Convegno “ Stress, molestie lavorative e organizzative del lavoro: aspetti preventivi clinici e normativi-giuridici. Le soluzioni possibili.”

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Convegno “ Stress, molestie lavorative e organizzative del lavoro: aspetti preventivi clinici e normativi-giuridici. Le soluzioni possibili.” Milano, 7 Giugno 2016 Necessità dell’inserimento nel codice penale del reato di vessazioni sul lavoro Il problema è quello dell’opportunità che tutte le condotte illecite che - forse con eccessiva semplificazione- sono comunemente conosciute come mobbing, debbano o meno essere oggetto dell’attenzione del legislatore penale. Parto da una mia profonda convinzione: ritengo necessario un intervento legislativo che dia disciplina unitaria e rigorosa completa a tale problema. Infatti sino ad oggi l’impressione degli addetti ai lavori è che il mobbing sia un concetto elaborato dalla giurisprudenza ma,colpevolmente, poco considerato dal legislatore.

CONVEGNO	MILANO	7	GIUGNO	2016	
“	Stress,	molestie	lavorative	e	organizzative	del	lavoro:	aspetti	preventivi	clinici	e	
normativi-giuridici.	Le	soluzioni	possibili.	
§§§	
“Necessità	dell’inserimento	nel	codice	penale	del	reato	di	vessazioni	sul	lavoro”	 	
Il	problema	è	quello	dell’opportunità	che	tutte	le	condotte	illecite	che	-	forse	con	
eccessiva	semplificazione-	sono	comunemente	conosciute	come	mobbing,	debbano	
o	meno	essere	oggetto	dell’attenzione	del	legislatore	penale.	
Parto	da	una	mia	profonda	convinzione:	ritengo		necessario	un	intervento	legislativo	
che	dia	disciplina	unitaria	e	rigorosa	completa	a	tale	problema.	
Infatti	 sino	 ad	 oggi	 l’impressione	 degli	 addetti	 ai	 lavori	 	 è	 che	 il	 mobbing	 sia	 un	
concetto	 elaborato	 dalla	 giurisprudenza	 ma,colpevolmente,	 poco	 considerato	 dal	
legislatore.	
La	Suprema	Corte	di	Cassazione	ha	ormai	elaborato	da	tempo	il	concetto	mobbing:	
figura	complessa	che	designa	un	eterogeneo	fenomeno	consistente	in	una	serie	di	
atti	e	comportamenti	vessatori	protratti	nel	tempo,	posti	in	essere	nei	confronti	di	un	
lavoratore	 da	 parte	 dei	 componenti	 del	 gruppo	 in	 cui	 è	 inserito	 o	 dal	 suo	 capo,	
caratterizzati	 di	 un	 intento	 di	 persecuzione	 ed	 emarginazione	 finalizzato	
all’obbiettivo	primario	di	escludere	la	vittima	dal	gruppo.	
Questa	 è	 la	 definizione	 che	 si	 ricava	 	 da	 una	 recentissima	 sentenza	 della	 sezione	
lavoro	 della	 Corte	 di	 Cassazione	 (	 sent.	 n.	 20230	 del	 25.09.2014)	 che	
sostanzialmente	conferma	i	precedenti	sul	punto	del	giudice	di	legittimità.	
Le	caratteristiche	del	mobbing	sono	state	poi	ribadite	anche	nella	sentenza	n.	10037	
del	15.05.2015	in	cui	la	Suprema	Corte	di	Cassazione	ha	ribadito	-	confermando	la	
precedente	 giurisprudenza-	 che	 l’onere	 della	 prova	 grava	 integralmente	 sul	
lavoratore	che	denunci	di	essere	stato	vittima	di	condotte	vessatorie	da	parte	del	
datore	di	lavoro.	
Onere	probatorio	duplice	in	quanto	il	lavoratore	parte	offesa	dovrà	dare	prova	piena	
e	rigorosa	sia	del	fatto	che	i	comportamenti	subiti	abbiano	natura	illecita	sia	della	
quantificazione		del	danno	subito.
Sul	 primo	 aspetto	 ricordo	 una	 recentissima	 sentenza	 della	 Sezione	 Lavoro	 della	
cassazione	 (	 n.	 2920	 del	 15.02.2016)	 secondo	 cui	 per	 potere	 ricorrere	 alla	 tutela	
giudiziaria	 il	 lavoratore	 deve	 dimostrare	 	 l’intento	 persecutorio	 che	 non	 deve	
assistere	le	singole	condotte	poste	in	essere	a	suo	danno	ma	deve	ricomprenderle	in	
un	unico	disegno	vessatorio.	
Sulla	 quantificazione	 del	 pregiudizio	 	 subito	 a	 seguito	 di	 mobbing	 ,	 la	 Sez.	 I	 del	
Tribunale	di	Nocera	Inferiore	(	sentenza	7	maggio	2014)	ha	rilevato	come	il	danno	
morale	 non	 scatta	 in	 re	 ipsa	 come	 danno	 evento	 ma	 è	 comunque	 un	 danno-
conseguenza	che	deve	essere	provato	dal	richiedente.	
