La storia
I
l presepio o presepe (= davanti alla siepe che racchiu-
deva le bestie,quindi “stazzo, stalla) è la figurazione
scenica della nascita di Gesù. Questa tradizione ha
un’origine antichissima e si rifà alle drammatizzazioni
liturgiche come le sequenze e le laudi che già nel Me-
dioevo arricchivano le celebrazioni natalizie. L’introdu-
zione del presepe, come tradizione natalizia ufficiale, si
fa risalire a San Francesco d’Assisi il quale, dopo es-
sere stato in Terra Santa e aver visto coi propri occhi
la grotta di Betlemme, giunto a Greccio chiese ed ot-
tenne dal Papa Onorio III l’autorizzazione a celebrare
la messa di Natale in una grotta e con l’aiuto del nobile
signore di Greccio, Giovanni Velta regalò all’umanità
il primo presepe della storia. Era il Natale del 1223.
I Frati minori diffusero dovunque per il mondo questa
sacra rappresentazione.
Il Presepio
in terra d’Abruzzo
I
n Abruzzo la figurazione scenica della natività di Cri-
sto, arricchita da centinaia di figure che si ambien-
tano in località tipiche, probabilmente trae origine
dai culti preromani, soprattutto etruschi, come il culto
della “grotta” che rientra nelle “civiltà della madre”.
Nelle caratteristiche costruzioni dei presepi che avven-
IL PRESEPIO, LA SUA
STORIA E IL CULTO
DEI SANTI BAMBINI
IN ABRUZZO
di Elisabetta Mancinelli
gono non solo nei luoghi religiosi ma anche nelle case
singole, i personaggi non sono soltanto il Bambinello,
la Vergine, San Giuseppe, i Magi, il bue, l’asino, gli
angeli, ma anche quelli che rappresentano il mondo
agro-pastorale e gli antichi mestieri della regione è
molto importante.
È difficile rintracciarne le origini ma i documenti più
antichi risalgono al XV secolo. Nella regione questa
antica rappresentazione scenica della nascita di Gesù
ha messo radici profonde probabilmente per la partico-
lare conformazione del territorio che, con i suoi monti,
le sue valli, le sue tradizioni pastorali e i centri abitati
spesso arroccati sulle montagne e sulle colline, appare
esso stesso come un presepe.
Dove non si poteva realizzare il presepio con i perso-
naggi principali, ci si limitava all’immagine del Santo
Bambino posta nel punto più visibile. Ogni chiesa anche
la più sperduta e povera aveva il suo Bambinello lavo-
rato in cera o col gesso o scolpito in legno. Un Natale
senza l’effigie di Gesù bambino non sarebbe stato più
Natale per gli abruzzesi, perciò sull’altare maggiore di
ogni chiesa c’era una cuna in cui giaceva tra luci e fiori
il Bambino o del tutto ignudo o rivestito di seriche vesti.
l Santo Bambino
e la devozione in Abruzzo
P
articolarmente legate al culto del Bambino Gesù
sono delle statuette che lo raffigurano in fasce, con
tessuti pregiati, talvolta disteso, altre volte in piedi
e benedicente con la corona. Si tratta di effigi dei Santi
Bambini che i missionari in Terra Santa riportavano da
lì al ritorno nei luoghi d’origine. Esse divennero subito im-
magini veneratissime dalla popolazione, alle quali si attri-
buivano speciali poteri taumaturgici e il ruolo di protettori
della comunità, proprio per la loro provenienza Gerusa-
lemme e Betlemme.
Il più famoso è il Bambino della chiesa di Santa Maria
d’Aracoeli a Roma del XV secolo, che tuttavia è una
copia, essendo stato rubato l’originale nel 1994, il cui
legno proverrebbe addirittura dal Getsemani. Molti al-
tri se ne diffusero nel periodo compreso tra Seicento
e Ottocento, e proprio al XVIII secolo si datano i “Santi
Bambini” abruzzesi.
