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L'identità negata
               La Guerra di Liberazione del Bangladesh
               come disfacimento dell'ideale artificioso
                                      di Pakistan unito



Dott.ssa Cristina Lo Giudice
Indice
     • Prefazione
                                .I.
                          Contesto Storico

1. Eventi precedenti la guerra (1947-1971)
       1.1. Controversia linguistica
       1.2. Instaurazione del regime militare di Ayub Khan
            (1958-1969)

       1.3. Disuguaglianze tra East e West Pakistan nella
            rappresentanza e nell’economia
       1.4. Il Partito Awami e il Movimento dei 6 Punti
       1.5. Il passaggio di potere a Yahya Khan e la preparazione
             alle elezioni del 1970
       1.6. Le elezioni del 1970, il ciclone Bhola e l’inasprirsi del
            pubblico dissenso
       1.7. L'ultimo tentativo di negoziazione politica tra il
            palesarsi delle strategie dei partiti
       1.8. La posposizione dell'Assemblea Nazionale come ultima
            prevaricazione: l'antefatto del conflitto armato
       1.9. La prorompente reazione popolare al rinvio
            dell’Assemblea Nazionale e la pianificazione
            dell’intervento militare
2.   La Guerra di Liberazione del Bangladesh              (26 Marzo-16
     Dicembre 1971)

       2.1. L’operazione Searchlight, la dichiarazione di
            Indipendenza e le prime fasi della guerra
                                                                        2
2.2. Il genocidio selettivo e la questione dei profughi
  2.3. L'etnia Bihari e i collaborazionisti dell'esercito pakistano
  2.4. Seconda fase del conflitto (Luglio-Novembre)
  2.5. L'intervento militare indiano ( I Guerra Indo-Pakistana)
       e la resa finale del Pakistan


                           .II.
           La Storia riletta dalla letteratura

1. Panoramica sul libro “I giorni dell'amore e della
   guerra” di T. Anam
2. La guerra di liberazione vissuta dai personaggi del
   romanzo di T. Anam
  2.1. Avvenimenti precedenti l'inizio del conflitto
  2.2. L'operazione Searchlight
  2.3. Prime fasi della guerra
  2.4. L'estate del '71 e il proseguimento della guerra
  2.5. Il dramma dei campi profughi e l'evolvere della
       situazione verso una fine
  2.6. Il 16 Dicembre 1971

                            .III.
                    Testimonianze dirette
• Introduzione
1. Saifullah Said
2. Nasrin Hasan
                                                                  3
Prefazione
La Guerra di Liberazione del Bangladesh del 1971 è un evento storico imprescindibile per
comprendere le dinamiche geo-politiche del Subcontinente inteso nella sua totalità. Purtroppo in
Italia questo avvenimento non è tema di discussione nel campo degli studi sud-asiatici, perciò
ritengo necessario trattarlo, seppur in modo parziale, al fine di rendere giustizia ai personaggi che vi
hanno preso parte e ai martiri che hanno dato la vita per la causa della libertà.
Il mio intento non è quello di analizzare la guerra in sé, ma di inquadrarla in un contesto più ampio
che la consideri come l'effettiva conseguenza di un processo storico che, a partire dal 1947, ha fatto
emergere le abissali differenze culturali, linguistiche, politiche e sociali tra West e East Pakistan.
Attraverso l'analisi degli eventi che precedettero la guerra del 1971, cercherò di mostrare come il
popolo bangladeshi abbia sviluppato un senso di nazione e un'identità diverse da quelle del West
Pakistan. Questo perché ritengo che la cultura, la lingua, le tradizioni, la concezione della politica e
della società siano gli ambiti peculiari attraverso i quali si può delineare il concetto di nazione.
Al riguardo considero emblematica la dichiarazione di Abdul Mansur Ahmad, un bengalese che
partecipò al dibattito costituzionale nell'Assemblea Costituente del 1956, che testualmente cito:


       «Pakistan is a unique country having two wings which are separated by a distance of more
       than a thousand miles... These two wings differ in all matter, excepting two things, namely,
       that they have a common religion, barring a section of the people in East Pakistan, and that
       we achieved our indipendence by a common struggle. These are the only two points which
       are common to both the wings of Pakistan. With the exception of these two things, all other
       factors, viz, the language, the tradition, the culture, the costume, the dietary, the calendar, the
       standard time, practically everything is different. There is, in fact, nothing common in the
       two wings, particularly in respect to those [things] which are the sine qua non to form a
       nation.»¹


Dopo il necessario inquadramento storico, intendo analizzare due punti di vista attraverso i quali
questo evento viene interpretato oggi: quello letterario, grazie allo splendido libro della scrittrice
bengalese Tahmima Anam, pubblicato in Italia da Garzanti con il titolo “I giorni dell'amore e della
guerra” (titolo originale “A golden age”) e quello più realistico offertomi dalla viva testimonianza
di un ex-combattente -muktijoddha, in bengali- , il Sig. Saifullah Said, e della figlia di un politico
bangladeshi, la Sig.ra Nasrin Hasan, che ho intervistato grazie alla collaborazione della Dott.ssa
Neeman Sobhan, la mia docente di bengali, la quale ringrazio vivamente per il suo contributo.
Per la bibliografia, questo lavoro è principalmente il frutto dello studio dell'esauriente analisi
contenuta nel libro di R. Sisson e L. E. Rose “War and Secession:Pakistan, India and the creation of
Bangladesh”.

                                                                          Dott.ssa Cristina Lo Giudice

   _________________________________________
¹ «Il Pakistan è un paese unico composto da due parti che sono separate da una distanza di più di
mille miglia...Queste due parti differiscono in tutti i punti, eccetto per due cose, vale a dire che
condividono una religione comune, esclusa una fetta della popolazione dell'East Pakistan, e che
abbiamo raggiunto la nostra indipendenza grazie ad una lotta comune.
Queste sono gli unici due punti che sono comuni a entrambe le parti del Pakistan. Con l'eccezione
di queste due cose, tutti gli altri fattori, viz [cioè], la lingua, la tradizione, la cultura, i costumi, le
consuetudini, la dieta, il calendario, il tempo standard, praticamente tutto è diverso. Non c'è, in
effetti, niente in comune tra le due parti, specialmente rispetto a quelle [cose] che costituiscono sine
qua non una nazione.»

                                                                                                          4
.I.
                                       Contesto Storico

1. Eventi precedenti la guerra (1947-1971)

Durante la partizione dell'India britannica nel 1947, si decise di dividere la regione del Bengala su
base religiosa; la zona a maggioranza hindu sarebbe diventata parte dell'India con il nome di West
Bengal e la regione a maggioranza musulmana sarebbe andata al Pakistan con il nome prima di East
Bengal e poi di East Pakistan.
Se consideriamo la Guerra di Liberazione – muktijuddho - come l'esplosione del risentimento dei
bangladeshi verso la politica pakistana e quindi come la reazione all'acquisita consapevolezza di
importanti differenze culturali e linguistiche, dobbiamo necessariamente pensare che i rapporti tra le
due parti del paese andarono progressivamente deteriorandosi.
Possiamo inquadrare il disfacimento di un'unità nazionale che ci risulta forzata, viste le notevole
differenze, in diverse fasi da considerare quindi come le maggiori cause del conflitto armato.


        1.1 Controversia linguistica

Nel 1948 il Qa'id-e-A'zam (=Fondatore della nazione) Mohammed Ali Jinnah, primo Presidente del
Pakistan, dichiarò pubblicamente a Dhaka che la lingua ufficiale del neo-nato stato del Pakistan
(East e West) sarebbe stata «l'urdu e solo l'urdu».Questa e altre dichiarazioni simili di politici del
West Pakistan scatenarono grandi proteste di massa in East Pakistan perché l'urdu veniva parlato
solo da una ristretta élite culturale della parte ovest del paese. La gran parte della popolazione del
West Pakistan, infatti, parlava punjabi, baluchi, sindhi e pashtu, mentre la popolazione bangladeshi
parlava bengali. L'opposizione popolare contro questa decisione non rappresentava solo il bisogno
di vedere riconosciuta dallo stato l'identità linguistica bengalese, ma esprimeva anche il timore che
la mancata conoscenza dell'urdu avrebbe precluso ai cittadini dell'East Pakistan la possibilità di
intraprendere una carriera in settori chiave dello stato, quali la pubblica amministrazione e la
burocrazia, la politica e la difesa.
Il linguista Mohammed Shahidullah argomentò che l'urdu non era la lingua madre di nessuna
componente sociale dell'intero stato del Pakistan. Nel 1948 alla prima sessione dell'Assemblea
Costituente della nazione, Dhirendranath Datta presentò una risoluzione per far riconoscere la
bengali come una delle lingue ufficiali dello stato, che però venne del tutto ignorata, dato che la
maggior parte dei politici presenti non erano bengalesi.
Il 31 Gennaio 1952 venne creata la All-Party Central Language Action Committe _ Shorbodolio
Kendrio Rashtrobhasha Kormi Porishod_ in un incontro alla Bar Library Hall all'università di
                                                                                           5
Dhaka dal politico bengalese Maulana Bhashani. La proposta di scrivere la lingua bengali
nell'alfabeto arabo venne aspramente criticata nell'assemblea. La commissione propose per il 21
Febbraio uno sciopero di massa - hartal -. In risposta, il governo pakistano impose il divieto di
assembramento di più di cinque persone, pena l'intervento dell'esercito. Ciò nonostante, il 21
Febbraio 1952 migliaia di studenti e civili si riunirono davanti all'università di Dhaka, infrangendo
le restrizioni per le manifestazioni pubbliche imposte dal governo. Quando gli studenti cercarono di
rompere il cordone di polizia, le forze dell'ordine cominciarono a lanciare gas lacrimogeni verso i
cancelli dell'università per disperdere i dimostranti. Il vice-rettore chiese alla polizia di interrompere
l'azione di repressione e agli studenti di lasciare l'area per evitare scontri, ma non venne ascoltato da
nessuna delle parti. La polizia arrestò molti dimostranti per la violazione del divieto di
assembramento e questo indusse gli studenti a riunirsi davanti all'Assemblea Legislativa dell'East
Pakistan per chiedere di essere rappresentati. Allora le forze dell'ordine aprirono il fuoco sulla folla
disarmata e quando la notizia degli assassini si diffuse, la protesta si estese a tutta la città di Dhaka
attraverso azioni di boicottaggio delle attività pubbliche e scioperi di massa.
Il 21 Febbraio, in memoria degli studenti e civili inermi brutalmente uccisi dalla polizia, viene
ricordato ogni anno in Bangladesh come Giornata dei Martiri per la Lingua- Bhasha Shaheed
Dibosh - e dal 1999 l’UNESCO ha sancito per questa data la Giornata Internazionale per la Lingua
Madre, nella quale si festeggia ogni anno in tutto il mondo.
Nella notte del 23 Febbraio gli studenti del Dhaka Medical College lavorarono per costruire il
Monumento alla Memoria dei Martiri - Shaheed Smritistombho -, il quale, inaugurato dal padre di
uno dei giovani uccisi dalla polizia, venne distrutto dai militari il 26 Febbraio. Gli arresti e le
uccisioni continuarono nei giorni successivi, nel tentativo delle forze dell'ordine di reprimere i
continui scioperi e le manifestazioni. Il governo censurò tutte le notizie e i reportage sugli scontri e i
media filo-governativi incolparono gli hindu e i comunisti di fomentare i disordini.
Il 27 Aprile la All-Party Central Language Action Committe tenne un ciclo di seminari nel quale i
delegati chiedevano il rilascio dei prigionieri politici, l’abbandono delle restrizioni militari sulle
libertà civili e l’adozione della lingua bengali come lingua ufficiale dell’East Pakistan.
Molti politici pakistani alimentarono i rancori anti-governativi dichiarando che chiunque avesse
voluto la bengali come lingua nazionale sarebbe stato considerato un «nemico della nazione».


       1.2. Instaurazione del regime militare di Ayub Khan (1958-1969)

Il regime militare di Ayub Khan fu creato dopo un colpo di stato nell’Ottobre del 1958. Fu l’apice
di una lunga impasse politica e di un periodo di grandi disordini sociali in East Pakistan culminati
con l’assassinio di un deputato in un’assemblea provinciale e con il ferimento di due ministri negli
scontri tra membri dell’opposizione e polizia.

                                                                                                        6
L’assenza di una coesa leadership nazionale e di consenso sulle norme costituzionali rese il sistema
politico soggetto a inferenze da parte del potere militare e amministrativo nei processi decisionali,
condannando perciò lo stato all’instabilità.
L’effettiva presa di potere dei militari avvenne su invito del Presidente Iskander Mirza il 7 Ottobre
1958. Mirza dichiarò che la Costituzione conteneva compromessi e cavilli pericolosi per la coesione
del Pakistan e che, per rettificarla, il paese doveva essere riportato alla ragionevolezza attraverso
una rivoluzione pacifica. Poi attuò il suo progetto di “rivoluzione pacifica” abrogando la
Costituzione, destituendo i governi centrale e provinciali, sciogliendo il Parlamento nazionale e le
Assemblee provinciali e abolendo tutti i partiti politici. Impose la legge marziale e nominò
Mohammed Ayub Khan Chief Martial Law Administrator (Amministratore Capo della Legge
Marziale), il quale dichiarò che il golpe aveva come obiettivo quello di preservare la nazione dalla
disintegrazione e di proteggere il popolo dalle incontrollabili macchinazioni dei politici disonesti.
Il nuovo regime era stato definito temporaneo e attivo fino al raggiungimento di due principali
obiettivi:
    •   Eliminare l’inefficienza della pubblica amministrazione, ogni forma di corruzione,
        accumulazioni indebite di denaro, contrabbando e attività di mercato nero;
    •   Varare riforme costituzionali per creare le condizioni per la stabilità politica e proporre
        modernizzazioni legislative a lungo termine;
Un altro obiettivo definito chiave da parte del regime era quello di impegnarsi per coinvolgere
maggiormente l’East Pakistan nella vita politica e amministrativa dello stato e per diminuire le
disparità tra le due parti del paese.


        1.3. Disuguaglianze tra East e West Pakistan nella rappresentanza e
        nell’economia

Un altro motivo di insoddisfazione da parte del popolo bengalese verso la politica del Pakistan era
la forte discrepanza nelle percentuali di rappresentanza politica, amministrativa e militare dei
bangladeshi rispetto ai cittadini west-pakistani. Considerando che il numero degli east-pakistani era
nettamente superiore a quello degli abitanti della zona ovest del paese e che la rappresentanza
doveva essere proporzionale al numero di cittadini delle due parti del Pakistan, le evidenze
dimostravano il totale fallimento di uno degli obiettivi definiti chiave dal regime.
Per poter constatare la gravità del problema, facciamo qualche esempio. Negli anni ’60, dei 741
impiegati statali di alto livello, solo 51 erano bengalesi e nessuno di loro ricopriva il rango di
segretario; dei 133 segretari di deputati, solo 10 erano bengalesi. Per quanto riguarda l’ambito
militare, nel 1955 c’era solo 1 brigadiere bengalese, 1 colonnello, e 2 luogotenenti tra 308 soldati
che ricoprivano le suddette cariche; nel 1963 solo il 5% degli ufficiali e il 7% degli altri corpi

                                                                                                        7
dell’esercito pakistano erano bengalesi. E lo stesso discorso si può fare per la marina (20%), per
l’aeronautica(15%) e per i corpi di polizia.
A livello economico, durante il regime di Ayub Khan si assistette ad una discreta crescita
economica in East Pakistan, ma relativamente a quella del West, le disparità erano ancora evidenti.
L’opinione pubblica bangladeshi percepiva un profondo sfruttamento economico da parte del
governo centrale, in quanto l’ammontare degli investimenti nella parte più popolosa dello stato era
insufficiente se confrontato con il volume di risorse e materie prime provenienti dallo stesso East
Pakistan. La parte est dello stato riforniva il mercato interno di cotone e juta, oltre che di riso e altri
cereali, in quantità nettamente superiori rispetto a quelle che l’arido e prevalentemente montuoso
territorio del West Pakistan poteva offrire. Questo senso di frustrazione nell’ambito sia economico
che della rappresentanza era il risultato di un forte sentimento di alienazione dei bangladeshi, che
percepivano la loro regione come una sorta di “colonia” del West Pakistan.


       1.4. Il Partito Awami e il Movimento dei 6 Punti

Il clima di malcontento popolare e la forte sfiducia verso la politica pakistana del popolo bengalese
venne subito percepito dal maggior partito in East Pakistan, l’Awami League, fondato nel 1949 da
Maulana Bhashani e Huseyn Shaheed Suhrawardy. Il partito, nato come opposizione ideologica e
politica alla Muslim League, si fece da subito portavoce delle istanze di democrazia e secolarismo
dei bangladeshi. Dopo la morte di Suhrawardy nel 1963, la leadership del partito Awami passò a
Sheikh Mujibur Rahman, popolarmente noto come Mujib e denominato Amico del Bengala -
Bangabandhu-, il quale era stato rilasciato due anni prima dopo esser stato incarcerato nel 1958 dal
dittatore militare Ayub Khan perché sospettato di progettare attentati e disordini contro il regime.
Dopo il suo rilascio, fondò un’associazione clandestina, la Free Bangla Revolutionary Council -
Swadhin Bangal Biplobi Parishad-, al fine di sovvertire la dittatura e restaurare una libera
democrazia in un Bangladesh indipendente, e per questo motivo venne di nuovo arrestato nel 1962.
Una volta divenuto nel 1963 capo del Partito Awami, poté subito constatare la gravità del
discontento e della frustrazione del suo popolo e si mobilitò per ottenere giustizia sui fatti del 1952
e sui morti del Movimento per la Lingua Bengali.
Nel 1966 proclamò il suo manifesto politico e il suo piano in sei punti per il raggiungimento della
democrazia e della giustizia sociale in East Pakistan, in un documento chiamato “La nostra carta di
sopravvivenza” e presentato in una conferenza di partiti d’opposizione a Lahore, dando vita al
Movimento dei 6 Punti. Offriamo una sintetica panoramica di questi sei punti, che rappresentano
l’essenza della lotta per la libertà dei bangladeshi:
       1. La nascita di una Federazione del Pakistan con un sistema di governo parlamentare, la
           cui supremazia andrà ad una legislatura composta da membri direttamente eletti sulla
           base della popolazione e con suffragio universale;
                                                                                                         8
2. Il governo federale avrà giurisdizione solo sulla Difesa e gli Affari Esteri. Le altre
           materie saranno sfera d’influenza delle singole unità federate;
       3. Sarà costituito un sistema bancario federale centrale per vigilare sugli spostamenti di
           denaro da una regione all’altra e garantirne un’equa distribuzione nel territorio, insieme
           alla fondazione di due diverse valute convertibili tra loro secondo valori definiti dalla
           banca federale centrale;
       4. Il sistema di tassazione e l’investimento delle entrate dovranno essere gestiti da ogni
           unità federata. Lo stato centrale avrà diritto a provvigioni stabilite per rispondere alle sue
           esigenze;
       5. Ogni unità federata ha il diritto di amministrare gli introiti provenienti dal cambio valuta
           estero e ha il potere di negoziare il commercio estero e i tassi di cambio valuta. I prodotti
           destinati al mercato interno saranno trasferiti da una regione all’altra senza l’obbligo di
           pagamento di alcun dazio;
       6. L’East Pakistan dovrà avere una propria militia o distinte forze paramilitari.

Questi punti furono l’espressione delle richieste di democrazia e di riconoscimento della distinta
identità socio-culturale dei cittadini dell’East Pakistan. Il Partito Awami fece propri questi valori
che furono a fondamento della propria attività politica di resistenza.
Entro un anno dall’enunciazione dei sei punti, cinque partiti di opposizione con base in East
Pakistan formarono una coalizione, la Pakistan Democratic Alliance.
Proclamarono un programma nel quale si chiedeva:
•   La creazione di una forma parlamentare di governo basta sul suffragio universale;
•   La fondazione di un sistema federale che avrebbe dato più potere alle singole regioni e avrebbe
    garantito la parità di rappresentanza nei servizi civili e militari;
•   La rimozione delle disparità economiche e sociali entro dieci anni.
La reazione del governo pakistano alle istanze presentate dal Partito Awami fu durissima.
Nel 1966, Sheikh Mujibur Rahman, insieme a tre connazionali membri del servizio civile e 24
giovani sottoufficiali bengalesi delle forze armate, venne arrestato e processato per un presunto
complotto con l’India, progettato in incontri clandestini avvenuti nella città di Agartala al fine di
organizzare la secessione dell’East Pakistan. Questo evento divenne noto come “Cospirazione di
Agartala” ed è emblematico per comprendere la convinzione del West Pakistan secondo la quale
dietro le richieste di parità di diritti e di riconoscimento dell’identità bangladeshi ci fosse
l’ingerenza dell’India con l’obiettivo nascosto di minare l’unità del Pakistan per indebolirlo
politicamente.
Tuttavia Ayub Khan dovette confrontarsi con varie contestazioni e radicali tumulti popolari sia nel
West che nell’East Pakistan che esprimevano principalmente la volontà di un ritorno alla
democrazia guidata da una classe dirigente direttamente eletta.
                                                                                                       9
Per contenere le manifestazioni di pubblico dissenso, Ayub fu costretto ad annunciare il suo ritiro
dalla candidatura alle elezioni presidenziali indette per il 1970 e ad accettare di liberare i prigionieri
politici. Perciò annullò le accuse mosse contro Sheikh Mujibur Rahman e i suoi presunti
collaboratori nella congiura, allo scopo di permettere la partecipazione di Mujib alla All-Parties
Round Table Conference fissata per il 1969. Molti leader di partiti con base anche in West Pakistan
si erano infatti rifiutati di prender parte alla conferenza per negoziare la nuova bozza costituzionale
e le liste elettorali nel caso in cui il leader del Partito Awami non avrebbe potuto parteciparvi.
Pur avendo concesso la presenza di Mujib alla conferenza, il dittatore Ayub non prese affatto in
considerazione l’idea di dividere il Pakistan nelle sue unità provinciali costituenti e non concesse la
decentralizzazione federale, due delle proposte avanzate nei 6 Punti del Partito Awami. Questo
provocò il fallimento della All-Parties Round Table Conference.


