................................................................... 3 1.2.2 Tradizione e stili alimentari mediterranei............................................................................. 3 1.2.3 Western Diet....................................................................................................................... 4 2.Contaminazione alimentare nei diversi paesi del mondo.............................................................. 4 2.1 Lo studio Khoury....................................................................................................................... 4 2.2 La liberalizzazione del commercio internazionale...................................................................... 5 2.3 Gli effetti sociali della globalizzazione alimentare ..................................................................... 6 2.4 I flussi migratori ed integrazione sociale.................................................................................... 8 2.4.1 Come il cibo diventa sinonimo di integrazione sociale? ................................................... 9 3. Contaminazione alimentare il Italia.............................................................................................. 9 3.1 Focus import/export italiano dei prodotti alimentari ................................................................. 10 3.2 Esportazione delle eccellenze territoriali ................................................................................. 11 3.3 Consumo “Fuori Casa” in Italia................................................................................................ 11 3.3.1 Caso “Moltivolti”................................................................................................................ 12 3.3.2 Caso “Temakinho” ............................................................................................................ 12 3.4 Consumo “A Casa” in Italia ..................................................................................................... 13 3.4.1 Prodotti etnici sugli scaffali................................................................................................ 14 4. Conclusioni ............................................................................................................................... 16 5. Bibliografia................................................................................................................................ 18
  • 4. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 1 1 Introduzione L’obiettivo del nostro lavoro è determinare le relazioni che oggi intercorrono tra globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari. A tal proposito, le domande che ci siamo posti e che hanno rappresentato l’incipit dello studio da noi condotto, sono state le seguenti: quanto veloce stanno cambiando gli stili alimentari e in che direzione stanno andando? Omogena o pluridirezionale? Cambiamento, ricerca del nuovo, comunicazione rapida, viaggi, curiosità, emigrazioni sono aspetti che ci hanno fatto divenire sempre più cittadini del mondo e non più solo del nostro Paese. Gli stili di vita si sono incrociati, confrontati, miscelati e confusi tra loro perdendo identità e singolarità. Questa è l’era della Globalizzazione che ha intaccato e contaminato ogni singolo aspetto della nostra vita quotidiana influenzando anche le nostre abitudini alimentari. Il cibo è sempre più ”Glocal”, risultato di lunghe storie e tradizioni che si sommano e si sottraggono facendo scaturire risultati nuovi. Non raccontano più la storia di un individuo o una popolazione ma quella del mondo. L’integrazione fa da collante a tutto ciò. Attraverso questo lavoro vogliamo quindi analizzare le varie tappe che hanno segnato l’affermarsi della nuova era “globalizzata”, osservando i cambiamenti negli stili alimentari e nel modo di mangiare. Abbiamo ritenuto opportuno iniziare con un excursus storico e una descrizione dei tre macrostili alimentari mondiali (primo capitolo); approfondendo poi nel secondo il crescere delle contaminazioni alimentari e gli effetti sociali che ne sono derivati. Vedremo come i Paesi, infatti, diventano sempre più interdipendenti a livello di prodotto e non solo e come l’integrazione sociale porti delle nuove realtà in tavola. Nel capitolo terzo abbiamo deciso di focalizzare la nostra attenzione su quanto avvenuto in Italia, analizzando i cambiamenti delle abitudini alimentari degli italiani sia nel contesto domestico che extra-domestico, tendente sempre più al consumo di piatti etnici e come questi abbiano influenzato anche il commercio nostrano adattandosi all’evoluzione dei bisogni degli italiani globalizzati. 1.1 Cibo e cultura: dalla nascita ai giorni nostri “Se un cibo è più della somma dei nutrienti che lo compongono e una dieta è più della somma dei cibi che la compongono, allora una cultura culinaria è più della somma dei menù ad essa riconducibili, ma abbraccia l’insieme delle abitudini alimentari e delle regole non scritte che – congiuntamente – governano la relazione di una persona con il cibo e con l’atto di mangiare”. (1) È con questa espressione che Michael Pollan definisce lo “stile alimentare” di un individuo, evidenziando la dimensione sociologica del cibo e dell’atto del mangiare e ponendo lo stesso stile alimentare, al pari di religione, lingua, costumi e altre categorie, come elemento culturale di un popolo, nel quale l’individuo si identifica fortemente. All’origine del subentro dell’elemento culturale nel modo di nutrirsi da parte dell’uomo vi è la scoperta del fuoco. La capacità umana di manipolazione della natura ha segnato una tappa cruciale con la scoperta del fuoco. Utilizzato variamente – per scaldarsi, avere luce, proteggersi dalle fiere, fare segnali, asciugare indumenti – il fuoco ha dato luogo a sviluppi culturali progressivi di enorme importanza specialmente in campo alimentare. Per dirla con Levi Strauss, la cottura di cibi col fuoco è “l’invenzione che ha reso umani gli umani”. Prima di apprendere la possibilità della cottura, il cibo, in particolare la carne, veniva mangiato crudo, avariato o putrefatto. L’uso del fuoco ha portato a una svolta decisiva. La cottura marca dunque simbolicamente una transizione tra natura e cultura, e anche tra natura e società, dal momento che, mentre il crudo è di origine naturale, il cotto implica un passaggio a un tempo culturale e sociale. Da questo passaggio in poi, il cibo diventa, come fatto oggettivo, punto di partenza per straordinari sviluppi in ogni società. Le cucine nazionali, come afferma Rozin, incarnano la saggezza alimentare delle popolazioni e delle rispettive culture (2). Con il passare del tempo, dunque, la tradizione alimentare di una popolazione o di un paese, determinata da componenti geografiche, ambientali, economiche, storiche e nutrizionali, si è diretta in una direzione ben precisa e si è evoluta
  • 5. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 2 parallelamente all’evolversi delle vicende della popolazione stessa, determinandone le peculiarità e i tratti che la distinguono da tutte le altre, rendendola per determinati aspetti unica. Ciò è evidenziato dal fatto che pur essendo onnivori non seguiamo tutti la stessa dieta e dal fatto che alcuni cibi, pur essendo edibili, non vengono mangiati in nessun caso o resi indesiderabili in determinate culture piuttosto che in altre. Già a partire dall’epoca tardo-medioevale, in Europa, il cibo comincia a perdere i suoi connotati originari, assumendo sempre più connotati simbolici e sensoriali. Infatti, i ceti più abbienti lo utilizzavano come strumento di differenziazione dalle altre classi sociali. Questa mutazione implica, innanzitutto, la commistione tra gli elementi culinari tradizionali e quelli nuovi, sancendo un’inversione di tendenza. Con l’era moderna gli scambi di materie prime alimentari aumentano notevolmente. L’Europa diventa protagonista indiscussa degli scambi commerciali, divenendo la principale beneficiaria di apporti esterni. Essa ha adottato prodotti, sin dall’inizio accessibili a tutti, come il pomodoro, il peperone, il mais, la patata, ed ancora oggi presenti sulle nostre tavole. Invece altri prodotti come lo zucchero, il caffè, il tè, il cacao, a causa del loro prezzo, sono stati riservati all’élite aristocratica e solo successivamente con la rivoluzione industriale sono divenuti di largo consumo. Il gusto del nuovo era tuttavia ancora contenuto (3). I “gloriosi anni trenta” cancellano il ricordo degli anni difficili. Tutti possono procurarsi tutto. Con la Seconda Guerra Mondiale, il processo accelera decisamente. I prodotti, i sapori ed i piatti americani affascinano europei e giapponesi che hanno appena conosciuto anni di penuria. Essi possono procurarsi – ed alcuni scoprire – il corned beef, i chewing gums, insieme alle sigarette bionde. E presto verrà la Coca Cola. I frigoriferi “Frigidaire” ed i fornelli a gas trasformano la vita quotidiana nelle cucine dove, a poco a poco, con l’avvento del lavoro femminile, si prende l’abitudine di passarci sempre meno tempo. Alcuni prodotti, come il pollo, il tacchino, la trota di allevamento, il prosciutto, il burro, la pasticceria industriale ed il vino da tavola, considerati ancora di lusso prima della guerra, diventano di ordinaria amministrazione a causa dell’industrializzazione che permise di abbassarne il prezzo rendendoli accessibili a tutti. Nuovi prodotti conoscono un enorme successo, è la volta delle minestre e dei purè disidratati, dei formaggi fusi da spalmare e degli pseudo-camembert che non gocciolano più e non odorano più, della maionese e della salsa di pomodoro in tubetto, del pane in cassetta eternamente “fresco”, degli yogurt, delle bibite edulcorate ecc... Questi ultimi sono diventati così regolari nella presentazione e nel sapore da non fornire più alcuna sorpresa né procurare alcuna emozione, riducendosi a mero nutrimento del corpo. I grandi vincitori di questo tempo sono gli agri-businessmen legati alle multinazionali dell’industria agroalimentare e della distribuzione (Cargil Inc., ConAgra, Unilever, Nestlé, Danone, ecc). Ancora una volta l’impoverimento riguarda il gusto dei prodotti stessi, visto che i consumatori medi sono stati abituati sin dall’infanzia a questo cibo omologato. In questi alimenti si riscontrano tre dei sapori di base riconosciuti dalle papille gustative: il salato, il dolce, l’acido, ma mai l’amaro. È il segno di una scelta abile ma inquietante: mantenere i consumatori allo stadio gustativo della loro infanzia (3). Il capolavoro di questa rivoluzione è l’hamburger originario dell’Europa settentrionale, dove si è conservata l’abitudine medievale di mangiare su dei taglieri. L’hamburger è diventato il piatto nazionale degli Stati Uniti: rapido e facile da consumarsi, nutriente (in calorie), a buon mercato. Il Mc Donald’s conquista successo mondiale diventando uno dei giganti del settore agroalimentare (3). Il suo primo ristorante fu aperto a Des Plaines, vicino Chicago, nel 1955. Oggi è diventata la più grande azienda di ristorazione rapida del mondo. I grandi stili culinari che ad oggi guidano le scelte alimentari di buona parte della popolazione mondiale, per diffusione e storia, sono tre: quello orientale (cinese, giapponese, indiano e altri di minore diffusione), quello mediterraneo (anch’esso differenziatosi in mille sfumature differenti a seconda dell’epoca e del territorio), infine quello americano identificato con il nome di Western Diet. Occorre sottolineare che quando si parla di grandi stili alimentari come quello orientale o della dieta mediterranea non si parla di un unico stile, perché ci si riferisce a stili diffusi in macroaree geografiche e che, a seconda del territorio in cui ci troviamo o della popolazione considerata, assumono connotati specifici. Ciò che dà significato al termine “grande stile alimentare” è proprio il fatto che tutti gli stili alimentari diffusi oggi e nel corso della storia della cucina non siano differenti in egual misura. In particolare, uno stile alimentare sarà molto più simile e più facilmente contaminabile da una cultura culinaria della stessa matrice piuttosto che da un'altra appartenente a un altro macrostile alimentare. In sintesi, le differenze tra i macrostili sono notevolmente più marcate delle differenze tra due cucine appartenenti alla stessa dieta.
