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RELAZIONE PER IL CORSO DI ESTETICA DEL GUSTO


Experiencing wine – why critics mess up (some of the
               time) di Jamie Goode
                         e
 The soul of wine – digging for meaning di Randall
                       Grahm




              DAVIDE DI FAZIO – MAT. N° 34950
          ANDREA LOMBARDI – MAT. N° 34891
Introduzione

       Nel suo saggio Goode prova a collegare differenti aspetti per costruire una storia
comune riguardo alla nostra percezione del vino e alla sua critica.

       Successivamente l’autore tenta di tradurre in parole la rappresentazione interna
all’individuo che si crea con l’assaggio del vino. Questo processo non è diretto e
immediato come si potrebbe pensare. Goode si domanda quali siano i modi migliori di
descrivere il vino in parole e se il nostro vocabolario, in qualche modo, dia la forma alla
nostra esperienza del gusto.

       L’ultimo argomento di cui tratta il saggio riguarda la spinosa questione della
differenza individuale nella percezione del vino: quando assaggiamo un vino insieme,
stiamo tutto avendo la stessa esperienza?

       Prima di procedere alla trattazione di questi tre argomenti, Goode si concentra su
alcuni aspetti che differenziano il vino da altre bevande, come l’aspetto storico, biologico e
culturale.

       Il vino è radicato nella storia dell’uomo da circa 7000 anni, ricoprendo anche un
significato religioso per la Chiesa Cristiana, che lo utilizza come simbolo del sangue di
Cristo durante l’eucarestia.

       Esso è inoltre una bevanda relativamente “naturale” – le proprietà dell’uva sono
cruciali per determinare le caratteristiche e la qualità del vino che tale uva produce – in un
modo che è differente dalle bevande prodotte artificialmente, come il whiskey o la birra. In
più a questo, c’è la diversità: i vini sono il risultato di un incastro ordinato di varietà d’uva,
differenti tecniche di produzione, caratteristiche dei filari e influenze climatiche.

       Secondo l’autore, l’aspetto più rimarcabile a proposito del vino è il modo in cui una
cultura ha sviluppato intorno ad esso appassionati ed esperti che frequentemente
descrivono le proprie percezioni sensoriali attraverso l’uso delle parole.

Assaggiare il vino in pratica: la qualità di un vino

       A questo punto, Goode introduce un discorso sulla qualità del vino. Essa stabilisce
il valore di mercato di un determinato vino – una bottiglia pregiata può essere venduta a
centinaia di euro, mentre una comune a pochi.


                                                                                                 2
Occorre soffermarsi su come si determina la qualità di un vino: c’è uno scontro di
culture. Il buon vino, come noi lo conosciamo, è nato e cresciuto come un sistema estetico
basato sull’idea che è possibile differenziare la qualità dei vini in un modo oggettivo;
quindi, il mercato del vino ha sviluppato un sistema standard e autodeterminato in base al
quale ogni vino viene giudicato.

       In realtà questa visione classica è stata oggetto di discussioni e ha portato a uno
“scisma” tra coloro che si ritenevano i guardiani di questo sistema tradizionale e coloro che
lo consideravano restrittivo e anacronistico. In quest’ottica Goode introduce la figura di
Robert Parker, che nel 1978, con la pubblicazione di Wine Advocate, rivoluzionò il mondo
del vino pregiato. Lo scopo dell’approccio di Parker era quello di dare alle persone comuni
una guida imparziale che le avrebbe aiutate a prendere decisioni d’acquisto ponderate, in
base ad una semplice e comprensibile scala di valutazione dei vini su “100” punti – un vino
che non raggiunge il punteggio di “80” non è granché; se supera il “90” è speciale.

       L’introduzione della scala di Parker, pur lasciando spazio a numerose critiche, ebbe
conseguenze positive, quali la crescita della concorrenza all’interno del mercato del vino e
l’apertura verso nuovi mercati.

       Non tutti i critici però ritengono la scala di Parker uno strumento valido per la
valutazione della qualità del vino. La critica più efferata riguarda la credenza che le
preferenze di Parker abbiano spinto i produttori a cambiare il loro modo di produrre il vino
per ottenere punteggi alti – la cosiddetta “parkerizzazione” del vino. Uno dei critici più
feroci della scala di valutazione di Parker è Randall Grahm, che nel suo saggio L’anima
del vino, critica in toto la pratica di dare un punteggio ai vini: così facendo c’è una
tendenza ad anatomizzare il vino, a considerarlo come una collezione di elementi piuttosto
che un’unità indivisibile. Premiare un vino con “100” è come “romperlo in mille pezzi”,
scomporlo in parti: è troppo semplicistico, riduttivo e non pertinente.

