1. Ragione e sentimento:
usare i dati vuol dire
sacrificare l'empatia?
Come incrociare la necessità di essere
efficaci ed efficienti con quella di avere a
cuore i donatori. Impara dal profit!
Donata Columbro – Gianluca Diegoli
2. Oggi vedremo insieme
• Come usare i dati per
entrare in empatia con i
singoli donatori
• Come usare i dati per
portare cambiamento
23. Se vuoi conoscermi meglio:
Gianluca Diegoli
Marketing Advisor &
Adjunct Professor @ IULM
gianluca@diegoli.com
linktr.ee/gluca
Editor's Notes
Nell’epoca della scarsità di attenzione,
i dati sono un'ulteriore intrusione nella vita delle persone o possono diventare un segno di rispetto, di creazione di relazioni, di empatia?
E fondamentalmente, un modo imprescindibile per fare fundraising nel prossimo futuro?
Noi crediamo fermamente in queste seconde ipotesi.
Intanto, una premessa: di quali dati stiamo parlando?
Possiamo parlare di dati rispetto alla Non profit o rispetto a un universo più generale.
Partiamo da quelli che possono essere utilizzati per le sue attività dalla NP.
Nel marketing si parla da 20 e più anni di mettere al centro il cliente. Ma sono state parole vuote fino a ieri.
Si è continuato a mandare spam a tutti, e a filtrare le chiamate in ingresso sperando che le persone desistessero dal romperci le scatole, per poi sfinire indiscriminatamente tutti con telefonate a freddo.
Per non parlare dei conversatori che non ci riconoscono (o inganniamo per toglierceli di mezzo, dicendo che siamo già donatori ricorsivi. ma non voglio creare flame fin da subito :-)
Non funziona più per il marketing, non funziona più per il no profit.
Piccolo riassunto: ci sono i dati di prima parte, e i dati di terza parte. Cosa significano?
Fondamentalmente, i primi sono le cose che sapete direttamente, e che i vostri iscritti e donatori vi hanno detto, attraverso le parole o i comportamenti.
Gli altri sono inferenze. Sono wurstel di dati, non sappiamo bene cosa ci sia dentro, e se quello che ci dicono ci sia potrebbe essere vero o no.
È inutile che vi dica che per mille ragioni, non ultime la diffidenza a volte giusta delle persone, gli ultimi dati saranno sempre meno usabili.
Sarà complicato profilare gianluca, solo perché ha visitato quel sito di una ONG.
Dobbiamo crearci i nostri dati. Come un tesoro. Come uno scambio volontario tra noi e i donatori. In cui c’è una promessa da fare e da mantenere: ti dirò chi sono e cosa faccio se mi fido di te, e se tu usi questi dati per trattarmi meglio. Non mandarmi più sollecitazioni, o almeno non indifferenziate. Al limite di meno, ma più rilevanti per me.
Non c’è personalizzazione senza dati. Ma cosa significa personalizzazione oggi? Come la realizziamo?
Personalizzazione è relazione: parlare a ogni singola persona basandoci su qual è stata la storia tra noi e lei.
Personalizzazione sul dato è il contrario di stalking (o dovrebbe esserlo).
Assediare le persone non è fare fundraising (e nemmeno marketing, inteso in senso moderno).
Senza dato, ogni persona è uguale. Non è essere democratici: è essere insensibili alle esigenze delle persone con cui entriamo in contatto. È non riconoscere i superfan, è non riconoscere che non tutti vogliono ricevere duemila email al mese. (magari in cui le facciamo sentire in colpa dopo che magari per anni hanno donato tanto, ma non nell’ultimo mese).
Le persone ci chiedono meno messaggi a pioggia, ma più rilevanti. Senza strutturazione e condivisione del dato non lo possiamo fare.
A oggi nella maggior parte del caso il dato è raccolto a livello aggregato: quanti hanno aperto la mia mail? Quanti hanno convertito da quella landing page? Quanti hanno donato dopo un mailing cartaceo? Quanti nel face to face? Questo va anche bene, ma non è (non sarà) più sufficiente.
[inserire esempi di personalizzazione: Spotify, Netflix, Amazon
Come ci lascia i dati? Con il portafoglio, ok, ma anche con i suoi comportamenti, online e offline. Con le sue opinioni. Con i suoi contributi, digitali e no, alla nostra organizzazione.
Tenetevi forte: oggi fare in modo che ci doni i suoi dati è importante quanto che ci dia i suoi soldi.
Il punto finale è raccogliere tutte le informazioni sul nostro… utente, o innamorato, più che donatore.
Essere donatori non è una caratteristica, è una conseguenza.
Posto che usiamo quei dati, naturalmente, e non mandiamo una mail per ringraziare delle donazioni annuali, salvo aprirla e scoprire che dentro c’è scritto “zero” (È una storia vera: vuoi farmi sentire in colpa o stai solo usando male i dati?).
Conoscere meglio i dati porta a portare alla luce delle persone, delle situazioni, e a farle conoscere meglio.
Le persone vogliono che le non profit siano premurose nei confronti del loro tempo, della loro attenzione e della loro intelligenza.
Questa era la promessa.
Conoscere meglio i dati porta a portare alla luce delle persone, delle situazioni, e a farle conoscere meglio.
Non significa essere meno umani, significa essere più umani. Perché l’empatia è necessaria per capire meglio i dati, e i dati sono necessari per empatizzare con i nostri donatori a livello individuale. Ogni dato, centralizzato a livello di organizzazione, racconta una storia (un donor journey, secondo la fredda denominazione ufficiale), e ognuno all’interno dell’organizzazione deve essere in grado di ascoltarla, e di agire in modo coerente.
Ecco: i dati, le relazioni e l'empatia non sono in conflitto
Qualsiasi uso dei dati per questi scopi è già un atto d'amore, sicuramente molto di più di fingere attraverso finte personalizzazioni come “caro gianluca” e in realtà inviate a mezzo mondo.