       1.5. Il passaggio di potere a Yahya Khan e la preparazione alle elezioni del ‘70

In un clima di forte dissenso a livello politico e popolare e di estreme manifestazioni di protesta
nelle due parti del paese, Ayub iniziò a trattare con i vertici militari per «riportare il paese sulla retta
via». Il comandante dell’esercito, il Gen. Agha Mohammed Yahya Khan, consigliò ad Ayub di
estendere la legge marziale a tutto il paese allo scopo di poter dare all’esercito pieni poteri di
intervento in ogni parte della nazione, per poter ristabilire l’ordine pubblico e sedare ogni tipo di
rivolta. Il 25 Marzo 1969 Ayub ordinò il passaggio di potere a Yahya Khan, che divenne capo di
stato oltre che comandante delle forze armate, e l’immediata estensione della legge marziale a tutto
il paese. La creazione del nuovo regime militare era stata giustificata come la necessaria istituzione
atta a presiedere alle negoziazioni per stilare un nuovo ordine costituzionale, alla fine del quale i
militari si sarebbero preparati alle dimissioni e al trasferimento di potere alla legislatura
democraticamente eletta. Gli obiettivi del regime di transizione di Yahya erano basati su tre
principi:
    • La rimozione dall’agenda per la creazione dell’ordine costituzionale di tutte le materie
        politiche e legislative che nel passato avevano causato dissenso e discordanze di opinioni;
    • Il rispetto della natura islamica e unitaria dello stato, pur garantendo il dibattito su istanze
        laiche e secolari;
    • Il mantenimento della legge marziale fino al momento in cui l’Assemblea Costituente
        avrebbe proposto un modello costituzionale da far approvare alla giunta militare da lui
        presieduta, la quale aveva quindi la massima autorità sul processo costituzionale.
Yahya Khan presiedette alle discussioni politiche per delineare un nuovo governo costituzionale e
incoraggiò le trattative tra i maggiori partiti nazionali per evitare l’impasse che nel 1958 portò al
colpo di stato. Il dibattito politico era incentrato sulla struttura del futuro governo e sui diversi
livelli di autorità da garantire ad ogni sua componente. La maggior parte dei leader politici e degli
                                                                                                  10
ufficiali nel governo ad interim concordavano su un modello parlamentare di stampo anglosassone,
basato su un sistema con un presidente a capo dello stato, un primo ministro con poteri effettivi e un
gabinetto composto da membri direttamente eletti dal popolo e appartenenti all’Assemblea
Nazionale, responsabili del potere legislativo. C’era ampio consenso sulla creazione di un sistema
federale decentralizzato, seppure nel rispetto del principio di integrità statale. Molti rappresentanti
dei partiti erano favorevoli alla suddivisione del West Pakistan nelle sue province costituenti, ad
ognuna delle quali sarebbe stato assegnato un collegio elettorale e qualche leader avanzò la
proposta di effettuare una simile suddivisione elettorale anche in East Pakistan. Infine erano tutti
concordi nel concedere il suffragio universale basato sulla distribuzione territoriale dei cittadini e
nella natura islamica dello stato, anche se sono da segnalare le opposizioni di alcuni membri laici di
partiti con base in East Pakistan.
L’assemblea politica comunicò le proprie conclusioni al regime e Yahya nominò una commissione
per delineare le linee guida sulle quali condurre la campagna elettorale e le direttive legali per la
formazione della nuova costituzione. La commissione rese pubblico l’esito del dibattimento e
promulgò la prima stesura della bozza costituzionale nel Novembre del 1969. Yahya indisse la
chiamata alle urne per le elezioni generali sia nazionali che provinciali, da tenersi a Ottobre del
1970.


        1.6. Le elezioni del ‘70, il ciclone Bhola e l’inasprirsi del pubblico dissenso

Tra la fine di Ottobre e l’inizio di Novembre del 1970, il terribile ciclone Bhola devastò gran parte
dei territori dell’East Pakistan e causò la proroga delle elezioni a Dicembre. L'uragano fu uno delle
più distruttive catastrofi naturali mai registrate, provocando circa 500˙000 vittime e spazzando via
gran parte delle aree coltivate e dei villaggi costieri; ciò provocò l'aggravamento della già precaria
situazione economica di questa regione.
La giunta militare di Yahya Khan venne accusata di non aver saputo affrontare tempestivamente
l'emergenza, avendo fornito aiuti insufficienti e disorganizzati alla popolazione colpita dalla
calamità naturale. Undici politici di partiti con base in East Pakistan rilasciarono una dichiarazione
ad una settimana dal disastro, accusando il governo di «grave negligenza, insensibile indifferenza e
assoluta noncuranza». Il leader politico Maulana Bhashani annunciò uno sciopero di massa per il 24
Novembre e chiese pubblicamente le dimissioni del presidente Yahya Khan.
La percezione di essere stati abbandonati dal governo pakistano in un tale momento di crisi,
accentuò i sentimenti di sfiducia e di discredito dei bangladeshi e portò a più radicali contestazioni
popolari e movimenti di rivolta anti-regime. Il Partito Awami fece proprio il senso di totale
frustrazione del popolo bangladeshi e basò la sua campagna elettorale sull'estrema indifferenza del
governo pakistano verso le esigenze dei cittadini dell'East Pakistan.

                                                                                                    11
In un così teso clima sociale il paese si preparava alle elezioni e i temi della campagna elettorale dei
   partiti in lizza furono molto diversi tra East e West Pakistan. Ogni tentativo di creare alleanze
   politiche fu vanificato dai diversi interessi dei partiti, dato che il dibattito era intriso di regionalismi
   e lotte di potere.
   In East Pakistan le dichiarazioni del Partito Awami e di altri partiti affini erano incentrate sulla
   ricerca di strumenti per risolvere le divergenze socio-economiche e politiche tra le due parti del
   paese e su forti richieste di decentramento amministrativo e,in alcuni casi, di vera e propria
   secessione della loro regione dal Pakistan. La maggioranza dei politici bangladeshi concordava sui
   principi che sottostavano al programma dei 6 Punti del Partito Awami.
   In West Pakistan, il campanilismo che contrapponeva le province costituenti rese vana ogni
   iniziativa volta alla creazione di coalizioni tra i partiti musulmani, facendo apparire il panorama
   politico come una miriade di piccole fazioni che, pur condividendo molti valori, erano soggette a
   contrasti su materie regionali ed identitarie.
   Il risultato delle elezioni del 7 Dicembre 1970 fu talmente sensazionale da essere imprevedibile per
   i 24 partiti partecipanti. Le elezioni mutarono radicalmente lo scenario politico del paese e crearono
   le condizioni per una radicale presa di coscienza dell'identità bangladeshi, la quale era stata
   legittimata dalla volontà popolare ma, come vedremo, non dalla dirigenza politica pakistana.


                                              Numero di seggi vinti
                                                 (% di voto)
                                   Partito                              TOTALE           Affluenza TOTALE
                        Partito   Popolare        Altri       Partiti   Seggi            al voto   Voti validi
                        Awami     Pakistano      partiti   indipendenti vinti            (%)       (Milioni)

East Pakistan
                   160 (75%)       0 (0%)       1 (22%)    1 (3%)            162           56           16.5
                                                West Pakistan:

   - Punjab             0 (0%)    62 (42%)      15 (45%)   5 (12%)           82            66          10.9

    - Sind              0 (0%)    18 (45%)      6 (44%)    3 (11%)           27            58           3.1
 - North West
    Frontier            0 (0%)    1 (14%)      17 (80%)    7 (6%)            25            47           1.4

 - Baluchistan          0 (1%)    0 (2%)        4 (91%)    0 (7%)            4             39           0.4
TOTALE
West-Pakistan           0         81            42         15                138




                                                                                                              12
TOTALE
(% voto               160          81           43           16                300           59             32.3
                     (38%)        (20%)        (35%)        (7%)
nazionale)
    Fonti: Craig Baxter, “Pakistan Votes – 1970”, Asian Survey (197218) , Marzo 1971;
    G.W. Choudhury, The Last Days of United Pakistan, Bloomington: Indiana University Press, 1974, p.129.

                                             Nota:Le percentuali sono maggiori di 100 a causa dell'arrotondamento.


    Gli stessi leader del Partito Awami si sbalordirono di fronte al risultato elettorale. Grazie alla
    schiacciante vittoria, l'ipotesi pre-elettorale di dover cercare di formare una coalizione per poter
    governare venne smentita perché le percentuali di vantaggio sugli altri partiti permettevano
    all'Awami League di poter formare da soli un esecutivo.
    In West Pakistan la sorpresa fu ancora maggiore, pur considerando il fatto che il grado di successo
    del Partito Popolare Pakistano era di gran lunga inferiore a quello ottenuto in East Pakistan dal
    Partito Awami. Come fece notare un rappresentante del maggior partito west-pakistano, il numero
    di seggi conquistato dal Partito Popolare Pakistano era «di gran lunga superiore rispetto alle più
    rosee aspettative di Bhutto[leader del PPP].».
    Una fondamentale conseguenza del voto popolare fu il radicale mutamento nella composizione del
    panorama politico nazionale. La vecchia dirigenza politica fu sbaragliata da candidati vincitori che,
    per la maggior parte, erano alla loro prima esperienza governativa. In particolare, nessuno dei neo-
    eletti membri dell'Assemblea Nazionale aveva mai preso parte ad alcuna arena politica pan-
    pakistana, fatta eccezione per pochi membri prestigiosi eletti nella parte ovest del paese.
    Le elezioni rivelarono un sistema politico erede di una tradizione partitica regionalistica, quindi uno
    scenario profondamente frammentario. Come nel passato, venne alla luce che l'interesse dei partiti
    era rivolto ad una sola delle due parti del paese e che eventuali alleanze pan-pakistane erano in
    contraddizione con i valori e le ideologie propugnate dalle singole parti. Questa provincializzazione
    della politica rimarcò la problematicità della presenza di identità in antitesi tra loro e sottolineò il
    carattere artificioso e fittizio della tanto declamata unità pakistana.


           1.7. L'ultimo tentativo di negoziazione politica tra il palesarsi delle strategie
           dei partiti

    L'esito delle elezioni del 1970 mutò il ruolo che i vari partiti avevano previsto nelle negoziazioni
    per il trasferimento di potere. Coloro i quali credevano di poter avere un ruolo determinante nelle
    trattative per la formazione del nuovo governo democratico, si ritrovarono confinati in posizioni
    secondarie. Il clima politico era poco incline ad un dialogo sereno e costruttivo tra le parti, dato che
    i vari personaggi erano impegnati a rivalutare le strategie atte a raggiungere i propri obiettivi,
    facendo sì che venisse stilata una costituzione che avrebbe garantito loro il soddisfacimento dei
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propri disegni politici.
In un tale contesto, i due partiti di maggioranza, l'Awami League e il Pakistan's People Party, videro
accresciute le proprie aspettative e si prepararono a concretizzare i loro programmi elettorali.
Fin da subito, Sheikh Mujibur Rahman annunciò pubblicamente l'intenzione della Lega Awami di
esercitare a pieno il potere di primo partito nazionale per vagliare una costituzione forgiata sui
principi contenuti nel programma dei 6 Punti, pur garantendo una certa elasticità che venisse
incontro alle diverse esigenze dei partiti con base in West Pakistan. Infatti, nella parte ovest del
paese, il programma dei 6 Punti era stato accolto con diffidenza e, in alcuni casi, con profondo
sdegno, in quanto era parso fazioso e platealmente rivolto al solo East Pakistan, e perciò era
considerato un affronto all'unità nazionale. Pertanto Mujib si trovò costretto a dichiarare varie volte
che il suo era il partito di maggioranza dell'intero Pakistan e che nel dibattito costituzionale avrebbe
cercato il consenso dei partiti della parte ovest del paese.
L'interesse del Partito Popolare Pakistano di Zulfikar Ali Bhutto era incentrato sulla spartizione del
potere all'interno del nuovo governo. Consapevole della schiacciante quota di maggioranza ottenuta
dal Partito Awami, Bhutto decise che non avrebbe permesso la partecipazione dei membri del suo
partito all'Assemblea Nazionale a meno che non venisse garantito al Pakistan's People Party il ruolo
di secondo partito maggioritario. Egli riteneva che ciò gli spettasse di diritto, in quanto si
considerava l'artefice del processo di restaurazione dell'ordine democratico e si proponeva come il
legittimo “erede al trono”, dopo la fine della reggenza militare. Perciò le sue azioni furono dettate
da un'impellente brama di potere. Addirittura un consulente di Yahya confidò al dittatore militare
che se Bhutto non avesse potuto assumere il potere entro un anno sarebbe letteralmente impazzito.
Tra la giunta militare c'era un consenso relativamente ampio sul trasferimento del potere ad una
legislatura democratica, mentre invece dai più venivano sollevati interrogativi sulle modalità di tale
passaggio. In particolare, i dubbi dei militari concernevano le garanzie che il nuovo governo
democratico avrebbe dovuto assicurare alla giunta e il grado di autonomia e di autorità che l'esercito
avrebbe mantenuto nel nuovo ordine costituzionale. Ciò che rassicurava il regime era il fatto che le
leggi in vigore imponevano alla politica di dover presentare ogni esito del dibattito costituzionale al
Presidente Yahya, a cui era riservata la definitiva approvazione.
L'Amministratore Capo della Legge Marziale Yahya Khan si impegnò affinché i leader del Partito
Awami e del Partito Popolare Pakistano si incontrassero per negoziare i termini del trasferimento di
potere e il nuovo assetto costituzionale. Perciò mandò un emissario a Dhaka, il quale comunicò a
Mujib l'invito del Presidente a Rawalpindi per iniziare ad intavolare le trattative con Bhutto; la
stessa richiesta venne rivolta al leader del PPP. Inaspettatamente, Sheikh Mujibur Rahman declinò
l'invito a Rawalpindi e fece comunicare a Yahya che il luogo più consono per ogni trattativa era
l'Assemblea Nazionale e rimarcò il bisogno di una sua convocazione immediata, proponendo la fine
di Gennaio come data di inizio delle discussioni e Dhaka come sede. Al contrario, Bhutto diede la

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sua disponibilità ad un incontro con Mujib, da tenersi però in West Pakistan e non si pronunciò
affatto sulla necessità di un'immediata convocazione dell'Assemblea Nazionale.
La strategia di opposizione al Partito Awami di Bhutto si concretizzò attraverso una critica pubblica
al programma dei 6 punti, quale illegittima richiesta avanzata da un singolo partito che aveva
pretesa di rappresentare le esigenze dell'intera nazione. Per questo sottolineò la necessità di una
partecipazione attiva del Partito Popolare Pakistano alla costruzione del nuovo esecutivo, rifiutando
totalmente di sedersi all'opposizione. In un discorso tenuto a Hyderabad il 24 Dicembre 1970,
Bhutto dichiarò che il PPP era « l'unico rappresentante del popolo del West Pakistan, come il Partito
Awami in East Pakistan, e quindi non può essere privato della compartecipazione all'esercizio del
potere nel governo.».
Le autorità militari non avevano ancora definito una data per la convocazione dell'Assemblea
Nazionale, anche se Yahya aveva dichiarato che avrebbe riunito l'Assemblea «il prima possibile» e
aveva espresso la volontà che i vari partiti potessero giungere ad un accordo prima della
convocazione dell'Assemblea, approfittando del lasso di tempo tra le elezioni e la prima sessione di
incontri parlamentari.
Il 10 Gennaio, Yahya comunicò che sarebbe andato a Dhaka per parlare con Mujib. Gli incontri tra
il Presidente e il leader del Partito Awami furono incentrati sull'essenza dei 6 Punti e sulla
composizione del nuovo governo civile. Sheikh Mujibur Rahman puntualizzò ulteriormente la
necessità di un'immediata convocazione dell'Assemblea Nazionale ed esortò Yahya ad intervenire
in tal senso, facendogli notare che il mancato annuncio di una data per la prima sessione
dell'Assemblea stava portando il popolo bangladeshi a dubitare dell'affidabilità e della sincerità
delle promesse del regime.
Il 17 Gennaio Yahya visitò la tenuta della famiglia di Bhutto a Larkana per incontri principalmente
privati tra i due, durante i quali il leader del PPP fece notare al Presidente il suo forte disappunto per
l'aver nominato Mujib Primo Ministro senza aver prima consultato i rappresentanti degli altri partiti.
Yahya obiettò che non era stato lui ad investire Mujib della carica di Primo Ministro, ma il suo
elettorato e, ricordando a Bhutto la fragilità del suo partito, intimò al leader di scendere a
compromessi con Mujib per poter avere una parte nel governo. Infatti il Partito Awami aveva i
numeri per poter formare autonomamente un esecutivo, mentre il PPP di Bhutto doveva
assolutamente creare un governo di coalizione, altrimenti sarebbe stato confinato all'opposizione.
Bhutto rispose che la ricerca di un consenso sulla composizione del governo andava conclusa prima
della convocazione dell'Assemblea Nazionale e che per trovare un accordo con Mujib su tali
materie aveva bisogno di tempo. Il ragionamento di Bhutto andava perfettamente a genio con la
volontà di temporeggiare espressa dalla giunta militare, la quale aveva bisogno di sondare la
situazione per poter valutare al meglio le richieste che l'esercito avrebbe avanzato al nuovo governo.
Infine Bhutto propose di verificare la fedeltà allo stato di Mujib, osservando la sua reazione di

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fronte all'annuncio della posposizione dell'Assemblea Nazionale. Se Sheikh Mujibur Rahman era un
«vero pakistano», un uomo di cui «ci si poteva fidare veramente», avrebbe compreso i motivi del
ritardo nella convocazione e avrebbe cercato di giungere ad un compromesso con Bhutto; in caso
contrario, era da considerarsi un traditore e un secessionista che non aveva realmente a cuore
l'integrità del Pakistan.
La successiva mossa di Bhutto fu di comunicare al Partito Awami la disponibilità del Partito
Popolare Pakistano di venire a Dhaka per discutere con Mujib riguardo i 6 punti e il trasferimento di
potere a fine Gennaio. Gli incontri si svolsero su due livelli: da un lato le rispettive delegazioni di
politici dibatterono riguardo i motivi del sotto-sviluppo dell'East Pakistan e dall'altro Mujib e
Bhutto si affrontarono personalmente. In ambedue i livelli,le posizioni, le argomentazioni e gli
interessi erano contrastanti e questo aumentò il senso di diffidenza e sospetto che l'uno provava per
l'altro partito. Mujib era profondamente infastidito dall'arroganza e dalla prepotenza di Bhutto,
dietro la quale non c'era una costruttiva opposizione al programma dei 6 punti, che rimaneva l'unico
programma nell'agenda costituzionale, dato che il PPP non aveva proposto una concreta alternativa.
Bhutto, invece, capì che la sua immagine del Partito Awami, desideroso di scendere a qualsiasi
compromesso con il PPP sulla composizione del governo pur di vedere accettati i 6 Punti, era
totalmente infondata. La sua strategia quindi, doveva essere volta a rappresentare Mujib come il
leader di un partito regionale e, di contro, il suo partito come l'unico portavoce dell'intera nazione e
questo doveva essere vero sia per l'opinione pubblica che per gli atri partiti del West Pakistan.
Finalmente, il 13 Febbraio Yahya annunciò la convocazione dell'Assemblea Nazionale per il 3
Marzo 1971.


        1.8. La posposizione dell'Assemblea Nazionale come ultima prevaricazione:
        l'antefatto del conflitto armato

All’inizio di Febbraio, il Presidente fece invitare Mujib e altri leader del Partito Awami a
Rawalpindi per continuare le trattative. Alcune autorità governative consigliarono a Mujib di
accettare l’invito perché una sua visita nel West Pakistan avrebbe aumentato la visibilità nazionale
del Partito Awami e avrebbe fugato i dubbi, avanzati da Bhutto, di partigianeria del partito.
Tuttavia, Mujib declinò l’invito e Yahya gli fece recapitare un telegramma contenente il suo
disappunto per la mancata visita di Mujib e l’avvertimento che se il leader bengalese non fosse
andato dal Presidente il prima possibile, avrebbe dovuto assumersi tutta le responsabilità che ne
sarebbero conseguite.
In alcuni incontri con rappresentanti di partiti del West Pakistan avvenuti a fine Febbraio, Mujib
palesò le sue preoccupazioni riguardo le reali intenzioni di Yahya sulla convocazione
dell’Assemblea Nazionale, ritenendo che il Presidente non aveva alcuna intenzione di comunicare

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una data certa per l’inizio dei lavori parlamentari e che non voleva accettare il trasferimento di
potere al Partito Awami. Supponeva che Yahya, Bhutto e alcuni generali dell’esercito fossero in
combutta tra loro per impedire il convenzionale iter democratico e, a sostegno di tale ipotesi,
suggerì alcune prove: l’indugio sulla determinazione di una data certa per la convocazione
dell’Assemblea, l’insistenza sul raggiungimento di un accordo tra le parti politiche preventivo al
dibattito nella sua sede opportuna, il tentativo di Bhutto di creare una coalizione in West Pakistan
con l’obiettivo di porre il Partito Awami in una posizione minoritaria e il suggerimento di scendere
a compromessi con le diverse istanze portate da Bhutto.
Bhutto intanto perseguiva nella sua strategia di allargare il consenso del PPP attraverso una
coalizione con gli altri partiti in West Pakistan per opporre al Partito Awami una fazione compatta.
Dopo il fallimento di questo obiettivo, Bhutto dichiarò pubblicamente di non voler prender parte
alla prima sessione dell’Assemblea Nazionale, fissata per il 3 Marzo a Dhaka, a meno che le sue
proposte non fossero state vagliate nel dibattito costituzionale. La sua strategia di ostracismo
proseguì con l’asserzione che il Partito Awami era poco incline al dialogo con il PPP e con la giunta
militare, dato che aveva sempre rifiutato gli inviti in West Pakistan, mentre sia lui che Yahya erano
andati a Dhaka. Concluse affermando che un incontro dell’Assemblea nazionale a Dhaka sarebbe
stato un «mattatoio».
Il 18 Febbraio Yahya convocò Bhutto a Rawalpindi per un incontro confidenziale, al termine del
quale il leader del PPP comunicò alla stampa che la responsabilità della crisi non era né sua né del
Presidente, in quanto egli aveva fatto tutto il possibile per raggiungere un accordo con il Partito
Awami e per mantenere un clima sereno e disponibile.
In un’assemblea del Partito Popolare Pakistano del 20 Febbraio, Bhutto ottenne il consenso unitario
del suo partito riguardo al rifiuto di partecipare alla prima sessione dell’Assemblea Nazionale. Per
concretizzare questa decisione, fece emendare da Yahya un articolo del decreto presidenziale, il
Legal Framework Order, nel quale era previsto il diritto di ogni membro dell’Assemblea di
abbandonare il posto assegnatogli prima della convocazione della sessione di apertura. Ciò
confermò i timori, avanzati dal Partito Awami, di collusioni tra il PPP di Bhutto e la reggenza
militare.


       1.9. La prorompente reazione popolare al rinvio dell’Assemblea Nazionale e
       la pianificazione dell’intervento militare

La giunta militare temeva che la convocazione dell’Assemblea Nazionale a Dhaka avrebbe potuto
diminuire il prestigio dell’esercito e provocare la perdita del controllo sulla popolazione. Yahya
intendeva ribadire la propria autorità perché riteneva che il popolo, in particolare l’etnia
bangladeshi, aveva cominciato a metterla in dubbio.