§§§	
Il	problema,	dicevo,	nasce	dalla	mancanza	di	una	precisa	definizione	da	parte	del	
legislatore	 il	 quale	prende	 in	 considerazione	 (	 a	 mio	 parere	 in	 modo	 non	 sempre	
convinto	e	convincente)	e	stigmatizza	tali	condotte	(	anche	omissive	come	spesso	si	
verifica	nel	cd	mobbing	orizzontale	dove	il	datore	di	lavoro,	per	disinteresse	o	per	un	
preciso	 intento	 escludente,	 evita	 di	 intervenire	 per	 porre	 fine	 a	 comportamenti	
mobbizzanti	posti	in	essere	dai	colleghi	di	lavoro	della	vittima)	ma	poi	non	ne	trae	le	
dovute	conseguenze	sanzionatorie.	
Illuminante	è	a	tale	proposito	il	D.Lvo	n.	8172008	il	quale	prende	in	considerazione	
anche	le	patologie	collegate	allo	stress		lavoro-correlato	ma	senza	però	(	questa	è	
almeno	l’impressione	degli	addetti	ai	lavori)	dare	indicazioni	valide	per	la	soluzione	
concreta	di	tali	problematiche.	
Ed	allora	la	domanda	che	sorge	spontanea	è	la	seguente:	nell’attuale	ordinamento	
giuridico	italiano	la	normativa	atta	a	contrastare	il	mobbing	è	da	ritenersi	sufficiente	
e,	soprattutto,	efficace	?	
A	 mio	 parere,	 sulla	 base	 della	 mia	 esperienza	 professionale	 quasi	 decennale	 sul	
tema,	la	risposta	non	può	essere	che	negativa.	
Cercherò	di	motivare	tale	mia	convinzione.	
Attualmente	due	sono	le	strade	sostanziali	e	processuali	per	tutelare	i	lavoratori	che	
siano	stati	vittima	di	mobbing:	quella	giuslavoristica-	previdenziale	e	quella	penale.
Occorre	 subito	 rilevare	 come	 l’opinione	 prevalente	 della	 giurisprudenza	 (	
confermata	dagli	interventi	di	quasi	tutti	i	magistrati	che	intervengono	sul	tema)		è		
quella	di	vedere	con	sospetto	e	talvolta	con	malcelato	fastidio		la	tutela	penale.	
I	motivi	di	tale	legittima	ma	non	condivisibile		convinzione	sono	di	vario	tipo:	
- L’idea	 che	 tutto	 sommato	 si	 tratti	 di	 problematiche	 prettamente	 legate	 al	
mondo	del	lavoro	e	quindi	non	suscettibili	di	una	valutazione	in	sede	penale	(	
fatta	eccezione	per	i	casi	più	gravi	ed	eclatanti);	
- Il	 rischio	 che	 ormai	 nel	 nostro	 Paese	 l’intervento	 	 penale	 sia	 una	 sorta	 di	
soluzione	valida	per	ogni	problematica	conflittuale;	
- L’incertezza	delle	connessioni	tra	il	giudicato	penale	e	quello	civile.	
Quindi,	per	la	giurisprudenza	prevalente,	il	problema	sul	piano	giuridico	esiste	
ma	 l’unica	 strada	 da	 percorrere	 è	 quella	 della	 vertenza	 previdenziale	 (	
riconoscimento	della	natura	professionale	della	malattia	da	parte	dell’INAIL)	e	
lavoristica.	
Tale	assunto	non	mi	trova	d’accordo.	
Come	ho	detto	poc’anzi,	ad	oggi	nel	nostro	ordinamento	non	esiste	il	reato	di	
mobbing.	
Tale	 assunto	 trova	 peraltro	 conferma	 in	 una	 sentenza	 della	 Sez.	 VI	 della	
Cassazione	penale	la	cui	massima	vale	la	pena	di	riportare:	nel	nostro	codice	
penale,	nonostante	una	delibera	del	consiglio	d’Europa	del	2000	che	vincolava	
tutti	 gli	 stati	 membri	 a	 dotarsi	 di	 una	 normativa	 corrispondente,	 non	 v’è	
traccia	 di	 una	 specifica	 figura	 incriminatrice	 per	 contrastare	 la	 pratica	
persecutoria	definita	mobbing.	Pertanto,	sulla	base	del	diritto	positivo,	la	via	
penale	non	appare	praticabile	mentre	è	certamente	percorribile	la	strada	del	
procedimento	civile.	