Fra i tanti Bambinelli
che venivano esposti nel
corso degli anni a Natale
all’adorazione dei fedeli
nelle chiese della regio-
ne, ne rimangono solo
quattro che si distinguo-
no per origine, fattura e
grande valore storico-ar-
tistico. Essi sono Il Santo
Bambino di Calascio con-
servato nella Chiesa di
Santa Maria delle Grazie,
il Santo Bambino di Lama
4
dei Peligni nella chiesa di San Nicola, il Bambino di Pa-
lena venerato nella Chiesa di Sant’Antonio e il Bambino
di Bisenti conservato nella Parrocchiale .
Le quattro statuine hanno una caratteristica in comu-
ne: provengono, secondo antichi documenti, diretta-
mente dalla Terra Santa.
IL SANTO BAMBINO DI CALASCIO (AQ) venne ripor-
tato dalla Palestina da Fra Antonio da Roccacalascio il
quale vi si recò in pellegrinaggio intorno alla metà del
XVIII sec. Osservantissimo della povertà non indossò
mai alcun abito nuovo. Dormiva solo tre o quattro ore
e digiunava la maggior parte dell’anno e affliggeva il
suo corpo con cilici. La statuetta che riportò dalla Terra
Santa è conservata nella Chiesa del convento dei Frati
Minori posta in un’urna di legno policromo a tutto ve-
tro. Il bambinello è giacente e avvolto in fasce come si
usava nei nostri paesi per i neonati e un corpettino di
seta ricamato in oro, un laccetto al collo da cui pende il
sigillo in ceralacca del “Guardiano del S. Convento del
Monte Sion di Gerusalemme”. Della lunghezza di quat-
tro palmi è in cera ambrata colorata nelle guance paf-
fute e nelle labbra ridenti che la rende simile a quello
di Aracoeli di Roma.
IL SANTO BAMBINO DI LAMA DEI PELIGNI (CH) viene
ritenuta l’immagine sacra più celebre di tutto l’Abruz-
zo. Fra’ Pietro Silvestri lo riportò dalla Palestina nel
1760 e lo donò ai suoi concittadini munito di sigillo e
di bolla di autentica. Il Bambino è custodito nella par-
rocchiale dei Santi Nicola e Clemente, in cera e avvol-
to in seriche fasce ricamate d’oro, con il capo coperto
da una preziosa cuffia, l’immagine costituisce anche
un valido documento di costume ed è oggetto di culto
non solo in paese, ma anche in tutto il territorio circo-
stante. Il Bambinello è conservato in una artistica urna
d’argento, schermata di cristalli che ne permettono la
visione. La sera dell’Epifania tutti gli abitanti del pae-
se e soprattutto i bambini, si recano in chiesa a baciare
l’immagine del loro piccolo Protettore e a salutarlo a
conclusione del ciclo natalizio.
IL SANTO BAMBINO DI PALENA (CH)
La terza statuetta, nota in tutto l’Abruzzo e proveniente
dalla Terra Santa, è conservata a Palena nella chiesa di
S. Antonio nel locale Convento sull’altare di San Fran-
cesco. È di legno dipinto di 35 cm. di lunghezza giacente
in una piccola urna vetrata molto semplice alla cui base
è scritto:
“A divozione di Fra Serafino da Roccascalegna. Palena
- S. Antonio. Anno domini 1850”.
Questa data secondo dei documenti reperiti, non è
certamente quella della venuta del S. Bambino dalla
Palestina in Abruzzo che deve risalire intorno al 1770;
purtroppo il documento di autenticazione è andato per-
duto nel corso dei barbari bombardamenti della secon-
da guerra mondiale.