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Perciò il Presidente organizzò un incontro con i vertici militari e amministrativi per il 22 Febbraio
per discutere della crisi delle negoziazioni. Sentenziò che il fallimento delle trattative era da
additare all’atteggiamento «rigido e intransigente» tenuto dal Partito Awami sul programma dei 6
Punti. Su queste basi, la convocazione dell’Assemblea Nazionale venne considerata inutile e
improduttiva, perché non incline ad un sereno confronto tra le parti.
Dopo questo primo incontro, al quale avevano preso parte anche amministratori bangladeshi, Yahya
ritenne opportuno convocare alcuni ufficiali – i generali Hamid, Peerzada e Yaqub e l’ammiraglio
Ahsan – in separata sede. Ivi comunicò ai presenti la sua intenzione di posporre l’Assemblea
Nazionale per permettere alle parti politiche di ritornare ad un sereno clima di discussione.
L’ammiraglio Ahsan avvertì il Presidente che una tale decisione avrebbe scatenato le ire del popolo
dell’East Pakistan e che la reazione popolare in quella regione sarebbe stata incontenibile. Coloro i
quali non detenevano una posizione amministrativa nella parte est del paese giudicarono il punto di
vista di Ahsan quantomeno allarmista. Yahya perciò rimase sulle sue posizioni e ordinò la
disposizione di una più severa censura nella stampa nazionale e l’imposizione di una legge marziale
maggiormente rigorosa in East Pakistan. Concluse dicendo di voler annunciare pubblicamente la
posposizione il 1 Marzo e ordinò ad Ahsan di comunicare queste disposizioni a Mujib con un
giorno d’anticipo. Una delegazione insistette nel far notare al Presidente che la scelta di rafforzare
la legge marziale per contenere la reazione del popolo non era una saggia decisione. Oltre a
fomentare il pubblico dissenso, ciò avrebbe potuto comportare l’ammutinamento delle componenti
bengalesi delle forze armate, rendendo più complesso il previsto intervento militare e facendo
precipitare il paese in una situazione di guerra civile. Inoltre, una volta intrapresa l’opzione militare,
ritornare alla dialettica politica sarebbe stato impossibile.
Il 28 Febbraio, Ahsan comunicò le decisioni del Presidente a Mujib, il quale chiese di far dichiarare
a Yahya, nel suo pubblico annuncio del giorno dopo, di proporre una nuova data per la
convocazione dell’Assemblea. In caso contrario, Mujib non avrebbe potuto garantire il controllo
della reazione popolare. Ahsan, insieme ai generali Yaqub e Farman Ali, cercò la sera stessa di
mettersi in contatto con il Presidente, ma con scarsi risultati. Perciò mandò un telegramma a
Karachi dove supplicava il Presidente di non rimandare l’Assemblea sine die, perché «altrimenti,
avremmo raggiunto il punto di non-ritorno». Quella stessa sera, Ahsan ricevette in risposta un
telegramma che lo informava di essere stato sollevato dal suo incarico di governatore dell’East
Pakistan e sostituito dal generale Yaqub.
Il giorno successivo, dopo il pubblico annuncio di Yahya, la reazione popolare fu estremamente
dura. Il popolo non era preparato ad un annuncio del genere e comprese subito che tale decisione
era stata presa perché la giunta militare non aveva alcuna intenzione di consegnare il governo del
paese ad un partito bangladeshi. La gente si riversò immediatamente per le strade di Dhaka e le
unità delle forze armate presenti in East Pakistan non riuscirono – e forse la componente bengalese

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non volle- contenere le rivolte. La situazione sfociò rapidamente nella più totale anarchia, con
manifestazioni di protesta che esprimevano l’angoscia e il profondo rancore che i bangladeshi
provavano nei confronti del regime. L’autorità centrale dell’East Pakistan perse velocemente il
controllo del paese e l’Awami League assunse il potere, legittimamente assegnato loro dalle
elezioni.
Mujib reagì lo stesso giorno attraverso una conferenza stampa, tenuta presso l’hotel Purbani di
Dhaka, nella quale dichiarò di essere pronto a qualsiasi sacrificio necessario all’emancipazione del
suo popolo. Ribadì che la posposizione dell’Assemblea Nazionale era l’ennesimo tentativo di
prevaricazione del governo sui bangladeshi e che rappresentava perfettamente la cospirazione della
giunta militare e del PPP contro la legislatura democratica che il popolo aveva scelto di far condurre
dal Partito Awami. Il giorno dopo, in un’assemblea organizzata a Dhaka dagli studenti universitari,
Mujib delineò le future azioni del partito. Innanzitutto indisse per il 3 Marzo un hartal, vale a dire
un movimento non-violento di non-cooperazione, unito ad uno sciopero di massa, da effettuarsi in
tutto l’East Pakistan e a tutti i livelli: doveva colpire tutti le sedi governative, gli esercizi
commerciali, i servizi come tutti i trasporti pubblici e le comunicazioni, oltre che tutte le attività
industriali. Il 3 Marzo, quindi, giorno in cui era prevista la prima sessione dell’Assemblea
Nazionale, venne dichiarato un “giorno di lutto”. Lo sciopero di massa fu un inaspettato successo,
oltre ogni previsione.
Gli ufficiali militari non avevano previsto una reazione così radicale a est del paese, ma erano
comunque preparati ad un intervento militare per ristabilire l’ordine pubblico. Tuttavia
l’amministratore capo della legge marziale in East Pakistan, il generale Yaqub presentò le sue
dimissioni per l’impossibilità di mantenere saldo il governo del paese e di conseguenza,il
coprifuoco fu sospeso e la maggior parte delle truppe fu costretta a tornare nelle caserme in attesa di
nuovi ordini.
In questa difficile situazione, Yahya cercò di reintavolare le trattative politiche, ma incontrò il
rifiuto sia di Bhutto che di Mujib. Dichiarò allora che la sua decisione di rimandare l’Assemblea era
stata «completamente fraintesa» e annunciò come nuova data per la sessione inaugurale il 25
Marzo, chiedendo alle parti di risolvere l’impasse politica che aveva portato il paese nel caos totale.
Il 7 Marzo Mujib tenne uno storico discorso in uno pubblico raduno al Ramna Race Course di
Dhaka. Dichiarò che non avrebbe partecipato all’Assemblea Nazionale del 25 Marzo se la giunta
militare non avesse accolto queste richieste: l’abrogazione della legge marziale; lo stazionamento
delle truppe all’interno delle caserme; la conduzione di un’inchiesta sugli scontri con la polizia e gli
assassinii da essi compiuti e, infine, l’immediato trasferimento di potere ai rappresentanti
democraticamente eletti. Continuò affermando che «il confronto politico sarebbe stato presto
sostituito da quello militare, se la maggioranza non decidesse di sottomettersi ai dettati della
minoranza». Concluse con queste celeberrime parole: «se la cricca al potere cercherà di ostacolare

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queste aspirazioni, il popolo è pronto per una lunga e prolungata lotta per l’emancipazione. Ci
impegniamo a guidare questa lotta per far raggiungere infine alla nostra gente i suoi ambiziosi
obiettivi di libertà per i quali così tanti martiri hanno versato il loro sangue e compiuto il supremo
sacrificio delle loro vite. Il sangue di questi martiri non sarà stato versato invano.»
In un ultimo tentativo di risolvere politicamente la situazione, Yahya e alcuni ufficiali militari
giunsero a Dhaka il 15 Marzo per trattare con Mujib. Inizialmente i due riuscirono a scendere a patti
su tre delle quattro richieste avanzate dal leader del Partito Awami; sulla richiesta di un immediato
trasferimento di potere, Yahya comunicò a Mujib che una tale evenienza andava negoziata. Fu su
questo punto che si arenarono le trattative. Nei giorni successivi Yahya e Mujib furono raggiunti a
Dhaka prima da un equipe di costituzionalisti e poi da Bhutto e altri rappresentanti del PPP.
Entrambi i gruppi sostenevano che un immediato trasferimento di potere fosse fuori discussione e
che l’abrogazione della legge marziale prima della convocazione dell’Assemblea Nazionale avrebbe
comportato un vuoto di potere. Bhutto in particolare espresse la sua preoccupazione al riguardo,
sottolineando il fatto che in un tale vuoto di potere, le tendenze secessioniste dell’East Pakistan si
sarebbero concretizzate, portando ad una divisione del paese. Inoltre, le istanze federaliste
contenute nel programma dei 6 punti e lungamente discusse nei vari incontri di quei giorni a Dhaka,
si sarebbero potute realizzare in assenza della legge marziale e dell’autorità di Yahya, nel caso in
cui il trasferimento di potere fosse diventato effettivo.
L’arenamento delle trattative si fece palese il 22 Marzo, in un incontro faccia a faccia tra Yahya,
Mujib e Bhutto, durante il quale era evidente il forte senso di fraintendimento e di sospetto tra i
partecipanti.
Il giorno successivo, il 23 Marzo – Giorno dell’Indipendenza o Giorno della Resistenza- le trattative
proseguirono, mentre la popolazione aveva completamente perso la fiducia in qualsiasi eventuale
esito positivo della negoziazione. Fu una giornata ricca di manifestazioni, cortei e parate nelle quali
studenti e civili, spesso in formazione militare, chiedevano a gran voce l’indipendenza da ottenere
con la    resistenza armata, agitando bandiere del Bangladesh e scandendo cori, come “Joi
Bangla”(=”Vittoria al Bangladesh”) e intonando canti patriottici, come “Amar Shonar Bangla”(=”Il
mio Bengala dorato”) di Rabindranath Tagore, che divenne poi l’inno nazionale.
Quando la delegazione del Partito Awami arrivò davanti alla villa del Presidente portando con sé la
bandiera del Bangladesh, i militari considerarono questo atto come l’estremo affronto all’unità
nazionale.
Le trattative raggiunsero il definitivo punto morto quando un membro del Partito Awami propose il
nome Confederazione del Pakistan, invece che Federazione o Unione del Pakistan. L’equipe
governativa considerava una confederazione come un accordo tra diversi stati sovrani, ognuno dei
quali con una propria giurisdizione e legislatura. Per questo una tale proposta era del tutto
inaccettabile e rendeva lampante l’idea che il Partito Awami fosse interessato unicamente

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all’indipendenza.
Intanto Yahya, in concomitanza con lo svolgimento delle trattative, si incontrò con i generali Tikka
Khan- da poco nominato nuovo Amministratore Capo della Legge Marziale in East Pakistan- e Rao
Farman Ali Khan per delineare le fasi dell’intervento militare, atto a ristabilire l’ordine pubblico e il
controllo sull’East Pakistan. Venne data la priorità a questi obiettivi:
    • I membri del Partito Awami andavano considerati traditori della nazione e ribelli;
    • Le unità delle forze armate e i corpi di polizia in East Pakistan dovevano essere disarmati;
    • I maggiori rappresentanti del Partito Awami, le associazioni studentesche a loro affiliate e i
        simpatizzanti dovevano essere arrestati.
Dopo questo e altri vertici tra il Presidente e alcuni ufficiali militari, fu presa la definitiva decisione
di intervenire militarmente e venne pianificata a tale scopo l’Operazione Searchlight, che si
prefiggeva l’obiettivo di sedare le rivolte popolari e neutralizzare il Partito Awami e ogni
potenziale opposizione politica e sociale al regime. Inizialmente considerata un’operazione-lampo,
comportò invece un’inaspettata reazione da parte dei bangladeshi e sfociò quindi nella Guerra di
Liberazione, dalla quale risultò l’indipendenza del Bangladesh il 16 Dicembre del 1971, dopo nove
logoranti mesi di guerra e dopo l’intervento militare dell’India.




2. La Guerra di Liberazione del Bangladesh
(26 Marzo - 16 Dicembre1971)


       2.1. L’operazione Searchlight, la dichiarazione di Indipendenza e le prime fasi
       della guerra

L’azione militare venne giustificata dal Presidente come la necessaria risposta all’arroganza e
all’intransigenza dimostrata dal Partito Awami durante le trattative. In un discorso tenuto a Karachi,
il Presidente dichiarò che l’intera responsabilità del conflitto era riconducibile alle azioni di Mujib e
perciò mise al bando il suo partito. Di conseguenza, nella notte tra il 25 e il 26 Marzo, Sheikh
Mujibur Rahman venne raggiunto dai militari in casa propria e arrestato con l’accusa di alto
tradimento.
Le prime fasi dell’Operazione Searchlight si concentrarono sull’arresto di membri del Partito
Awami e di attivisti politici, molti dei quali tuttavia erano già andati in esilio volontario in India. La
città di Dhaka venne occupata, venne imposto un severo coprifuoco e tutte le comunicazioni
vennero interrotte. Per evitare ogni possibile diffusione di notizie, tutti i giornalisti stranieri vennero
condotti al confine ed estradati nei loro paesi d’origine e molti giornalisti bangladeshi vennero
minacciati, arrestati o addirittura assassinati. Nella prima notte di occupazione la città di Dhaka
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venne messa a ferro e fuoco e si stima che 7000 persone siano state uccise. I primi a morire furono
alcuni giovani che stavano alzando barricate nella zona dell’Università. I dormitori universitari, tra i
quali il tristemente famoso Jagannath Hall, infatti, furono tra i primi obiettivi dei militari e vennero
subito occupati e scrupolosamente perquisiti. Gli studenti vennero colti nel sonno e molti di loro
vennero assassinati seduta stante; molte studentesse dovettero subire un trattamento peggiore,
perché vennero sistematicamente violentate, anche da più soldati contemporaneamente. Per questo
alcune tra loro preferirono il suicidio ad un tale oltraggio alla loro dignità femminile. Oltre alla zona
universitaria, venne attaccato anche il quartiere residenziale hindu di Dhaka e si stima che lì circa
700 residenti hindu abbiano perso la vita in quella notte.
Un altro obiettivo chiave dell’operazione fu quello di disarmare tutte le unità delle forze armate con
base in East Pakistan. Già da Febbraio, alcuni generali avevano espresso i loro dubbi sulla fedeltà
dei militari bangladeshi, in particolare gli East Pakistan Rifles. Infatti l’esercito pakistano incontrò
la feroce resistenza delle unità bengalesi e riuscì a disarmarne solo una piccola parte. Molti militari
riuscirono ad uccidere i propri comandanti pakistani e a fuggire in zone nascoste al confine con
l’India, dove organizzarono la resistenza armata e divennero i personaggi chiave nell’addestramento
dell’esercito volontario dei Mukti Bahini (= Combattenti per la libertà).
Il Partito Awami organizzò segretamente la fuga della maggior parte dei propri membri in India,
dove cercarono l’appoggio del governo indiano e successivamente formarono il governo
provvisorio del Bangladesh in esilio guidato da Tajuddin Ahmed (17 Aprile 1971-Mujibnagar
Government).
Le offensive militari pianificate nell'Operazione Searchlight non si limitarono alla città di Dhaka,
dato che le maggiori città dell'East Pakistan- Chittagong, Khulna, Comilla, Jessore, Rajshahi, Sylhet
e altre- vennero attaccate e occupate simultaneamente con modalità simili. Questa cruciale fase
dell'operazione terminò con la resa delle suddette città verso la metà di Maggio.
Il 26 Marzo venne diffuso via radio un discorso tenuto da Mujib poco prima dell’arresto, nel quale
il leader proclamava l’Indipendenza del Bangladesh con queste parole:
«Questo potrebbe essere il mio ultimo messaggio; da oggi il Bangladesh è uno stato indipendente.
Esorto il popolo del Bangladesh dovunque siate e con qualsiasi [arma] abbiate, a resistere contro
l’esercito di occupazione fino alla fine. La nostra lotta dovrà continuare finchè l’ultimo soldato
dell’esercito di occupazione pakistano non venga espulso dalla terra del Bangladesh. La vittoria
finale sarà nostra.»
Molte radio vennero occupate da ribelli bengalesi e altre vennero fondate con mezzi di fortuna.
Tra queste la più famosa e diffusa fu la Swadhin Bangla Betar Kendro, nata il 26 Marzo grazie
all’attività di dieci giovani bangladeshi che la inaugurarono con un trasmettitore da 10KW. Fu
presso questa stazione radio che la sera del 27 Marzo il maggiore Ziaur Rahman, diffuse il suo
messaggio di indipendenza alla nazione a nome di Mujib, che cito:

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«Io, maggiore Ziaur Rahman, sotto la direzione di Sheikh Mujibur Rahman, con la presente
dichiaro che è stata fondata la Repubblica Popolare del Bangladesh. Seguendo le sue direttive, ho
preso il comando come Capo di Stato provvisorio. Nel nome di S. M. Rahman, esorto tutti i
bengalesi a ribellarsi contro l’attacco dell’esercito west-pakistano. Dobbiamo lottare fino alla fine
per liberare la nostra Patria. Grazie ad Allah, la vittoria è nostra. Joi Bangla (=vittoria al
Bangladesh)».
Dopo l'occupazione delle principali città dell'East Pakistan, lo scioglimento del partito Awami e
l'arresto di molti suoi membri, l'arresto o l'assassinio sistematico di studenti, civili, professionisti e
intellettuali, la giunta militare pakistana considerava conclusa l'operazione. Si riteneva che avendo
preso il controllo delle città e delle comunicazioni e avendo privato il popolo bangladeshi dei propri
leader politici, la popolazione terrorizzata non sarebbe riuscita ad organizzare alcuna resistenza.
Ma al contrario, furono proprio le offensive militari e le atrocità da loro commesse che portarono i
bangladeshi a pianificare la resistenza, la quale inizialmente era formata da civili disarmati,
disorganizzati e scarsamente coordinati. A metà Aprile, l'ex-generale dell'esercito pakistano M. A.
G. Osmani assunse il comando delle truppe bengalesi ribelli, provenienti principalmente dagli East
Bengal Regiments e dagli East Pakistan Rifles che insieme formarono l'esercito regolare chiamato
Niomita Bahini.
Le forze armate bengalesi nel complesso erano quindi composte da militari ammutinati, ex-
poliziotti, forze paramilitari e comuni cittadini. La componente civile dell'esercito, formata da
studenti, contadini e lavoratori, cominciò a collaborare con l'esercito regolare e ad essere addestrata
e armata dai militari bangladeshi. Insieme formarono i Mukti Bahini (=Combattenti per la libertà),
anche se in un primo tempo era comune il termine Mukti Fauj (=Brigate per la libertà), soprattutto
tra i gruppi paramilitari studenteschi.
L'esercito di liberazione operò principalmente attraverso azioni di guerrilla, atte a destabilizzare il
nemico e a neutralizzare le sue postazioni e caratterizzate dalla presenza di pochi uomini esperti
conoscitori del terreno di guerra e coadiuvati dalla popolazione locale, che forniva loro riparo,
rifornimenti e nascondigli. Queste azioni di sabotaggio venivano pianificate in vari campi di
addestramento che sorsero durante i primi mesi di guerra in zone isolate lungo il confine con l'India,
dove i militari ammutinati preparavano i civili alle azioni di guerra e fornivano loro armi ed
equipaggiamento. Anche se ancora in forma non ufficiale, molte fonti riportano che l'esercito
indiano contribuì in questa prima fase attraverso la fornitura di armi e l'invio di soldati indiani sotto
copertura per assistere i militari bangladeshi nelle azioni di reclutamento e di addestramento.


       2.2. Il genocidio selettivo e la questione dei profughi

Fin dall'inizio dell'offensiva militare pakistana nella notte del 25 Marzo 1971, l'esercito di
occupazione eseguì sistematiche azioni di violenza contro la popolazione bangladeshi. Allo scopo
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di neutralizzare le componenti della società considerate pericolose, come politici dell'Awami
League, studenti e intellettuali, l'esercito intervenne senza alcuna pietà e commise atrocità tali che
oggi la maggior parte degli storici è concorde nel definire questi eventi come parte di uno dei
genocidi più cruenti del 20° secolo.
Le violenze si manifestarono in varie forme e furono rivolte a varie componenti della società e
avevano come obiettivo primario quello di terrorizzare la popolazione per sedare qualsiasi tentativo
di resistenza.
I dormitori universitari come quello di Dhaka furono presi subito di mira e moltissimi studenti
vennero massacrati e fucilati senza alcun indugio. Questo perché si voleva evitare la formazione di
gruppi studenteschi antagonisti e perché ogni studente maschio poteva diventare un potenziale
guerrigliero.
Gli intellettuali e l'intellighenzia bangladeshi furono bersaglio delle rappresaglie dell'esercito con
l'obiettivo di decimare l'élite culturale e politico-economica bengalese. In questo caso alcuni storici
usano il neologismo “éliticidio” o pulizia intellettuale per esprimere il sistematico tentativo di
eliminare la parte di una società che è essenziale per il suo sviluppo culturale e politico e cioè
insegnanti, ingegneri, dottori, intellettuali, giornalisti, avvocati e professionisti acculturati.
Altro infame fenomeno furono le atrocità commesse contro le donne. Questo genocidio di genere si
concretizzò attraverso stupri di gruppo, sevizie e sequestri di donne a fini sessuali. Infatti furono
migliaia i cosiddetti “figli della guerra” nati da donne stuprate da soldati pakistani e molte
testimonianze riportano di ragazze che venivano prelevate nelle loro case o nei dormitori
universitari e tenute segregate come oggetti sessuali a disposizione delle truppe delle caserme.
Molte donne morirono per le ferite riportate durante le violenze sessuali oppure si suicidarono per
evitare un tale trattamento. Altre riportarono turbe psichiche e squilibri mentali che segnarono
irrimediabilmente le loro vite. Per evitare ogni possibile atto di ghettizzazione o di discriminazione
da parte dei concittadini, subito dopo la guerra la propaganda del neo-nato stato del Bangladesh
cominciò a definire le donne violentate o ingravidate dal nemico come birangona (=eroine), anche
se esistono dubbi sull'effettiva utilità di tale definizione al fine di alleviare le loro sofferenze.
Un altro triste capitolo nel quadro generale delle atrocità durante la guerra è quello delle violenze su
base religiosa contro gli hindu. La propaganda pakistana ancor prima dell'inizio della guerra
continuava a definire i bangladeshi come un popolo influenzato dalla cultura e dalla religiosità
indiane. Gli hindu dell'East Pakistan divennero allora i capri espiatori perfetti e, in quanto
considerati come i veri responsabili della guerra civile, subirono il trattamento peggiore da parte
dell'esercito. Quando i soldati eseguivano un rastrellamento in un villaggio, erano guidati da un
forte razzismo anti-bengalese e anti-hindu e intendevano effettuare una definitiva pulizia etnico-
religiosa nei loro confronti, credendo così di restaurare il Pakistan unito. Il prof. R.J. Rummel,
emerito politologo e studioso di genocidi, riporta uno dei metodi più inumani per scovare gli hindu

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durante un rastrellamento: gli uomini catturati venivano obbligati a denudarsi di fronte ai soldati, i
quali verificavano se essi fossero circoncisi; in caso contrario, venivano fucilati all'istante. Egli
conferma inoltre che i bangladeshi erano spesso paragonati a scimmie o galline e che gli hindu tra i
bengalesi erano come gli ebrei per i nazisti.
La maggior parte delle vittime degli assassinii compiuti dall'esercito veniva seppellita in fosse
comuni per tentare di celare al mondo l'enorme numero di morti e l'entità del genocidio. Dal periodo
immediatamente successivo alla guerra fino ai giorni nostri sono centinaia le fosse comuni ritrovate
in varie zone rurali del Bangladesh.
Tra i pochi testimoni stranieri ancora presenti nel paese e in grado di raccontare al mondo i crimini
di guerra commessi dall'esercito pakistano, va ricordato il diplomatico americano Archer Blood, che
il 6 Aprile mandò al Dipartimento di Stato Americano il famoso Blood Telegram, estremo atto di
accusa non solo delle violenze perpetrate dall'esercito, ma anche della collusione del governo Nixon
con il Pakistan e il silenzio ipocrita di fronte a tanta disumanità per meri obiettivi di alleanze
geopolitiche.
Ricordiamo infatti che gli USA rimasero fedeli alleati del Pakistan durante la guerra di liberazione
per controbilanciare il potere dell'URSS in Asia, alleata strategica proprio dell'India – queste ultime
siglarono in estate un trattato (Trattato di pace, amicizia e cooperazione indo-sovietico, 9 Agosto
1971) che si rivelerà di importanza strategica per l'aiuto militare e di fornitura di armi ai guerriglieri
e per gli equilibri geopolitici inseriti nel contesto della guerra fredda -.
L'infinita varietà di violenze costrinse un enorme numero di persone a cercare rifugio lungo il
confine con l'India, formando il più grande movimento di persone per motivi umanitari dalla
Partizione del 1947.
Il governo indiano stima che tra i 7 e gli 8 milioni di persone abbiano rischiato le proprie vite per
varcare il confine e cercare rifugio negli 829 campi profughi messi a disposizione dall'esecutivo di
Indira Gandhi. Tra questi si calcola che più del 60-70% fosse di religione hindu, intenzionati a
diventare residenti indiani e, stando così la situazione, a non rimpatriare.
Ovviamente questo afflusso continuo di gente disperata pesò enormemente sulle finanze indiane, sia
in termini di spese per la gestione dei campi, sia nel lungo termine, dato che bisognava prevedere
che molte di queste persone cercassero di ottenere la cittadinanza indiana e che quindi diventassero
categorie sociali a rischio da tutelare. L'ammontare del fondo per il welfare era insufficiente per
coprire tali spese e anche il budget per i programmi di sviluppo era minacciato da una tale priorità
umanitaria.
Inoltre la concentrazione geografica dei rifugiati era situata in zone socialmente e politicamente
problematiche, cioè il West Bengal, l'Assam e gli stati tribali del nord-est, come Tripura,
Meghalaya, Mizoram e il Nagaland. A livello sociale l'etnia bangladeshi in arrivo da oltre il confine
poteva scontrarsi con le popolazioni locali di etnia e cultura diverse -in particolare con gli adivasi- e

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a livello politico queste zone erano avverse al Partito del Congresso perché da anni erano governate
da vari partiti comunisti- in particolare il Partito Comunista-Marxista del West Bengal- e minacciate
dagli attacchi terroristi dei ribelli maoisti noti come Naxaliti. In sintesi, il problema per l'India non
era solo l'esistenza dei profughi, ma i luoghi dove essi esistevano!