Le	poche	denunce	inoltrate	alle	Procure	della	Repubblica	da	parte	degli	organi	
istituzionali	di	controllo	(	medici	del	lavoro	delle	ASL	con	incarichi	ispettivi	e	di	
polizia	giudiziaria)		o	dei	lavoratori	-	parti	offese	spesso	sono	inesorabilmente		
destinate	 all’archiviazione;	 a	 tale	 proposito	 si	 aggiunga	 poi	 che,	 con	 le	
preannunciate	riforme,	la	tendenza	è	quella	di	depotenziare	i	servizi	ispettivi	
di	 controllo	 delle	 ASL	 e	 quindi	 è	 fin	 troppo	 facile	 immaginare	 quali	
conseguenze	negative	potranno	verificarsi.	
In	 realtà	 occorre	 capire	 il	 motivo	 per	 cui	 l’azione	 penale	 (	 obbligatoria	
nell’attuale	ordinamento	italiano)	spesso	si	areni	in	richieste	di	archiviazione	
troppo	spesso	proposte	dai	PM	e	puntualmente	accolte	dai	GIP.
A	mio	parare	tutto	il	problema	nasce	dal	fatto	cui	accennavo	in	precedenza	e	
cioè	che	l’attuale	legislazione	penale	non	prevede	il	mobbing	quale	autonomo	
reato	penale.	
In	primo	luogo	occorre	ricordare	brevemente		alcuni	tra	i	principi	generali	in	
materia	penale.	Ovviamente	mi	limiterò	a	porre	l’attenzione	soltanto	su	quelli	
che	interessano	il	tema	del	mio	intervento.	
Il	 primo	 è	 quello	 del	 “nullum	 crimen	 sine	 leg”e.	 Si	 tratta	 di	 un	 principio	
fondamentale	 che	 troviamo	 in	 tutte	 le	 carte	 costituzionali	 dei	 paesi	
democratici	 e	 che	 può	 riassumersi	 nel	 concetto	 che	 nessun	 cittadino	 può	
essere	 chiamato	 a	 rispondere	 in	 sede	 penale	 di	 condotte	 commissive	 o	
omissive	che	non	siano	state	preventivamente	vietate	e	sanzionate	dalla	legge	
penale.	
Il	 secondo	 è	 il	 divieto	 da	 parte	 dei	 giudici	 dell’utilizzo	 	 del	 procedimento	
analogico	per	individuare	nuove	tipologie	di	reato.	
Questi	sono,	a	mio	modesto	avviso,	i	motivi	per	cui	-	anche	nelle	ipotesi	più	
gravi-	il	mobbing	non	viene	sanzionato	in	sede	penale.	
Sino	ad	oggi	i	PM	delegati	all’esercizio	dell’azione	penale	si	trovano	di	fronte	
ad	 una	 oggettiva	 difficoltà	 di	 dare	 una	 precisa	 qualificazione	 giuridica	 a	
condotte	illecite	inquadrabili	nel	mobbing.	
Mancando	 il	 reato	 di	 mobbing	 infatti,	 la	 fantasia	 si	 è	 sbizzarrita:	 talvolta	
l’imputazione	 è	 quella	 di	 violenza	 privata;	 altre	 quella	 di	 lesioni	 personali	 (	
dolose	 o	 colpose);	 altre	 ancora	 quella	 di	 violenza	 sessuale	 o,	 addirittura,	
maltrattamenti	 in	 famiglia.	 Insomma,	 in	 mancanza	 di	 una	 precisa	 norma	
incriminatrice,		ogni	giudice	o	pubblico	ministero	è	libero	di	rifarsi	all’uno	o	
l’altro	dei	reati	con	effetti	a	dir	poco	deleteri.	
E’	chiaro	che	processi	basati	su	tali	imputazioni	spesso	e	volentieri	finiscono	in	
un	 nulla	 di	 fatto	 (	 ai	 sensi	 dell’art.	 530/1	 c.p.p.	 il	 fatto	 non	 costituisce	 non	
essendo	 il	 mobbing	 previsto	 come	 tale	 dalla	 legge	 penale:	 questa	 è	 la	 più	
frequente	 motivazione	 delle	 sentenze	 di	 assoluzione)	 	 dovendo	 il	 giudice	
penale	tenere	conto	dei	due	principi	cui	in	precedenza	ho	fatto	riferimento	(	
nessuno	può	essere	punito	per	un	fatto	che	non	sia	stato	preventivamente	
qualificato	 come	 reato;	 non	 è	 possibile,	 in	 via	 analogica,	 individuare	 nuove	
fattispecie	criminose).	
Si	 consideri	 poi	 che	 ogni	 reato	 ha	 sue	 peculiarità	 che	 rendono	 difficile	
l’inserimento	 nel	 suo	 contesto	 del	 mobbing	 e	 quindi	 spesso	 il	 giudice	 è	
costretto	ad	assolvere	il	mobber	perche’	nella	di	lui	condotta	non	sono	stati
riscontrati	tutti	gli	elementi	di	fatto	e	di	diritto	che	il	legislatore	chiede	per	
quel	tipo	di	reato.	