IL SANTO BAMBINO DI BISENTI (TE)
Sia la leggenda che la storia di questa sacra effigie sono
molto simili a quelle di Lama. Il documento di autentica
col suo sigillo del 6 gennaio 1792 dichiara in latino che
“la presente immagine rappresentante il divino Bam-
bino Gesù avvolto in fasce benedetta coi riti sacri riti
nella Grotta di Betlemme e nello stesso luogo esposto
alla pubblica venerazione dalla sacra Notte della Nati-
vità fino al terzo giorno dopo l’Epifania affinchè tutti i
Cristiani abbiano in sommo onore questa santa Imma-
gine”. A differenza degli altri santi bambini d’Abruzzo a
cui veniva data la semplice benedizione e deposizione
sui luoghi santi, a questo veniva dedicato un servizio
liturgico di oltre 15 giorni a pubblica adorazione nella
S. Grotta. La leggenda parla anche di segni miracolo-
si sul mare in tempesta e di un approdo miracoloso e
infine del felice ritorno del P. Anacleto Catitti nella sua
Bisenti dove tornava dopo aver dimorato a Gerusalem-
me circa sette anni. Questa sacra effigie conservata
nella Parrocchiale del paese, ha le braccia serrate sui
fianchi e il corpicino stretto dagli omeri ai piedini, da
una fascia di seta bianca finemente ricamata in oro, un
visetto d’angelo con grandi occhi neri e capelli neri ric-
ciuti, la piccola bocca atteggiata al sorriso.
Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli
email: mancinellielisabetta@gmail.com
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6
I
l “Premio Teramo” appartiene al passato e si con-
ferma indubbiamente una “chicca” del tempo che fu.
Una iniziativa varata più di 50 anni fa, quando in cit-
tà c’erano un progetto e anche un bravo manager per
il turismo. Con nuovi arrivi e ritocchini vari, giudicate
voi se il vecchio Premio si adatta al nostro presente.
Neanche un genio come Shakespeare saprebbe com-
piere il miracolo per restituire un ruolo a una iniziativa
obsoleta e invisibile, con nessun supporto al “marke-
ting territoriale”. Il Premio voluto e promosso da Pie-
tro Arturo Favazzi, siciliano colto e raffinato, venuto
in città negli anni ’60 con idee mirate ed innovative,
per prendersi cura dell’Ente Provinciale per il Turi-
smo, dopo importanti esperienze professionali in Emi-
lia Romagna. Il manager (ma allora non si chiamava
così) aveva subito impresso una spinta vigorosa alla
stagnante realtà locale con una serie di felici intuizioni
e il coinvolgimento delle altre tre province abruzzesi.
Oltre al Premio per un racconto inedito (allora una
novità assoluta, in particolare per il livello altissimo
della giuria), Favazzi volle una società del teatro e
della musica, a lungo importante e fiorente istituzio-
ne locale. Da grande esperto della materia qual era, il
QUEL MANAGER
DEL TURISMO
CHE INVENTÒ
IL “PREMIO TERAMO”
di Anna Micheletti
tecnico-gentiluomo seppe fare di più e meglio, racco-
gliendo attorno a sé e all’Ente un gruppo di validi per-
sonaggi e collaboratori. A cominciare da Giammario
Sgattoni, Francesco Campanella e altri, che dettero
una svolta vigorosa allo sviluppo della provincia e non
solo. Con l’Ept di Teramo a indicare la rotta anche al
resto dell’Abruzzo. Altri tempi, certo. Proprio per que-
sto, più che su un Premio con limiti evidenti, adesso
urge puntare sulla cultura; meglio, sulla strategia
di una politica culturale. Su un progetto di evidente
spessore, che non esaurisca il
percorso fra una giuria dei nostri
tempi e una pletora di sedicen-
ti scrittori. In tempi di sacrifici e
tasse, meglio risparmiare agl’in-
colpevoli giudici del “Teramo”
quella massa di racconti (spesso
illeggibili), che annualmente si
abbatte come una valanga. Formi-
dabile sforzo creativo di romantici
sognatori della gloria letteraria,
da restituire a più promettenti e
sicure occupazioni. Spiace rinun-
ciare alla illusoria passerella d’una serata, con stretta
di mano di “Amici delle Lettere”, ma i giovani han-
no bisogno di ben altro e il territorio anche. La strada
del futuro ormai segue un tracciato diverso e non è
quello di Premio. Neppure dei più grandi e celebra-
ti, figuriamoci di uno piccolo e fuori moda, che pure
gode dell’incondizionata fiducia del sindaco contem-
poraneo. La cultura serve, ma come strategia. Come
“nuova filosofia della produzione, per valorizzare il
capitale umano”, sottolinea i neo-ministro per i Beni
culturali, ricordandoci che cultura e turismo com-
pongono il settore che meglio ha retto alla crisi. “Per
essere lungimiranti bisognerebbe immaginare e fa-
vorire un’emulsione di praticità e sapienza capace di
sollevarci dalla decadenza e di condurci all’oraziana
aurea mediocritas”. Cultura come difesa del paesag-
gio e del territorio, nella città che spiana le colline, per
valorizzare beni artistici e sapori, tradizioni e antichi
mestieri. “Soltanto il patrimonio culturale sfugge alla
micidiale concorrenza mondiale e soltanto il terziario
ha possibilità di espandersi…”. Se questa è la direzione
per fare meglio e di più, meglio iniziare ad approfondi-
re e a capire, spegnendo le luci delle inutili passerelle.