  • 6. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 3 1.2 I tre grandi stili alimentari: cultura mediterranea, orientale e western diet 1.2.1 Tradizione e stili alimentari orientali La cucina orientale è frutto di una tradizione storica e culturale comparabile per importanza a quella sviluppatasi nel bacino del Mediterraneo. Sia per storia che per estensione geografica la cultura culinaria cinese ne è la più rappresentativa. Un tratto distintivo di questa cucina è il fatto che, In Cina, da millenni, la salute rappresenta il centro dei comportamenti alimentari, tanto da essere considerata nel resto del globo la cucina più salutare in assoluto. I cinesi, infatti, individuavano in una corretta e armonica alimentazione uno dei modi principali per migliorare la salute, ricercare la longevità e l’immortalità. Per la filosofia taoista, il mondo è un divenire continuo la cui forza propulsiva deriva dall’opposizione dinamica dello Yin e dello Yang (il femminile e il maschile, l’oscurità e la luce, il freddo e il caldo) che permeano anche la dietetica. Gli alimenti infatti vengono divisi in quattro categorie a seconda della loro natura Yin e Yang: freddi e freschi sono Yin, caldi e temperati sono Yang. L’armonia e l’equilibrio tra questi creano una cucina estremamente completa dal punto di vista nutrizionale. Le due caratteristiche principali che differenziano la cucina cinese rispetto alle altre sono la cottura e il taglio che insieme portano al cosiddetto “compimento ideale della sostanza attraverso il fuoco” inseguendo l’armonia dei sapori. Rispetto alla tradizione mediterranea, più avvezza al consumo di vino, in Cina, così come in tutte le altre culture culinarie orientali, è il tè l’elemento caratteristico della tradizione, tanto importante da essere annoverato tra i sette prodotti indispensabili alla vita. 1.2.2 Tradizione e stili alimentari mediterranei Fin dal Neolitico il Mare Nostrum è stato meta di numerose migrazioni che si sono insediate fra le comunità preesistenti alla ricerca di condizioni di vita migliori: terreni più fertili e un clima meno aspro ha attratto popoli provenienti da Asia, Africa, Scandinavia e Germania. “Ogni gruppo, con il suo apporto culturale specifico, ha contribuito all’arricchimento comune”. Durante il XI e il XII secolo, i contatti tra le comunità musulmana e cristiana localizzate nella penisola iberica si sono tradotti in intensi scambi commerciali, in cui ingenti quantità di prodotti alimentari sono stati introdotti nelle rispettive culture gastronomiche, modificandone gli assetti (4). Dapprima, durante l’alto Medioevo, l’antica tradizione romana, che sul modello di quella greca identificava nel pane, nel vino e nell’olio i prodotti simbolo della tradizione di una civiltà contadina e agricola, si incontra con la cultura dei popoli germanici che traevano dalla stessa la gran parte delle risorse alimentari (5) (6). Un ulteriore contributo successivamente venne dato dalla cultura araba che introducendo alimenti come la canna da zucchero, il riso, gli agrumi, la melanzana, lo spinacio e le spezie (fino a quel momento sconosciute o utilizzate solamente dalle classi sociali più benestanti a causa degli elevati prezzi) influenzano e contaminano per sempre il modello alimentare. Infine, la scoperta dell’America da parte degli europei diede un’ultima sterzata a questo modello, riflettendosi in un “andirivieni” di prodotti alimentari. Tra tutti spicca il pomodoro “curiosità esotica”, frutto ornamentale solo tardivamente considerato commestibile. Gli elementi cardine della cultura alimentare mediterranea sono le verdure e i cereali che assumono sfaccettature diverse a seconda delle connotazioni geografiche e delle tradizioni di riferimento. Mentre il cereale più consumato nelle popolazioni del bacino del mediterraneo è il grano, differentemente dalla cultura asiatica che è il riso. Nella tradizione gastronomica mediterranea vi è dunque possibile riconoscere un tratto di irripetibilità intrinsecamente legato alla sua storia millenaria. Il modello di alimentazione della dieta mediterranea, quale parte dell’identità storica e culturale del Mediterraneo, non è solo un modo di nutrirsi, ma è espressione di un intero sistema culturale, improntato, oltre che alla salubrità, alla qualità degli alimenti e alla loro distintività territoriale, a una tradizione millenaria che si tramanda di generazione in generazione (1). Nonostante i mutamenti delle abitudini alimentari la dieta
  • 7. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 4 mediterranea continua a essere un punto di riferimento non solo nel Mediterraneo, ma anche in altre regioni del mondo, date le sue peculiarità. 1.2.3 Western Diet La western diet (2), a differenza degli altri grandi stili alimentari, non presenta una tradizione millenaria radicata profondamente nel territorio. La scarsa sedimentazione dei valori culturali tipici di quei luoghi, insieme all’elevata tendenza alla mobilità, all’assenza di prodotti tipici ed a uno stile di vita a stampo individualistico, hanno impedito lo sviluppo di una cultura gastronomica salubre e di elevata qualità. Con il fatto che la cultura americana ha esercitato una forte influenza su quella anglosassone lo scorso secolo, oggi è possibile accomunare i due paesi sotto uno stesso profilo. Quando per gli europei cucinare era una comune pratica domestica per gli statunitensi e gli anglosassoni era più un dovere che un piacere, con una preparazione superficiale e frettolosa delle pietanze ed un consumo molto elevato di dolci e zuccheri. Per loro il ventaglio di ricette si riduceva a due alimenti simbolo: la carne alla griglia e una salsa passe-partout. L’elemento determinante che ha caratterizzato la loro tradizione culinaria è stato il cambiamento sociale delle donne, che, impegnate nel lavoro, avevano sempre meno tempo per la cucina e sempre una maggior necessità di pasti veloci e cibo pronto. 2.Contaminazione alimentare nei diversi paesi del mondo Cosa mangiano a Tokyo? Molto probabilmente le stesse cose che mangiano a Parigi. Com’è possibile? È la globalizzazione che ha reso la comunità umana sempre più multiculturale, multietnica e multietica. Nell’attuale fase storica infatti si sta andando incontro ad una sempre più crescente omogeneizzazione dei diversi stili alimentari grazie alla forte comunicazione, liberalizzazione del commercio, all’aumento degli scambi di prodotti e persone. Basti pensare che in media in ogni nazione più di due terzi delle derrate alimentari usate e coltivate ha origine in altre aree geografiche, spesso molto lontane (7). 2.1 Lo Studio di Khoury Come si evince da uno studio condotto da Colin Khoury, un botanico dell’International Center for Tropical Agriculture (conosciuto con l’acronimo spagnolo CIAT) e il dipartimento di agricoltura statunitense, il nostro sistema interno alimentare è completamente globalizzato. Infatti, dopo aver esaminato diverse colture, che sono centrali per le diete nazionali (fonti di carboidrati, grassi, proteine e fibre), e i sistemi nazionali di agricoltura (produzione, qualità, aree di ritaglio e le quantità di produzione) sono arrivati alla conclusione che nessun singolo paese ha una dieta composta interamente da colture “indigene”. L’idea che le coltivazioni abbiano un loro centro d’origine è stata evidenziata intorno agli anni ’20 dagli studi del grande esploratore russo Nikolai Vavilov. Egli affermava che nelle regioni in cui una coltivazione era stata originata vi si trovava la più ampia diversità di essa, poiché lì i contadini avrebbero selezionato diverse varietà per il maggior periodo di tempo (fig.1). A tal proposito possiamo citare diversi casi: la Mezzaluna fertile che con la sua profusione di erbe selvatiche, di grano e di orzo è il primo centro di diversità per questi cereali, i peperoncini Thai provenienti originariamente dall’America Centrale e del Sud ed i pomodori italiani provenienti dalle Ande. Figura 1. - Mappa delle regioni primarie di diversità di 151 coltivazioni Fonte The Royal Society
  • 8. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 5 Khoury e i suoi colleghi hanno quindi esteso i metodi di Vavilov per cercare le origini di 151 coltivazioni diverse in 23 aree geografiche (fig. 2). Hanno poi esaminato statistiche regionali della dieta e della produzione alimentare in 177 paesi, coprendo il 98.5% della popolazione mondiale e determinando in questo modo la provenienza esatta di ogni alimento. Dallo studio è emerso che in media il 69% delle derrate prodotte e consumate in un paese sono originarie in realtà di un’altra area geografica, una cifra che ha visto oltretutto un incremento del 6% negli ultimi 50 anni, a testimonianza di una sempre più omogeneizzazione delle diete. Ecco perché le patate che appaiono ogni giorno sulla nostra tavola non sono una coltura di origine italiana, così come mangiamo riso dell’Asia o beviamo caffè dell’Africa. Il gruppo di Khoury ha quindi dimostrato come il mondo sta diventando sempre più interconnesso dal cibo (8). Mentre la dieta degli Stati Uniti dipende da coltivazioni provenienti dal Mediterraneo e ovest dell’Asia, come il grano, l’orzo, i ceci, le mandorle ecc.., la sua economia agricola è incentrata nella coltivazione di soia originaria dall’Asia dell’est, di mais dal Messico e dall’America centrale, e di grano dal Mediterraneo. Mentre prodotti originari degli Stati Uniti come i girasoli, vengono coltivati e consumati in paesi come Argentina e Cina. Dunque, si evince che le aree lontane dai centri di biodiversità agricole, come nord America, nord Europa e Australia, sono più dipendenti dalle coltivazioni straniere. Al contrario i paesi che stanno ancora coltivando e mangiando i loro alimenti base, come ad esempio il sud Asia e l’Africa orientale, sono meno dipendenti dalle coltivazioni straniere e perciò mantengono di più la propria identità. Nonostante ciò, c’è da dire che anch’essi dipendono da coltivazioni straniere anche se solo per un quinto (9). In conclusione, si può dire che il cibo è “GLOCAL”, secondo l’International Center for Tropical Agriculture, infatti, più di due terzi delle derrate alimentari coltivate e/o usate viene da altre aree geografiche (10). Secondo uno studio avvenuto nel 2013 dagli stessi autori il processo di globalizzazione del Pianeta fa sì che il tempo che intercorre tra la scoperta di una nuova derrata e la sua adozione sia sempre minore, riflettendosi anche sulle diete che stanno diventando sempre più omogenee tra i vari paesi sviluppati e in via di sviluppo. “Ciò significa che dobbiamo iniziare a comportarci come se fossimo interdipendenti”, dice Fowler in un’intervista (9). La globalizzazione, da un punto di vista economico, è la tendenza dell’economia a diventare globale. Questa convergenza si evidenzia a partire dagli anni 80 del ‘900, cioè da quando l’economia assume caratteri sempre più sovranazionali, derivanti da una crescente cooperazione economica tra soggetti geograficamente lontani (11). 2.2 La liberalizzazione del commercio internazionale In un’ottica politico-economica, la delocalizzazione della produzione, insieme alla riduzione dei costi di trasporto, ha posto in essere il liberalismo che è uno dei paradigmi della globalizzazione in quanto ha permesso al sistema-mercato di orientarsi al libero scambio, aumentando così l’interdipendenza tra vari Paesi (12). Il commercio internazionale cresce dal secondo dopoguerra in poi, grazie anche alla riduzione dei dazi sulle merci e dei costi di trasporto. Il primo accordo che ha facilitato la relazione tra le nazioni, favorendo la liberalizzazione del commercio mondiale è il GATT (1947) sottoscritto da 23 paesi. Un’altra tappa fondamentale della liberalizzazione dei mercati è avvenuta nel 1995, data in cui 164 paesi costituirono la OMC, un'organizzazione internazionale creata allo scopo di supervisionare numerosi accordi commerciali tra gli stati membri e di ridurre o abolire le barriere tariffarie, in quanto Figura 2 - La interconnessione tra le 23 aree geografiche individuate dagli studiosi. “ The royal society”