La percezione del vino

       Goode si chiede quale sia la natura della nostra percezione del vino. Ad una visione
troppo semplicistica determinata da un processo bottom-up (a stimolo determinato
corrisponde una risposta determinata), l’autore oppone un modello top-down. Il cervello
modella il mondo che ci circonda, estrapolando dall’ambiente solo i dati sensoriali rilevanti
per i propri scopi.


                                                                                           3
Il metodo top-down ha rilevanza per l’apprezzamento del vino; il palato di un critico
non è analogo ad uno strumento di rilevazione. In pratica il punteggio di un vino deriva
dalla proprietà di interazione tra il critico e il vino; non è quindi una proprietà del vino in sé.
La valutazione deriva dall’esperienza percettiva, che a sua volta deriva in parte dalle
proprietà del vino e in parte dal critico.

Il linguaggio del vino

       Proseguendo nel suo saggio, Goode indaga su come sia possibile tradurre
l’esperienza percettiva del vino in parole.

       Secondo lo psicologo cognitivo Brochet, assaggiare un vino significa creare una
rappresentazione, che è prodotta da un’esperienza manipolata dal cervello sulla base di
un’esperienza fisica. Tramite analisi testuali e di comportamento condotte su esperti di
vino, Brochet giunge a sei conclusioni su come viene normalmente tradotta l’esperienza
percettiva del vino:
           1) le rappresentazioni descrittive degli esperti sono basate solo sul tipo di vino;

           2) le rappresentazioni sono “prototipiche”: vocabolari specifici sono usati per
              descrivere tipi di vini e ogni vocabolario rappresenta un tipo di vino;
           3) il ventaglio di parole utilizzate varia a seconda dell’esperto;
           4) gli esperti possiedono un vocabolario specifico per vini preferiti e non
              preferiti; nessuno di loro sembra essere in grado di accantonare le proprie
              preferenze;
           5) il colore è un fattore molto importante nell’organizzazione dei termini e ha
              un’influenza nel tipo di descrizione usata;
           6) il background culturale è presente nelle descrizioni sensoriali.


       Successivamente Goode tratta direttamente il linguaggio del vino e i mezzi letterari
usati per comunicare l’esperienza sensoriale. Egli sostiene che il linguaggio figurativo
(metafore, sinestesie, metonimie, ecc.) debba essere incluso nelle descrizioni, sia in
quanto è ormai radicata una tendenza a personificare il vino, sia perché possediamo un
linguaggio povero per descrivere i sapori e gli odori: non esiste un lessico adeguato per
coprire tutti i livelli delle impressioni sensoriali, quindi si deve ricorrere alle metafore.




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Differenze individuali nella percezione del vino

         Il terzo tema del saggio di Goode può essere riassunto con questa domanda: due
persone che bevono dalla stessa bottiglia di vino stanno avendo la stessa esperienza?

         Secondo alcuni studi condotti dalla psicofisica del gusto Linda Bartoshuk, parte del
problema di comparare l’esperienza del gusto tra individui diversi deriva da differenze
genetiche: è risultato che alcuni individui hanno ricettori del gusto più sviluppati di altri. In
aggiunta a ciò occorre tenere conto della plasmabilità del gusto: quest’ultimo non mostra
stabilità lungo il tempo, ma le preferenze possono cambiare anche in base all’età e al
sesso.

         Alla luce di questo, ci si potrebbe chiedere: è possibile che i critici credano che le
loro opinioni non servano al bevitore occasionale perché hanno una differente esperienza
dello stesso vino?

         Goode conclude il suo saggio affermando che condividere le nostre percezioni sul
vino è molto difficile, sia per il nostro bagaglio culturale, sia per l’esperienza multimodale
sensoriale di cui consiste l’assaggiare. Inoltre, poiché il sapore è impreciso, ci sono
differenze nell’esperienza sensoriale tra i singoli individui.

         Le nostre rappresentazioni del vino sono “prototipiche”: quando assaggiamo un
vino, decidiamo in base alla nostra esperienza che tipo di vino stiamo assaporando e
quindi ciò ci aiuta a descriverlo.