       2.3. L'etnia Bihari e i collaborazionisti dell'esercito pakistano

Nel clima di anarchia provocato dalla guerra, purtroppo non si assistette solo alla violenza
dell'esercito pakistano contro i bangladeshi. Infatti, in East Pakistan esisteva un nutrito gruppo
sociale composto dall'etnia Bihari, popolazione musulmana e parlante urdu proveniente dallo stato
indiano del Bihar che nel 1947 emigrò numerosa nel confinante East Pakistan. Tuttavia essi si
identificavano maggiormente con il West Pakistan, grazie alla comune lingua urdu e perciò non si
assimilarono mai del tutto con la locale etnia bengalese. Quando scoppiò la guerra, i Bihari si
schierarono con il West Pakistan dato che credevano nell'idea di Pakistan unito e divennero un
facile bersaglio per i guerriglieri bangladeshi e a volte anche per i civili che li discriminarono.
Instillarono il sospetto nella popolazione locale perché vennero descritti sommariamente come
collaborazionisti e cospirazionisti contro i bangladeshi. Pur non negando che numerose volte tali atti
di collaborazione tra Bihari e Pakistani avvennero realmente, è un fatto storico che l'intera etnia
Bihari, comprese donne, bambini e persone inermi, è stata oggetto di violenze e discriminazioni
razziali di ogni genere frutto di vendetta e rancore da parte dei Mukti Bahini e di molti cittadini.
I Bihari non furono l'unica parte della società dell'East Pakistan a schierarsi con la parte ovest del
paese durante la guerra. Ancora prima della guerra, erano molti i partiti politici o le associazioni
islamiste ed estremiste che credevano fortemente nell'ideale di un Pakistan unito dalla comune fede
musulmana. Quando queste idee vennero disilluse dalla guerra civile, questi gruppi sociali
iniziarono a collaborare con l'esercito fornendo informazioni sui propri concittadini pro-Bangladesh
o addirittura prendendo parte attivamente al conflitto. L'esercito regolare pakistano non aveva quasi
alcuna conoscenza del territorio e degli equilibri sociali della popolazione occupata quindi la
presenza sul campo di persone organiche a quella popolazione, e perciò inserite nel loro tessuto
sociale, era di fondamentale importanza nella strategia militare west-pakistana.
Tra questi gruppi spiccarono per efficienza e crudeltà i Razakar, (=[lett.] volontari), forza
paramilitare islamista composta da bengalesi pro-Pakistan e da migranti parlanti urdu che aiutarono
l'esercito pakistano nell'individuare i guerriglieri e nel garantire un continuo e dettagliato flusso di
informazioni sui loro spostamenti e sulle attività di supporto fornite dalla popolazione locale. Dopo
l'iniziale contributo di “spionaggio”, dall'ordine del generale pakistano Tikka Khan del giugno del
'71, i Razakar divennero formalmente parte dell'esercito regolare e intervennero militarmente nelle
offensive e nei rastrellamenti nelle zone più remote del paese. Per dare un'idea dell'eredità culturale
che i loro comportamenti hanno trasmesso ai bangladeshi, basti pensare che oggi in bengali la
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parola razakar, derivata dall'arabo <volontario>, significa <traditore>.
Oltre ai Razakar, ci furono altri gruppi paramilitari di collaborazionisti, composti da militanti di
partiti di estrema destra, islamisti e jihadisti tra i quali i più tristemente famosi sono gli Al-Badr -
ala militante del partito Jamat-e-Islami – e gli Al-Shams – studenti e insegnanti nelle madrasa e
fondamentalisti membri di partiti islamisti minori come la Muslim League o il Nejam-e-Islami -.


       2.4. Seconda fase del conflitto (Luglio-Novembre)

Dopo l'iniziale fase di disorganizzazione, l'esercito di liberazione cominciò a diventare una realtà
sempre più organica, compatta ed efficace. Grazie anche al supporto politico fornito dal pur fragile
governo provvisorio in esilio, nato a Mujibnagar (Distretto di Meherpur, Kolkata ) ad Aprile, gli
ufficiali ribelli dell'esercito cominciarono a creare una struttura militare coordinata e organizzata
gerarchicamente. Questi sforzi culminarono a Luglio in una conferenza di vertici militari, la
Bangladesh Sector Commander Conference (11-17 Luglio), nella quale si decise di dividere il paese
in 11 settori, ognuno gestito da un comandante di settore scelto tra i migliori ufficiali disertori
dell'esercito pakistano. Al vertice delle forze di liberazione venne scelto come Comandante Capo il
generale M.A.G. Osmani. Le strategie militari venivano decise dal comandante di settore che
doveva rispondere al Comandante Capo. Per una maggiore efficienza, ogni settore venne diviso in
vari sub-settori, con a capo un sub-comandante di settore. I comandanti coordinavano anche le
attività di reclutamento e di addestramento truppe nei campi allestiti lungo il confine e dopo l'estate
cominciarono a gestire anche le neo-nate aeronautica (BAF-Bangladesh Air Force) e marina (BN-
Bangladesh Navy) militari.
Le operazioni militari, sia di guerrilla che di guerra convenzionale, divennero così più pianificate
ed efficaci. I primi importanti risultati si videro con il successo dell'Operazione Jackpot del 16
Agosto, nella quale un commando della marina, coadiuvato dai Mukti Bahini, riuscì a sabotare e a
minare una gran parte della flotta pakistana in varie città costiere, tra le quali Chittagong e
Naryaganj.


       2.5.    L'intervento militare indiano (I Guerra Indo-Pakistana) e la resa finale
       del Pakistan

Il governo indiano guidato da Indira Gandhi, fin dalle sommosse e dagli scioperi popolari del 1970,
aveva assunto un atteggiamento molto prudente e distaccato verso gli avvenimenti nel futuro
Bangladesh, considerandoli come questioni di politica interna del Pakistan e confidando in un
accordo politico tra le parti. Il lancio dell'Operazione Searchlight e l'occupazione west-pakistana
della parte est del paese furono eventi del tutto inaspettati in India. Ovviamente tale attacco fu
aspramente criticato dai politici e dall'opinione pubblica indiana, ma tali critiche rimanevano sulla
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carta stampata o nei discorsi in parlamento, perché la strategia politica del governo rimase prudente
e circospetta. L'unico passo concreto messo in atto fu quello di offrire asilo politico ai membri del
Partito Awami scappati in esilio volontario dopo la messa al bando del loro partito e le rappresaglie
dell'esercito.
Successivamente una relativa apertura del governo indiano verso la causa bangladeshi fu il
permesso per la costituzione del governo provvisorio in esilio della autoproclamata Repubblica
popolare del Bangladesh. Tuttavia l'India non riconobbe ufficialmente la sovranità del Bangladesh
fino a Dicembre.
Altro controverso intervento indiano nei confronti dell'East Pakistan fu l'invio di soldati indiani,
facenti parte della Border Security Force, presso i campi di addestramento che vennero istallati
dalle forze di liberazione bangladeshi lungo il confine con l'India. Ufficialmente i militari indiani si
trovavano lungo il confine per svolgere attività di polizia di routine e perché avevano il compito di
controllare e mettere in sicurezza l'afflusso di rifugiati. In effetti secondo alcune fonti ufficiali
intervistate dopo la guerra e anche secondo alcuni storici, il compito principale delle forze armate
indiane non era di aiutare i guerriglieri bangladeshi, ma di controllare i confini ed evitare
un'eventuale collaborazione tra le frange più estremiste dei muktijoddha (=combattenti per la
libertà) e i terroristi Naxaliti e west-bengalesi. Ricordiamo infatti che le zone di confine dove era
attiva la resistenza anti-pakistana e dove sorsero i campi profughi, erano territori scarsamente
controllati dal partito del Congresso al governo federale, ma in mano a svariati gruppi terroristi e
indipendentisti e abitati da popolazioni tribali. La preoccupazione di Indira Gandhi era proprio la
potenziale alleanza tra bangladeshi in esilio in India e estremisti anti-Congresso al fine di
destabilizzare il potere dello stato indiano in quelle zone, già minato dallo scarso peso elettorale del
suo partito.
Qualsiasi fosse stata la motivazione indiana dietro l'invio dei propri soldati, è un fatto assodato che
essi aiutarono e finanziarono sempre più massivamente le forze di liberazione bengalese, anche se a
livello politico e diplomatico l'India si dichiarava ancora neutrale. Anche un reparto dei servizi
segreti indiani, la RAW, ebbe un ruolo cruciale nel fornire informazioni strategiche e logistica alle
forze armate bangladeshi. Certamente la sempre più gravosa questione dei profughi east-pakistani
influì nella decisione indiana di giocare un ruolo sempre più concreto nel processo di liberazione.
Il governo indiano tentò di trovare appoggio politico ed economico dai paesi confinanti e,
soprattutto, dagli alleati e parallelamente iniziò una intensiva campagna diplomatica per portare
all'attenzione degli organi internazionali le violazioni dei diritti umani in atto e la delicata situazione
in cui si trovava l'India. L'obiettivo delle missioni diplomatiche condotte in molti paesi in Europa,
Asia e in Nord America fu quello di indurre il governo pakistano ad interrompere le ostilità e di
cercare di negoziare una soluzione politica con il Partito Awami, per il bene dell'intera Asia del
Sud. In un discorso al parlamento indiano Indira Gandhi fece chiaramente intendere che se la

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comunità internazionale non avesse preso alcuna posizione,il governo indiano sarebbe stato
costretto ad intervenire direttamente per garantire la propria sicurezza e preservare tutti gli sforzi
fatti nel cammino dello sviluppo economico e sociale. Questo sforzo nell' “internazionalizzare” la
guerra, anche se nell'immediato si rivelò infruttuoso, fu fondamentale nel giustificare il successivo
intervento militare indiano e nel sensibilizzare l'opinione pubblica mondiale sulle violenze in atto.
A tal proposito accenniamo al Concert for Bangladesh, organizzato dal chitarrista e compositore dei
Beatles George Harrison su appello del maestro di sitar Ravi Shankar, tenutosi al Madison Square
Garden di New Jork il 1° e il 2 Agosto e i cui proventi andarono a favore dei profughi bangladeshi.
Il pretesto per l'ufficiale entrata in guerra dell'India a fianco dell'East Pakistan fu un attacco west-
pakistano rivolto ad alcune basi aeree indiane nella sera del 3 Dicembre, noto con il nome in codice
di Operazione Chengiz Khan. La sera stessa Indira Gandhi annunciò pubblicamente in un
messaggio radio l'inizio delle ostilità tra India e Pakistan in risposta all'attacco subito, dando il via a
quella che viene definita la guerra Indo-pakistana del 1971. Fu uno dei conflitti più brevi della
storia, se non inserito nel contesto più ampio della guerra di liberazione bangladeshi e infatti durò
solo 13 giorni.
I vertici militari indiani ordinarono un immediato dispiegamento di forze armate e attacchi
simultanei in mare, aria e terra. La superiorità numerica e tecnologica messa in campo dall'India
sbaragliò l'esercito pakistano, già stremato da mesi di conflitto, che fu costretto a mandare rinforzi
svariate volte. Sul fronte orientale venne formato un esercito regolare formato da guerriglieri
bangladeshi e soldati indiani, i Mitro Bahini(=Forze alleate).
Le forze armate pakistane, disposte in piccoli gruppi dispiegati nel territorio per difendersi dagli
attacchi di guerrilla dei muktijoddha, furono sopraffatti dalle offensive di guerra convenzionale
messe in atto dall'esercito indiano.
Quando le forze di terra indiane riuscirono ad avanzare fino alle porte di Dhaka, i militari pakistani
capitolarono e dovettero stipulare un accordo di resa noto come lo Instrument of Surrender, firmato
al Ramna Race Course di Dhaka dai luogotenenti generali indiano e pakistano J.S. Aurora e A.A.K.
Niazi il 16 Dicembre 1971. La sottoscrizione dell'accordo poneva fine alla guerra indo-pakistana e
dava vita alla nuova nazione del Bangla Desh (unito successivamente in una sola parola). In seguito
alla resa, più di 90˙000 soldati pakistani, tra cui lo stesso generale Niazi, furono fatti prigionieri e
per questo la guerra di liberazione bengalese portò al più alto numero di prigionieri di guerra dalla
Seconda Guerra Mondiale.
Dopo la fine della guerra la comunità internazionale cominciò a riconoscere ufficialmente lo stato
del Bangladesh. Il primo stato a riconoscere il Bangladesh fu ovviamente l'India il 6 Dicembre,
ancor prima della resa del Pakistan. Tuttavia non tutti i paesi del mondo furono così tempestivi. Per
comprendere la tempistica del riconoscimento internazionale, bisogna inquadrarla nel periodo della
guerra fredda. Infatti dopo l'India furono i paesi del Blocco di Varsavia a legittimare il neonato stato

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sovrano, in primis la Germania dell'Est e l'URSS con i suoi stati-satellite. Poi fu la volta dei paesi
dell'Unione Europea, anche se la Gran Bretagna ebbe dei tentennamenti, e successivamente di altri
importanti stati, quali il Giappone, l'Argentina, il Canada, l'Australia, varie nazioni africane e arabe
e la maggior parte dei paesi dell'Asia meridionale e sud-orientale. Ovviamente, in quanto alleati del
Pakistan, gli ultimi a riconoscere la Repubblica Popolare del Bangladesh furono gli Stati Uniti e la
Cina che temporeggiarono fino al 1972 (USA) e addirittura fino al 1975 (Cina).
Il giorno della resa del Pakistan la folla davanti al Ramna Race Course scandì numerosi slogan anti-
pakistani e migliaia di cittadini di Dhaka si riversarono in strada per festeggiare l'avvenuta fine delle
ostilità e la nascita della loro nuova nazione, una repubblica democratica parlamentare con Sheikh
Mujibur Rahman come primo ministro e una propria costituzione entrata in vigore il 4 Novembre
del 1972.




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.II.
                         La Storia riletta dalla letteratura


1. Panoramica sul libro “I giorni dell'amore e della guerra” di
Tahmima Anam

Dopo il necessario inquadramento storico, passiamo ad analizzare la guerra di liberazione del
Bangladesh da una prospettiva meno dettagliata e attendibile, ma sicuramente più coinvolgente e
umana, offertaci dal meraviglioso romando d'esordio della scrittrice bangladeshi T. Anam.
Innanzitutto va messo in chiaro che il titolo del libro in italiano non rende giustizia alla poliedricità
e ricchezza del romanzo, dato che risulta alquanto incline al sentimentalismo e al melodramma,
mentre invece l'originale “A golden age” esprime meglio la profondità delle tematiche trattate e
comunica un certo carattere di contraddittorietà, presente in tutto il libro, che fa sì che anche in
un'epoca di guerra e dolore si possa essere amorevoli, vitali e speranzosi nel futuro.
Il romanzo ci offre un punto di vista originale e incisivo per rileggere la guerra di liberazione: il
protagonista infatti non è un soldato, un politico o un guerrigliero, ma è una donna, Rehana, vedova
e madre di due figli, originaria del West Pakistan ma residente nel futuro Bangladesh. Quando la
guerra travolge il paese in cui vive, si ritrova coinvolta sempre più attivamente nel processo di
liberazione e, distaccandosi dalle sue origini, si riscopre appartenente al paese dei suoi figli.
Inizia tutto nel 1959, quando Rehana, rimasta vedova, si vede togliere i suoi figli dal giudice che li
affida agli zii paterni a Lahore, in West Pakistan. La determinazione e la tenacia della donna
faranno sì che lei riuscirà a riprenderli con sé e a vincere la sua personale guerra. Ma poi sarà la
vera guerra del '71 a portarle via nuovamente i suoi figli e lei comprende che non può fare altro che
lasciarli andare e fare propria la loro guerra, imparando ad amare il suo paese per amore dei suoi
figli.
Così, mentre viene a conoscenza degli scempi e delle violenze perpetrate dall'esercito di
occupazione pakistano, Rehana affronta la guerra in un modo non meno eroico di coloro che vi
partecipano: la sua è una guerra nella quotidianità, fatta di piccole cose e di problemi semplici e
concreti come trovare il cibo per sfamare i suoi figli e di ansie e paure per la loro sorte quando
l'avranno abbandonata. Ma, parallelamente alla lotta per la libertà del suo paese, Rehana inizia ad
acquisire la consapevolezza della sua libertà e si distacca dal tradizionale ruolo di vedova e madre
remissiva e succube degli altri e sente la necessità di avere un ruolo attivo nel corso degli eventi.
Dal cucire coperte per i guerriglieri, al prendersi cura di un soldato bangladeshi ferito, dal
nascondere armi nel suo giardino al visitare un campo profughi, Rehana dà il suo contributo
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concreto alla causa che era inizialmente dei suoi figli, ma che poi farà propria. In quel clima di
violenza, riesce anche a ritagliarsi i suoi spazi fatti di amore e dolcezza, attraverso l'apprensione per
la sorte dei figli e grazie all'infatuazione per il maggiore ferito a cui dà rifugio in casa sua e che
diventa un fedele confidente ed una valvola di sfogo per l'interiorità mai ascoltata di Rehana.
Inoltre la sua personale liberazione, parallela a quella del suo paese, si esprime anche attraverso il
riconoscimento del fatto che non aveva mai amato realmente suo marito Iqbal e che, dato il suo
carattere estremamente apprensivo e prudente, alla sua morte Rehana provò un misto di dolore e
gioia.
Il fatto che in una società come quella bengalese una vedova si comporti così attivamente nella
società e addirittura si innamori di un altro uomo, riuscendo anche a strappargli un romantico bacio,
è indice dell'elevato grado di anticonformismo e indipendenza della protagonista, che è incurante
dei tabù culturali riguardanti la sua condizione di vedovanza.
Altra tematica presente nella vita di Rehana è il rapporto con il suo paese d'origine che si palesa nel
suo amore per la poesia urdu che lentamente si affianca alle canzoni popolari e o alle poesie di
Tagore, autore preferito della figlia Maya. L'ambivalenza della sua posizione di erudita conoscitrice
dell'urdu diventa quasi motivo di vergogna per Rehana, che ironizza sul fatto di continuare ad
amare la poesia in quella che è diventata la lingua del nemico. Questi numerosi riferimenti all'urdu e
alla bengali rappresentano l'espressione trainante del sentimento e dell'identità nazionalista
bengalese, cioè la questione linguistica iniziata nel '52 con il movimento per la lingua bengali.
Altro appunto cruciale da fare è il commento che fa Rehana riguardo la composizione geografica
del Pakistan che le sembra assurda e irragionevole.
Infatti riflette tra sé e sé con queste parole:

|Che senso ha un paese diviso in due metà situate ai capi opposti dell'India, come un paio di corna?|

Oltre ad essere una potente ed appassionante saga familiare, il libro riesce magistralmente ad
esprimere gli orrori della guerra con una narrazione vivida, toccante ma mai sentimentalista.
Attraverso i vari personaggi dalla personalità complessa e sfaccettata, l'autrice ci offre uno spaccato
variegato del Bangladesh durante da sua lotta di liberazione.
Grazie alla sua inquilina ed amica S. Sengupta assistiamo al dramma del genocidio compiuto a
danno degli hindu bangladeshi. La famiglia Sengupta fu costretta a lasciare Shona - la casa che
Rehana aveva fatto costruire con mille sacrifici vicino casa sua per guadagnare abbastanza per
riavere l'affidamento dei figli - per fuggire alla pulizia etnico-religiosa compiuta dall'esercito. Dopo
qualche mese, Rehana ritrova la sua amica Supriya in un campo profughi in India, sconvolta e sotto
shock. Incapace di raccontare a voce l'orrore subito, riesce a scrivere su un foglio parole sconnesse
riguardo la sorte del figlioletto, parole che fanno intuire a Rehana il tragico destino a cui è andata
incontro la sua famiglia.