Si	 aggiunga	 poi	 la	 frequente	 inadeguatezza	 (	 spesso	 ignoranza	 intesa	
ovviamente	come	non	conoscenza)	del	medici	legali	chiamati	come	ausiliari	
dal	 giudice	 e	 dalle	 cui	 conclusioni	 dipendono	 troppo	 spesso	 le	 sorti	 dei	
processi	penali.	
§§§	
In	base	alle	considerazioni	sinora	svolte,	ritengo	che	sia	non	solo	opportuno	
ma	 anche	 necessario	 che	 il	 legislatore	 affronti-	 nel	 quadro	 di	 una	 più	
complessa	disciplina	unitaria	del	fenomeno-	l’opportunità	(	ma	arriverei	a	dire	
la	 necessità)	 di	 introdurre	 nel	 nostro	 ordinamento	 il	 reato	 specifico	 	 di	
mobbing.	
Attualmente	 la	 legislazione	 è	 carente	 sul	 punto	 e	 questo	 comporta	 due	
conseguenze	negative:	
1)	 l’assoluta	 inadeguatezza	 nella	 doverosa	 repressione	 dei	 fenomeni	 di	
mobbing;	
2)	 l’assoluta	 incertezza	 sull’esito	 delle	 denunce	 penali	 che	 troppo	 spesso	
dipende	 dalla	 sensibilità	 (	 ed	 anche	 conoscenza	 del	 fenomeno)	 da	 parte	
dell’inquirente	cui	viene	assegnata	l’istruttoria	penale.	
D’altronde	 ricordiamo	 come	 in	 altri	 casi	 la	 soluzione	 di	 certe	 condotte	
gravemente	illecite	(	penso	allo	stalking)	ha	trovato	valido	ausilio	soltanto	con	
e	dopo	l’introduzione	nell’ordinamento	penale	di	norme	repressive	ad	hoc.	
Ed	allora	si	deve,	una	volta	per	tutte,	uscire	dall’ipocrisia:	o	si	ritiene	che	il	
mobbing	sia	un	fatto	gravissimo	(	come	in	effetti	lo	è)	ed	allora	si	mette	mano	
a	provvedimenti	efficaci	per	combatterlo;	oppure	si	continua	nell’incertezza	
attuale	con	palliativi	come	quello	di	volere	forzatamente	includere	il	mobbing	
in	 già	 esistenti	 figure	 di	 reato,	 con	 tutti	 i	 problemi	 che	 abbiamo	 visto	 in	
precedenza.	
§§§	
La	soluzione	da	me	prospettata	ovviamente	non	è	esente	da	critiche:	quella	
più	 comune	 è	 che	 la	 mala	 pianta	 del	 mobbing	 va	 sradicata	 ma	 senza	 però	
arrivare	alla	forzatura	dell’intervento	penale.	
Gli	 assertori	 di	 tale	 tesi	 fanno	 riferimento	 alle	 soluzioni	 che	 sono	 state	
adottate	(	non	sempre	con	successo,	mi	permetto	do	osservare	)	in	altri	paesi	
dove		gli		ordinamenti	spesso	prevedano	l’istituzione	di	collegi	arbitrali	o	di	
conciliazione	nei	quali	dirimere	(	anche	preventivamente)	le	controversie	in
materia	di	mobbing;	oppure	l’adozione	da	parte	delle	aziende	di	codici	etici	o	
comportamentali	 che	 dovrebbero	 risolvere,	 preventivamente,	 i	 casi	 di	
mobbing.	
Sarò	sincero:	non	credo	molto	che	l’adozione	di	tali	strumenti	in	Italia	possa	
risolvere	granche’	e	questo	per	vari	motivi.	
In	primo	luogo	perche’	nel	nostro	paese	manca	una	seria	sensibilità	culturale	
sul	problema,		presupposto	necessario	ed	indispensabile		per	il	buon	esito	di	
tali	soluzioni.	
In	 secondo	 luogo	 perche’	 spesso	 il	 mobbing	 non	 è	 casuale	 ma	 rientra	 in	
precise	strategie	aziendali	e	quindi	sarebbe	ingenuo	credere	nella	buona	fede	
del	mobber	(	se		l’avesse	non	sarebbe	tale).	
Infine	 l’attuale	 gravissima	 crisi	 economica	 in	 cui	 versa	 il	 nostro	 paese	
impedisce	(	o,	quantomeno,	rende	ancora	più	difficile)		una	seria	valutazione	
delle	 problematiche	 conseguenti	 al	 mobbing.	 Troppo	 spesso	 la	 risposta	 (	
ahime’,	anche	da	parte	di	taluni	giudici)	che	viene	data	al	lavoratore	vittima	di	
condotte	gravemente	vessatorie	è	la	seguente:	ringrazia	che	almeno	il	posto	
di	lavoro	lo	hai.	
Su	questi	presupposti	è	pensabili	alla	validità	di		soluzioni	del	tipo	di	quelle	
adottate	nei	paesi	nord	europei	?	
Il	pessimismo	è	d’obbligo.	