  • 9. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 6 impedivano il livello di integrazione economica e monetaria e dei fattori produttivi, quali capitale e lavoro (13). L’intensificazione delle attività economiche sovranazionali ha permesso un incremento del grado di apertura internazionale delle economie nazionali, il quale viene calcolato come il rapporto tra la somma delle esportazioni (X) e delle importazioni(T) sul Prodotto Interno Lordo (PIL): Open= X+T/PIL (11). Come si evince dal grafico al lato (fig.3), dal 1960 il commercio alimentare globale è aumentato esponenzialmente, più velocemente della produzione alimentare stessa. Quest’ultima è raddoppiata in circa 30 anni, mentre la quantità di cibo scambiata è aumenta di circa 10 volte nello stesso tempo. Le esportazioni di alimenti e dei prodotti agricoli mostrano che le quantità di esportazioni mondiali sono triplicate dal 1995 al 2012, passando da 360 a 1050 miliardi di dollari US (pari a un aumento di 2,9 volte, mentre nello stesso periodo la produzione totale di cibo è cresciuta solo di 1,4 volte) come mostra il grafico sottostante (fig.4). I paesi industrializzati hanno visto una crescita percentuale in linea con quella mondiale (Stati Uniti, Australia) a differenza dei paesi in via di sviluppo che hanno visto un aumento maggiore. La Cina ha quintuplicato le esportazioni passando da 10 a 50 miliardi; la Russia è passata da 0,8 a 13 miliardi. L’Italia dal canto suo invece è passata da 11,2 a 28,8 miliardi, pur perdendo una quota di mercato dello 0,4% dal 1995 al 2012. Come si può notare dal grafico a destra (fig.5), i maggiori importatori di alimenti sono i paesi industrializzati. La Russia, a fronte dell’aumento demografico della classe media, è passata dal 9,9 a 35,9 miliardi così come gli Emirati Arabi Uniti (UAE) che hanno aumentato le importazioni da 2 a 14,8 miliardi. L’Italia ha mantenuto stabile le importazioni con una ripida impennata tra il 2010 e il 2012 (14). 2.3 Gli effetti sociali della globalizzazione alimentare Se da un lato la globalizzazione ha permesso che il singolo individuo potesse trovarsi all’interno di un contesto globale affascinante, stimolante e accelerato, in cui è possibile con molta facilità venire a contatto con quello che prima veniva identificato come “il diverso” e che adesso non soltanto può essere conosciuto ma spesso anche integrato, dall’altro lo ha portato sempre di più a condurre uno stile di vita omologato a quello dei suoi simili. Tale omologia è dovuta, oltre che ad una condizione di benessere anche alla facilità di raggiungimento delle risorse ricercate. Oggi, anche se apparentemente l’uomo sembra protagonista attivo delle scelte che compie, in realtà è un protagonista passivo, in quanto notevolmente influenzato e condizionato da una miriade di sollecitazioni che gli stessi tempi moderni, in cui vive, gli impongono. È rilevante sottolineare come i mezzi di comunicazione, sempre più efficienti e tecnologici, abbiano dato un contributo cospicuo alla diffusione di idee, tendenze e problematiche tra culture differenti in qualsiasi ambito. In particolar modo, oggi più che mai, la globalizzazione mostra il suo volto anche in cucina. Basti pensare a Figura 3 - Andamento del commercio alimentare e produzione alimentare globale. [fonte: Comtrade database] import-export Nazioni Unite ONU] Figura 4 - Paesi maggiori esportatori netti. [Fonte: Unctad] Figura 5 - Paesi maggiori importatori netti. [Fonte: Unctad]
  • 10. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 7 quanti prodotti con i loro differenti colori, forme, profumi imbandiscono ogni giorno le nostre tavole pur non essendo originari del nostro paese (è il caso, ad esempio, del riso dell’Asia o il caffè che ha avuto origine in Africa). Se analizzato in un primo momento, questo aspetto risulta sicuramente positivo considerando che siamo abituati a richiedere e ottenere una vasta gamma di prodotti in qualsiasi momento dell’anno. Ma, se si prova a porre l’attenzione sulla tipologia di cibo o sulle modalità attraverso cui siamo soliti nutrirci, ci si può rendere conto del fatto che siamo diventati sempre più dipendenti da altri paesi e dalle mode che, negli stessi, vanno prendendo il sopravvento. A tal proposito, nella società odierna, caratterizzata dalla ridotta disponibilità di tempo libero da cui consegue la necessità di consumare pasti veloci e possibilmente in movimento e da una vita sociale ricca di innumerevoli occasioni di convivialità, si assiste ad una vera e propria “desacralizzazione degli stili alimentari” che induce, a sua volta, ad una “destrutturazione dei pasti”. Quest’ultima consiste nel crescente abbandono non solo delle abitudini, ma persino delle gestualità e ritualità che scandiscono e gestiscono l’esecuzione di un pasto (15). Lo sgretolamento dei rituali canonici avviene su due direttive: quella spaziale e quella temporale. Ci si svincola completamente dalle tempistiche e, in un certo senso, dai luoghi di fruizione e di consumo del pasto. In sostanza, si può mangiare a qualsiasi ora e in qualsiasi luogo, senza la necessità di sedersi ed utilizzare posate e piatti. Tra le forme conviviali di incontro, quelle ad oggi più diffuse e seguite dalla maggior parte delle persone, risultano l’happy hour ma soprattutto il brunch. Quest’ultimo rappresenta l’emblema della disintegrazione multidimensionale e simultanea di ogni precedente architettura alimentare. Il nome stesso, fusione non molto azzardata di “breakfast” e “lunch” si estende in un arco temporale compreso dalle 10 fino alle 18, coprendo quindi le fasce orarie dedicate solitamente a tre pasti: colazione, pranzo e merenda. In questo modo la dimensione “tempo” del pasto viene chiaramente relativizzata. In virtù di questa innovazione le pietanze vengono esposte in un unico buffet e nello stesso momento; l’obiettivo è proprio quello di confondere deliberatamente ogni differenza tra antipasto, primo, secondo e dessert. Il brunch, inoltre, polverizza ogni relazione tra alimento e bevanda, poiché caffè, succhi di frutta, latte, acqua, birra, diventano mutuamente sostituibili nel loro occasionale accompagnamento al cibo (15). Oltre al brunch appartengono alla categoria denominata “ristorazione veloce”, che determina una significativa destrutturazione dei pasti, sicuramente i fast food. Tale espressione proviene dall’inglese e significa letteralmente “cibo veloce”. Tra le catene di fast food più diffuse nel mondo, quella che in maniera incidente la fa da padrone è sicuramente McDonald’s, seguita da Burger king e Wendy’s. Detti fast food nascono in America in un arco temporale che va da fine anni ‘30 al 1960 e si diffondono “a macchia d’olio” in Europa intorno al 1970. La loro nascita è derivata probabilmente per rispondere ad una voglia sempre più sentita di cambiamento, ma soprattutto dall’esigenza di abbattere i costi di produzione degli alimenti velocizzando il medesimo processo mediante una vera e propria catena di montaggio a stampo prettamente industriale. Questa è la prima volta che il “principio del taylorismo” viene applicato alla produzione di un alimento. Tutte le catene di fast food sono accomunate dalla medesima proposta culinaria che segue i trend del momento. Hamburger, hot dogs, patate fritte, pizze, sandwich, cipolla fritta, associati ad un uso massiccio di varie salse come senape, maionese e ketchup erano perfetti per una società come quella degli anni ‘80, che sempre più amava mangiare proteico e calorico così come quella odierna che vuole pasti sempre più personalizzati e veloci (16). Il risultato di questo tipo di cucina è inevitabilmente l’uniformazione del gusto e la totale assenza di almeno un elemento che rimanda all’identità di un cibo e al legame che quest’ultimo ha con il territorio di origine. Per il successo strepitoso e la diffusione “virale” al livello mondiale, oggi, quando si parla di fast food, si fa riferimento al fenomeno della “planetarizzazione”. In sintesi, viene completamente sovvertita la concezione derivante dall’ecologia secondo cui le differenze biologiche sono il pilastro che sorregge le relazioni che intercorrono tra gli elementi che costituiscono l’ecosistema. Anche in ambito culinario, la conservazione ed esaltazione delle differenze qualitative e gustative di un dato alimento, dovrebbe rappresentare quel quid che fa la differenza. Con l’avvento e la diffusione smisurata dei fast food o più in generale con la convergenza tra gli stili alimentari che inevitabilmente si è venuta a creare, è scemato quel coinvolgimento emotivo ed affettivo che è intrinseco al cibo stesso. Il cibo, che prima manteneva in vita il legame con la cultura di origine, in modo vivo perché diretto, immediato, fisico e che evocava in qualche modo un luogo antropologico, fatto di parole, memorie, ricordi, storie, persone, relazioni (17), adesso viene spesso associato alla necessità di provare le novità del momento che vengono costantemente
  • 11. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 8 trasmesse dalla pubblicità e dai social network creando dei veri e propri status (2). Nell’epoca contemporanea il cibo viene sempre più spesso acquistato pronto, da mangiare o scaldare, perdendo ogni contatto con la dimensione del cucinare inteso nel senso pieno della creazione di qualcosa a partire da elementi più semplici, da ingredienti di base. Rinunciare a cucinare, significa rinunciare a sapere realmente cosa si sta mangiando, ma soprattutto significa rinunciare all’esperienza della condivisione di qualcosa che è il frutto del lavoro dell’uomo stesso. Se si pensa al “buono” in quanto autentico e alla varietà dell’esperienza culinaria, potremmo dire che sono entrambi in fase di estinzione. Di fatti le diete tendono ad appiattirsi su di un modello universale che unifica tutte le tradizioni culinarie, facendone perdere le caratteristiche fondative e distintive (2). 