7
M
agnifica esperienza a bordo della nave Scuola
Amerigo Vespucci, l’Unità più anziana in ser-
vizio nella Marina Militare in sosta nel porto di
Ancona, che ho avuto il piacere di visitare e anche fo-
tografare. Consegnata alla Regia Marina il 26 maggio
1931, entrò in servizio come Nave Scuola il successivo
6 giugno, aggiungendosi alla gemella Cristoforo Co-
lombo (in realtà leggermente più piccola), di tre anni
più anziana, e costituendo con essa la “Divisione Navi
Scuola”. Al rientro dalla prima Campagna di Istruzio-
ne, il 15 ottobre 1931, ricevette a Genova la Bandiera
di Combattimento, offerta dal locale Gruppo UNU-
CI (Unione Nazionale Ufficiali in Congedo d’Italia). Il
motto della nave è “Non chi comincia ma quel che
persevera”, assegnato nel 1978. Molto ospitali il co-
mandante e i rappresentanti dell’equipaggio, che ci
hanno guidato nella visita davvero istruttiva.
A BORDO DELLA
AMERIGO VESPUCCI
PER VIVERE UN PO’
DI STORIA MARINARA
di Patrizia Manente
9
S
ono diversi i condimenti spesso in disuso e che
distinguono i vari territori, a cominciare da quel-
lo dedicato a Cavour. Senza dimenticare il tipi-
co ragù abruzzese, che spesso si accompagna con la
pasta fatta in casa e un profumo intenso che avvolge
tutta la casa. Il ragù può considerarsi, in Abruzzo e non
solo, il simbolo della tavola nei giorni di festa. Quando
varcando la porta di casa, tocca al seduttivo profumo
del ragù fare la prima accoglienza, conquistando naso
e gola. Ormai diffuso in ogni parte d’Italia, si pone come
solido baluardo della tradizione gastronomica italiana,
spesso messa sotto assedio da chef troppo innovativi e,
fra i fornelli, anche rivoluzionari. Persino il napoletano
Eduardo De Filippo era innamorato della cucina abruz-
zese e del suo ragù. Merito della cuoca di famiglia, Isa-
bella Quarantotti De Filippo, sua moglie, nata a Chieti e
QUEL PROFUMATO
RAGÙ ABRUZZESE
CHE PIACEVA
AL GRANDE EDUARDO
di Marcello Martelli
per oltre trent’an-
ni vissuta a fianco
del grande uomo
di teatro. In realtà
il vero cuoco, in
casa e anche sulla
scena, era proprio
Eduardo, come
confermò il pre-
mio Nobel Dario
Fo: “Per Eduardo
il cibo ha sempre
avuto un grande
valore: un modo
per apprezzare la vita e per celebrarla”. Ammiratrice
del marito in teatro, la moglie Isabella ne apprezzava
le qualità anche tra i fornelli e, da conterranea dei fa-
mosi cuochi di Villa S. Maria, aveva trovato il modo di
suggerire all’attore qualche ricetta della cucina povera
abruzzese, spesso simile alla napoletana. Eduardo e
Isabella, uniti in una lunga e bellissima storia d’amore,
si intendevano alla perfezione pure in cucina, grazie
anche ai profumi e ai sapori del ragù abruzzese.