§§§	
Concludo	queste	mie	osservazioni,	esaminando	brevemente	un	altro	aspetto	
che	rende	auspicabile	(	a	mio	parere)	l’introduzione	del	reato	di	mobbing	e	la	
conseguente	tutela	in	ambito	penale.	
In	un	processo	penale	vige	il	principio	basilare	della	presunzione	d’innocenza	
dell’indagato-imputato	e	quindi	è	sull’accusa	che	ricade	interamente	l’onere	
di	provare	la	penale	responsabilità	del	medesimo.	
E’	 del	 tutto	 evidente	 che	 il	 PM	 ha	 la	 possibilità	 di	 avvalersi	 di	 strumenti	
inquisitori	che	sono	preclusi	al	lavoratore	vittima	del	sopruso.	
Ma	 allora	 ritenere,	 come	 fanno	 molti	 qualificati	 operatori,	 che	 la	 tutela	 in	
sede	civile	sia	assolutamente	sufficiente	è	pura	ipocrisia.	
Ricordiamo	 infatti	 quelli	 che,	 sul	 piano	 processuale	 civile	 ,	 sono	 i	 principali	
ostacoli	alla	tutela	del	lavoratore	persona	offesa:	
1)	la	difficoltà	di	fornire	prove	esaustive	della	condotta	illecita	di	cui	è	rimasto	
vittima	 sul	 luogo	 di	 lavoro.	 Sul	 punto,	 come	 osservato	 in	 precedenza,	 la	
giurisprudenza	 della	 Cassazione	 è	 univoca	 e	 costante:	 l’onere	 della	 piena
prova	necessaria	per	arrivare	ad	una	sentenza	favorevole,	ricade	interamente	
sul	lavoratore:	ciò	comporta	difficoltà	spesso	insormontabili	per	arrivare	ad	
una	 sentenza	 di	 condanna	 del	 mobber.	 	 Anche	 una	 recente	 sentenza	 della	
Cassazione	pubblicata	nello	scorso	mese	di	maggio	ha	ribadito	tale	principio;	
2)	 la	 mancata	 previsione	 delle	 malattie	 conseguenti	 ad	 azioni	 mobbizzanti	
nelle	tabelle	INAIL.	Non	essendo	malattie	tabellate,	la	prova		talvolta	(	anzi	
spesso)	 è	 pressoche’	 impossibile.	 Ricordo	 ancora	 la	 già	 citata	 sentenza	 n.	
10037/2015della	Cassazione	che,	come	detto	in	precedenza,	ribadisce	(	con	
ancora	più	vigore	che	nel	passato)	l’obbligo	della	parte	lesa	di	fornire	prova	
rigorosa	della	condotta	illecita	e	dei	suoi	effetti	pregiudizievoli	sulla	salute	;	
3)	la	difficoltà	di	trovare	magistrati	e	CTU	medico-	legali		con	una	competenza	
specifica	su	tali	illeciti	e	patologie.	
In	sede	penale,	la	questione	cambia	in	quanto,	come	detto	in	precedenza,	il	
PM	nell’esercizio	dell’azione	penale,	ha	poteri	ispettivi	ed	inquisitori	preclusi	
al	lavoratore	-	parte	offesa.	
Ecco	 perché	 la	 repressione	 penale	 di	 queste	 condotte	 illecite	 sarebbe	
infinitamente	più	efficace	e	quindi	è	auspicabile.	
§§§	
Questo	è	l’attuale	stato	dell’arte.	
Ormai	 da	 tempo	 l’A.I.B.eL.	 sta	 conducendo	 una	 lotta	 per	 l’introduzione	 del	
reato	di	condotte	vessatorie	sul	luogo	di	lavoro.	
Si	tratta	di	un’iniziativa	che	ha	portato	alla	stesura	di	un	disegno	di	legge	(	che	
viene	accluso	per	chi	ne	avesse	interesse)	che	l’associazione	sta	illustrando	e	
facendo	conoscere	nel	corso	di	seminari	e	convegni	in	tutta	Italia.	
Anche	 in	 questo	 caso,	 come	 d’altronde	 in	 tutte	 le	 battaglie	 dure	 e	 difficili,	
soltanto	l’azione	congiunta	di	tutte	le	realtà	che,	a	vario	titolo	si	occupano	del	
tema	del	disagio	lavorativo,	potrà	portare	a	qualche	risultato	utile.	
	
Avv.	Alessandro	Rombolà	
Medicina	Democratica	-	Sez.	Pietro	Mirabelli	Firenze.	
Associazione	Italiana	Benessere	e	Lavoro

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Convegno “ Stress, molestie lavorative e organizzative del lavoro: aspetti preventivi clinici e normativi-giuridici. Le soluzioni possibili.”