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Un'altra figura emblematica è Silvi, la figlia della vicina di casa di Rehana, la signora Chowdhury,
la quale, per acconsentire al desiderio della madre, si sposa con Sabeer Mustafa, un soldato
dell'esercito pakistano, poi disertore, che per questo viene catturato e torturato in carcere.
Dopo il suo arresto, la dolce Silvi subisce un cambiamento sconvolgente e diventa una fervente
musulmana bigotta e comincia ad osservare la purdah (=auto-segregazione delle donne in zone
della casa vietate agli uomini e copertura del volto con un velo) e a studiare il Corano. Questa
chiusura nella religione certamente rappresenta una ricerca di un rifugio e di consolazione a livello
personale, ma allo stesso tempo appare emblematica del potenziale indottrinamento religioso che
può essere indotto nelle persone disinteressate alla politica e alle dinamiche sociali in tali momenti
difficili e, profeticamente, rappresenta la deriva islamista che dovette subire il suo paese dopo la
liberazione.
Per amore di suo figlio Sohail, da sempre innamorato di Silvi, Rehana riesce a far scarcerare Sabeer
grazie all'intercessione di suo cognato – lo stesso che aveva avuto in affido i suoi figli – e lo trova in
condizioni disumane, tali che dopo qualche tempo viene a mancare, incarnando il triste destino
subito da migliaia di bengalesi vittime di atroci torture commesse dai pakistani.
I due personaggi paradigmatici dell'ideologia indipendentista e del sentimento nazionale
bangladeshi sono i due figli di Rehana, Sohail e Maya. Il primo è un diciannovenne molto idealista
e attivo nelle associazioni studentesche universitarie di Dhaka, dove tiene lunghi discorsi di politica.
Preso dal fervore nazionalista, imbraccia le armi con i muktijoddha e abbandona la madre e la
sorella per rifugiarsi in un campo di addestramento, da dove venivano pianificate le offensive di
guerrilla. La sua vita di clandestinità si alterna a momenti in cui riesce a tornare a casa di soppiatto
per aggiornare la famiglia sul corso degli eventi e in un secondo momento per nascondere armi e
rifornimenti sotto il roseto di Shona. Insieme a lui,partono per la guerra alcuni suoi giovani amici,
uno dei quali, Aref, perderà la vita in un agguato.
L'altra figlia di Rehana, la diciassettenne Maya è una ragazza schiva e dal carattere introverso che,
dopo la perdita della sua cara amica Sharmeen, trovata dal fratello in ospedale morta e ingravidata
dopo uno stupro, decide di prendere parte al processo di liberazione e lascia sola la madre per
andare a Calcutta, per lavorare come giornalista di un giornale partigiano e per fornire assistenza in
un campo profughi, dove successivamente porterà Rehana.
Entrambi i ragazzi rappresentano, a mio avviso, la contraddittorietà che esiste tra ideologia e
pragmatica. Nello specifico la loro visione utopistica di concetti quali rivoluzione e liberazione –
che riempivano i loro discorsi e le loro letture marxiste – entra in netto contrasto con la brutalità
della guerra e delle esperienze crude e violente da loro vissute che forgeranno il loro carattere ma
allo stesso tempo inaspriranno la loro concezione della vita.
Il cognato di Rehana, Faiz Haque e sua moglie Parveen rappresentano invece l'élite west-pakistana
convinta sostenitrice del necessario e machiavellico mantenimento dell'unità del paese, anche al

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L'identità negata  la guerra di liberazione del bangladesh come disfacimento dell'ideale artificioso di pakistan unito
L'identità negata  la guerra di liberazione del bangladesh come disfacimento dell'ideale artificioso di pakistan unito
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L'identità negata la guerra di liberazione del bangladesh come disfacimento dell'ideale artificioso di pakistan unito