2.4 I flussi migratori e integrazione sociale Quanto scritto nel 1826 da Brillat-Savarin “Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”. «Il cibo non è soltanto il modo in cui trasformiamo gli ingredienti in ricette da esibire al consumismo. Il cibo è cultura», spiega lo storico dell’alimentazione Università di Tor Vergata, Ernesto Di Renzo. Una cultura che, se ben valorizzata, rappresenta una leva potente per trovare una via all’inclusione sociale e contro i rigurgiti di intolleranza che stanno incattivendo giorno dopo giorno la nostra società. Se l’immigrazione è una delle sfide epocali e inevitabili del ventunesimo secolo, la società moderna la sta affrontando sempre più spesso con atteggiamenti di intolleranza verso culture e cittadini stranieri, in maggior parte popolazioni africane e asiatiche. Non è questa l’unica via che siamo obbligati a percorrere (18). Lo shock culturale interessa tutte le migrazioni a qualsiasi livello ed è reso evidente da un sentimento di spaesamento, di incapacità di comprendere i meccanismi sociali nei quali ci si trova ad agire. L’individuo coinvolto è cosciente solo della propria scelta di alienazione forzata dalla propria società e, parallelamente chiuso in un sistema di norme e valori che non trovano appartenenza e che non riesce ancora a decifrare. Si sviluppa una grande tensione emotiva dovuta allo sforzo di adattamento alla nuova realtà, c’è un forte senso di privazione per ciò che si è lasciato, senso di timore per ciò a cui si va incontro. «Questa condizione, che si presenta in genere alcuni mesi dopo l’atto migratorio, può essere di diversa entità a seconda delle condizioni in cui si è svolta la migrazione, delle caratteristiche psicologiche del soggetto dell’accoglienza che si riceve». La difficoltà di reperire gli ingredienti per preparare le pietanze della cucina tradizionale è l’ostacolo più grande da sormontare. La realtà di oggi è molto distante dal passato recente: fino a pochi anni fa, anche nei centri più sviluppati del commercio era molto difficile e molto costoso acquistare prodotti tipici dell’agricoltura e delle coltivazioni asiatiche o africane. L’avvento della grande distribuzione ha facilitato il compito a milioni di migranti, favorendo però l’accesso a quei prodotti che incontrano il gusto degli europei. L’emigrato si trova davanti ad un bivio: la possibilità, da un lato, di integrarsi nella nuova cultura nel modo più rapido possibile, limitando così l’azione che lo shock ha su di esso, dall’altro, il radicamento ai propri valori e il rifiuto di quelli nuovi, in aperta opposizione con la nuova realtà in cui si trova (19). Queste due eventualità opposte formano un continuum con posizioni intermedie e meno estreme, per cui il desiderio di integrazione si compenetra a quello di radicazione. Ciò che permane è, comunque, il desiderio di mantenere le proprie radici, stabilire un punto d’incontro tra se e la propria identità, ricreando, fisicamente e mentalmente, i luoghi in cui si sente a casa. Gli elementi culturali quali la lingua, i costumi, le tradizioni, la religione, le gerarchie sociali sono gli strumenti che permettono la creazione di questi spazi, oasi di tranquillità, per cercare di non perdere la propria identità. Si formano così reti etniche in territorio culturale estraneo, se non, a volte, ostile, la cui solidarietà interna è volta a ricreare ambienti, tradizioni, aspetti della vita quotidiana familiari, in cui si parla la propria lingua, si vestono abiti della propria tradizione, si prega e si mangiano pietanze preparate secondo i gusti e le abitudini alimentari d’origine.
  • 12. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 9 2.4.1 Come il cibo diventa sinonimo di integrazione sociale? ll processo migratorio porta l’individuo che lo compie da una cultura, la sua, ad un’altra, con effetti sulla persona e sul gruppo che si sono illustrati in precedenza. Nel nuovo contesto sociale, regolato da uno schema di norme e valori, colui che migra deve imparare ad orientarsi, cominciando ad acquisire i nuovi costumi sociali. Il processo di integrazione presiede a questo tentativo di adattamento dell’elemento “esterno” alla società, nel rispetto delle differenti culture che si trovano in contatto. Integrarsi vuol dire acquisire il complesso di norme che regolano il funzionamento della società, mantenendo al contempo il sistema di valori appartenenti alla propria estrazione culturale. A tale scopo è quindi necessario «un processo di ibridazione, di meticciato, di biculturalismo che permetta la connessione tra elementi della cultura originaria e della cultura ospite e la nascita di nuove più complesse configurazioni culturali». Il fenomeno dell’integrazione è dunque il modello da seguire come miglior soluzione possibile per la creazione di una società multiculturale che valorizzi le differenze in modo costruttivo, anziché sopprimerle e annullarle attraverso l’omologazione. Mentre da un lato l’identità alimentare è un elemento strumentale nel sottolineare le differenze tra le culture e serve a rafforzare l’identità di gruppo, dall’altro, attraverso l’analisi delle forme che la compongono e delle norme che la regolano la cucina può, a ragione, essere comparata al linguaggio. «Costituisce pertanto uno straordinario veicolo di autorappresentazione e di comunicazione: non solo è strumento di identità culturale, ma il primo modo, forse, per entrare in contatto con culture diverse, giacché mangiare il cibo altrui sembra più facile (anche solo all’apparenza) che codificare la lingua. Più ancora della parola, il cibo si presta a mediare fra culture diverse, aprendo i sistemi di cucina a ogni sorta di invenzioni, incroci e contaminazioni». La cucina è allora «la soglia più accessibile di una cultura. È la soglia più bassa di un confine. Mangiare la cucina degli altri significa attraversare questa soglia». Lo scambio culturale, anche grazie alla cucina, non è da intendere, come si vedrà in seguito, come pericolo per la propria identità. Al contrario, se non esiste identità senza alterità, la conoscenza dell’altro e il confronto con esso, attraverso gli elementi peculiari delle rispettive culture, sono motivo di rafforzamento delle identità. Le culture appaiono «tanto più forti quanto più sono aperte verso l’esterno e inserite in vari percorsi di scambio, d’incrocio, di contaminazione» (19). 3. Contaminazione alimentare in Italia Questo mix ne fa degli italiani speciali. Non degli italiani a metà, o al 60%. Ma al 130%. Degli “extraitaliani” Extra: perché la loro personalità attinge da competenze ed esperienze attinte “oltre” confine. Extra: perché cumulano più elementi culturali, più conoscenze sociali e comunicative (parlano, quasi sempre, più lingue). Extra: perché proiettano la loro visione oltre i limiti del nostro mondo. Extraitaliani: italiani oltre e di più. Ilvo Diamanti. Dopo aver fatto un excursus della situazione a livello generale facciamo un focus sulle contaminazioni alimentari avvenute in Italia dopo la globalizzazione. Intanto definiamo “cibi etnici” tutti gli alimenti originari da paesi diversi dall’home market, che contribuiscono ad una cultura alimentare diversa dalla tradizione del paese ospitante. Nell’analizzare la situazione italiana si fa riferimento essenzialmente ai prodotti di provenienza extraeuropea, i quali stanno conquistando in Italia quote di mercato sempre più significative per tutta una serie di fattori. Tra i fattori predominanti troviamo: la presenza di comunità straniere; la globalizzazione, che ha favorito i flussi di persone e di tradizioni gastronomiche diverse; il ruolo avuto dall’EXPO 2015 nel far conoscere i cibi esotici; il prezzo contenuto e la curiosità di alcune fasce della popolazione di sperimentare gusti diversi; lo sviluppo di catene straniere operanti nel settore HO.RE.CA. La quota prevalente dei consumi di cibi etnici è coperta dai cittadini extra-comunitari, la cui presenza nel nostro Paese ammontava al 1° gennaio 2018, a 5.144.440 (dati forniti dal Ministero dell’Interno e diffusi dall’ISTAT) (20), cui vanno aggiunti i non regolari, nonché i richiedenti asilo ed i rifugiati. Tuttavia, come si diceva, contribuiscono ormai a tali consumi anche gli italiani, che hanno cominciato a conoscere questi alimenti attraverso il racconto di parenti e amici o in occasione di viaggi all’estero ed hanno poi iniziato a sperimentarli nei ristoranti stranieri, che stanno sorgendo sempre più numerosi nelle nostre città. Recentemente si sta anche affermando la tendenza a consumare questi cibi a casa, acquistandoli in take away stranieri o preparandoli. In commercio si trovano anche alimenti etnici modificati, che rappresentano
  • 13. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 10 una versione rivisitata rispetto agli “originali”, ossia rispetto al modo in cui sono preparati nei Paesi di origine, per adattarli al gusto e alle preferenze degli italiani (21). Spesso si combinano ingredienti importati con altri locali. Così, se da una parte l’alimentazione degli stranieri residenti in Italia viene influenzata dalla nostra cucina, per cui li vediamo assumere pasta, pizza ed altri alimenti tipicamente nostrani, anche noi ci stiamo orientando in una certa misura verso il consumo di cibi lontani dalla nostra tradizione mediterranea (22). Da diversi anni ormai si assiste ad una intensa e continua crescita dei consumi, che, secondo dati della Coldiretti sono quasi raddoppiati (+93%) dal 2007 al 2014. Gli stessi sono ulteriormente aumentati del 18% rispetto all’anno precedente (2015) (23), dell’8% nel primo semestre del 2016 (24) e di poco meno del 7% nel primo semestre del 2017 (tra gli altri, si è registrato un aumento del consumo di sushi, couscous, kebab, bistecca algerina e jamon iberico) (25). Inoltre, il primo Rapporto Coldiretti/Censis sulla ristorazione in Italia, presentato al Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione del 20 e 21 ottobre 2017 a Cernobbio, riporta che, nel 2016, 28,7 milioni di italiani, ossia quasi la metà della popolazione, ha mangiato regolarmente o occasionalmente in un ristorante etnico (26). Un gruppo di studio dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie ha condotto recentemente un’indagine su un campione di 1.317 persone, allo scopo di tracciare un identikit dei consumatori di cibi etnici, inquadrandoli per sesso, fasce di età, titolo di studio, città di residenza ecc., e di analizzare la percezione del rischio che essi hanno rispetto a questo tipo di alimenti. Dalla ricerca è risultato che ben l’84,7% degli intervistati ha mangiato cibi etnici almeno una volta, mentre solo il 15,3% non li ha mai provati. I consumatori sono prevalentemente donne (52,5%), hanno un’età superiore ai 55 anni (39,1%), un grado di istruzione medio-alto (poco meno del 46% ha un diploma di scuola media superiore e quasi il 31% una laurea), hanno un lavoro e risiedono per il 46% circa al Nord e per il 34% al Sud e nelle isole (27). Il couscous è un alimento tradizionale del Maghreb, diffuso anche in tutto il Nord Africa e in Medioriente, in particolare in Israele, Palestina, Giordania e Libano che ha trovato ampio mercato anche nel nostro paese. È costituito da granuli di semola di frumento duro impastati con poca acqua e cotti al vapore. I granuli vengono serviti con verdure lessate in un brodo piccante e carne di pollo, agnello o montone, ma in alcuni luoghi si ritrovano anche varianti a base di pesce. In questo caso la contaminazione occidentale ha modificato altamente il processo di preparazione rispetto a quello tradizionale per tempi e laboriosità (un tempo le donne passavano giorni interi a dare forma ai grani) rendendolo disponibile negli scaffali dei supermercati in forma precotta riducendone drasticamente i tempi di cottura. Il Sushi e il sashimi sono piatti della cucina giapponese molto diffusi ed apprezzati da diversi anni anche in occidente, in particolare sulle nostre tavole. Differiscono sostanzialmente fra loro per il fatto che il sushi è una pietanza a base di riso con diversi ingredienti, crudi o cotti (molluschi, alghe, carne o vegetali), e varie salse e condimenti, mentre il sashimi è costituito da pesce, molluschi o crostacei rigorosamente crudi, tagliati a fettine sottili di 5-8 millimetri, perché risulti il più tenero possibile, senza altri ingredienti (20). L’intensa crescita dei consumi di cibo etnico ha comportato un incremento sensibile delle importazioni, il cui fatturato, facendo riferimento alla sola GDO, ha raggiunto nel 2015 quasi i 160 milioni di euro, con un incremento del 18,6% rispetto all’anno precedente e circa il doppio rispetto al 2007 (28). Si possono distinguere tre macroaree di provenienza: l’Oriente, l’America latina e il Nord- Africa. In particolare, secondo EURISPES, nel carrello della spesa degli italiani prevalgono i prodotti per la cucina cinese o giapponese (38,8%), latino-americana/messicana (25,7%), araba- mediorientale (14,2%), Sud-Est asiatica (10,6%) e africana (5,4%) (29). 3.1 Focus import/export italiano dei prodotti alimentari La quantità delle materie prime agricole del nostro Paese non è sufficiente per soddisfare la domanda del consumo intero nazionale, dunque le importazioni di materie prime, da un lato hanno una particolare importanza sulla nostra economia di consumo, dall’altro, grazie alla capacità produttiva ed al know how dell’industria di trasformazione, pongono in essere l’esportazione delle stesse sottoforma di prodotti finiti. Ciò è fonte di redditi e assicura valore aggiunto del potenziale industriale.