  • 1. CONVEGNO MILANO 7 GIUGNO 2016 “ Stress, molestie lavorative e organizzative del lavoro: aspetti preventivi clinici e normativi-giuridici. Le soluzioni possibili. §§§ “Necessità dell’inserimento nel codice penale del reato di vessazioni sul lavoro” Il problema è quello dell’opportunità che tutte le condotte illecite che - forse con eccessiva semplificazione- sono comunemente conosciute come mobbing, debbano o meno essere oggetto dell’attenzione del legislatore penale. Parto da una mia profonda convinzione: ritengo necessario un intervento legislativo che dia disciplina unitaria e rigorosa completa a tale problema. Infatti sino ad oggi l’impressione degli addetti ai lavori è che il mobbing sia un concetto elaborato dalla giurisprudenza ma,colpevolmente, poco considerato dal legislatore. La Suprema Corte di Cassazione ha ormai elaborato da tempo il concetto mobbing: figura complessa che designa un eterogeneo fenomeno consistente in una serie di atti e comportamenti vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati di un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obbiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo. Questa è la definizione che si ricava da una recentissima sentenza della sezione lavoro della Corte di Cassazione ( sent. n. 20230 del 25.09.2014) che sostanzialmente conferma i precedenti sul punto del giudice di legittimità. Le caratteristiche del mobbing sono state poi ribadite anche nella sentenza n. 10037 del 15.05.2015 in cui la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito - confermando la precedente giurisprudenza- che l’onere della prova grava integralmente sul lavoratore che denunci di essere stato vittima di condotte vessatorie da parte del datore di lavoro. Onere probatorio duplice in quanto il lavoratore parte offesa dovrà dare prova piena e rigorosa sia del fatto che i comportamenti subiti abbiano natura illecita sia della quantificazione del danno subito.
  • 2. Sul primo aspetto ricordo una recentissima sentenza della Sezione Lavoro della cassazione ( n. 2920 del 15.02.2016) secondo cui per potere ricorrere alla tutela giudiziaria il lavoratore deve dimostrare l’intento persecutorio che non deve assistere le singole condotte poste in essere a suo danno ma deve ricomprenderle in un unico disegno vessatorio. Sulla quantificazione del pregiudizio subito a seguito di mobbing , la Sez. I del Tribunale di Nocera Inferiore ( sentenza 7 maggio 2014) ha rilevato come il danno morale non scatta in re ipsa come danno evento ma è comunque un danno- conseguenza che deve essere provato dal richiedente. §§§ Il problema, dicevo, nasce dalla mancanza di una precisa definizione da parte del legislatore il quale prende in considerazione ( a mio parere in modo non sempre convinto e convincente) e stigmatizza tali condotte ( anche omissive come spesso si verifica nel cd mobbing orizzontale dove il datore di lavoro, per disinteresse o per un preciso intento escludente, evita di intervenire per porre fine a comportamenti mobbizzanti posti in essere dai colleghi di lavoro della vittima) ma poi non ne trae le dovute conseguenze sanzionatorie. Illuminante è a tale proposito il D.Lvo n. 8172008 il quale prende in considerazione anche le patologie collegate allo stress lavoro-correlato ma senza però ( questa è almeno l’impressione degli addetti ai lavori) dare indicazioni valide per la soluzione concreta di tali problematiche. Ed allora la domanda che sorge spontanea è la seguente: nell’attuale ordinamento giuridico italiano la normativa atta a contrastare il mobbing è da ritenersi sufficiente e, soprattutto, efficace ? A mio parere, sulla base della mia esperienza professionale quasi decennale sul tema, la risposta non può essere che negativa. Cercherò di motivare tale mia convinzione. Attualmente due sono le strade sostanziali e processuali per tutelare i lavoratori che siano stati vittima di mobbing: quella giuslavoristica- previdenziale e quella penale.
  • 3. Occorre subito rilevare come l’opinione prevalente della giurisprudenza ( confermata dagli interventi di quasi tutti i magistrati che intervengono sul tema) è quella di vedere con sospetto e talvolta con malcelato fastidio la tutela penale. I motivi di tale legittima ma non condivisibile convinzione sono di vario tipo: - L’idea che tutto sommato si tratti di problematiche prettamente legate al mondo del lavoro e quindi non suscettibili di una valutazione in sede penale ( fatta eccezione per i casi più gravi ed eclatanti); - Il rischio che ormai nel nostro Paese l’intervento penale sia una sorta di soluzione valida per ogni problematica conflittuale; - L’incertezza delle connessioni tra il giudicato penale e quello civile. Quindi, per la giurisprudenza prevalente, il problema sul piano giuridico esiste ma l’unica strada da percorrere è quella della vertenza previdenziale ( riconoscimento della natura professionale della malattia da parte dell’INAIL) e lavoristica. Tale assunto non mi trova d’accordo. Come ho detto poc’anzi, ad oggi nel nostro ordinamento non esiste il reato di mobbing. Tale assunto trova peraltro conferma in una sentenza della Sez. VI della Cassazione penale la cui massima vale la pena di riportare: nel nostro codice penale, nonostante una delibera del consiglio d’Europa del 2000 che vincolava tutti gli stati membri a dotarsi di una normativa corrispondente, non v’è traccia di una specifica figura incriminatrice per contrastare la pratica persecutoria definita mobbing. Pertanto, sulla base del diritto positivo, la via penale non appare praticabile mentre è certamente percorribile la strada del procedimento civile. Le poche denunce inoltrate alle Procure della Repubblica da parte degli organi istituzionali di controllo ( medici del lavoro delle ASL con incarichi ispettivi e di polizia giudiziaria) o dei lavoratori - parti offese spesso sono inesorabilmente destinate all’archiviazione; a tale proposito si aggiunga poi che, con le preannunciate riforme, la tendenza è quella di depotenziare i servizi ispettivi di controllo delle ASL e quindi è fin troppo facile immaginare quali conseguenze negative potranno verificarsi. In realtà occorre capire il motivo per cui l’azione penale ( obbligatoria nell’attuale ordinamento italiano) spesso si areni in richieste di archiviazione troppo spesso proposte dai PM e puntualmente accolte dai GIP.