Nella foto: il grande Eduardo con la moglie abruzzese
Isabella Quarantotti
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SANTA LUCIA:
VITA, STORIA E CULTO
IN ABRUZZO
di Elisabetta Mancinelli
S
anta Lucia nasce a Siracusa tra il 280 e il 290 d.C.
da una ricca famiglia. Orfana di padre da giovane
viene promessa in matrimonio ad un patrizio. La
madre Eutichia, gravemente ammalata, nonostante
le costose cure, non riesce a guarire. Essendo molto
credenti compiono un pellegrinaggio al sepolcro di
Sant’Agata e la invocano affinché le aiuti a sconfiggere
la malattia. Mentre Lucia prega, le appare Sant’Agata
dicendole che lei stessa porterà la madre alla guari-
gione e le preannuncia che un giorno sarà la Patrona
della città di Siracusa.
Al ritorno dal pellegrinaggio Eutichia guarisce, e Lucia
decide di dedicare la sua vita al Signore. Comincia così
a distribuire le ricchezze che possiede ai poveri e ai bi-
sognosi che incontra.
La persecuzione
I
l suo promesso sposo, deluso per il rifiuto, si vendica
e la denuncia come appartenente alla religione cri-
stiana. L’imperatore Diocleziano intanto emana i de-
creti che autorizzano la persecuzione dei cristiani, così
Lucia, scoperta, viene catturata e processata.
Davanti ai suoi accusatori sostiene con orgoglio di
essere cristiana. Il proconsole minaccia la donna di
mandarla tra le prostitute, ma Lucia gli tiene testa
con le parole senza alcun cedimento. La donna è così
decisa che riesce a mettere in difficoltà l’Arconte di
Siracusa Pascasio.
La morte di Santa Lucia
P
er piegarla non resta che sottoporla a tortura .
Nella sorpresa generale Lucia esce indenne da
ogni ferita. Riesce a sopravvivere anche alle fiam-
me, ma muore il 13 dicembre dell’anno 304 per de-
capitazione.
Secondo documenti tratti dagli “Atti Latini” Lucia
muore con un coltello conficcato in gola e non per
decapitazione. Quest’ultima ipotesi è piuttosto diffusa
nell’iconografia tradizionale di Santa Lucia.
La devozione per
Santa Lucia in Abruzzo
S
anta Lucia, protettrice della vista, viene venera-
ta in molti paesi d’Abruzzo e celebrata con fuochi
notturni rituali chiamati “faugni” che simboleg-
giano il bisogno umano di illuminare il giorno tradizio-
nalmente considerato il più corto dell’anno prima del
solstizio d’inverno.
In passato si accendevano i fuochi non solo per festeg-
giare la santa, ma anche il 4 dicembre per Santa Bar-
bara, protettrice dei minatori, artificieri… oltre che per
l’Immacolata Concezione.
La festa si celebra il 13 Dicembre, giorno della morte
della beata, probabilmente per la volontà di sostituire
antiche feste popolari che celebravano la luce.
Quindi sarebbe privo di fondamento l’episodio di Lucia
che si strappa gli occhi; l’emblema degli occhi sarebbe
invece da collegare con la devozione popolare che l’ha
sempre invocata come protettrice della vista dall’eti-
mologia del suo nome, Lucia, da lux, luce.
In Abruzzo particolarmente significative sono le cele-
brazioni che si svolgono a Prezza paesino della conca
Peligna, in cui stazionò per un certo periodo il corpo
di Santa Lucia in viaggio verso Venezia per ordine del
Doge Enrico Dandolo, subito dopo la fine delle crocia-
te, per dare ad essa la definitiva sepoltura.
Le spoglie della santa vennero affidate al Vescovo di
Corfinio il quale decise di custodirle nella fortezza
prezzana. In paese si diffuse quindi il culto per Lu-
cia e venne edificata nel 1200 una cappella votiva per
i tanti pellegrini che vi si recavano. Nel corso degli
anni essa fu circondata da mura e venne costruita una
parrocchia a lei dedicata.
Oggi la chiesa si trova nel centro del paese e all’in-
terno, in una nicchia, è collocata una preziosa statua
lignea della fine del 1400 raffigurante la santa.
11
Al mattino di ogni anno, il 13 dicembre al suono delle
campane, i prezzani si recano prima in chiesa per la
messa solenne e poi sfilano in processione per le viuz-
ze del borgo; le donne portano grandi ceste di ciambel-
le a forma di occhi da donare ai portatori della statua e
ai partecipanti al rito.