  • 14. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 11 Il grafico a sinistra (fig.6) presenta l’andamento dal 1970 al 2012 delle esportazioni, delle importazioni e la loro differenza che determina il saldo commerciale, da cui si può evincere come il valore delle importazioni agroalimentari è superiore a quello delle esportazioni, il quale comunque registra una performance positiva (determinando un saldo commerciale in deficit, in quanto il valore delle importazioni di merci supera quello delle esportazioni). Nel tempo si nota come l’andamento di queste due variabili aumenta gradualmente (l'unica eccezione è rappresentata proprio dall'anno 2009, che è stato condizionato pesantemente dalla crisi). È per questo che possiamo definirci un Paese sempre più contaminante e contaminato. Nella maggioranza dei comparti il nostro Paese, con la propria produzione, non riesce a coprire il fabbisogno interno della sua popolazione e della sua industria. Apparentemente le uniche filiere definibili “autosufficienti” sono quelle del riso, della frutta fresca e trasformata, del pomodoro e dei suoi derivati e, infine, quella del vino (30). 3.2 Esportazione delle eccellenze territoriali In un mondo sempre più globalizzato l’esportazione di “eccellenze locali” può diventare un’opportunità di successo per le aziende del territorio. Questa diventerebbe così occasione di diffondere “l’identità territoriale” e allo stesso tempo si rifletterebbe in maniera benefica, sull’intera economia della zona di provenienza dello stesso prodotto. Prendiamo ad esempio la linea dei prodotti a marchio “Gustoso” ed analizziamola da vicino. La Rete d’Impresa “Gustoso Sicilian Food Excellence” nasce per favorire e promuovere l’export dell’agroalimentare d’eccellenza siciliano sui mercati esteri attraverso un unico Brand, Gustoso (31). Per raggiungere tali obiettivi è necessario costituire un marchio che comunichi non solo l’indiscussa qualità dei prodotti agroalimentari, ma anche le qualità organolettiche che rendono unici e preferibili i prodotti della tradizione territoriale rispetto a quelli industriali. Qualità, che unite ad un packaging studiato ed elaborato nei minimi dettagli ed una strategia di marketing ad hoc per ogni potenziale consumatore, va a sviluppare l’export dell’agroalimentare territoriale di eccellenza. E’ dunque di fondamentale importanza che la “mission” aziendale sia ben definita e chiara per decollare verso nuovi mercati. Del resto, non è forse vero che i clienti acquistano anche un “pezzetto” del luogo di provenienza insieme ai prodotti? 3.3 Consumo “Fuori Casa” in Italia Il cibo etnico, ormai approdato anche nel nostro Paese, sembra piacere molto agli italiani. Secondo un’indagine Nielsen sono 14 milioni gli italiani che dichiarano di aver mangiato in ristoranti e locali di cucina etnica tra gennaio e marzo 2018 (32). Infatti, un’elaborazione dati del registro delle imprese al 31 dicembre 2017, 2016 e 2012 da parte della Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi, indica che la ristorazione in Italia è sempre più internazionale con quasi 23mila locali, di cui 14mila ristoranti e 9 mila da asporto. Ciò attesta che la crescita della ristorazione etnica è stata di oltre il 40% negli ultimi cinque anni, con un’occupazione di circa 83mila addetti e una media di una persona su otto che nel nostro territorio lavora per un’impresa di stranieri. Sempre secondo i dati, è Milano la prima città nel Paese per imprese di ristoratori stranieri (sono 3.137, il 40% delle imprese del settore, con una crescita del 6,2% in un anno e del 48% in cinque) con 12.889 addetti (il 15% Figura 6 - Bilancia commerciale agroalimentare italiana(1970-2012). [fonte: Ns. elaborazioni su INEA – Annuario dell’agricoltura italiana, varie annate]
  • 15. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 12 del totale italiano); seguono Roma (2.357 imprese, +5,5 % dal 2016 e oltre 7mila addetti) e Torino (1.277 imprese, +7,4% e 4mila addetti). Alle loro spalle Brescia e Bologna per numero di imprese (rispettivamente 742 e 673) e Firenze e Venezia per addetti (2.924 e 2.824) (33). Un aspetto questo che ci fa comprendere come il mercato del consumo fuori casa stia cambiando adattandosi ai trend del momento, alle richieste dei clienti italiani e non. La metà degli italiani che ha provato almeno una volta la cucina etnica frequenta abbastanza spesso i ristoranti stranieri: il 19% lo fa almeno una volta al mese, il 30,1% due o tre volte all’anno, mentre il 51% più raramente. Il ristorante cinese è quello più ricercato dagli italiani (40,4%), seguito dal giapponese (16,2%) e dal messicano (15,1%). I giovani (ossia coloro che hanno tra i 18 e i 34 anni) sono i maggiori frequentatori di ristoranti etnici: il 64,2% di essi ha sperimentato almeno una volta la cucina straniera, mentre se si analizzano le fasce di età successive la percentuale si abbassa al 47,5% per 10 la fascia 35-54 anni e al 45% per gli over 54. Inoltre, i residenti al Nord e al Centro tendono a frequentare tali locali più spesso rispetto a coloro che abitano al Sud (34). Dati questi che rispecchiano il cambiamento, la globalizzazione e le nuove frontiere, proiettandoci in un’era del tutto diversa rispetto a qualche decennio fa. In un contesto di multiculturalità in cui molte tradizioni si incontrano e si integrano, il cibo diviene quasi uno strumento di rilevazione di questa promiscuità. Di seguito riportiamo infatti due casi di integrazione sociale. Il primo “Molti Volti” è un ristorante in cui si vive l’esperienza di più culture a tavola; il secondo, “Temakinho” è una catena ristorativa nippo-brasiliana che propone piatti che sono il risultato del perfetto adattamento di un popolo, quello giapponese, in Brasile. 3.3.1 Caso “Moltivolti” Il Moltivolti (35) può essere considerato un nuovo modello di impresa sociale basato sulle relazioni, e non solo un semplice ristorante. Un vero e proprio laboratorio di rappresentazione di una nuova società in cui gli scambi fra il “diverso” sono alla base dello sviluppo. Dall’integrazione all’interazione, la cucina come metafora per una nuova ricetta di convivenza e sviluppo sostenibile. Si fa portavoce di un messaggio ben chiaro: “la diversità etnica e culturale è, e può divenire, simbolo di sviluppo e occasione di confronto che la cucina trasmette in ogni suo piatto e che il cliente vive attraverso una vera e propria esperienza sensoriale che va oltre il mero piano olfattivo/gustativo”. Il cliente si immerge ed è circondato da un locale con un’identità indefinibile nato da un mix frizzante di più culture (Senegal, Zambia, Afghanistan, Bangladesh, Francia, Spagna, Gambia e Italia). Il loro motto è: “la mia terra è dove poggio i miei piedi”. Nel lungo periodo lo scambio tra culture attraverso il cibo crea delle variazioni alimentari, le quali, se possiedono radici solide, riescono a modificare le abitudini in modo irreversibile e duraturo. In casi estremi il fenomeno può raggiungere dimensioni tali da portare ad una vera e propria omologazione del gusto. In questo caso le preziose differenze che costituiscono le singole realtà alimentari, e sono fonte di infinite variazioni nella preparazione degli alimenti, vengono uniformate per ottenere un gusto unitario, uguale per tutti, con inesorabili perdite delle caratteristiche individuali proprie di ogni cultura alimentare. Le contaminazioni derivanti dal contatto culturale presuppongono, in linea generale, una sintesi che, però, è direzionata verso una delle due culture. Difficilmente si ha una compenetrazione tale per cui gli elementi che entrano in contatto si equilibrano perfettamente nella forma e nei gusti. Una delle due prevale, anche lievemente, sull’altra, mantenendo comunque aspetti di entrambe le parti in gioco. Se la sintesi ottenuta tiene conto degli elementi tradizionali, territoriali, regionali di una determinata cultura, si mantengono intatte le peculiarità date dalle differenze così dà ottenere un arricchimento culturale. Riportiamo in allegato un’intervista effettuata ad un cofondatore dell’associazione Molti Volti Giovanni Zinna (allegato1). 3.3.2 Caso Temakinho Temakinho è una catena ristorativa che propone ai clienti una cucina fusion, mescolando nei temaki i sapori sudamericani alla cucina nipponica, rappresentando così l’emblema dell’unione di due culture alimentari. Progetto nato nel 2012 da tre ideatori italiani che hanno creduto nella nuova moda