  • 4. A mio parare tutto il problema nasce dal fatto cui accennavo in precedenza e cioè che l’attuale legislazione penale non prevede il mobbing quale autonomo reato penale. In primo luogo occorre ricordare brevemente alcuni tra i principi generali in materia penale. Ovviamente mi limiterò a porre l’attenzione soltanto su quelli che interessano il tema del mio intervento. Il primo è quello del “nullum crimen sine leg”e. Si tratta di un principio fondamentale che troviamo in tutte le carte costituzionali dei paesi democratici e che può riassumersi nel concetto che nessun cittadino può essere chiamato a rispondere in sede penale di condotte commissive o omissive che non siano state preventivamente vietate e sanzionate dalla legge penale. Il secondo è il divieto da parte dei giudici dell’utilizzo del procedimento analogico per individuare nuove tipologie di reato. Questi sono, a mio modesto avviso, i motivi per cui - anche nelle ipotesi più gravi- il mobbing non viene sanzionato in sede penale. Sino ad oggi i PM delegati all’esercizio dell’azione penale si trovano di fronte ad una oggettiva difficoltà di dare una precisa qualificazione giuridica a condotte illecite inquadrabili nel mobbing. Mancando il reato di mobbing infatti, la fantasia si è sbizzarrita: talvolta l’imputazione è quella di violenza privata; altre quella di lesioni personali ( dolose o colpose); altre ancora quella di violenza sessuale o, addirittura, maltrattamenti in famiglia. Insomma, in mancanza di una precisa norma incriminatrice, ogni giudice o pubblico ministero è libero di rifarsi all’uno o l’altro dei reati con effetti a dir poco deleteri. E’ chiaro che processi basati su tali imputazioni spesso e volentieri finiscono in un nulla di fatto ( ai sensi dell’art. 530/1 c.p.p. il fatto non costituisce non essendo il mobbing previsto come tale dalla legge penale: questa è la più frequente motivazione delle sentenze di assoluzione) dovendo il giudice penale tenere conto dei due principi cui in precedenza ho fatto riferimento ( nessuno può essere punito per un fatto che non sia stato preventivamente qualificato come reato; non è possibile, in via analogica, individuare nuove fattispecie criminose). Si consideri poi che ogni reato ha sue peculiarità che rendono difficile l’inserimento nel suo contesto del mobbing e quindi spesso il giudice è costretto ad assolvere il mobber perche’ nella di lui condotta non sono stati
  • 5. riscontrati tutti gli elementi di fatto e di diritto che il legislatore chiede per quel tipo di reato. Si aggiunga poi la frequente inadeguatezza ( spesso ignoranza intesa ovviamente come non conoscenza) del medici legali chiamati come ausiliari dal giudice e dalle cui conclusioni dipendono troppo spesso le sorti dei processi penali. §§§ In base alle considerazioni sinora svolte, ritengo che sia non solo opportuno ma anche necessario che il legislatore affronti- nel quadro di una più complessa disciplina unitaria del fenomeno- l’opportunità ( ma arriverei a dire la necessità) di introdurre nel nostro ordinamento il reato specifico di mobbing. Attualmente la legislazione è carente sul punto e questo comporta due conseguenze negative: 1) l’assoluta inadeguatezza nella doverosa repressione dei fenomeni di mobbing; 2) l’assoluta incertezza sull’esito delle denunce penali che troppo spesso dipende dalla sensibilità ( ed anche conoscenza del fenomeno) da parte dell’inquirente cui viene assegnata l’istruttoria penale. D’altronde ricordiamo come in altri casi la soluzione di certe condotte gravemente illecite ( penso allo stalking) ha trovato valido ausilio soltanto con e dopo l’introduzione nell’ordinamento penale di norme repressive ad hoc. Ed allora si deve, una volta per tutte, uscire dall’ipocrisia: o si ritiene che il mobbing sia un fatto gravissimo ( come in effetti lo è) ed allora si mette mano a provvedimenti efficaci per combatterlo; oppure si continua nell’incertezza attuale con palliativi come quello di volere forzatamente includere il mobbing in già esistenti figure di reato, con tutti i problemi che abbiamo visto in precedenza. §§§ La soluzione da me prospettata ovviamente non è esente da critiche: quella più comune è che la mala pianta del mobbing va sradicata ma senza però arrivare alla forzatura dell’intervento penale. Gli assertori di tale tesi fanno riferimento alle soluzioni che sono state adottate ( non sempre con successo, mi permetto do osservare ) in altri paesi dove gli ordinamenti spesso prevedano l’istituzione di collegi arbitrali o di conciliazione nei quali dirimere ( anche preventivamente) le controversie in