  • 1. L'identità negata La Guerra di Liberazione del Bangladesh come disfacimento dell'ideale artificioso di Pakistan unito Dott.ssa Cristina Lo Giudice
  • 2. Indice • Prefazione .I. Contesto Storico 1. Eventi precedenti la guerra (1947-1971) 1.1. Controversia linguistica 1.2. Instaurazione del regime militare di Ayub Khan (1958-1969) 1.3. Disuguaglianze tra East e West Pakistan nella rappresentanza e nell’economia 1.4. Il Partito Awami e il Movimento dei 6 Punti 1.5. Il passaggio di potere a Yahya Khan e la preparazione alle elezioni del 1970 1.6. Le elezioni del 1970, il ciclone Bhola e l’inasprirsi del pubblico dissenso 1.7. L'ultimo tentativo di negoziazione politica tra il palesarsi delle strategie dei partiti 1.8. La posposizione dell'Assemblea Nazionale come ultima prevaricazione: l'antefatto del conflitto armato 1.9. La prorompente reazione popolare al rinvio dell’Assemblea Nazionale e la pianificazione dell’intervento militare 2. La Guerra di Liberazione del Bangladesh (26 Marzo-16 Dicembre 1971) 2.1. L’operazione Searchlight, la dichiarazione di Indipendenza e le prime fasi della guerra 2
  • 3. 2.2. Il genocidio selettivo e la questione dei profughi 2.3. L'etnia Bihari e i collaborazionisti dell'esercito pakistano 2.4. Seconda fase del conflitto (Luglio-Novembre) 2.5. L'intervento militare indiano ( I Guerra Indo-Pakistana) e la resa finale del Pakistan .II. La Storia riletta dalla letteratura 1. Panoramica sul libro “I giorni dell'amore e della guerra” di T. Anam 2. La guerra di liberazione vissuta dai personaggi del romanzo di T. Anam 2.1. Avvenimenti precedenti l'inizio del conflitto 2.2. L'operazione Searchlight 2.3. Prime fasi della guerra 2.4. L'estate del '71 e il proseguimento della guerra 2.5. Il dramma dei campi profughi e l'evolvere della situazione verso una fine 2.6. Il 16 Dicembre 1971 .III. Testimonianze dirette • Introduzione 1. Saifullah Said 2. Nasrin Hasan 3
  • 4. Prefazione La Guerra di Liberazione del Bangladesh del 1971 è un evento storico imprescindibile per comprendere le dinamiche geo-politiche del Subcontinente inteso nella sua totalità. Purtroppo in Italia questo avvenimento non è tema di discussione nel campo degli studi sud-asiatici, perciò ritengo necessario trattarlo, seppur in modo parziale, al fine di rendere giustizia ai personaggi che vi hanno preso parte e ai martiri che hanno dato la vita per la causa della libertà. Il mio intento non è quello di analizzare la guerra in sé, ma di inquadrarla in un contesto più ampio che la consideri come l'effettiva conseguenza di un processo storico che, a partire dal 1947, ha fatto emergere le abissali differenze culturali, linguistiche, politiche e sociali tra West e East Pakistan. Attraverso l'analisi degli eventi che precedettero la guerra del 1971, cercherò di mostrare come il popolo bangladeshi abbia sviluppato un senso di nazione e un'identità diverse da quelle del West Pakistan. Questo perché ritengo che la cultura, la lingua, le tradizioni, la concezione della politica e della società siano gli ambiti peculiari attraverso i quali si può delineare il concetto di nazione. Al riguardo considero emblematica la dichiarazione di Abdul Mansur Ahmad, un bengalese che partecipò al dibattito costituzionale nell'Assemblea Costituente del 1956, che testualmente cito: «Pakistan is a unique country having two wings which are separated by a distance of more than a thousand miles... These two wings differ in all matter, excepting two things, namely, that they have a common religion, barring a section of the people in East Pakistan, and that we achieved our indipendence by a common struggle. These are the only two points which are common to both the wings of Pakistan. With the exception of these two things, all other factors, viz, the language, the tradition, the culture, the costume, the dietary, the calendar, the standard time, practically everything is different. There is, in fact, nothing common in the two wings, particularly in respect to those [things] which are the sine qua non to form a nation.»¹ Dopo il necessario inquadramento storico, intendo analizzare due punti di vista attraverso i quali questo evento viene interpretato oggi: quello letterario, grazie allo splendido libro della scrittrice bengalese Tahmima Anam, pubblicato in Italia da Garzanti con il titolo “I giorni dell'amore e della guerra” (titolo originale “A golden age”) e quello più realistico offertomi dalla viva testimonianza di un ex-combattente -muktijoddha, in bengali- , il Sig. Saifullah Said, e della figlia di un politico bangladeshi, la Sig.ra Nasrin Hasan, che ho intervistato grazie alla collaborazione della Dott.ssa Neeman Sobhan, la mia docente di bengali, la quale ringrazio vivamente per il suo contributo. Per la bibliografia, questo lavoro è principalmente il frutto dello studio dell'esauriente analisi contenuta nel libro di R. Sisson e L. E. Rose “War and Secession:Pakistan, India and the creation of Bangladesh”. Dott.ssa Cristina Lo Giudice _________________________________________ ¹ «Il Pakistan è un paese unico composto da due parti che sono separate da una distanza di più di mille miglia...Queste due parti differiscono in tutti i punti, eccetto per due cose, vale a dire che condividono una religione comune, esclusa una fetta della popolazione dell'East Pakistan, e che abbiamo raggiunto la nostra indipendenza grazie ad una lotta comune. Queste sono gli unici due punti che sono comuni a entrambe le parti del Pakistan. Con l'eccezione di queste due cose, tutti gli altri fattori, viz [cioè], la lingua, la tradizione, la cultura, i costumi, le consuetudini, la dieta, il calendario, il tempo standard, praticamente tutto è diverso. Non c'è, in effetti, niente in comune tra le due parti, specialmente rispetto a quelle [cose] che costituiscono sine qua non una nazione.» 4
  • 5. .I. Contesto Storico 1. Eventi precedenti la guerra (1947-1971) Durante la partizione dell'India britannica nel 1947, si decise di dividere la regione del Bengala su base religiosa; la zona a maggioranza hindu sarebbe diventata parte dell'India con il nome di West Bengal e la regione a maggioranza musulmana sarebbe andata al Pakistan con il nome prima di East Bengal e poi di East Pakistan. Se consideriamo la Guerra di Liberazione – muktijuddho - come l'esplosione del risentimento dei bangladeshi verso la politica pakistana e quindi come la reazione all'acquisita consapevolezza di importanti differenze culturali e linguistiche, dobbiamo necessariamente pensare che i rapporti tra le due parti del paese andarono progressivamente deteriorandosi. Possiamo inquadrare il disfacimento di un'unità nazionale che ci risulta forzata, viste le notevole differenze, in diverse fasi da considerare quindi come le maggiori cause del conflitto armato. 1.1 Controversia linguistica Nel 1948 il Qa'id-e-A'zam (=Fondatore della nazione) Mohammed Ali Jinnah, primo Presidente del Pakistan, dichiarò pubblicamente a Dhaka che la lingua ufficiale del neo-nato stato del Pakistan (East e West) sarebbe stata «l'urdu e solo l'urdu».Questa e altre dichiarazioni simili di politici del West Pakistan scatenarono grandi proteste di massa in East Pakistan perché l'urdu veniva parlato solo da una ristretta élite culturale della parte ovest del paese. La gran parte della popolazione del West Pakistan, infatti, parlava punjabi, baluchi, sindhi e pashtu, mentre la popolazione bangladeshi parlava bengali. L'opposizione popolare contro questa decisione non rappresentava solo il bisogno di vedere riconosciuta dallo stato l'identità linguistica bengalese, ma esprimeva anche il timore che la mancata conoscenza dell'urdu avrebbe precluso ai cittadini dell'East Pakistan la possibilità di intraprendere una carriera in settori chiave dello stato, quali la pubblica amministrazione e la burocrazia, la politica e la difesa. Il linguista Mohammed Shahidullah argomentò che l'urdu non era la lingua madre di nessuna componente sociale dell'intero stato del Pakistan. Nel 1948 alla prima sessione dell'Assemblea Costituente della nazione, Dhirendranath Datta presentò una risoluzione per far riconoscere la bengali come una delle lingue ufficiali dello stato, che però venne del tutto ignorata, dato che la maggior parte dei politici presenti non erano bengalesi. Il 31 Gennaio 1952 venne creata la All-Party Central Language Action Committe _ Shorbodolio Kendrio Rashtrobhasha Kormi Porishod_ in un incontro alla Bar Library Hall all'università di 5
  • 6. Dhaka dal politico bengalese Maulana Bhashani. La proposta di scrivere la lingua bengali nell'alfabeto arabo venne aspramente criticata nell'assemblea. La commissione propose per il 21 Febbraio uno sciopero di massa - hartal -. In risposta, il governo pakistano impose il divieto di assembramento di più di cinque persone, pena l'intervento dell'esercito. Ciò nonostante, il 21 Febbraio 1952 migliaia di studenti e civili si riunirono davanti all'università di Dhaka, infrangendo le restrizioni per le manifestazioni pubbliche imposte dal governo. Quando gli studenti cercarono di rompere il cordone di polizia, le forze dell'ordine cominciarono a lanciare gas lacrimogeni verso i cancelli dell'università per disperdere i dimostranti. Il vice-rettore chiese alla polizia di interrompere l'azione di repressione e agli studenti di lasciare l'area per evitare scontri, ma non venne ascoltato da nessuna delle parti. La polizia arrestò molti dimostranti per la violazione del divieto di assembramento e questo indusse gli studenti a riunirsi davanti all'Assemblea Legislativa dell'East Pakistan per chiedere di essere rappresentati. Allora le forze dell'ordine aprirono il fuoco sulla folla disarmata e quando la notizia degli assassini si diffuse, la protesta si estese a tutta la città di Dhaka attraverso azioni di boicottaggio delle attività pubbliche e scioperi di massa. Il 21 Febbraio, in memoria degli studenti e civili inermi brutalmente uccisi dalla polizia, viene ricordato ogni anno in Bangladesh come Giornata dei Martiri per la Lingua- Bhasha Shaheed Dibosh - e dal 1999 l’UNESCO ha sancito per questa data la Giornata Internazionale per la Lingua Madre, nella quale si festeggia ogni anno in tutto il mondo. Nella notte del 23 Febbraio gli studenti del Dhaka Medical College lavorarono per costruire il Monumento alla Memoria dei Martiri - Shaheed Smritistombho -, il quale, inaugurato dal padre di uno dei giovani uccisi dalla polizia, venne distrutto dai militari il 26 Febbraio. Gli arresti e le uccisioni continuarono nei giorni successivi, nel tentativo delle forze dell'ordine di reprimere i continui scioperi e le manifestazioni. Il governo censurò tutte le notizie e i reportage sugli scontri e i media filo-governativi incolparono gli hindu e i comunisti di fomentare i disordini. Il 27 Aprile la All-Party Central Language Action Committe tenne un ciclo di seminari nel quale i delegati chiedevano il rilascio dei prigionieri politici, l’abbandono delle restrizioni militari sulle libertà civili e l’adozione della lingua bengali come lingua ufficiale dell’East Pakistan. Molti politici pakistani alimentarono i rancori anti-governativi dichiarando che chiunque avesse voluto la bengali come lingua nazionale sarebbe stato considerato un «nemico della nazione». 1.2. Instaurazione del regime militare di Ayub Khan (1958-1969) Il regime militare di Ayub Khan fu creato dopo un colpo di stato nell’Ottobre del 1958. Fu l’apice di una lunga impasse politica e di un periodo di grandi disordini sociali in East Pakistan culminati con l’assassinio di un deputato in un’assemblea provinciale e con il ferimento di due ministri negli scontri tra membri dell’opposizione e polizia. 6
  • 7. L’assenza di una coesa leadership nazionale e di consenso sulle norme costituzionali rese il sistema politico soggetto a inferenze da parte del potere militare e amministrativo nei processi decisionali, condannando perciò lo stato all’instabilità. L’effettiva presa di potere dei militari avvenne su invito del Presidente Iskander Mirza il 7 Ottobre 1958. Mirza dichiarò che la Costituzione conteneva compromessi e cavilli pericolosi per la coesione del Pakistan e che, per rettificarla, il paese doveva essere riportato alla ragionevolezza attraverso una rivoluzione pacifica. Poi attuò il suo progetto di “rivoluzione pacifica” abrogando la Costituzione, destituendo i governi centrale e provinciali, sciogliendo il Parlamento nazionale e le Assemblee provinciali e abolendo tutti i partiti politici. Impose la legge marziale e nominò Mohammed Ayub Khan Chief Martial Law Administrator (Amministratore Capo della Legge Marziale), il quale dichiarò che il golpe aveva come obiettivo quello di preservare la nazione dalla disintegrazione e di proteggere il popolo dalle incontrollabili macchinazioni dei politici disonesti. Il nuovo regime era stato definito temporaneo e attivo fino al raggiungimento di due principali obiettivi: • Eliminare l’inefficienza della pubblica amministrazione, ogni forma di corruzione, accumulazioni indebite di denaro, contrabbando e attività di mercato nero; • Varare riforme costituzionali per creare le condizioni per la stabilità politica e proporre modernizzazioni legislative a lungo termine; Un altro obiettivo definito chiave da parte del regime era quello di impegnarsi per coinvolgere maggiormente l’East Pakistan nella vita politica e amministrativa dello stato e per diminuire le disparità tra le due parti del paese. 1.3. Disuguaglianze tra East e West Pakistan nella rappresentanza e nell’economia Un altro motivo di insoddisfazione da parte del popolo bengalese verso la politica del Pakistan era la forte discrepanza nelle percentuali di rappresentanza politica, amministrativa e militare dei bangladeshi rispetto ai cittadini west-pakistani. Considerando che il numero degli east-pakistani era nettamente superiore a quello degli abitanti della zona ovest del paese e che la rappresentanza doveva essere proporzionale al numero di cittadini delle due parti del Pakistan, le evidenze dimostravano il totale fallimento di uno degli obiettivi definiti chiave dal regime. Per poter constatare la gravità del problema, facciamo qualche esempio. Negli anni ’60, dei 741 impiegati statali di alto livello, solo 51 erano bengalesi e nessuno di loro ricopriva il rango di segretario; dei 133 segretari di deputati, solo 10 erano bengalesi. Per quanto riguarda l’ambito militare, nel 1955 c’era solo 1 brigadiere bengalese, 1 colonnello, e 2 luogotenenti tra 308 soldati che ricoprivano le suddette cariche; nel 1963 solo il 5% degli ufficiali e il 7% degli altri corpi 7
  • 8. dell’esercito pakistano erano bengalesi. E lo stesso discorso si può fare per la marina (20%), per l’aeronautica(15%) e per i corpi di polizia. A livello economico, durante il regime di Ayub Khan si assistette ad una discreta crescita economica in East Pakistan, ma relativamente a quella del West, le disparità erano ancora evidenti. L’opinione pubblica bangladeshi percepiva un profondo sfruttamento economico da parte del governo centrale, in quanto l’ammontare degli investimenti nella parte più popolosa dello stato era insufficiente se confrontato con il volume di risorse e materie prime provenienti dallo stesso East Pakistan. La parte est dello stato riforniva il mercato interno di cotone e juta, oltre che di riso e altri cereali, in quantità nettamente superiori rispetto a quelle che l’arido e prevalentemente montuoso territorio del West Pakistan poteva offrire. Questo senso di frustrazione nell’ambito sia economico che della rappresentanza era il risultato di un forte sentimento di alienazione dei bangladeshi, che percepivano la loro regione come una sorta di “colonia” del West Pakistan. 1.4. Il Partito Awami e il Movimento dei 6 Punti Il clima di malcontento popolare e la forte sfiducia verso la politica pakistana del popolo bengalese venne subito percepito dal maggior partito in East Pakistan, l’Awami League, fondato nel 1949 da Maulana Bhashani e Huseyn Shaheed Suhrawardy. Il partito, nato come opposizione ideologica e politica alla Muslim League, si fece da subito portavoce delle istanze di democrazia e secolarismo dei bangladeshi. Dopo la morte di Suhrawardy nel 1963, la leadership del partito Awami passò a Sheikh Mujibur Rahman, popolarmente noto come Mujib e denominato Amico del Bengala - Bangabandhu-, il quale era stato rilasciato due anni prima dopo esser stato incarcerato nel 1958 dal dittatore militare Ayub Khan perché sospettato di progettare attentati e disordini contro il regime. Dopo il suo rilascio, fondò un’associazione clandestina, la Free Bangla Revolutionary Council - Swadhin Bangal Biplobi Parishad-, al fine di sovvertire la dittatura e restaurare una libera democrazia in un Bangladesh indipendente, e per questo motivo venne di nuovo arrestato nel 1962. Una volta divenuto nel 1963 capo del Partito Awami, poté subito constatare la gravità del discontento e della frustrazione del suo popolo e si mobilitò per ottenere giustizia sui fatti del 1952 e sui morti del Movimento per la Lingua Bengali. Nel 1966 proclamò il suo manifesto politico e il suo piano in sei punti per il raggiungimento della democrazia e della giustizia sociale in East Pakistan, in un documento chiamato “La nostra carta di sopravvivenza” e presentato in una conferenza di partiti d’opposizione a Lahore, dando vita al Movimento dei 6 Punti. Offriamo una sintetica panoramica di questi sei punti, che rappresentano l’essenza della lotta per la libertà dei bangladeshi: 1. La nascita di una Federazione del Pakistan con un sistema di governo parlamentare, la cui supremazia andrà ad una legislatura composta da membri direttamente eletti sulla base della popolazione e con suffragio universale; 8
  • 9. 2. Il governo federale avrà giurisdizione solo sulla Difesa e gli Affari Esteri. Le altre materie saranno sfera d’influenza delle singole unità federate; 3. Sarà costituito un sistema bancario federale centrale per vigilare sugli spostamenti di denaro da una regione all’altra e garantirne un’equa distribuzione nel territorio, insieme alla fondazione di due diverse valute convertibili tra loro secondo valori definiti dalla banca federale centrale; 4. Il sistema di tassazione e l’investimento delle entrate dovranno essere gestiti da ogni unità federata. Lo stato centrale avrà diritto a provvigioni stabilite per rispondere alle sue esigenze; 5. Ogni unità federata ha il diritto di amministrare gli introiti provenienti dal cambio valuta estero e ha il potere di negoziare il commercio estero e i tassi di cambio valuta. I prodotti destinati al mercato interno saranno trasferiti da una regione all’altra senza l’obbligo di pagamento di alcun dazio; 6. L’East Pakistan dovrà avere una propria militia o distinte forze paramilitari. Questi punti furono l’espressione delle richieste di democrazia e di riconoscimento della distinta identità socio-culturale dei cittadini dell’East Pakistan. Il Partito Awami fece propri questi valori che furono a fondamento della propria attività politica di resistenza. Entro un anno dall’enunciazione dei sei punti, cinque partiti di opposizione con base in East Pakistan formarono una coalizione, la Pakistan Democratic Alliance. Proclamarono un programma nel quale si chiedeva: • La creazione di una forma parlamentare di governo basta sul suffragio universale; • La fondazione di un sistema federale che avrebbe dato più potere alle singole regioni e avrebbe garantito la parità di rappresentanza nei servizi civili e militari; • La rimozione delle disparità economiche e sociali entro dieci anni. La reazione del governo pakistano alle istanze presentate dal Partito Awami fu durissima. Nel 1966, Sheikh Mujibur Rahman, insieme a tre connazionali membri del servizio civile e 24 giovani sottoufficiali bengalesi delle forze armate, venne arrestato e processato per un presunto complotto con l’India, progettato in incontri clandestini avvenuti nella città di Agartala al fine di organizzare la secessione dell’East Pakistan. Questo evento divenne noto come “Cospirazione di Agartala” ed è emblematico per comprendere la convinzione del West Pakistan secondo la quale dietro le richieste di parità di diritti e di riconoscimento dell’identità bangladeshi ci fosse l’ingerenza dell’India con l’obiettivo nascosto di minare l’unità del Pakistan per indebolirlo politicamente. Tuttavia Ayub Khan dovette confrontarsi con varie contestazioni e radicali tumulti popolari sia nel West che nell’East Pakistan che esprimevano principalmente la volontà di un ritorno alla democrazia guidata da una classe dirigente direttamente eletta. 9
  • 10. Per contenere le manifestazioni di pubblico dissenso, Ayub fu costretto ad annunciare il suo ritiro dalla candidatura alle elezioni presidenziali indette per il 1970 e ad accettare di liberare i prigionieri politici. Perciò annullò le accuse mosse contro Sheikh Mujibur Rahman e i suoi presunti collaboratori nella congiura, allo scopo di permettere la partecipazione di Mujib alla All-Parties Round Table Conference fissata per il 1969. Molti leader di partiti con base anche in West Pakistan si erano infatti rifiutati di prender parte alla conferenza per negoziare la nuova bozza costituzionale e le liste elettorali nel caso in cui il leader del Partito Awami non avrebbe potuto parteciparvi. Pur avendo concesso la presenza di Mujib alla conferenza, il dittatore Ayub non prese affatto in considerazione l’idea di dividere il Pakistan nelle sue unità provinciali costituenti e non concesse la decentralizzazione federale, due delle proposte avanzate nei 6 Punti del Partito Awami. Questo provocò il fallimento della All-Parties Round Table Conference. 1.5. Il passaggio di potere a Yahya Khan e la preparazione alle elezioni del ‘70 In un clima di forte dissenso a livello politico e popolare e di estreme manifestazioni di protesta nelle due parti del paese, Ayub iniziò a trattare con i vertici militari per «riportare il paese sulla retta via». Il comandante dell’esercito, il Gen. Agha Mohammed Yahya Khan, consigliò ad Ayub di estendere la legge marziale a tutto il paese allo scopo di poter dare all’esercito pieni poteri di intervento in ogni parte della nazione, per poter ristabilire l’ordine pubblico e sedare ogni tipo di rivolta. Il 25 Marzo 1969 Ayub ordinò il passaggio di potere a Yahya Khan, che divenne capo di stato oltre che comandante delle forze armate, e l’immediata estensione della legge marziale a tutto il paese. La creazione del nuovo regime militare era stata giustificata come la necessaria istituzione atta a presiedere alle negoziazioni per stilare un nuovo ordine costituzionale, alla fine del quale i militari si sarebbero preparati alle dimissioni e al trasferimento di potere alla legislatura democraticamente eletta. Gli obiettivi del regime di transizione di Yahya erano basati su tre principi: • La rimozione dall’agenda per la creazione dell’ordine costituzionale di tutte le materie politiche e legislative che nel passato avevano causato dissenso e discordanze di opinioni; • Il rispetto della natura islamica e unitaria dello stato, pur garantendo il dibattito su istanze laiche e secolari; • Il mantenimento della legge marziale fino al momento in cui l’Assemblea Costituente avrebbe proposto un modello costituzionale da far approvare alla giunta militare da lui presieduta, la quale aveva quindi la massima autorità sul processo costituzionale. Yahya Khan presiedette alle discussioni politiche per delineare un nuovo governo costituzionale e incoraggiò le trattative tra i maggiori partiti nazionali per evitare l’impasse che nel 1958 portò al colpo di stato. Il dibattito politico era incentrato sulla struttura del futuro governo e sui diversi livelli di autorità da garantire ad ogni sua componente. La maggior parte dei leader politici e degli 10
  • 11. ufficiali nel governo ad interim concordavano su un modello parlamentare di stampo anglosassone, basato su un sistema con un presidente a capo dello stato, un primo ministro con poteri effettivi e un gabinetto composto da membri direttamente eletti dal popolo e appartenenti all’Assemblea Nazionale, responsabili del potere legislativo. C’era ampio consenso sulla creazione di un sistema federale decentralizzato, seppure nel rispetto del principio di integrità statale. Molti rappresentanti dei partiti erano favorevoli alla suddivisione del West Pakistan nelle sue province costituenti, ad ognuna delle quali sarebbe stato assegnato un collegio elettorale e qualche leader avanzò la proposta di effettuare una simile suddivisione elettorale anche in East Pakistan. Infine erano tutti concordi nel concedere il suffragio universale basato sulla distribuzione territoriale dei cittadini e nella natura islamica dello stato, anche se sono da segnalare le opposizioni di alcuni membri laici di partiti con base in East Pakistan. L’assemblea politica comunicò le proprie conclusioni al regime e Yahya nominò una commissione per delineare le linee guida sulle quali condurre la campagna elettorale e le direttive legali per la formazione della nuova costituzione. La commissione rese pubblico l’esito del dibattimento e promulgò la prima stesura della bozza costituzionale nel Novembre del 1969. Yahya indisse la chiamata alle urne per le elezioni generali sia nazionali che provinciali, da tenersi a Ottobre del 1970. 1.6. Le elezioni del ‘70, il ciclone Bhola e l’inasprirsi del pubblico dissenso Tra la fine di Ottobre e l’inizio di Novembre del 1970, il terribile ciclone Bhola devastò gran parte dei territori dell’East Pakistan e causò la proroga delle elezioni a Dicembre. L'uragano fu uno delle più distruttive catastrofi naturali mai registrate, provocando circa 500˙000 vittime e spazzando via gran parte delle aree coltivate e dei villaggi costieri; ciò provocò l'aggravamento della già precaria situazione economica di questa regione. La giunta militare di Yahya Khan venne accusata di non aver saputo affrontare tempestivamente l'emergenza, avendo fornito aiuti insufficienti e disorganizzati alla popolazione colpita dalla calamità naturale. Undici politici di partiti con base in East Pakistan rilasciarono una dichiarazione ad una settimana dal disastro, accusando il governo di «grave negligenza, insensibile indifferenza e assoluta noncuranza». Il leader politico Maulana Bhashani annunciò uno sciopero di massa per il 24 Novembre e chiese pubblicamente le dimissioni del presidente Yahya Khan. La percezione di essere stati abbandonati dal governo pakistano in un tale momento di crisi, accentuò i sentimenti di sfiducia e di discredito dei bangladeshi e portò a più radicali contestazioni popolari e movimenti di rivolta anti-regime. Il Partito Awami fece proprio il senso di totale frustrazione del popolo bangladeshi e basò la sua campagna elettorale sull'estrema indifferenza del governo pakistano verso le esigenze dei cittadini dell'East Pakistan. 11
  • 12. In un così teso clima sociale il paese si preparava alle elezioni e i temi della campagna elettorale dei partiti in lizza furono molto diversi tra East e West Pakistan. Ogni tentativo di creare alleanze politiche fu vanificato dai diversi interessi dei partiti, dato che il dibattito era intriso di regionalismi e lotte di potere. In East Pakistan le dichiarazioni del Partito Awami e di altri partiti affini erano incentrate sulla ricerca di strumenti per risolvere le divergenze socio-economiche e politiche tra le due parti del paese e su forti richieste di decentramento amministrativo e,in alcuni casi, di vera e propria secessione della loro regione dal Pakistan. La maggioranza dei politici bangladeshi concordava sui principi che sottostavano al programma dei 6 Punti del Partito Awami. In West Pakistan, il campanilismo che contrapponeva le province costituenti rese vana ogni iniziativa volta alla creazione di coalizioni tra i partiti musulmani, facendo apparire il panorama politico come una miriade di piccole fazioni che, pur condividendo molti valori, erano soggette a contrasti su materie regionali ed identitarie. Il risultato delle elezioni del 7 Dicembre 1970 fu talmente sensazionale da essere imprevedibile per i 24 partiti partecipanti. Le elezioni mutarono radicalmente lo scenario politico del paese e crearono le condizioni per una radicale presa di coscienza dell'identità bangladeshi, la quale era stata legittimata dalla volontà popolare ma, come vedremo, non dalla dirigenza politica pakistana. Numero di seggi vinti (% di voto) Partito TOTALE Affluenza TOTALE Partito Popolare Altri Partiti Seggi al voto Voti validi Awami Pakistano partiti indipendenti vinti (%) (Milioni) East Pakistan 160 (75%) 0 (0%) 1 (22%) 1 (3%) 162 56 16.5 West Pakistan: - Punjab 0 (0%) 62 (42%) 15 (45%) 5 (12%) 82 66 10.9 - Sind 0 (0%) 18 (45%) 6 (44%) 3 (11%) 27 58 3.1 - North West Frontier 0 (0%) 1 (14%) 17 (80%) 7 (6%) 25 47 1.4 - Baluchistan 0 (1%) 0 (2%) 4 (91%) 0 (7%) 4 39 0.4 TOTALE West-Pakistan 0 81 42 15 138 12
  • 13. TOTALE (% voto 160 81 43 16 300 59 32.3 (38%) (20%) (35%) (7%) nazionale) Fonti: Craig Baxter, “Pakistan Votes – 1970”, Asian Survey (197218) , Marzo 1971; G.W. Choudhury, The Last Days of United Pakistan, Bloomington: Indiana University Press, 1974, p.129. Nota:Le percentuali sono maggiori di 100 a causa dell'arrotondamento. Gli stessi leader del Partito Awami si sbalordirono di fronte al risultato elettorale. Grazie alla schiacciante vittoria, l'ipotesi pre-elettorale di dover cercare di formare una coalizione per poter governare venne smentita perché le percentuali di vantaggio sugli altri partiti permettevano all'Awami League di poter formare da soli un esecutivo. In West Pakistan la sorpresa fu ancora maggiore, pur considerando il fatto che il grado di successo del Partito Popolare Pakistano era di gran lunga inferiore a quello ottenuto in East Pakistan dal Partito Awami. Come fece notare un rappresentante del maggior partito west-pakistano, il numero di seggi conquistato dal Partito Popolare Pakistano era «di gran lunga superiore rispetto alle più rosee aspettative di Bhutto[leader del PPP].». Una fondamentale conseguenza del voto popolare fu il radicale mutamento nella composizione del panorama politico nazionale. La vecchia dirigenza politica fu sbaragliata da candidati vincitori che, per la maggior parte, erano alla loro prima esperienza governativa. In particolare, nessuno dei neo- eletti membri dell'Assemblea Nazionale aveva mai preso parte ad alcuna arena politica pan- pakistana, fatta eccezione per pochi membri prestigiosi eletti nella parte ovest del paese. Le elezioni rivelarono un sistema politico erede di una tradizione partitica regionalistica, quindi uno scenario profondamente frammentario. Come nel passato, venne alla luce che l'interesse dei partiti era rivolto ad una sola delle due parti del paese e che eventuali alleanze pan-pakistane erano in contraddizione con i valori e le ideologie propugnate dalle singole parti. Questa provincializzazione della politica rimarcò la problematicità della presenza di identità in antitesi tra loro e sottolineò il carattere artificioso e fittizio della tanto declamata unità pakistana. 1.7. L'ultimo tentativo di negoziazione politica tra il palesarsi delle strategie dei partiti L'esito delle elezioni del 1970 mutò il ruolo che i vari partiti avevano previsto nelle negoziazioni per il trasferimento di potere. Coloro i quali credevano di poter avere un ruolo determinante nelle trattative per la formazione del nuovo governo democratico, si ritrovarono confinati in posizioni secondarie. Il clima politico era poco incline ad un dialogo sereno e costruttivo tra le parti, dato che i vari personaggi erano impegnati a rivalutare le strategie atte a raggiungere i propri obiettivi, facendo sì che venisse stilata una costituzione che avrebbe garantito loro il soddisfacimento dei 13