  • 16. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 13 nippo-brasiliana che si stava diffondendo. Temakinho, infatti, con i suoi piatti ci narra la storia di un incontro avvenuto nei primi anni del secolo scorso tra la comunità brasiliana e quella giapponese. Nel 1908 un centinaio di famiglie provenienti dal Giappone, guidate da Kasato Maru, sbarcarono sulle coste di San Paolo in Brasile. Ne nacque una felice e pacifica convivenza, accentuatasi poi dopo le due guerre mondiali, con l’esodo dei nipponici verso il Brasile in cerca di fortuna. Ad oggi il Brasile vanta il più importante nucleo di giapponesi naturalizzati all’estero. Questa felice unione di due culture molto diverse tra loro ha dato vita ad una serie di contaminazioni, tra cui la fusione in cucina dei sapori brasiliani con i piatti tradizionali giapponesi. Il TEMAKI, il cono di riso avvolto in un’alga nori con ingredienti brasiliani, è divenuto così uno dei piatti simbolo del Brasile contemporaneo, in cui, velocità, gusto e leggerezza si uniscono in gustosi piatti. Dal Brasile questa tendenza ha preso piede in tutto il mondo tanto che nel 2012 i tre giovani ideatori italiani partono con il progetto ristorativo “Temakinho” in Italia. In poco tempo hanno riscontrato un successo tale da aprire punti vendita anche nel Regno Unito e nelle isole spagnole (Ibiza e Formentera), venendo citato persino da importanti riviste quale il Gambero Rosso (36). 3.4 Consumo “A Casa” in Italia Quanto cibo “etnico” è entrato a far parte dell’alimentazione dei Paesi occidentali? In Italia così come in Germania, Francia e Spagna, a fronte di un mercato alimentare che vale complessivamente 321 miliardi di euro, la quota cosiddetta "etnica" relativa agli alimenti per uso domestico ammonta a circa 3 miliardi di euro (37). Le due modalità di distribuzione dei prodotti etnici sono negozi gestiti da stranieri e le GDO. Nei primi si tende ad acquistare per lo più prodotti etnici (38,7%), ma si comprano anche prodotti di uso comune (33,9%). Ci si rivolge a tali attività perché si trovano prodotti difficilmente reperibili nei negozi tradizionali (51,8%), o perché sono vicini a casa (19,6%), o più convenienti (16,1%). Alcuni invece si recano per pura curiosità (12,5%). La fiducia che gli italiani ripongono in tali negozi è però molto scarsa: il 61,8% li reputa poco o per niente affidabili a causa di una scarsa qualità nei prodotti venduti (66,3%), perché sono poco curati (22,1%) e perché, infine, sono frequentati in prevalenza da clientela straniera (11,5%). Per tale ragione la presenza degli italiani nei negozi etnici presenti sul territorio è piuttosto rara. Appena il 21,4% riferisce di aver fatto acquisti in questi negozi, di cui la frequenza settimanale è pari al 14,1%, mentre neppure una volta all’anno il 64,1%. Ad essere più interessata è la popolazione nella classe di età intermedia (26,7%) e residente al Centro (25,5%) (34). Se l’acquisto di prodotti etnici avviene raramente nei negozi gestiti da stranieri, più probabile è il loro acquisto nei secondi (GDO): ben il 33,3% degli intervistati dice di aver preso dagli scaffali tali alimenti. In questo caso l’acquisto è molto più frequente: il 40,7% dice di fare uso di prodotti etnici almeno una volta al mese e il 26,4% almeno una volta all’anno. Più interessata è la popolazione tra i 33 e i 54 anni (41,6%) e quella residente nelle aree centrali d’Italia (36,8) (34). Come si presenta un prodotto etnico all’interno di un punto vendita della GDO? E come può essere guidato il consumatore all’acquisto? La grande distribuzione si sta adattando al trend mediante la presentazione dei prodotti in maniera digitalizzata. Riesce a seguire molto da vicino tutte le esigenze dei consumatori. In particolare i prodotti etnici necessitano di essere presentati in maniera “adeguata” ai diversi tipi di consumatori che si diversificano per localizzazione geografica e di conseguenza per culture ed abitudini alimentari. Oltre a limitarsi alla descrizione della composizione del singolo prodotto e ad esprimerne le caratteristiche organolettiche e compositive, vengono suggerite delle ricette per il loro impiego in cucina esaltandone i punti di forza. La GDO è passata da una comunicazione vecchia ed ormai datata come i volantini cartacei o le pubblicità su quotidiani e settimanali (che hanno indubbiamente la loro efficacia) al digital marketing. Riempire la cassetta delle lettere ogni settimana con nuovi depliant era lo strumento di marketing più usato, mentre oggi si è passati ad una comunicazione personalizzata per ogni consumatore “one to one” o il “real time marketing” (la customer care attiva 24 su 24, 7 giorni su 7 ed i contenuti creativi da condividere sul web per animare il dialogo ed il rapporto con i clienti, rendendolo più interattivo). La crescita economica, i cambiamenti sociodemografici e la rivoluzione tecnologica in atto, influenzano l’evoluzione delle marche
  • 17. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 14 distributrici che sono chiamate ad intercettare le nuove esigenze dei clienti e a valorizzare continuamente nuove opportunità di sviluppo. Le aspettative positive di crescita per l’economia italiana interesseranno anche i consumi alimentari delle famiglie, la cui spesa secondo le stime di The European House-Ambrosetti, passerà dai 454 euro mensili del 2017 a 473 Euro nel 2020 (+4,1 per cento). I cambiamenti socio-demografici, l’invecchiamento della popolazione, l’aumento delle famiglie mononucleari, la multietnicità influenzeranno gli stili di consumo, con un aumento della domanda di prodotti salutistici e di qualità (”free from“, prodotti biologici e origine locale, prodotti freschi e freschissimi), prodotti ”ready to eat“ e cibo etnico (38). La capacità della GDO di rispondere a tutte le esigenze dei consumatori è racchiusa dalla logica del tutto “a portata di mano” e “disponibile tutto l’anno”. Grazie all’elevato potere contrattuale, ad un’alta efficienza logistica, alla facilità con cui riesce a raggiungere i “colossi” dell’industria alimentare, la GDO riesce a rispondere perfettamente alle esigenze di un’ampia fetta di consumatori. Influenzare le scelte dei consumatori ed interpretare i loro trend, ha contribuito a rendere la grande distribuzione organizzata leader indiscusso del settore distributivo con una quota di mercato in Italia pari a circa il 70% e in molti altri Paesi della CE addirittura maggiore. La riorganizzazione dell’assortimento e del displaying praticati a frequenza sempre maggiore dai retailers ci dà un’idea di quanto velocemente cambino le abitudini alimentari dei consumatori. Così, secondo le nuove mode alimentari, è oggi sempre più consueto trovare prodotti come quelli Bio, vegetariani, vegani, alimenti rich in e free from, etnici assenti dagli scaffali fino a pochi anni fa. Una ricerca Nielsen, attraverso lo studio sui claim delle etichette alimentari e i dati sulle vendite, mostra come si è evoluta la spesa alimentare negli ultimi anni. Dall’analisi dei principali trend si evince che: - il biologico continua a crescere, assieme ai prodotti integrali e senza zuccheri aggiunti; - il “free from” (“senza olio di palma”, “senza OGM”, “Senza coloranti’, “senza conservanti”, “senza additivi”) rallenta lievemente, consolidando il boom registrato negli anni passati. Questi rappresentano il 18,4% dei 64.800 prodotti alimentari monitorati dall’Osservatorio Immagino [27% in valore, ndr] e realizzano un giro d’affari di 6,8 miliardi di euro; - emergono nuovi trend, come i claim ‘senza antibiotici’– di cui Coop ha tracciato la via e l‘agricoltura sostenibile’; - le indicazioni ‘non fritto’, ‘rustico’, ‘aromatizzato’ compaiono su un numero crescente di prodotti. Gli alimenti biologici occupano ormai quasi il 10% dei prodotti alimentari considerati dall’Osservatorio Immagino. 6.656 referenze, sostanziosa crescita delle vendite (+6,4%) stimolata anche da un sostanziale ampliamento dell’offerta (+9,0%). Uova, cereali per la prima colazione e confetture sono stati i prodotti che hanno dato il maggior contributo alla crescita del giro d’affari del claim bio, anche se l’incremento è abbastanza generalizzato e ha coinvolto quasi tutte le categorie dell’alimentare. I prodotti ‘identitari’ inseriti nella categoria lifestyle es. vegetariano, vegano, halal, kosher, oltre al biologico – hanno messo a segno nel 2018 un +5,5%, raggiungendo i 2,4 miliardi di euro di giro d’affari tra super e ipermercati. Sebbene lo sviluppo della categoria sia rallentato, rispetto al +10,7% del 2017, il lifestyle copre infatti il 13,4% dei prodotti e l’8.6% del giro d’affari complessivo dei cibi confezionati (39). Tra i claim emergenti con dati ancora poco rilevanti ma performance positive vi è la rivendicazione ‘agricoltura sostenibile. Il food to go o tradotto il ‘pronto da mangiare’, che con un’alta componente di servizio consente di preparare con facilità o riscaldare pasti ‘gourmet’, sembra a sua volta emergere con successo. Le vendite di tali prodotti sono cresciute del 12,3%, superando quota 1,3 miliardi di euro (40). 3.4.1 Prodotti etnici sugli scaffali Sono circa 20,7 milioni gli italiani che tra le mura domestiche si dilettano nella preparazione di ricette etniche. Il cous cous dopo il riso basmati rappresenta l’ingrediente etnico che ha avuto la maggior crescita di consumo negli ultimi 5 anni. Ad esempio, Conad, la seconda insegna italiana per fatturato, ha una strategia di comunicazione innovativa nel panorama distributivo italiano. Ogni canale di contatto ha un proprio ruolo e linguaggio specifico e tutti con coerenza portano valore aggiunto alla loro insegna ed alla loro marca. Abbiamo analizzato in dettaglio come la suddetta catena presenta ai suoi consumatori il cous cous (38). Oltre ai due formati da 500 gr e da 250 gr che potremmo definire “standard”, il prodotto è stato inserito