         Secondo Goode, una maniera accurata di rendere a parole una descrizione delle
nostre percezioni non può prescindere dall’utilizzo del linguaggio figurativo, poiché manca
un modo di comunicare la struttura e la consistenza del vino.

Un differente approccio: Grahm e l’anima del vino

         Randall Grahm tratta l’argomento del vino contrapponendosi a Goode: mentre
quest’ultimo si preoccupa del problema della traduzione in parole dell’esperienza
percettiva del vino, Grahm pone al centro del suo pensiero il vino stesso, in quanto unità
inscindibile e provvista di anima.

         Nel suo saggio L’anima del vino, l’autore sostiene che il vino abbia un’anima,
proprio come gli esseri umani, e che raramente essa venga presa in considerazione dai
critici quando si trovano davanti al compito di tradurre in parole le loro sensazioni

                                                                                               5
percettive che hanno provato bevendo un vino. Gli aspetti su cui ci si sofferma solitamente
– la valutazione che del vino è stata data da un critico famoso, l’accostamento con un
certo piatto, ecc. – sono secondo Grahm aspetti che non riguardano il vino in sé, ma che
si riferiscono a noi esseri umani e alle nostre pratiche socio-culturali.

       L’ispirazione per scrivere questo saggio è giunta a Grahm da un’esperienza
particolare: mentre stava degustando vari vini californiani, si è imbattuto in un Riesling
che, appena assaggiato, gli ha dato l’impressione di essere ontologicamente differente
dagli altri vini, come se provenisse da un altro pianeta.

       La caratteristica che il Riesling possedeva a differenza degli altri vini era il territorio
(terroir), l’appartenenza a un luogo (somewhereness), ovvero la capacità di riuscire ad
esprimere il luogo in cui esso è cresciuto, a prescindere dall’impronta datagli dal
viticoltore. Il concetto di territorio è intimamente legato all’idea che l’autore intende
promuovere, ovvero che il vino abbia un’anima.

       Un vino dotato di anima è in grado di comunicare con chi è in grado di ascoltarlo.
Per spiegare questo passaggio, Grahm ricorre alla pratica taoista del qi-gong, che
consiste nel calmarsi e aprire totalmente la propria attenzione per riuscire ad entrare in
contatto con altri tipi di esseri animati o inanimati (animali, vegetali o minerali), con i quali
condividiamo il qi, la forza della vita.

       Il problema, prosegue Grahm, è che la nostra cultura, specialmente nel Nuovo
Mondo, si è sviluppata come sorda a questo tipo di discorso: non riesce ad entrare in
contatto con gli altri esseri e preferisce concentrarsi sulle loro caratteristiche esterne,
superficiali, piuttosto che ricercarne la sostanza, l’anima. È così che molti vini, anche in
Europa, stanno cominciando a perdere la loro originale peculiarità, la loro unicità,
l’appartenenza al proprio luogo di origine, la loro anima.

       L’anima, così per i vini come per gli esseri umani, è la parte durevole, immutabile,
nascosta al di sotto della superficie, che rappresenta l’essenza più autentica dell’essere.
Come già sottolineato però, la cultura odierna, quando si parla di vini come di ogni altra
cosa, tende a soffermarsi sugli aspetti esteriori, sulle apparenze, che possono nascondere
o mascherare l’essenza interiore.

       Questo costituisce un problema sia per i consumatori di vino, che si vedono privati
di un’esperienza unica come quella che l’autore del saggio ha avuto con il Riesling, sia per


                                                                                                6
i produttori, i quali, in assenza di una conoscenza specifica del territorio, vedono il loro
compito complicarsi enormemente.

      Secondo Grahm, infatti, la possibilità di un vino di esprimere la propria anima
dipende in ultima analisi proprio dal rapporto che il produttore del vino instaura con il vino
stesso: per produrre un vino che abbia un’anima, che esprima il proprio territorio, il
produttore del vino deve trattarlo come fosse una persona, adottare con esso una
relazione Io-Tu e lasciarlo parlare di propria voce.

      Grahm conclude il proprio intervento elencando alcuni suggerimenti per i produttori
che vogliano creare un vino dotato di anima. Egli deve:

          •   essere sempre pronto ad ammettere la possibilità dello sconosciuto, dello
              strano all’interno della sua vita da produttore di vino;
          •   imparare a coltivare il proprio intuito, a muoversi sempre nella direzione di
              ciò che non riesce a comprendere totalmente;
          •   soprattutto, andare dentro la propria anima ed ascoltare la risonanza,
              l’armonia;
          •   altrettanto importante, ignorare la conoscenza ricevuta ed essere pronto ad
              andare contro il proprio carattere.
       Che riesca o fallisca, il solo tentativo di creare un vino che abbia un’anima nobilita
l’anima stessa del produttore di vino.