  • 14. propri disegni politici. In un tale contesto, i due partiti di maggioranza, l'Awami League e il Pakistan's People Party, videro accresciute le proprie aspettative e si prepararono a concretizzare i loro programmi elettorali. Fin da subito, Sheikh Mujibur Rahman annunciò pubblicamente l'intenzione della Lega Awami di esercitare a pieno il potere di primo partito nazionale per vagliare una costituzione forgiata sui principi contenuti nel programma dei 6 Punti, pur garantendo una certa elasticità che venisse incontro alle diverse esigenze dei partiti con base in West Pakistan. Infatti, nella parte ovest del paese, il programma dei 6 Punti era stato accolto con diffidenza e, in alcuni casi, con profondo sdegno, in quanto era parso fazioso e platealmente rivolto al solo East Pakistan, e perciò era considerato un affronto all'unità nazionale. Pertanto Mujib si trovò costretto a dichiarare varie volte che il suo era il partito di maggioranza dell'intero Pakistan e che nel dibattito costituzionale avrebbe cercato il consenso dei partiti della parte ovest del paese. L'interesse del Partito Popolare Pakistano di Zulfikar Ali Bhutto era incentrato sulla spartizione del potere all'interno del nuovo governo. Consapevole della schiacciante quota di maggioranza ottenuta dal Partito Awami, Bhutto decise che non avrebbe permesso la partecipazione dei membri del suo partito all'Assemblea Nazionale a meno che non venisse garantito al Pakistan's People Party il ruolo di secondo partito maggioritario. Egli riteneva che ciò gli spettasse di diritto, in quanto si considerava l'artefice del processo di restaurazione dell'ordine democratico e si proponeva come il legittimo “erede al trono”, dopo la fine della reggenza militare. Perciò le sue azioni furono dettate da un'impellente brama di potere. Addirittura un consulente di Yahya confidò al dittatore militare che se Bhutto non avesse potuto assumere il potere entro un anno sarebbe letteralmente impazzito. Tra la giunta militare c'era un consenso relativamente ampio sul trasferimento del potere ad una legislatura democratica, mentre invece dai più venivano sollevati interrogativi sulle modalità di tale passaggio. In particolare, i dubbi dei militari concernevano le garanzie che il nuovo governo democratico avrebbe dovuto assicurare alla giunta e il grado di autonomia e di autorità che l'esercito avrebbe mantenuto nel nuovo ordine costituzionale. Ciò che rassicurava il regime era il fatto che le leggi in vigore imponevano alla politica di dover presentare ogni esito del dibattito costituzionale al Presidente Yahya, a cui era riservata la definitiva approvazione. L'Amministratore Capo della Legge Marziale Yahya Khan si impegnò affinché i leader del Partito Awami e del Partito Popolare Pakistano si incontrassero per negoziare i termini del trasferimento di potere e il nuovo assetto costituzionale. Perciò mandò un emissario a Dhaka, il quale comunicò a Mujib l'invito del Presidente a Rawalpindi per iniziare ad intavolare le trattative con Bhutto; la stessa richiesta venne rivolta al leader del PPP. Inaspettatamente, Sheikh Mujibur Rahman declinò l'invito a Rawalpindi e fece comunicare a Yahya che il luogo più consono per ogni trattativa era l'Assemblea Nazionale e rimarcò il bisogno di una sua convocazione immediata, proponendo la fine di Gennaio come data di inizio delle discussioni e Dhaka come sede. Al contrario, Bhutto diede la 14
  • 15. sua disponibilità ad un incontro con Mujib, da tenersi però in West Pakistan e non si pronunciò affatto sulla necessità di un'immediata convocazione dell'Assemblea Nazionale. La strategia di opposizione al Partito Awami di Bhutto si concretizzò attraverso una critica pubblica al programma dei 6 punti, quale illegittima richiesta avanzata da un singolo partito che aveva pretesa di rappresentare le esigenze dell'intera nazione. Per questo sottolineò la necessità di una partecipazione attiva del Partito Popolare Pakistano alla costruzione del nuovo esecutivo, rifiutando totalmente di sedersi all'opposizione. In un discorso tenuto a Hyderabad il 24 Dicembre 1970, Bhutto dichiarò che il PPP era « l'unico rappresentante del popolo del West Pakistan, come il Partito Awami in East Pakistan, e quindi non può essere privato della compartecipazione all'esercizio del potere nel governo.». Le autorità militari non avevano ancora definito una data per la convocazione dell'Assemblea Nazionale, anche se Yahya aveva dichiarato che avrebbe riunito l'Assemblea «il prima possibile» e aveva espresso la volontà che i vari partiti potessero giungere ad un accordo prima della convocazione dell'Assemblea, approfittando del lasso di tempo tra le elezioni e la prima sessione di incontri parlamentari. Il 10 Gennaio, Yahya comunicò che sarebbe andato a Dhaka per parlare con Mujib. Gli incontri tra il Presidente e il leader del Partito Awami furono incentrati sull'essenza dei 6 Punti e sulla composizione del nuovo governo civile. Sheikh Mujibur Rahman puntualizzò ulteriormente la necessità di un'immediata convocazione dell'Assemblea Nazionale ed esortò Yahya ad intervenire in tal senso, facendogli notare che il mancato annuncio di una data per la prima sessione dell'Assemblea stava portando il popolo bangladeshi a dubitare dell'affidabilità e della sincerità delle promesse del regime. Il 17 Gennaio Yahya visitò la tenuta della famiglia di Bhutto a Larkana per incontri principalmente privati tra i due, durante i quali il leader del PPP fece notare al Presidente il suo forte disappunto per l'aver nominato Mujib Primo Ministro senza aver prima consultato i rappresentanti degli altri partiti. Yahya obiettò che non era stato lui ad investire Mujib della carica di Primo Ministro, ma il suo elettorato e, ricordando a Bhutto la fragilità del suo partito, intimò al leader di scendere a compromessi con Mujib per poter avere una parte nel governo. Infatti il Partito Awami aveva i numeri per poter formare autonomamente un esecutivo, mentre il PPP di Bhutto doveva assolutamente creare un governo di coalizione, altrimenti sarebbe stato confinato all'opposizione. Bhutto rispose che la ricerca di un consenso sulla composizione del governo andava conclusa prima della convocazione dell'Assemblea Nazionale e che per trovare un accordo con Mujib su tali materie aveva bisogno di tempo. Il ragionamento di Bhutto andava perfettamente a genio con la volontà di temporeggiare espressa dalla giunta militare, la quale aveva bisogno di sondare la situazione per poter valutare al meglio le richieste che l'esercito avrebbe avanzato al nuovo governo. Infine Bhutto propose di verificare la fedeltà allo stato di Mujib, osservando la sua reazione di 15
  • 16. fronte all'annuncio della posposizione dell'Assemblea Nazionale. Se Sheikh Mujibur Rahman era un «vero pakistano», un uomo di cui «ci si poteva fidare veramente», avrebbe compreso i motivi del ritardo nella convocazione e avrebbe cercato di giungere ad un compromesso con Bhutto; in caso contrario, era da considerarsi un traditore e un secessionista che non aveva realmente a cuore l'integrità del Pakistan. La successiva mossa di Bhutto fu di comunicare al Partito Awami la disponibilità del Partito Popolare Pakistano di venire a Dhaka per discutere con Mujib riguardo i 6 punti e il trasferimento di potere a fine Gennaio. Gli incontri si svolsero su due livelli: da un lato le rispettive delegazioni di politici dibatterono riguardo i motivi del sotto-sviluppo dell'East Pakistan e dall'altro Mujib e Bhutto si affrontarono personalmente. In ambedue i livelli,le posizioni, le argomentazioni e gli interessi erano contrastanti e questo aumentò il senso di diffidenza e sospetto che l'uno provava per l'altro partito. Mujib era profondamente infastidito dall'arroganza e dalla prepotenza di Bhutto, dietro la quale non c'era una costruttiva opposizione al programma dei 6 punti, che rimaneva l'unico programma nell'agenda costituzionale, dato che il PPP non aveva proposto una concreta alternativa. Bhutto, invece, capì che la sua immagine del Partito Awami, desideroso di scendere a qualsiasi compromesso con il PPP sulla composizione del governo pur di vedere accettati i 6 Punti, era totalmente infondata. La sua strategia quindi, doveva essere volta a rappresentare Mujib come il leader di un partito regionale e, di contro, il suo partito come l'unico portavoce dell'intera nazione e questo doveva essere vero sia per l'opinione pubblica che per gli atri partiti del West Pakistan. Finalmente, il 13 Febbraio Yahya annunciò la convocazione dell'Assemblea Nazionale per il 3 Marzo 1971. 1.8. La posposizione dell'Assemblea Nazionale come ultima prevaricazione: l'antefatto del conflitto armato All’inizio di Febbraio, il Presidente fece invitare Mujib e altri leader del Partito Awami a Rawalpindi per continuare le trattative. Alcune autorità governative consigliarono a Mujib di accettare l’invito perché una sua visita nel West Pakistan avrebbe aumentato la visibilità nazionale del Partito Awami e avrebbe fugato i dubbi, avanzati da Bhutto, di partigianeria del partito. Tuttavia, Mujib declinò l’invito e Yahya gli fece recapitare un telegramma contenente il suo disappunto per la mancata visita di Mujib e l’avvertimento che se il leader bengalese non fosse andato dal Presidente il prima possibile, avrebbe dovuto assumersi tutta le responsabilità che ne sarebbero conseguite. In alcuni incontri con rappresentanti di partiti del West Pakistan avvenuti a fine Febbraio, Mujib palesò le sue preoccupazioni riguardo le reali intenzioni di Yahya sulla convocazione dell’Assemblea Nazionale, ritenendo che il Presidente non aveva alcuna intenzione di comunicare 16
  • 17. una data certa per l’inizio dei lavori parlamentari e che non voleva accettare il trasferimento di potere al Partito Awami. Supponeva che Yahya, Bhutto e alcuni generali dell’esercito fossero in combutta tra loro per impedire il convenzionale iter democratico e, a sostegno di tale ipotesi, suggerì alcune prove: l’indugio sulla determinazione di una data certa per la convocazione dell’Assemblea, l’insistenza sul raggiungimento di un accordo tra le parti politiche preventivo al dibattito nella sua sede opportuna, il tentativo di Bhutto di creare una coalizione in West Pakistan con l’obiettivo di porre il Partito Awami in una posizione minoritaria e il suggerimento di scendere a compromessi con le diverse istanze portate da Bhutto. Bhutto intanto perseguiva nella sua strategia di allargare il consenso del PPP attraverso una coalizione con gli altri partiti in West Pakistan per opporre al Partito Awami una fazione compatta. Dopo il fallimento di questo obiettivo, Bhutto dichiarò pubblicamente di non voler prender parte alla prima sessione dell’Assemblea Nazionale, fissata per il 3 Marzo a Dhaka, a meno che le sue proposte non fossero state vagliate nel dibattito costituzionale. La sua strategia di ostracismo proseguì con l’asserzione che il Partito Awami era poco incline al dialogo con il PPP e con la giunta militare, dato che aveva sempre rifiutato gli inviti in West Pakistan, mentre sia lui che Yahya erano andati a Dhaka. Concluse affermando che un incontro dell’Assemblea nazionale a Dhaka sarebbe stato un «mattatoio». Il 18 Febbraio Yahya convocò Bhutto a Rawalpindi per un incontro confidenziale, al termine del quale il leader del PPP comunicò alla stampa che la responsabilità della crisi non era né sua né del Presidente, in quanto egli aveva fatto tutto il possibile per raggiungere un accordo con il Partito Awami e per mantenere un clima sereno e disponibile. In un’assemblea del Partito Popolare Pakistano del 20 Febbraio, Bhutto ottenne il consenso unitario del suo partito riguardo al rifiuto di partecipare alla prima sessione dell’Assemblea Nazionale. Per concretizzare questa decisione, fece emendare da Yahya un articolo del decreto presidenziale, il Legal Framework Order, nel quale era previsto il diritto di ogni membro dell’Assemblea di abbandonare il posto assegnatogli prima della convocazione della sessione di apertura. Ciò confermò i timori, avanzati dal Partito Awami, di collusioni tra il PPP di Bhutto e la reggenza militare. 1.9. La prorompente reazione popolare al rinvio dell’Assemblea Nazionale e la pianificazione dell’intervento militare La giunta militare temeva che la convocazione dell’Assemblea Nazionale a Dhaka avrebbe potuto diminuire il prestigio dell’esercito e provocare la perdita del controllo sulla popolazione. Yahya intendeva ribadire la propria autorità perché riteneva che il popolo, in particolare l’etnia bangladeshi, aveva cominciato a metterla in dubbio. 17
  • 18. Perciò il Presidente organizzò un incontro con i vertici militari e amministrativi per il 22 Febbraio per discutere della crisi delle negoziazioni. Sentenziò che il fallimento delle trattative era da additare all’atteggiamento «rigido e intransigente» tenuto dal Partito Awami sul programma dei 6 Punti. Su queste basi, la convocazione dell’Assemblea Nazionale venne considerata inutile e improduttiva, perché non incline ad un sereno confronto tra le parti. Dopo questo primo incontro, al quale avevano preso parte anche amministratori bangladeshi, Yahya ritenne opportuno convocare alcuni ufficiali – i generali Hamid, Peerzada e Yaqub e l’ammiraglio Ahsan – in separata sede. Ivi comunicò ai presenti la sua intenzione di posporre l’Assemblea Nazionale per permettere alle parti politiche di ritornare ad un sereno clima di discussione. L’ammiraglio Ahsan avvertì il Presidente che una tale decisione avrebbe scatenato le ire del popolo dell’East Pakistan e che la reazione popolare in quella regione sarebbe stata incontenibile. Coloro i quali non detenevano una posizione amministrativa nella parte est del paese giudicarono il punto di vista di Ahsan quantomeno allarmista. Yahya perciò rimase sulle sue posizioni e ordinò la disposizione di una più severa censura nella stampa nazionale e l’imposizione di una legge marziale maggiormente rigorosa in East Pakistan. Concluse dicendo di voler annunciare pubblicamente la posposizione il 1 Marzo e ordinò ad Ahsan di comunicare queste disposizioni a Mujib con un giorno d’anticipo. Una delegazione insistette nel far notare al Presidente che la scelta di rafforzare la legge marziale per contenere la reazione del popolo non era una saggia decisione. Oltre a fomentare il pubblico dissenso, ciò avrebbe potuto comportare l’ammutinamento delle componenti bengalesi delle forze armate, rendendo più complesso il previsto intervento militare e facendo precipitare il paese in una situazione di guerra civile. Inoltre, una volta intrapresa l’opzione militare, ritornare alla dialettica politica sarebbe stato impossibile. Il 28 Febbraio, Ahsan comunicò le decisioni del Presidente a Mujib, il quale chiese di far dichiarare a Yahya, nel suo pubblico annuncio del giorno dopo, di proporre una nuova data per la convocazione dell’Assemblea. In caso contrario, Mujib non avrebbe potuto garantire il controllo della reazione popolare. Ahsan, insieme ai generali Yaqub e Farman Ali, cercò la sera stessa di mettersi in contatto con il Presidente, ma con scarsi risultati. Perciò mandò un telegramma a Karachi dove supplicava il Presidente di non rimandare l’Assemblea sine die, perché «altrimenti, avremmo raggiunto il punto di non-ritorno». Quella stessa sera, Ahsan ricevette in risposta un telegramma che lo informava di essere stato sollevato dal suo incarico di governatore dell’East Pakistan e sostituito dal generale Yaqub. Il giorno successivo, dopo il pubblico annuncio di Yahya, la reazione popolare fu estremamente dura. Il popolo non era preparato ad un annuncio del genere e comprese subito che tale decisione era stata presa perché la giunta militare non aveva alcuna intenzione di consegnare il governo del paese ad un partito bangladeshi. La gente si riversò immediatamente per le strade di Dhaka e le unità delle forze armate presenti in East Pakistan non riuscirono – e forse la componente bengalese 18
  • 19. non volle- contenere le rivolte. La situazione sfociò rapidamente nella più totale anarchia, con manifestazioni di protesta che esprimevano l’angoscia e il profondo rancore che i bangladeshi provavano nei confronti del regime. L’autorità centrale dell’East Pakistan perse velocemente il controllo del paese e l’Awami League assunse il potere, legittimamente assegnato loro dalle elezioni. Mujib reagì lo stesso giorno attraverso una conferenza stampa, tenuta presso l’hotel Purbani di Dhaka, nella quale dichiarò di essere pronto a qualsiasi sacrificio necessario all’emancipazione del suo popolo. Ribadì che la posposizione dell’Assemblea Nazionale era l’ennesimo tentativo di prevaricazione del governo sui bangladeshi e che rappresentava perfettamente la cospirazione della giunta militare e del PPP contro la legislatura democratica che il popolo aveva scelto di far condurre dal Partito Awami. Il giorno dopo, in un’assemblea organizzata a Dhaka dagli studenti universitari, Mujib delineò le future azioni del partito. Innanzitutto indisse per il 3 Marzo un hartal, vale a dire un movimento non-violento di non-cooperazione, unito ad uno sciopero di massa, da effettuarsi in tutto l’East Pakistan e a tutti i livelli: doveva colpire tutti le sedi governative, gli esercizi commerciali, i servizi come tutti i trasporti pubblici e le comunicazioni, oltre che tutte le attività industriali. Il 3 Marzo, quindi, giorno in cui era prevista la prima sessione dell’Assemblea Nazionale, venne dichiarato un “giorno di lutto”. Lo sciopero di massa fu un inaspettato successo, oltre ogni previsione. Gli ufficiali militari non avevano previsto una reazione così radicale a est del paese, ma erano comunque preparati ad un intervento militare per ristabilire l’ordine pubblico. Tuttavia l’amministratore capo della legge marziale in East Pakistan, il generale Yaqub presentò le sue dimissioni per l’impossibilità di mantenere saldo il governo del paese e di conseguenza,il coprifuoco fu sospeso e la maggior parte delle truppe fu costretta a tornare nelle caserme in attesa di nuovi ordini. In questa difficile situazione, Yahya cercò di reintavolare le trattative politiche, ma incontrò il rifiuto sia di Bhutto che di Mujib. Dichiarò allora che la sua decisione di rimandare l’Assemblea era stata «completamente fraintesa» e annunciò come nuova data per la sessione inaugurale il 25 Marzo, chiedendo alle parti di risolvere l’impasse politica che aveva portato il paese nel caos totale. Il 7 Marzo Mujib tenne uno storico discorso in uno pubblico raduno al Ramna Race Course di Dhaka. Dichiarò che non avrebbe partecipato all’Assemblea Nazionale del 25 Marzo se la giunta militare non avesse accolto queste richieste: l’abrogazione della legge marziale; lo stazionamento delle truppe all’interno delle caserme; la conduzione di un’inchiesta sugli scontri con la polizia e gli assassinii da essi compiuti e, infine, l’immediato trasferimento di potere ai rappresentanti democraticamente eletti. Continuò affermando che «il confronto politico sarebbe stato presto sostituito da quello militare, se la maggioranza non decidesse di sottomettersi ai dettati della minoranza». Concluse con queste celeberrime parole: «se la cricca al potere cercherà di ostacolare 19
  • 20. queste aspirazioni, il popolo è pronto per una lunga e prolungata lotta per l’emancipazione. Ci impegniamo a guidare questa lotta per far raggiungere infine alla nostra gente i suoi ambiziosi obiettivi di libertà per i quali così tanti martiri hanno versato il loro sangue e compiuto il supremo sacrificio delle loro vite. Il sangue di questi martiri non sarà stato versato invano.» In un ultimo tentativo di risolvere politicamente la situazione, Yahya e alcuni ufficiali militari giunsero a Dhaka il 15 Marzo per trattare con Mujib. Inizialmente i due riuscirono a scendere a patti su tre delle quattro richieste avanzate dal leader del Partito Awami; sulla richiesta di un immediato trasferimento di potere, Yahya comunicò a Mujib che una tale evenienza andava negoziata. Fu su questo punto che si arenarono le trattative. Nei giorni successivi Yahya e Mujib furono raggiunti a Dhaka prima da un equipe di costituzionalisti e poi da Bhutto e altri rappresentanti del PPP. Entrambi i gruppi sostenevano che un immediato trasferimento di potere fosse fuori discussione e che l’abrogazione della legge marziale prima della convocazione dell’Assemblea Nazionale avrebbe comportato un vuoto di potere. Bhutto in particolare espresse la sua preoccupazione al riguardo, sottolineando il fatto che in un tale vuoto di potere, le tendenze secessioniste dell’East Pakistan si sarebbero concretizzate, portando ad una divisione del paese. Inoltre, le istanze federaliste contenute nel programma dei 6 punti e lungamente discusse nei vari incontri di quei giorni a Dhaka, si sarebbero potute realizzare in assenza della legge marziale e dell’autorità di Yahya, nel caso in cui il trasferimento di potere fosse diventato effettivo. L’arenamento delle trattative si fece palese il 22 Marzo, in un incontro faccia a faccia tra Yahya, Mujib e Bhutto, durante il quale era evidente il forte senso di fraintendimento e di sospetto tra i partecipanti. Il giorno successivo, il 23 Marzo – Giorno dell’Indipendenza o Giorno della Resistenza- le trattative proseguirono, mentre la popolazione aveva completamente perso la fiducia in qualsiasi eventuale esito positivo della negoziazione. Fu una giornata ricca di manifestazioni, cortei e parate nelle quali studenti e civili, spesso in formazione militare, chiedevano a gran voce l’indipendenza da ottenere con la resistenza armata, agitando bandiere del Bangladesh e scandendo cori, come “Joi Bangla”(=”Vittoria al Bangladesh”) e intonando canti patriottici, come “Amar Shonar Bangla”(=”Il mio Bengala dorato”) di Rabindranath Tagore, che divenne poi l’inno nazionale. Quando la delegazione del Partito Awami arrivò davanti alla villa del Presidente portando con sé la bandiera del Bangladesh, i militari considerarono questo atto come l’estremo affronto all’unità nazionale. Le trattative raggiunsero il definitivo punto morto quando un membro del Partito Awami propose il nome Confederazione del Pakistan, invece che Federazione o Unione del Pakistan. L’equipe governativa considerava una confederazione come un accordo tra diversi stati sovrani, ognuno dei quali con una propria giurisdizione e legislatura. Per questo una tale proposta era del tutto inaccettabile e rendeva lampante l’idea che il Partito Awami fosse interessato unicamente 20
  • 21. all’indipendenza. Intanto Yahya, in concomitanza con lo svolgimento delle trattative, si incontrò con i generali Tikka Khan- da poco nominato nuovo Amministratore Capo della Legge Marziale in East Pakistan- e Rao Farman Ali Khan per delineare le fasi dell’intervento militare, atto a ristabilire l’ordine pubblico e il controllo sull’East Pakistan. Venne data la priorità a questi obiettivi: • I membri del Partito Awami andavano considerati traditori della nazione e ribelli; • Le unità delle forze armate e i corpi di polizia in East Pakistan dovevano essere disarmati; • I maggiori rappresentanti del Partito Awami, le associazioni studentesche a loro affiliate e i simpatizzanti dovevano essere arrestati. Dopo questo e altri vertici tra il Presidente e alcuni ufficiali militari, fu presa la definitiva decisione di intervenire militarmente e venne pianificata a tale scopo l’Operazione Searchlight, che si prefiggeva l’obiettivo di sedare le rivolte popolari e neutralizzare il Partito Awami e ogni potenziale opposizione politica e sociale al regime. Inizialmente considerata un’operazione-lampo, comportò invece un’inaspettata reazione da parte dei bangladeshi e sfociò quindi nella Guerra di Liberazione, dalla quale risultò l’indipendenza del Bangladesh il 16 Dicembre del 1971, dopo nove logoranti mesi di guerra e dopo l’intervento militare dell’India. 2. La Guerra di Liberazione del Bangladesh (26 Marzo - 16 Dicembre1971) 2.1. L’operazione Searchlight, la dichiarazione di Indipendenza e le prime fasi della guerra L’azione militare venne giustificata dal Presidente come la necessaria risposta all’arroganza e all’intransigenza dimostrata dal Partito Awami durante le trattative. In un discorso tenuto a Karachi, il Presidente dichiarò che l’intera responsabilità del conflitto era riconducibile alle azioni di Mujib e perciò mise al bando il suo partito. Di conseguenza, nella notte tra il 25 e il 26 Marzo, Sheikh Mujibur Rahman venne raggiunto dai militari in casa propria e arrestato con l’accusa di alto tradimento. Le prime fasi dell’Operazione Searchlight si concentrarono sull’arresto di membri del Partito Awami e di attivisti politici, molti dei quali tuttavia erano già andati in esilio volontario in India. La città di Dhaka venne occupata, venne imposto un severo coprifuoco e tutte le comunicazioni vennero interrotte. Per evitare ogni possibile diffusione di notizie, tutti i giornalisti stranieri vennero condotti al confine ed estradati nei loro paesi d’origine e molti giornalisti bangladeshi vennero minacciati, arrestati o addirittura assassinati. Nella prima notte di occupazione la città di Dhaka 21
  • 22. venne messa a ferro e fuoco e si stima che 7000 persone siano state uccise. I primi a morire furono alcuni giovani che stavano alzando barricate nella zona dell’Università. I dormitori universitari, tra i quali il tristemente famoso Jagannath Hall, infatti, furono tra i primi obiettivi dei militari e vennero subito occupati e scrupolosamente perquisiti. Gli studenti vennero colti nel sonno e molti di loro vennero assassinati seduta stante; molte studentesse dovettero subire un trattamento peggiore, perché vennero sistematicamente violentate, anche da più soldati contemporaneamente. Per questo alcune tra loro preferirono il suicidio ad un tale oltraggio alla loro dignità femminile. Oltre alla zona universitaria, venne attaccato anche il quartiere residenziale hindu di Dhaka e si stima che lì circa 700 residenti hindu abbiano perso la vita in quella notte. Un altro obiettivo chiave dell’operazione fu quello di disarmare tutte le unità delle forze armate con base in East Pakistan. Già da Febbraio, alcuni generali avevano espresso i loro dubbi sulla fedeltà dei militari bangladeshi, in particolare gli East Pakistan Rifles. Infatti l’esercito pakistano incontrò la feroce resistenza delle unità bengalesi e riuscì a disarmarne solo una piccola parte. Molti militari riuscirono ad uccidere i propri comandanti pakistani e a fuggire in zone nascoste al confine con l’India, dove organizzarono la resistenza armata e divennero i personaggi chiave nell’addestramento dell’esercito volontario dei Mukti Bahini (= Combattenti per la libertà). Il Partito Awami organizzò segretamente la fuga della maggior parte dei propri membri in India, dove cercarono l’appoggio del governo indiano e successivamente formarono il governo provvisorio del Bangladesh in esilio guidato da Tajuddin Ahmed (17 Aprile 1971-Mujibnagar Government). Le offensive militari pianificate nell'Operazione Searchlight non si limitarono alla città di Dhaka, dato che le maggiori città dell'East Pakistan- Chittagong, Khulna, Comilla, Jessore, Rajshahi, Sylhet e altre- vennero attaccate e occupate simultaneamente con modalità simili. Questa cruciale fase dell'operazione terminò con la resa delle suddette città verso la metà di Maggio. Il 26 Marzo venne diffuso via radio un discorso tenuto da Mujib poco prima dell’arresto, nel quale il leader proclamava l’Indipendenza del Bangladesh con queste parole: «Questo potrebbe essere il mio ultimo messaggio; da oggi il Bangladesh è uno stato indipendente. Esorto il popolo del Bangladesh dovunque siate e con qualsiasi [arma] abbiate, a resistere contro l’esercito di occupazione fino alla fine. La nostra lotta dovrà continuare finchè l’ultimo soldato dell’esercito di occupazione pakistano non venga espulso dalla terra del Bangladesh. La vittoria finale sarà nostra.» Molte radio vennero occupate da ribelli bengalesi e altre vennero fondate con mezzi di fortuna. Tra queste la più famosa e diffusa fu la Swadhin Bangla Betar Kendro, nata il 26 Marzo grazie all’attività di dieci giovani bangladeshi che la inaugurarono con un trasmettitore da 10KW. Fu presso questa stazione radio che la sera del 27 Marzo il maggiore Ziaur Rahman, diffuse il suo messaggio di indipendenza alla nazione a nome di Mujib, che cito: 22
  • 23. «Io, maggiore Ziaur Rahman, sotto la direzione di Sheikh Mujibur Rahman, con la presente dichiaro che è stata fondata la Repubblica Popolare del Bangladesh. Seguendo le sue direttive, ho preso il comando come Capo di Stato provvisorio. Nel nome di S. M. Rahman, esorto tutti i bengalesi a ribellarsi contro l’attacco dell’esercito west-pakistano. Dobbiamo lottare fino alla fine per liberare la nostra Patria. Grazie ad Allah, la vittoria è nostra. Joi Bangla (=vittoria al Bangladesh)». Dopo l'occupazione delle principali città dell'East Pakistan, lo scioglimento del partito Awami e l'arresto di molti suoi membri, l'arresto o l'assassinio sistematico di studenti, civili, professionisti e intellettuali, la giunta militare pakistana considerava conclusa l'operazione. Si riteneva che avendo preso il controllo delle città e delle comunicazioni e avendo privato il popolo bangladeshi dei propri leader politici, la popolazione terrorizzata non sarebbe riuscita ad organizzare alcuna resistenza. Ma al contrario, furono proprio le offensive militari e le atrocità da loro commesse che portarono i bangladeshi a pianificare la resistenza, la quale inizialmente era formata da civili disarmati, disorganizzati e scarsamente coordinati. A metà Aprile, l'ex-generale dell'esercito pakistano M. A. G. Osmani assunse il comando delle truppe bengalesi ribelli, provenienti principalmente dagli East Bengal Regiments e dagli East Pakistan Rifles che insieme formarono l'esercito regolare chiamato Niomita Bahini. Le forze armate bengalesi nel complesso erano quindi composte da militari ammutinati, ex- poliziotti, forze paramilitari e comuni cittadini. La componente civile dell'esercito, formata da studenti, contadini e lavoratori, cominciò a collaborare con l'esercito regolare e ad essere addestrata e armata dai militari bangladeshi. Insieme formarono i Mukti Bahini (=Combattenti per la libertà), anche se in un primo tempo era comune il termine Mukti Fauj (=Brigate per la libertà), soprattutto tra i gruppi paramilitari studenteschi. L'esercito di liberazione operò principalmente attraverso azioni di guerrilla, atte a destabilizzare il nemico e a neutralizzare le sue postazioni e caratterizzate dalla presenza di pochi uomini esperti conoscitori del terreno di guerra e coadiuvati dalla popolazione locale, che forniva loro riparo, rifornimenti e nascondigli. Queste azioni di sabotaggio venivano pianificate in vari campi di addestramento che sorsero durante i primi mesi di guerra in zone isolate lungo il confine con l'India, dove i militari ammutinati preparavano i civili alle azioni di guerra e fornivano loro armi ed equipaggiamento. Anche se ancora in forma non ufficiale, molte fonti riportano che l'esercito indiano contribuì in questa prima fase attraverso la fornitura di armi e l'invio di soldati indiani sotto copertura per assistere i militari bangladeshi nelle azioni di reclutamento e di addestramento. 2.2. Il genocidio selettivo e la questione dei profughi Fin dall'inizio dell'offensiva militare pakistana nella notte del 25 Marzo 1971, l'esercito di occupazione eseguì sistematiche azioni di violenza contro la popolazione bangladeshi. Allo scopo 23