  • 18. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 15 anche in una specifica linea che prende il nome di “verso natura veg” come alimento adatto per la cucina vegana, con un packaging ed un posizionamento all’interno del punto vendita completamente diverso. Osservando i packaging dei prodotti ed il sito web Conad, abbiamo preso spunto per alcune riflessioni indicative della comunicazione con cui la catena gestisce l’alimento. Il marketing sottolinea la “velocità di preparazione”, presentando il prodotto cous cous come alimento pronto in soli 5 minuti. Viene classificato in funzione al target di riferimento, presentato una volta come cibo etnico, un’altra come prodotto vegan ecocompatibile. Il cous cous che presenta un packaging arabeggiante tendenzialmente richiama l’attenzione di consumatori che gradiscono o che vogliono provare un cibo “diverso” e allo stesso tempo si rivolge anche ai consumatori arabi, africani o di cultura orientale al fine di soddisfarne i bisogni di appartenenza gastronomica. Il caso specifico del cous cous della linea “verso natura veg”, invece, sottolinea gli aspetti benefici e la leggerezza, intrinseci alla stessa composizione del prodotto, rivolgendosi ad un consumatore che oltre ad avere il gusto dell’etnico, predilige un’alimentazione healthy, light, vegan ed ecofriendly (38). Un esempio di enorme successo legato al lancio di un prodotto etnico nella distribuzione italiana è quello riscosso dai Saikebon, nudolini orientali prodotti da Star, azienda che ha fatto da apripista a questa rivoluzione nel mondo dei piatti pronti. Da un’intervista rilasciata dall’allora PM Saikebon a DM (rivista Distribuzione Moderna), il 10 Gennaio 2017, si evince come il successo riscosso da Saikebon abbia dimostrato che, nonostante la cucina mediterranea rimanga la regina indiscussa del Bel Paese, c’è sempre più curiosità nel consumatore verso sapori che valichino i nostri confini. Attualmente, sebbene altri players stiano cercando di affacciarsi nel mondo dei Noodles, attratti dall’enorme potenziale del mercato, Saikebon mantiene la posizione di leader indiscusso, rappresentando una quota nelle vendite relative alla categoria superiore ai due terzi e rimanendo sinonimo di Noodles nella mente dei consumatori. A scaffale Saikebon è posizionato tra i piatti pronti. L’azienda, oltre a segmentare l’offerta creando più linee di prodotto, ha ritenuto opportuno investire in un formato del tutto innovativo: la CUP. Il format, oltre ad assicurare una distintività a scaffale, garantisce un’elevata facilità di preparazione e comodità d’uso per il consumatore (41). La zuppa Bangkok, invece, è’ una semplice zuppa, tailandese, che rientra nella nuovissima ed originale gamma “Gusto d’Oriente” della linea verde. È una gamma creata ad hoc dalla casa produttrice Dimmidisì per portare l’Asia nelle nostre tavole, il packaging anche in questo caso si può definire arabeggiante e raffigura le bacchette. Sia il reclaime sul sito web che lo spot pubblicitario sottolineano che è una gamma di prodotti adatti ad un palato che vuole scoprire nuovi gusti e per un consumatore amante del cibo etnico asiatico. Il pratico e comodo packaging rende le zuppe semplici da trasportare e da consumare durante la pausa pranzo in ufficio o comunque per un rapido pasto “fuori casa”. In particolare lo script “sintonizzati sulle frequenze dei tuoi figli” si riferisce ad un target d’acquisto “genitoriale”, tranquillizzato sulla certezza della genuinità degli ingredienti, mentre il target di consumo è composto dai loro “figli”, ragazzi con un’età compresa tra 14 ed i 30 anni e i genitori stessi (42) (43). Il kebab rientra in una nuova categoria di prodotti di piatti di carne pronti da mangiare che possiamo comprare al supermercato. Le due marche leader del mercato delle carni bianche, Amadori e Aia, hanno proposto un Kebab pronto all’uso, da scaldare in pochi minuti. Nel punto vendita è riposto nel banco frigo vicino alle carni bianche preparate industrialmente, il packaging è una vaschetta in atmosfera modificata, semplice nell’etichetta e trasparente, così che i consumatori possano apprezzarne il contenuto. Un altro esempio di food innovation dato da una partnership tra un brand francese ed i maggiori retailers di ben 10 paesi della comunità europea è quello del Sushi Daily. Quest’esempio di successo mostra prima di tutto come i trend alimentari spesso coinvolgano buona parte dei paesi sviluppati e non sono quasi mai relegati entro i confini di un solo paese. In seconda battuta la velocità con cui suddetti trends riescano a propagarsi divenendo in pochi anni abitudini alimentari. Sushi Daily nata nel 2010 in Francia dall’imprenditrice Kelly Choi oggi conta più di 800 punti vendita in 10 paesi. Sul mercato italiano è presente con oltre 150 stand all’interno delle catene Bennet, Carrefour, Il Gigante, Pam Panorama, Iperal, Conad, Iper, La grande i, Gruppo Poli, Pewex, Tigros, Sole 365, Élite e Simply, dove veri e propri artigiani del sushi preparano ogni giorno più di 140 ricette esclusive, da quelle più classiche a quelle più creative, con o senza pesce crudo, sempre ispirate all’arte del sushi (44). Anche la Coop, principale retailer italiano, vende sushi prodotto all’interno del punto vendita, garantendo al consumatore un cibo etnico pronto all’uso.
  • 19. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 16 4. Conclusioni Sulla base di quanto è stato descritto finora in questo report, emerge come le abitudini alimentari siano in continuo divenire: se da un lato c’è un’incessante curiosità di seguire i trends del momento, dall’altro si tende a mantenere ancora vivi anche aspetti tradizionali così da creare un sostanziale equilibrio tra innovazione e tradizione. Persino in un paese come l’Italia, in cui il cibo è un forte elemento di identità culturale, si sta assistendo ad una notevole trasformazione dello stile alimentare. Secondo uno studio che Demos ha realizzato con la Fondazione Barilla for Food & Nutrition in occasione dell’ottavo Forum Internazionale su Alimentazione & Nutrizione di BCFN, un italiano su due pensa che da qui a dieci anni sulle nostre tavole sarà visibile in maniera evidente questo cambiamento. Si evince che a percepirlo sono soprattutto gli over 65 contrariamente ai più giovani. Questa differenza è dovuta molto probabilmente al fatto che, essendo i giovani i principali attori del cambiamento, tendono quasi a non avvertirlo. A riprova di quanto detto, gli stessi giovani sono la parte del campione che risulta più aperto al cibo etnico e che ne consuma la quantità maggiore. Secondo il medesimo studio nella percezione degli italiani intervistati, le variabili che maggiormente influenzeranno le scelte alimentari da qui ai prossimi 10 anni, saranno i “cambiamenti climatici” (citate dal 79,6% del campione), seguiti dai “prezzi delle materie prime” (78,2%), dai “social media” (70,4%) e dalle “migrazioni e i contatti con le nuove culture (65,6%). Ancora più interessante è notare in “cosa” e “come” questi cambiamenti di abitudini alimentari si tradurranno sempre nei prossimi 10 anni. Per il 69,8% aumenterà il “consumo di cibi biologici”, per il 63,2% quello dei “cibi funzionali” (ossia i senza glutine, senza lattosio, ecc.), per il 59,7% i “cibi a Km 0” e per il 47,4% quello dei cibi etnici (37). Durante la stesura di questo report abbiamo studiato ed analizzato non solo i differenti trends che sono giorno per giorno sempre più “in divenire”, ma anche e soprattutto la comprensione di quanto e come è cambiato l’atteggiamento del consumatore al momento dell’atto d’acquisto. Il nostro consumatore è più impulsivo ed esigente in termini sia di trasparenza della qualità del prodotto sia nel ricercare i prodotti stessi al di fuori della sua tradizione alimentare. Pertanto suggeriamo alle G.D.O, nonché alle aziende produttrici, di dare sempre più risalto ai prodotti etnici mediante azioni via via più innovative ed ingegnose di marketing sotto ogni sua forma (packaging, promozione e pubblicità) da un lato, e di posizionamento da parte dei retailers, dall’altro. Visto l’interesse crescente per “l’ethnic” da parte di un numero cospicuo di consumatori, potrebbe risultare funzionale la creazione di vere e proprie isole di prodotti a matrice etnica, come è stato fatto in precedenza per i prodotti bio e a Km0. In questo modo, grazie al raggruppamento di buona parte dell’offerta alimentare etnica, i consumatori verrebbero agevolati nello scoprire, conoscere e di conseguenza acquistare questa tipologia di prodotto poichè diventerebbe più immediato trovarlo tra le molteplici referenze presenti in un reparto. A nostro avviso potrebbe risultare vincente creare delle linee nuove e/o potenziare quelle già esistenti che accomunino prodotti differenti non più solo per “categoria di prodotto” o “utilizzo” ma che abbiano come fulcro centrale proprio la provenienza del luogo d’origine e/o appartenenza ad una determinata cultura alimentare. L’interesse per i nuovi prodotti e nuovi brand è in continua crescita, in particolare in Italia dove ben 45 italiani su 100 dichiarano di cercare attivamente la novità quando vanno a fare la spesa. Questi sono i dati estrapolati dall’analisi del nuovo carrello della spesa degli italiani grazie ad una ricerca condotta dall’osservatorio “immagino” di Nielsen nel 2018, in cui viene confermato che il trend del “nuovo” o “novità” o “nuova formula” è in enorme espansione. Sono proprio dati come questi che hanno stimolato le nostre riflessioni. Sarebbe auspicabile informare il consumatore riguardo ai prodotti che desidera provare, ad esempio mediante “cooking experiences” e “taste experiences” direttamente all’interno o nei pressi del punto vendita, magari con apposite giornate a tema etnico. Così facendo, in quelle giornate specifiche e calendarizzate, lo store diverrebbe un vero e proprio centro di attrazione e di incontro non solo per stranieri ma anche per i consumatori veterani e, con molta probabilità, ne verrebbero fidelizzati di nuovi. Si potrebbe ricorrere alla realizzazione di formule già esistenti come quella del “meet up”, già molto in voga nei paesi stranieri, in cui diverse persone si riuniscono in un luogo/spazio per
  • 20. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 17 condividere le proprie esperienze riguardo un particolare tema o semplicemente ascoltare quelle degli altri per scoprire qualcosa in più in merito all’argomento trattato o farsi un’idea spinti dalla curiosità del caso. Quanto velocemente cambieranno i trends? E quanti di quelli presenti diverranno i pilastri di quelli del futuro? Fino a che punto il marketing può arrivare per fidelizzare target di consumatori sempre più eterogenei? Non essendovi limiti alle risposte di queste domande, potenzialmente anche le nostre conclusioni potrebbero esserlo. Tutto ciò che oggi viviamo come cambiamento, novità, innovazione potrebbe essere la tradizione del domani? Globalizzazione e Contaminazione degli stili alimentari: “perdita della tradizione o nascita di una nuova?...”