  • 6. materia di mobbing; oppure l’adozione da parte delle aziende di codici etici o comportamentali che dovrebbero risolvere, preventivamente, i casi di mobbing. Sarò sincero: non credo molto che l’adozione di tali strumenti in Italia possa risolvere granche’ e questo per vari motivi. In primo luogo perche’ nel nostro paese manca una seria sensibilità culturale sul problema, presupposto necessario ed indispensabile per il buon esito di tali soluzioni. In secondo luogo perche’ spesso il mobbing non è casuale ma rientra in precise strategie aziendali e quindi sarebbe ingenuo credere nella buona fede del mobber ( se l’avesse non sarebbe tale). Infine l’attuale gravissima crisi economica in cui versa il nostro paese impedisce ( o, quantomeno, rende ancora più difficile) una seria valutazione delle problematiche conseguenti al mobbing. Troppo spesso la risposta ( ahime’, anche da parte di taluni giudici) che viene data al lavoratore vittima di condotte gravemente vessatorie è la seguente: ringrazia che almeno il posto di lavoro lo hai. Su questi presupposti è pensabili alla validità di soluzioni del tipo di quelle adottate nei paesi nord europei ? Il pessimismo è d’obbligo. §§§ Concludo queste mie osservazioni, esaminando brevemente un altro aspetto che rende auspicabile ( a mio parere) l’introduzione del reato di mobbing e la conseguente tutela in ambito penale. In un processo penale vige il principio basilare della presunzione d’innocenza dell’indagato-imputato e quindi è sull’accusa che ricade interamente l’onere di provare la penale responsabilità del medesimo. E’ del tutto evidente che il PM ha la possibilità di avvalersi di strumenti inquisitori che sono preclusi al lavoratore vittima del sopruso. Ma allora ritenere, come fanno molti qualificati operatori, che la tutela in sede civile sia assolutamente sufficiente è pura ipocrisia. Ricordiamo infatti quelli che, sul piano processuale civile , sono i principali ostacoli alla tutela del lavoratore persona offesa: 1) la difficoltà di fornire prove esaustive della condotta illecita di cui è rimasto vittima sul luogo di lavoro. Sul punto, come osservato in precedenza, la giurisprudenza della Cassazione è univoca e costante: l’onere della piena
  • 7. prova necessaria per arrivare ad una sentenza favorevole, ricade interamente sul lavoratore: ciò comporta difficoltà spesso insormontabili per arrivare ad una sentenza di condanna del mobber. Anche una recente sentenza della Cassazione pubblicata nello scorso mese di maggio ha ribadito tale principio; 2) la mancata previsione delle malattie conseguenti ad azioni mobbizzanti nelle tabelle INAIL. Non essendo malattie tabellate, la prova talvolta ( anzi spesso) è pressoche’ impossibile. Ricordo ancora la già citata sentenza n. 10037/2015della Cassazione che, come detto in precedenza, ribadisce ( con ancora più vigore che nel passato) l’obbligo della parte lesa di fornire prova rigorosa della condotta illecita e dei suoi effetti pregiudizievoli sulla salute ; 3) la difficoltà di trovare magistrati e CTU medico- legali con una competenza specifica su tali illeciti e patologie. In sede penale, la questione cambia in quanto, come detto in precedenza, il PM nell’esercizio dell’azione penale, ha poteri ispettivi ed inquisitori preclusi al lavoratore - parte offesa. Ecco perché la repressione penale di queste condotte illecite sarebbe infinitamente più efficace e quindi è auspicabile. §§§ Questo è l’attuale stato dell’arte. Ormai da tempo l’A.I.B.eL. sta conducendo una lotta per l’introduzione del reato di condotte vessatorie sul luogo di lavoro. Si tratta di un’iniziativa che ha portato alla stesura di un disegno di legge ( che viene accluso per chi ne avesse interesse) che l’associazione sta illustrando e facendo conoscere nel corso di seminari e convegni in tutta Italia. Anche in questo caso, come d’altronde in tutte le battaglie dure e difficili, soltanto l’azione congiunta di tutte le realtà che, a vario titolo si occupano del tema del disagio lavorativo, potrà portare a qualche risultato utile. Avv. Alessandro Rombolà Medicina Democratica - Sez. Pietro Mirabelli Firenze. Associazione Italiana Benessere e Lavoro