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Experiencing wine - The soul of wine

  • 1. RELAZIONE PER IL CORSO DI ESTETICA DEL GUSTO Experiencing wine – why critics mess up (some of the time) di Jamie Goode e The soul of wine – digging for meaning di Randall Grahm DAVIDE DI FAZIO – MAT. N° 34950 ANDREA LOMBARDI – MAT. N° 34891
  • 2. Introduzione Nel suo saggio Goode prova a collegare differenti aspetti per costruire una storia comune riguardo alla nostra percezione del vino e alla sua critica. Successivamente l’autore tenta di tradurre in parole la rappresentazione interna all’individuo che si crea con l’assaggio del vino. Questo processo non è diretto e immediato come si potrebbe pensare. Goode si domanda quali siano i modi migliori di descrivere il vino in parole e se il nostro vocabolario, in qualche modo, dia la forma alla nostra esperienza del gusto. L’ultimo argomento di cui tratta il saggio riguarda la spinosa questione della differenza individuale nella percezione del vino: quando assaggiamo un vino insieme, stiamo tutto avendo la stessa esperienza? Prima di procedere alla trattazione di questi tre argomenti, Goode si concentra su alcuni aspetti che differenziano il vino da altre bevande, come l’aspetto storico, biologico e culturale. Il vino è radicato nella storia dell’uomo da circa 7000 anni, ricoprendo anche un significato religioso per la Chiesa Cristiana, che lo utilizza come simbolo del sangue di Cristo durante l’eucarestia. Esso è inoltre una bevanda relativamente “naturale” – le proprietà dell’uva sono cruciali per determinare le caratteristiche e la qualità del vino che tale uva produce – in un modo che è differente dalle bevande prodotte artificialmente, come il whiskey o la birra. In più a questo, c’è la diversità: i vini sono il risultato di un incastro ordinato di varietà d’uva, differenti tecniche di produzione, caratteristiche dei filari e influenze climatiche. Secondo l’autore, l’aspetto più rimarcabile a proposito del vino è il modo in cui una cultura ha sviluppato intorno ad esso appassionati ed esperti che frequentemente descrivono le proprie percezioni sensoriali attraverso l’uso delle parole. Assaggiare il vino in pratica: la qualità di un vino A questo punto, Goode introduce un discorso sulla qualità del vino. Essa stabilisce il valore di mercato di un determinato vino – una bottiglia pregiata può essere venduta a centinaia di euro, mentre una comune a pochi. 2
  • 3. Occorre soffermarsi su come si determina la qualità di un vino: c’è uno scontro di culture. Il buon vino, come noi lo conosciamo, è nato e cresciuto come un sistema estetico basato sull’idea che è possibile differenziare la qualità dei vini in un modo oggettivo; quindi, il mercato del vino ha sviluppato un sistema standard e autodeterminato in base al quale ogni vino viene giudicato. In realtà questa visione classica è stata oggetto di discussioni e ha portato a uno “scisma” tra coloro che si ritenevano i guardiani di questo sistema tradizionale e coloro che lo consideravano restrittivo e anacronistico. In quest’ottica Goode introduce la figura di Robert Parker, che nel 1978, con la pubblicazione di Wine Advocate, rivoluzionò il mondo del vino pregiato. Lo scopo dell’approccio di Parker era quello di dare alle persone comuni una guida imparziale che le avrebbe aiutate a prendere decisioni d’acquisto ponderate, in base ad una semplice e comprensibile scala di valutazione dei vini su “100” punti – un vino che non raggiunge il punteggio di “80” non è granché; se supera il “90” è speciale. L’introduzione della scala di Parker, pur lasciando spazio a numerose critiche, ebbe conseguenze positive, quali la crescita della concorrenza all’interno del mercato del vino e l’apertura verso nuovi mercati. Non tutti i critici però ritengono la scala di Parker uno strumento valido per la valutazione della qualità del vino. La critica più efferata riguarda la credenza che le preferenze di Parker abbiano spinto i produttori a cambiare il loro modo di produrre il vino per ottenere punteggi alti – la cosiddetta “parkerizzazione” del vino. Uno dei critici più feroci della scala di valutazione di Parker è Randall Grahm, che nel suo saggio L’anima del vino, critica in toto la pratica di dare un punteggio ai vini: così facendo c’è una tendenza ad anatomizzare il vino, a considerarlo come una collezione di elementi piuttosto che un’unità indivisibile. Premiare un vino con “100” è come “romperlo in mille pezzi”, scomporlo in parti: è troppo semplicistico, riduttivo e non pertinente. La percezione del vino Goode si chiede quale sia la natura della nostra percezione del vino. Ad una visione troppo semplicistica determinata da un processo bottom-up (a stimolo determinato corrisponde una risposta determinata), l’autore oppone un modello top-down. Il cervello modella il mondo che ci circonda, estrapolando dall’ambiente solo i dati sensoriali rilevanti per i propri scopi. 3