  • 21. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 18 5.Bibliografia 1. Pollan, Michael. In defence of food. An Eater's Manifesto. 1 gennaio 2008. 2. La dimensione culturale del cibo. Barilla Center for food and nutrition. Parma : The European House Ambrosetti. 3. Antropologia alimentare e storia della globalizzazione. Pitte, Jean-Robert. Università di Parigi, Sorbona : s.n. 4. A., Reira-Melis. 2002. 5. A, Capatti. La cucina italiana. 1999. 6. M., Montanari. Il mondo in cucina: storia, identità, scambi. 2002. 7. Carillo, Germana. Green Me. La globalizzazione a tavola: il cibo che mangiamo viene da lontano. [Online] 11 Luglio 2016. https://www.greenme.it/mangiare/alimentazione-a- salute/derrate-alimentari-globalizzazione/. 8. Origins of food crops connect countries worldwide. all., Colin K. et. s.l. : The Royal Society, 2016. 9. Cherfas, Jeremy. Mondomigliore.eu. Da dove proviene il cibo che mangiamo? Una mappa per scoprirlo. [Online] 2016. https://www.mondomigliore.eu/natura/cibo/. 10. wine news, the pocket wine web site in Italy. [Online] 2016. https://winenews.it/it/il-cibo-e- glocal-secondo-l-international-center-for_332512/. 11. Aversa, Giovanni. bankpedia. [Online] http://www.bankpedia.org/index.php/it/103- italian/g/23767-globalizzazione-aspetti-economici-finanziari-e-di-regolamentazione- enciclopedia. 12. Meriggi, Giovanni De Luna e Marco. Il segno della storia. s.l. : Pearson, 2012. 13. Costato, L. Compendio di diritto alimentare. s.l. : Cedam. 14.MIUR WaFS CeStInGeo. Waterandfoodsecurity.org. [Online] https://www.waterandfoodsecurity.org/scheda.php?id=48 . 15. food democracy. [Online] https://foodemocracy.wordpress.com/2014/12/09/il-brunch- ovvero-la-destrutturazione-del-rituale-dei-pasti/. 16. wordpress.com. cfpassistente Le diverse forme del cibbo...dalla produzione di nicchia ai fast-food. [Online] https://cfpassistente.wordpress.com/le-diverse-forme-del-cibo-dalla- produzione-di-nicchia-ai-fast-food/. 17. Teti, V. 1999. 18. GreenToscana. Greenreport. Quando il cibo si fa cultura e strumento di integrazione. [Online] 4 12 2018. 19. Pravettoni, Riccardo. [Online] https://digilander.libero.it/piepatso2/tav_int4/cibo-cultura- migrazioni.pdf. 20. Scienza e Governo Centro studi l'Uomo e l'Ambiente. [Online] 4 settembre 2018. http://scienzaegoverno.org. 21. Alimenti etnici, un fenomeno in espensione in Europa: studio in un Progetto europeo. all, Marletta L. et. 2006, Vol. La Rivista di Scienza dell'Alimentazione pp. 9-15. 22. [aut. libro] Corona S. Le migrazioni del Cibo (pp. 77-79). s.l. : Eurocarni, 2014. 23. La Presse. Coldiretti: +18% consumi cibi etnici, è boom nel 2015. [Online] 6 settembre 2015. http://www.lapresse.it/coldiretti-18-consumi-cibi-etnici-e-boom-nel-2015.html. 24. Rapporto Coop. [Online] 2016. http://www.italiani.coop/rapporto-coop-2016. 25. Rapporto Coop 2017: Economia, consumi e stili di vita degli italiani di oggi. Roma : Agra Editrice Srl, dicembre 2017. 26. Coldiretti/Censis, 78mld per mangiare fuori casa (+8%). s.l. : Coldiretti, 20 ottobre 2017. 27. Ethnic food consuption: habits and risk perception in Italy. all, Mascarello et. s.l. : Journal of food safety, 10 aprile 2017. 28. M., Ratti. Quanto vale il cibo etnico. L'Espresso. La Repubblica, 14 novembre 2016. 29. Eurispes: cibo etnico più sfizio che passione per italiani. Roma : Ansa, 26 gennaio 2017. 30. L'origine delle materie prime agroalimentari: importazioni e produzione interna in Italia. Zuppiroli, Marco. Parma, dipartimento di economia Università degli Studi di Parma : s.n., 2015.
  • 22. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 19 31. Gustoso. GustosoSicilianFood.it. [Online] http://www.gustososicilianfood.it. 32. Ansa- Agenzia Nazionale Stampa Associata. Cucina etnica, scelta da 14 milioni di italiani. [Online] 18 maggio 2018. http://www.ansa.it/canale_terraegusto/notizie/prodotti_tipici/2018/05/18/cucina-etnica- scelta-da-14-milioni-di-italiani_2920e58d-b330-447e-a4e1-417b09d8b9ab.html. 33. Ansa. Cresce in Italia la "ristorazione etnica", +40% in 5 anni. 30 agosto 2018. 34. EtniCoop. EtniCoop gusto senza confini. 35. Molti Volti. [Online] http://moltivolti.org . 36. Temakinho tra Giappone e Brasile. Se Milano il sushi balla a ritmo di samba. Gambero Rosso. Vol. https://www.gamberorosso.it/notizie/articoli-food/temakinho-tra-giappone-e- brasile-se-milano-il-sushi-balla-a-ritmo-di-samba/. 37. Leggo. [Online] 5 12 2017. https://www.leggo.it/alimentazione/news/cibo_sostenibilita_italia_solo_settima_ma_domina _nell_agricoltura-3409757.html. 38. Conad. [Online] (https://www.conad.it/?utm_source=google&utm_campaign=_WPP_CONAD_BRAND- CORPORATE-PURE-EXACT&utm_medium=cpc. 39. Food to go: in Italia è boom. Serpilli, Laura. 08 settembre 2019. 40. Nielsen. Osservatorio immagine Nielsen OI 2019 GS1 Italy. [Online] 2019. https://osservatorioimmagino.it. 41. Nicola Arici, Senior PM Ready Meals. Saikebon: la rivoluzione dei piatti pronti in formato noodles. 10 gennaio 2017. 42. Dimmidisì . [Online] https://www.dimmidisì.it/prodotti/zuppe-e-brodi/gusto-oriente/zuppa- bangkok/. 43. Tigros. [Online] https://www.google.com/url?q=https://www.tigros.it/shop/product/zuppa-bangkok-gr350- dimmidisi-gusto- doriente&sa=D&ust=1576700233627000&usg=AFQjCNEp9BEI2ncEZIUNLNy-OeqgHlLJgw. 44. [Online] https://www.horecanews.it/sushi-daily-due-nuove-aperture-a-sassari-e-cagliari/.
  • 23. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 20 ALLEGATO I Caso Moltivolti Intervista a Giovanni Zinna, cofondatore dell’associazione “Moltivolti”. 1) Cosa ha fatto nascere in lei l’idea di creare l’Associazione “Moltivolti”? <<L’associazione moltivolti è composta da molte persone accomunate dall’aver vissuto dieci anni fa un’esperienza di cooperazione internazionale in Africa, in particolare in Tanzania. Al tempo la cooperazione era disequilibrata e rappresentava più ombre che luci. Così, ritornato dall’Africa mi feci venire l’idea di creare un’associazione per continuare a trattare tematiche che avessero a che fare con il Nord e Sud del mondo. Questa volta utilizzando uno strumento di cooperazione che risultasse più simmetrico dal punto vista delle relazioni instaurate tra i componenti dell’associazione stessa. Inoltre, l’aver vissuto in detti posti mi ha permesso di venire a conoscenza di quegli elementi che ci hanno permesso di costruire relazioni più e significative e durature. La prima associazione “Moltivolti Capovolti” era in co-working. Questa, però, a distanza di un anno risultò non sostenibile, in quanto le spese superavano i costi. Con altri soggetti facenti parte dello stesso co-working abbiamo pensato di creare un’associazione che integrasse il no profit e il profit e da qui è nata l’idea di Moltivolti. Ciò ha significato trasportare il Co- working all’interno di un progetto più grande in cui il ristorante facesse da traino da un punto di vista economico mentre il co-working ne desse la cornice valoriale. Fu così che nacque questa intesa sociale chiamata Moltivolti. Già nella sua compagine iniziale erano presenti individui stranieri provenienti ad esempio dal Senegal, Zambia in maniera tale di avere già nello staff un’integrazione vera e propria, tangibile. Quindi lo scopo iniziale del ristorante è stato quello di finanziare un’associazione che inizialmente, seppur avesse nobili scopi, non era economicamente sostenibile. Ora il ristorante produce utile facendo del cibo che, provenendo da diverse culture, comunica una visione pratica di integrazione e socializzazione. Coerentemente con la vision del progetto, il cibo rappresenta un ottimo elemento di integrazione sociale. L’ obiettivo principale è a stampo etico, poiché tutto si lega ad una visione del mondo in cui le frontiere vengano abbattute, non solo quelle geografiche ma anche quelle mentali>>. 2) La scelta del Quartiere Ballarò dove avete aperto il ristorante, è stata casuale o no? <<No, non è stata casuale. Compatibilmente alla vision del progetto era importante far nascere questa nuova realtà in un contesto come quello del quartiere Ballarò. Questo è un vero e proprio laboratorio sociale in cui coesistono più di 15 etnie e vengono parlate più di 28 lingue diverse. Sono presenti diversi locali, un gran numero di immigrati e coesistono altre associazioni. In conclusione, questo progetto non poteva che svilupparsi lì al fine di innescare dinamiche di riqualificazione del quartiere, e poter crescere con esso>>. 3) La clientela del Moltivolti ha provenienza locale o straniera? <<Dipende dalla stagione, in estate la clientela è turistica per il 50-60%, mentre in inverno a frequentare il locale sono soprattutto le persone del posto, sia siciliani che immigrati. Questi ultimi frequentano volentieri il ristorante anche perché si sentono rappresentati dagli stessi componenti dello staff che sono spesso della loro stessa nazionalità. Si trovano talmente a loro agio che frequentemente decidono di festeggiare lieti eventi in questo locale>>.
  • 24. Globalizzazione e contaminazione tra gli stili alimentari Master in Food & Beverage Management 2019-2020 21 4) I consumatori scelgono pietanze appartenenti alla loro cultura culinaria o tendono a provarne delle nuove? <<Il consumatore, sapendo che è un ristorante multietnico, si lascia attrarre da proposte culinarie varie, piatti nuovi che provengono da tradizioni diverse>>.