  • 24. di neutralizzare le componenti della società considerate pericolose, come politici dell'Awami League, studenti e intellettuali, l'esercito intervenne senza alcuna pietà e commise atrocità tali che oggi la maggior parte degli storici è concorde nel definire questi eventi come parte di uno dei genocidi più cruenti del 20° secolo. Le violenze si manifestarono in varie forme e furono rivolte a varie componenti della società e avevano come obiettivo primario quello di terrorizzare la popolazione per sedare qualsiasi tentativo di resistenza. I dormitori universitari come quello di Dhaka furono presi subito di mira e moltissimi studenti vennero massacrati e fucilati senza alcun indugio. Questo perché si voleva evitare la formazione di gruppi studenteschi antagonisti e perché ogni studente maschio poteva diventare un potenziale guerrigliero. Gli intellettuali e l'intellighenzia bangladeshi furono bersaglio delle rappresaglie dell'esercito con l'obiettivo di decimare l'élite culturale e politico-economica bengalese. In questo caso alcuni storici usano il neologismo “éliticidio” o pulizia intellettuale per esprimere il sistematico tentativo di eliminare la parte di una società che è essenziale per il suo sviluppo culturale e politico e cioè insegnanti, ingegneri, dottori, intellettuali, giornalisti, avvocati e professionisti acculturati. Altro infame fenomeno furono le atrocità commesse contro le donne. Questo genocidio di genere si concretizzò attraverso stupri di gruppo, sevizie e sequestri di donne a fini sessuali. Infatti furono migliaia i cosiddetti “figli della guerra” nati da donne stuprate da soldati pakistani e molte testimonianze riportano di ragazze che venivano prelevate nelle loro case o nei dormitori universitari e tenute segregate come oggetti sessuali a disposizione delle truppe delle caserme. Molte donne morirono per le ferite riportate durante le violenze sessuali oppure si suicidarono per evitare un tale trattamento. Altre riportarono turbe psichiche e squilibri mentali che segnarono irrimediabilmente le loro vite. Per evitare ogni possibile atto di ghettizzazione o di discriminazione da parte dei concittadini, subito dopo la guerra la propaganda del neo-nato stato del Bangladesh cominciò a definire le donne violentate o ingravidate dal nemico come birangona (=eroine), anche se esistono dubbi sull'effettiva utilità di tale definizione al fine di alleviare le loro sofferenze. Un altro triste capitolo nel quadro generale delle atrocità durante la guerra è quello delle violenze su base religiosa contro gli hindu. La propaganda pakistana ancor prima dell'inizio della guerra continuava a definire i bangladeshi come un popolo influenzato dalla cultura e dalla religiosità indiane. Gli hindu dell'East Pakistan divennero allora i capri espiatori perfetti e, in quanto considerati come i veri responsabili della guerra civile, subirono il trattamento peggiore da parte dell'esercito. Quando i soldati eseguivano un rastrellamento in un villaggio, erano guidati da un forte razzismo anti-bengalese e anti-hindu e intendevano effettuare una definitiva pulizia etnico- religiosa nei loro confronti, credendo così di restaurare il Pakistan unito. Il prof. R.J. Rummel, emerito politologo e studioso di genocidi, riporta uno dei metodi più inumani per scovare gli hindu 24
  • 25. durante un rastrellamento: gli uomini catturati venivano obbligati a denudarsi di fronte ai soldati, i quali verificavano se essi fossero circoncisi; in caso contrario, venivano fucilati all'istante. Egli conferma inoltre che i bangladeshi erano spesso paragonati a scimmie o galline e che gli hindu tra i bengalesi erano come gli ebrei per i nazisti. La maggior parte delle vittime degli assassinii compiuti dall'esercito veniva seppellita in fosse comuni per tentare di celare al mondo l'enorme numero di morti e l'entità del genocidio. Dal periodo immediatamente successivo alla guerra fino ai giorni nostri sono centinaia le fosse comuni ritrovate in varie zone rurali del Bangladesh. Tra i pochi testimoni stranieri ancora presenti nel paese e in grado di raccontare al mondo i crimini di guerra commessi dall'esercito pakistano, va ricordato il diplomatico americano Archer Blood, che il 6 Aprile mandò al Dipartimento di Stato Americano il famoso Blood Telegram, estremo atto di accusa non solo delle violenze perpetrate dall'esercito, ma anche della collusione del governo Nixon con il Pakistan e il silenzio ipocrita di fronte a tanta disumanità per meri obiettivi di alleanze geopolitiche. Ricordiamo infatti che gli USA rimasero fedeli alleati del Pakistan durante la guerra di liberazione per controbilanciare il potere dell'URSS in Asia, alleata strategica proprio dell'India – queste ultime siglarono in estate un trattato (Trattato di pace, amicizia e cooperazione indo-sovietico, 9 Agosto 1971) che si rivelerà di importanza strategica per l'aiuto militare e di fornitura di armi ai guerriglieri e per gli equilibri geopolitici inseriti nel contesto della guerra fredda -. L'infinita varietà di violenze costrinse un enorme numero di persone a cercare rifugio lungo il confine con l'India, formando il più grande movimento di persone per motivi umanitari dalla Partizione del 1947. Il governo indiano stima che tra i 7 e gli 8 milioni di persone abbiano rischiato le proprie vite per varcare il confine e cercare rifugio negli 829 campi profughi messi a disposizione dall'esecutivo di Indira Gandhi. Tra questi si calcola che più del 60-70% fosse di religione hindu, intenzionati a diventare residenti indiani e, stando così la situazione, a non rimpatriare. Ovviamente questo afflusso continuo di gente disperata pesò enormemente sulle finanze indiane, sia in termini di spese per la gestione dei campi, sia nel lungo termine, dato che bisognava prevedere che molte di queste persone cercassero di ottenere la cittadinanza indiana e che quindi diventassero categorie sociali a rischio da tutelare. L'ammontare del fondo per il welfare era insufficiente per coprire tali spese e anche il budget per i programmi di sviluppo era minacciato da una tale priorità umanitaria. Inoltre la concentrazione geografica dei rifugiati era situata in zone socialmente e politicamente problematiche, cioè il West Bengal, l'Assam e gli stati tribali del nord-est, come Tripura, Meghalaya, Mizoram e il Nagaland. A livello sociale l'etnia bangladeshi in arrivo da oltre il confine poteva scontrarsi con le popolazioni locali di etnia e cultura diverse -in particolare con gli adivasi- e 25
  • 26. a livello politico queste zone erano avverse al Partito del Congresso perché da anni erano governate da vari partiti comunisti- in particolare il Partito Comunista-Marxista del West Bengal- e minacciate dagli attacchi terroristi dei ribelli maoisti noti come Naxaliti. In sintesi, il problema per l'India non era solo l'esistenza dei profughi, ma i luoghi dove essi esistevano! 2.3. L'etnia Bihari e i collaborazionisti dell'esercito pakistano Nel clima di anarchia provocato dalla guerra, purtroppo non si assistette solo alla violenza dell'esercito pakistano contro i bangladeshi. Infatti, in East Pakistan esisteva un nutrito gruppo sociale composto dall'etnia Bihari, popolazione musulmana e parlante urdu proveniente dallo stato indiano del Bihar che nel 1947 emigrò numerosa nel confinante East Pakistan. Tuttavia essi si identificavano maggiormente con il West Pakistan, grazie alla comune lingua urdu e perciò non si assimilarono mai del tutto con la locale etnia bengalese. Quando scoppiò la guerra, i Bihari si schierarono con il West Pakistan dato che credevano nell'idea di Pakistan unito e divennero un facile bersaglio per i guerriglieri bangladeshi e a volte anche per i civili che li discriminarono. Instillarono il sospetto nella popolazione locale perché vennero descritti sommariamente come collaborazionisti e cospirazionisti contro i bangladeshi. Pur non negando che numerose volte tali atti di collaborazione tra Bihari e Pakistani avvennero realmente, è un fatto storico che l'intera etnia Bihari, comprese donne, bambini e persone inermi, è stata oggetto di violenze e discriminazioni razziali di ogni genere frutto di vendetta e rancore da parte dei Mukti Bahini e di molti cittadini. I Bihari non furono l'unica parte della società dell'East Pakistan a schierarsi con la parte ovest del paese durante la guerra. Ancora prima della guerra, erano molti i partiti politici o le associazioni islamiste ed estremiste che credevano fortemente nell'ideale di un Pakistan unito dalla comune fede musulmana. Quando queste idee vennero disilluse dalla guerra civile, questi gruppi sociali iniziarono a collaborare con l'esercito fornendo informazioni sui propri concittadini pro-Bangladesh o addirittura prendendo parte attivamente al conflitto. L'esercito regolare pakistano non aveva quasi alcuna conoscenza del territorio e degli equilibri sociali della popolazione occupata quindi la presenza sul campo di persone organiche a quella popolazione, e perciò inserite nel loro tessuto sociale, era di fondamentale importanza nella strategia militare west-pakistana. Tra questi gruppi spiccarono per efficienza e crudeltà i Razakar, (=[lett.] volontari), forza paramilitare islamista composta da bengalesi pro-Pakistan e da migranti parlanti urdu che aiutarono l'esercito pakistano nell'individuare i guerriglieri e nel garantire un continuo e dettagliato flusso di informazioni sui loro spostamenti e sulle attività di supporto fornite dalla popolazione locale. Dopo l'iniziale contributo di “spionaggio”, dall'ordine del generale pakistano Tikka Khan del giugno del '71, i Razakar divennero formalmente parte dell'esercito regolare e intervennero militarmente nelle offensive e nei rastrellamenti nelle zone più remote del paese. Per dare un'idea dell'eredità culturale che i loro comportamenti hanno trasmesso ai bangladeshi, basti pensare che oggi in bengali la 26
  • 27. parola razakar, derivata dall'arabo <volontario>, significa <traditore>. Oltre ai Razakar, ci furono altri gruppi paramilitari di collaborazionisti, composti da militanti di partiti di estrema destra, islamisti e jihadisti tra i quali i più tristemente famosi sono gli Al-Badr - ala militante del partito Jamat-e-Islami – e gli Al-Shams – studenti e insegnanti nelle madrasa e fondamentalisti membri di partiti islamisti minori come la Muslim League o il Nejam-e-Islami -. 2.4. Seconda fase del conflitto (Luglio-Novembre) Dopo l'iniziale fase di disorganizzazione, l'esercito di liberazione cominciò a diventare una realtà sempre più organica, compatta ed efficace. Grazie anche al supporto politico fornito dal pur fragile governo provvisorio in esilio, nato a Mujibnagar (Distretto di Meherpur, Kolkata ) ad Aprile, gli ufficiali ribelli dell'esercito cominciarono a creare una struttura militare coordinata e organizzata gerarchicamente. Questi sforzi culminarono a Luglio in una conferenza di vertici militari, la Bangladesh Sector Commander Conference (11-17 Luglio), nella quale si decise di dividere il paese in 11 settori, ognuno gestito da un comandante di settore scelto tra i migliori ufficiali disertori dell'esercito pakistano. Al vertice delle forze di liberazione venne scelto come Comandante Capo il generale M.A.G. Osmani. Le strategie militari venivano decise dal comandante di settore che doveva rispondere al Comandante Capo. Per una maggiore efficienza, ogni settore venne diviso in vari sub-settori, con a capo un sub-comandante di settore. I comandanti coordinavano anche le attività di reclutamento e di addestramento truppe nei campi allestiti lungo il confine e dopo l'estate cominciarono a gestire anche le neo-nate aeronautica (BAF-Bangladesh Air Force) e marina (BN- Bangladesh Navy) militari. Le operazioni militari, sia di guerrilla che di guerra convenzionale, divennero così più pianificate ed efficaci. I primi importanti risultati si videro con il successo dell'Operazione Jackpot del 16 Agosto, nella quale un commando della marina, coadiuvato dai Mukti Bahini, riuscì a sabotare e a minare una gran parte della flotta pakistana in varie città costiere, tra le quali Chittagong e Naryaganj. 2.5. L'intervento militare indiano (I Guerra Indo-Pakistana) e la resa finale del Pakistan Il governo indiano guidato da Indira Gandhi, fin dalle sommosse e dagli scioperi popolari del 1970, aveva assunto un atteggiamento molto prudente e distaccato verso gli avvenimenti nel futuro Bangladesh, considerandoli come questioni di politica interna del Pakistan e confidando in un accordo politico tra le parti. Il lancio dell'Operazione Searchlight e l'occupazione west-pakistana della parte est del paese furono eventi del tutto inaspettati in India. Ovviamente tale attacco fu aspramente criticato dai politici e dall'opinione pubblica indiana, ma tali critiche rimanevano sulla 27
  • 28. carta stampata o nei discorsi in parlamento, perché la strategia politica del governo rimase prudente e circospetta. L'unico passo concreto messo in atto fu quello di offrire asilo politico ai membri del Partito Awami scappati in esilio volontario dopo la messa al bando del loro partito e le rappresaglie dell'esercito. Successivamente una relativa apertura del governo indiano verso la causa bangladeshi fu il permesso per la costituzione del governo provvisorio in esilio della autoproclamata Repubblica popolare del Bangladesh. Tuttavia l'India non riconobbe ufficialmente la sovranità del Bangladesh fino a Dicembre. Altro controverso intervento indiano nei confronti dell'East Pakistan fu l'invio di soldati indiani, facenti parte della Border Security Force, presso i campi di addestramento che vennero istallati dalle forze di liberazione bangladeshi lungo il confine con l'India. Ufficialmente i militari indiani si trovavano lungo il confine per svolgere attività di polizia di routine e perché avevano il compito di controllare e mettere in sicurezza l'afflusso di rifugiati. In effetti secondo alcune fonti ufficiali intervistate dopo la guerra e anche secondo alcuni storici, il compito principale delle forze armate indiane non era di aiutare i guerriglieri bangladeshi, ma di controllare i confini ed evitare un'eventuale collaborazione tra le frange più estremiste dei muktijoddha (=combattenti per la libertà) e i terroristi Naxaliti e west-bengalesi. Ricordiamo infatti che le zone di confine dove era attiva la resistenza anti-pakistana e dove sorsero i campi profughi, erano territori scarsamente controllati dal partito del Congresso al governo federale, ma in mano a svariati gruppi terroristi e indipendentisti e abitati da popolazioni tribali. La preoccupazione di Indira Gandhi era proprio la potenziale alleanza tra bangladeshi in esilio in India e estremisti anti-Congresso al fine di destabilizzare il potere dello stato indiano in quelle zone, già minato dallo scarso peso elettorale del suo partito. Qualsiasi fosse stata la motivazione indiana dietro l'invio dei propri soldati, è un fatto assodato che essi aiutarono e finanziarono sempre più massivamente le forze di liberazione bengalese, anche se a livello politico e diplomatico l'India si dichiarava ancora neutrale. Anche un reparto dei servizi segreti indiani, la RAW, ebbe un ruolo cruciale nel fornire informazioni strategiche e logistica alle forze armate bangladeshi. Certamente la sempre più gravosa questione dei profughi east-pakistani influì nella decisione indiana di giocare un ruolo sempre più concreto nel processo di liberazione. Il governo indiano tentò di trovare appoggio politico ed economico dai paesi confinanti e, soprattutto, dagli alleati e parallelamente iniziò una intensiva campagna diplomatica per portare all'attenzione degli organi internazionali le violazioni dei diritti umani in atto e la delicata situazione in cui si trovava l'India. L'obiettivo delle missioni diplomatiche condotte in molti paesi in Europa, Asia e in Nord America fu quello di indurre il governo pakistano ad interrompere le ostilità e di cercare di negoziare una soluzione politica con il Partito Awami, per il bene dell'intera Asia del Sud. In un discorso al parlamento indiano Indira Gandhi fece chiaramente intendere che se la 28
  • 29. comunità internazionale non avesse preso alcuna posizione,il governo indiano sarebbe stato costretto ad intervenire direttamente per garantire la propria sicurezza e preservare tutti gli sforzi fatti nel cammino dello sviluppo economico e sociale. Questo sforzo nell' “internazionalizzare” la guerra, anche se nell'immediato si rivelò infruttuoso, fu fondamentale nel giustificare il successivo intervento militare indiano e nel sensibilizzare l'opinione pubblica mondiale sulle violenze in atto. A tal proposito accenniamo al Concert for Bangladesh, organizzato dal chitarrista e compositore dei Beatles George Harrison su appello del maestro di sitar Ravi Shankar, tenutosi al Madison Square Garden di New Jork il 1° e il 2 Agosto e i cui proventi andarono a favore dei profughi bangladeshi. Il pretesto per l'ufficiale entrata in guerra dell'India a fianco dell'East Pakistan fu un attacco west- pakistano rivolto ad alcune basi aeree indiane nella sera del 3 Dicembre, noto con il nome in codice di Operazione Chengiz Khan. La sera stessa Indira Gandhi annunciò pubblicamente in un messaggio radio l'inizio delle ostilità tra India e Pakistan in risposta all'attacco subito, dando il via a quella che viene definita la guerra Indo-pakistana del 1971. Fu uno dei conflitti più brevi della storia, se non inserito nel contesto più ampio della guerra di liberazione bangladeshi e infatti durò solo 13 giorni. I vertici militari indiani ordinarono un immediato dispiegamento di forze armate e attacchi simultanei in mare, aria e terra. La superiorità numerica e tecnologica messa in campo dall'India sbaragliò l'esercito pakistano, già stremato da mesi di conflitto, che fu costretto a mandare rinforzi svariate volte. Sul fronte orientale venne formato un esercito regolare formato da guerriglieri bangladeshi e soldati indiani, i Mitro Bahini(=Forze alleate). Le forze armate pakistane, disposte in piccoli gruppi dispiegati nel territorio per difendersi dagli attacchi di guerrilla dei muktijoddha, furono sopraffatti dalle offensive di guerra convenzionale messe in atto dall'esercito indiano. Quando le forze di terra indiane riuscirono ad avanzare fino alle porte di Dhaka, i militari pakistani capitolarono e dovettero stipulare un accordo di resa noto come lo Instrument of Surrender, firmato al Ramna Race Course di Dhaka dai luogotenenti generali indiano e pakistano J.S. Aurora e A.A.K. Niazi il 16 Dicembre 1971. La sottoscrizione dell'accordo poneva fine alla guerra indo-pakistana e dava vita alla nuova nazione del Bangla Desh (unito successivamente in una sola parola). In seguito alla resa, più di 90˙000 soldati pakistani, tra cui lo stesso generale Niazi, furono fatti prigionieri e per questo la guerra di liberazione bengalese portò al più alto numero di prigionieri di guerra dalla Seconda Guerra Mondiale. Dopo la fine della guerra la comunità internazionale cominciò a riconoscere ufficialmente lo stato del Bangladesh. Il primo stato a riconoscere il Bangladesh fu ovviamente l'India il 6 Dicembre, ancor prima della resa del Pakistan. Tuttavia non tutti i paesi del mondo furono così tempestivi. Per comprendere la tempistica del riconoscimento internazionale, bisogna inquadrarla nel periodo della guerra fredda. Infatti dopo l'India furono i paesi del Blocco di Varsavia a legittimare il neonato stato 29
  • 30. sovrano, in primis la Germania dell'Est e l'URSS con i suoi stati-satellite. Poi fu la volta dei paesi dell'Unione Europea, anche se la Gran Bretagna ebbe dei tentennamenti, e successivamente di altri importanti stati, quali il Giappone, l'Argentina, il Canada, l'Australia, varie nazioni africane e arabe e la maggior parte dei paesi dell'Asia meridionale e sud-orientale. Ovviamente, in quanto alleati del Pakistan, gli ultimi a riconoscere la Repubblica Popolare del Bangladesh furono gli Stati Uniti e la Cina che temporeggiarono fino al 1972 (USA) e addirittura fino al 1975 (Cina). Il giorno della resa del Pakistan la folla davanti al Ramna Race Course scandì numerosi slogan anti- pakistani e migliaia di cittadini di Dhaka si riversarono in strada per festeggiare l'avvenuta fine delle ostilità e la nascita della loro nuova nazione, una repubblica democratica parlamentare con Sheikh Mujibur Rahman come primo ministro e una propria costituzione entrata in vigore il 4 Novembre del 1972. 30
  • 31. .II. La Storia riletta dalla letteratura 1. Panoramica sul libro “I giorni dell'amore e della guerra” di Tahmima Anam Dopo il necessario inquadramento storico, passiamo ad analizzare la guerra di liberazione del Bangladesh da una prospettiva meno dettagliata e attendibile, ma sicuramente più coinvolgente e umana, offertaci dal meraviglioso romando d'esordio della scrittrice bangladeshi T. Anam. Innanzitutto va messo in chiaro che il titolo del libro in italiano non rende giustizia alla poliedricità e ricchezza del romanzo, dato che risulta alquanto incline al sentimentalismo e al melodramma, mentre invece l'originale “A golden age” esprime meglio la profondità delle tematiche trattate e comunica un certo carattere di contraddittorietà, presente in tutto il libro, che fa sì che anche in un'epoca di guerra e dolore si possa essere amorevoli, vitali e speranzosi nel futuro. Il romanzo ci offre un punto di vista originale e incisivo per rileggere la guerra di liberazione: il protagonista infatti non è un soldato, un politico o un guerrigliero, ma è una donna, Rehana, vedova e madre di due figli, originaria del West Pakistan ma residente nel futuro Bangladesh. Quando la guerra travolge il paese in cui vive, si ritrova coinvolta sempre più attivamente nel processo di liberazione e, distaccandosi dalle sue origini, si riscopre appartenente al paese dei suoi figli. Inizia tutto nel 1959, quando Rehana, rimasta vedova, si vede togliere i suoi figli dal giudice che li affida agli zii paterni a Lahore, in West Pakistan. La determinazione e la tenacia della donna faranno sì che lei riuscirà a riprenderli con sé e a vincere la sua personale guerra. Ma poi sarà la vera guerra del '71 a portarle via nuovamente i suoi figli e lei comprende che non può fare altro che lasciarli andare e fare propria la loro guerra, imparando ad amare il suo paese per amore dei suoi figli. Così, mentre viene a conoscenza degli scempi e delle violenze perpetrate dall'esercito di occupazione pakistano, Rehana affronta la guerra in un modo non meno eroico di coloro che vi partecipano: la sua è una guerra nella quotidianità, fatta di piccole cose e di problemi semplici e concreti come trovare il cibo per sfamare i suoi figli e di ansie e paure per la loro sorte quando l'avranno abbandonata. Ma, parallelamente alla lotta per la libertà del suo paese, Rehana inizia ad acquisire la consapevolezza della sua libertà e si distacca dal tradizionale ruolo di vedova e madre remissiva e succube degli altri e sente la necessità di avere un ruolo attivo nel corso degli eventi. Dal cucire coperte per i guerriglieri, al prendersi cura di un soldato bangladeshi ferito, dal nascondere armi nel suo giardino al visitare un campo profughi, Rehana dà il suo contributo 31
  • 32. concreto alla causa che era inizialmente dei suoi figli, ma che poi farà propria. In quel clima di violenza, riesce anche a ritagliarsi i suoi spazi fatti di amore e dolcezza, attraverso l'apprensione per la sorte dei figli e grazie all'infatuazione per il maggiore ferito a cui dà rifugio in casa sua e che diventa un fedele confidente ed una valvola di sfogo per l'interiorità mai ascoltata di Rehana. Inoltre la sua personale liberazione, parallela a quella del suo paese, si esprime anche attraverso il riconoscimento del fatto che non aveva mai amato realmente suo marito Iqbal e che, dato il suo carattere estremamente apprensivo e prudente, alla sua morte Rehana provò un misto di dolore e gioia. Il fatto che in una società come quella bengalese una vedova si comporti così attivamente nella società e addirittura si innamori di un altro uomo, riuscendo anche a strappargli un romantico bacio, è indice dell'elevato grado di anticonformismo e indipendenza della protagonista, che è incurante dei tabù culturali riguardanti la sua condizione di vedovanza. Altra tematica presente nella vita di Rehana è il rapporto con il suo paese d'origine che si palesa nel suo amore per la poesia urdu che lentamente si affianca alle canzoni popolari e o alle poesie di Tagore, autore preferito della figlia Maya. L'ambivalenza della sua posizione di erudita conoscitrice dell'urdu diventa quasi motivo di vergogna per Rehana, che ironizza sul fatto di continuare ad amare la poesia in quella che è diventata la lingua del nemico. Questi numerosi riferimenti all'urdu e alla bengali rappresentano l'espressione trainante del sentimento e dell'identità nazionalista bengalese, cioè la questione linguistica iniziata nel '52 con il movimento per la lingua bengali. Altro appunto cruciale da fare è il commento che fa Rehana riguardo la composizione geografica del Pakistan che le sembra assurda e irragionevole. Infatti riflette tra sé e sé con queste parole: |Che senso ha un paese diviso in due metà situate ai capi opposti dell'India, come un paio di corna?| Oltre ad essere una potente ed appassionante saga familiare, il libro riesce magistralmente ad esprimere gli orrori della guerra con una narrazione vivida, toccante ma mai sentimentalista. Attraverso i vari personaggi dalla personalità complessa e sfaccettata, l'autrice ci offre uno spaccato variegato del Bangladesh durante da sua lotta di liberazione. Grazie alla sua inquilina ed amica S. Sengupta assistiamo al dramma del genocidio compiuto a danno degli hindu bangladeshi. La famiglia Sengupta fu costretta a lasciare Shona - la casa che Rehana aveva fatto costruire con mille sacrifici vicino casa sua per guadagnare abbastanza per riavere l'affidamento dei figli - per fuggire alla pulizia etnico-religiosa compiuta dall'esercito. Dopo qualche mese, Rehana ritrova la sua amica Supriya in un campo profughi in India, sconvolta e sotto shock. Incapace di raccontare a voce l'orrore subito, riesce a scrivere su un foglio parole sconnesse riguardo la sorte del figlioletto, parole che fanno intuire a Rehana il tragico destino a cui è andata incontro la sua famiglia. 32
  • 33. Un'altra figura emblematica è Silvi, la figlia della vicina di casa di Rehana, la signora Chowdhury, la quale, per acconsentire al desiderio della madre, si sposa con Sabeer Mustafa, un soldato dell'esercito pakistano, poi disertore, che per questo viene catturato e torturato in carcere. Dopo il suo arresto, la dolce Silvi subisce un cambiamento sconvolgente e diventa una fervente musulmana bigotta e comincia ad osservare la purdah (=auto-segregazione delle donne in zone della casa vietate agli uomini e copertura del volto con un velo) e a studiare il Corano. Questa chiusura nella religione certamente rappresenta una ricerca di un rifugio e di consolazione a livello personale, ma allo stesso tempo appare emblematica del potenziale indottrinamento religioso che può essere indotto nelle persone disinteressate alla politica e alle dinamiche sociali in tali momenti difficili e, profeticamente, rappresenta la deriva islamista che dovette subire il suo paese dopo la liberazione. Per amore di suo figlio Sohail, da sempre innamorato di Silvi, Rehana riesce a far scarcerare Sabeer grazie all'intercessione di suo cognato – lo stesso che aveva avuto in affido i suoi figli – e lo trova in condizioni disumane, tali che dopo qualche tempo viene a mancare, incarnando il triste destino subito da migliaia di bengalesi vittime di atroci torture commesse dai pakistani. I due personaggi paradigmatici dell'ideologia indipendentista e del sentimento nazionale bangladeshi sono i due figli di Rehana, Sohail e Maya. Il primo è un diciannovenne molto idealista e attivo nelle associazioni studentesche universitarie di Dhaka, dove tiene lunghi discorsi di politica. Preso dal fervore nazionalista, imbraccia le armi con i muktijoddha e abbandona la madre e la sorella per rifugiarsi in un campo di addestramento, da dove venivano pianificate le offensive di guerrilla. La sua vita di clandestinità si alterna a momenti in cui riesce a tornare a casa di soppiatto per aggiornare la famiglia sul corso degli eventi e in un secondo momento per nascondere armi e rifornimenti sotto il roseto di Shona. Insieme a lui,partono per la guerra alcuni suoi giovani amici, uno dei quali, Aref, perderà la vita in un agguato. L'altra figlia di Rehana, la diciassettenne Maya è una ragazza schiva e dal carattere introverso che, dopo la perdita della sua cara amica Sharmeen, trovata dal fratello in ospedale morta e ingravidata dopo uno stupro, decide di prendere parte al processo di liberazione e lascia sola la madre per andare a Calcutta, per lavorare come giornalista di un giornale partigiano e per fornire assistenza in un campo profughi, dove successivamente porterà Rehana. Entrambi i ragazzi rappresentano, a mio avviso, la contraddittorietà che esiste tra ideologia e pragmatica. Nello specifico la loro visione utopistica di concetti quali rivoluzione e liberazione – che riempivano i loro discorsi e le loro letture marxiste – entra in netto contrasto con la brutalità della guerra e delle esperienze crude e violente da loro vissute che forgeranno il loro carattere ma allo stesso tempo inaspriranno la loro concezione della vita. Il cognato di Rehana, Faiz Haque e sua moglie Parveen rappresentano invece l'élite west-pakistana convinta sostenitrice del necessario e machiavellico mantenimento dell'unità del paese, anche al 33