  • 4. Il metodo top-down ha rilevanza per l’apprezzamento del vino; il palato di un critico non è analogo ad uno strumento di rilevazione. In pratica il punteggio di un vino deriva dalla proprietà di interazione tra il critico e il vino; non è quindi una proprietà del vino in sé. La valutazione deriva dall’esperienza percettiva, che a sua volta deriva in parte dalle proprietà del vino e in parte dal critico. Il linguaggio del vino Proseguendo nel suo saggio, Goode indaga su come sia possibile tradurre l’esperienza percettiva del vino in parole. Secondo lo psicologo cognitivo Brochet, assaggiare un vino significa creare una rappresentazione, che è prodotta da un’esperienza manipolata dal cervello sulla base di un’esperienza fisica. Tramite analisi testuali e di comportamento condotte su esperti di vino, Brochet giunge a sei conclusioni su come viene normalmente tradotta l’esperienza percettiva del vino: 1) le rappresentazioni descrittive degli esperti sono basate solo sul tipo di vino; 2) le rappresentazioni sono “prototipiche”: vocabolari specifici sono usati per descrivere tipi di vini e ogni vocabolario rappresenta un tipo di vino; 3) il ventaglio di parole utilizzate varia a seconda dell’esperto; 4) gli esperti possiedono un vocabolario specifico per vini preferiti e non preferiti; nessuno di loro sembra essere in grado di accantonare le proprie preferenze; 5) il colore è un fattore molto importante nell’organizzazione dei termini e ha un’influenza nel tipo di descrizione usata; 6) il background culturale è presente nelle descrizioni sensoriali. Successivamente Goode tratta direttamente il linguaggio del vino e i mezzi letterari usati per comunicare l’esperienza sensoriale. Egli sostiene che il linguaggio figurativo (metafore, sinestesie, metonimie, ecc.) debba essere incluso nelle descrizioni, sia in quanto è ormai radicata una tendenza a personificare il vino, sia perché possediamo un linguaggio povero per descrivere i sapori e gli odori: non esiste un lessico adeguato per coprire tutti i livelli delle impressioni sensoriali, quindi si deve ricorrere alle metafore. 4
  • 5. Differenze individuali nella percezione del vino Il terzo tema del saggio di Goode può essere riassunto con questa domanda: due persone che bevono dalla stessa bottiglia di vino stanno avendo la stessa esperienza? Secondo alcuni studi condotti dalla psicofisica del gusto Linda Bartoshuk, parte del problema di comparare l’esperienza del gusto tra individui diversi deriva da differenze genetiche: è risultato che alcuni individui hanno ricettori del gusto più sviluppati di altri. In aggiunta a ciò occorre tenere conto della plasmabilità del gusto: quest’ultimo non mostra stabilità lungo il tempo, ma le preferenze possono cambiare anche in base all’età e al sesso. Alla luce di questo, ci si potrebbe chiedere: è possibile che i critici credano che le loro opinioni non servano al bevitore occasionale perché hanno una differente esperienza dello stesso vino? Goode conclude il suo saggio affermando che condividere le nostre percezioni sul vino è molto difficile, sia per il nostro bagaglio culturale, sia per l’esperienza multimodale sensoriale di cui consiste l’assaggiare. Inoltre, poiché il sapore è impreciso, ci sono differenze nell’esperienza sensoriale tra i singoli individui. Le nostre rappresentazioni del vino sono “prototipiche”: quando assaggiamo un vino, decidiamo in base alla nostra esperienza che tipo di vino stiamo assaporando e quindi ciò ci aiuta a descriverlo. Secondo Goode, una maniera accurata di rendere a parole una descrizione delle nostre percezioni non può prescindere dall’utilizzo del linguaggio figurativo, poiché manca un modo di comunicare la struttura e la consistenza del vino. Un differente approccio: Grahm e l’anima del vino Randall Grahm tratta l’argomento del vino contrapponendosi a Goode: mentre quest’ultimo si preoccupa del problema della traduzione in parole dell’esperienza percettiva del vino, Grahm pone al centro del suo pensiero il vino stesso, in quanto unità inscindibile e provvista di anima. Nel suo saggio L’anima del vino, l’autore sostiene che il vino abbia un’anima, proprio come gli esseri umani, e che raramente essa venga presa in considerazione dai critici quando si trovano davanti al compito di tradurre in parole le loro sensazioni 5
  • 6. percettive che hanno provato bevendo un vino. Gli aspetti su cui ci si sofferma solitamente – la valutazione che del vino è stata data da un critico famoso, l’accostamento con un certo piatto, ecc. – sono secondo Grahm aspetti che non riguardano il vino in sé, ma che si riferiscono a noi esseri umani e alle nostre pratiche socio-culturali. L’ispirazione per scrivere questo saggio è giunta a Grahm da un’esperienza particolare: mentre stava degustando vari vini californiani, si è imbattuto in un Riesling che, appena assaggiato, gli ha dato l’impressione di essere ontologicamente differente dagli altri vini, come se provenisse da un altro pianeta. La caratteristica che il Riesling possedeva a differenza degli altri vini era il territorio (terroir), l’appartenenza a un luogo (somewhereness), ovvero la capacità di riuscire ad esprimere il luogo in cui esso è cresciuto, a prescindere dall’impronta datagli dal viticoltore. Il concetto di territorio è intimamente legato all’idea che l’autore intende promuovere, ovvero che il vino abbia un’anima. Un vino dotato di anima è in grado di comunicare con chi è in grado di ascoltarlo. Per spiegare questo passaggio, Grahm ricorre alla pratica taoista del qi-gong, che consiste nel calmarsi e aprire totalmente la propria attenzione per riuscire ad entrare in contatto con altri tipi di esseri animati o inanimati (animali, vegetali o minerali), con i quali condividiamo il qi, la forza della vita. Il problema, prosegue Grahm, è che la nostra cultura, specialmente nel Nuovo Mondo, si è sviluppata come sorda a questo tipo di discorso: non riesce ad entrare in contatto con gli altri esseri e preferisce concentrarsi sulle loro caratteristiche esterne, superficiali, piuttosto che ricercarne la sostanza, l’anima. È così che molti vini, anche in Europa, stanno cominciando a perdere la loro originale peculiarità, la loro unicità, l’appartenenza al proprio luogo di origine, la loro anima. L’anima, così per i vini come per gli esseri umani, è la parte durevole, immutabile, nascosta al di sotto della superficie, che rappresenta l’essenza più autentica dell’essere. Come già sottolineato però, la cultura odierna, quando si parla di vini come di ogni altra cosa, tende a soffermarsi sugli aspetti esteriori, sulle apparenze, che possono nascondere o mascherare l’essenza interiore. Questo costituisce un problema sia per i consumatori di vino, che si vedono privati di un’esperienza unica come quella che l’autore del saggio ha avuto con il Riesling, sia per 6
  • 7. i produttori, i quali, in assenza di una conoscenza specifica del territorio, vedono il loro compito complicarsi enormemente. Secondo Grahm, infatti, la possibilità di un vino di esprimere la propria anima dipende in ultima analisi proprio dal rapporto che il produttore del vino instaura con il vino stesso: per produrre un vino che abbia un’anima, che esprima il proprio territorio, il produttore del vino deve trattarlo come fosse una persona, adottare con esso una relazione Io-Tu e lasciarlo parlare di propria voce. Grahm conclude il proprio intervento elencando alcuni suggerimenti per i produttori che vogliano creare un vino dotato di anima. Egli deve: • essere sempre pronto ad ammettere la possibilità dello sconosciuto, dello strano all’interno della sua vita da produttore di vino; • imparare a coltivare il proprio intuito, a muoversi sempre nella direzione di ciò che non riesce a comprendere totalmente; • soprattutto, andare dentro la propria anima ed ascoltare la risonanza, l’armonia; • altrettanto importante, ignorare la conoscenza ricevuta ed essere pronto ad andare contro il proprio carattere. Che riesca o fallisca, il solo tentativo di creare un vino che abbia un’anima nobilita l’anima stessa del produttore di vino. 7