Anche Torre de Passeri (Pe) il 13 dicembre venera da
secoli in modo suggestivo la santa, martire siracusana
delle origini del Cristianesimo.
In questo giorno ogni anno il paese si anima di una
serie di appuntamenti religiosi e civili che richiamano
gli abitanti dei paesi limitrofi e di molti torresi emigrati
all’estero che anticipano il ritorno in paese per le feste
natalizie. Sin dalle cinque
del mattino i botti di mor-
taretti e la musica della
banda “Città d’Introdac-
qua” danno la sveglia a
tutti i torresi.
Nel pomeriggio una solen-
ne Processione, preceduta
dalla Santa Messa, sfila tra
le vie dell’antico centro e
la statua della Santa viene
portata a spalla da quattro
portatori, in un singolare
corteo religioso, guidato
dal parroco di Torre de’
Passeri, dal sindaco e
numerosi fedeli.
Intorno alle 19, la tradizio-
nale “Pupa”, grande ma-
nufatto di cartapesta con
le sembianze di donna,
viene fatta danzare da un
ballerino che si cela nel suo interno, e in un valzer di
fuochi pirotecnici, si concludono i festeggiamenti.
A Rocca di Cambio (Aq) si trova l’Abbazia di Santa
Lucia luogo di culto simbolo del paese risalente al XII
secolo, probabilmente edificata sul ramo della via ro-
mana Claudia che congiungeva Alba Fucens a Fossa.
All’interno sono custoditi bellissimi affreschi che ri-
salgono al XII-XIII secolo, simili a quelli delle chiese
di Fossa e Bominaco, rappresentanti scene della vita
di S. Lucia.
Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli
email: mancinellielisabetta@gmail.com
12
L
a pittura è stato sempre il mezzo per esprimere le
sue emozioni. Da piccola, a Natale, riceveva con gioia
nuovi colori e pennelli, per sperimentare tecniche e
materiali diversi, dando forma alla sua creatività. Patrizia
racconta: “Trasferivo su carta, stoffa, ceramica, specchi,
vetro con la mia gestualità esistenziale, tesa a svelare
sensazioni celate”. Calde o fredde, le tonalità dell’artista
si coniugano per comporre un universo sempre nuovo. La
pittura diventa così “una cattedrale con la porta sempre
aperta, un rifugio, un’opportunità, un vocabolario nascosto
che emerge nella forma, nel segno e nell’infinita pigmen-
tazione”. I colori diventano sentimenti. Con il pennello
nella materia vibrante che crea luce o ombra che conduce
in un viaggio non solo tecnico, soprattutto introspettivo.
PATRIZIA FRANCHI E LE
SUE PITTURE PARLANTI
di Patrizia Manente
13
E le opere propagano un sentire che è come un’eco, fa-
cendo emergere carnalità e spiritualità. Non solo le tele,
anche le installazioni e le fotografie tentano di afferrare
quel tempo sfuggente, immobile e silenzioso. Nella vali-
gia culturale di Patrizia Franchi ci sono la maturità ar-
tistica all’Istituto Statale d’Arte di Pescara, il diploma
dell’Accademia di Belle Arti di Macerata e la specialisti-
ca in Beni Storico-Artistici dell’Accademia di Belle Arti
di L’Aquila. “Nell’ultima personale del 2019 all’Aurum di
Pescara - ricorda la maestra dei colori - è stato un incon-
tro straordinario far fruire ai visitatori visioni emozionali.
Ha partecipato a numerose mostre collettive, a Venezia,
Amsterdam, Pescara, Foggia, L’Aquila, Sulmona, Mace-
rata, Castel di Sangro, Atri, Ascoli, Urbino e in altre città
italiane. In ognuna la mia pittura ha rivelato un messag-
gio, per non guardare le mie opere, ma ascoltarle!”
14
I
n Svizzera, a Vevey, incontro straordinario con
Charlie Chaplin, grande protagonista entrato nel-
la storia come tra i più importanti personaggi della
ribalta. Nella sua casa-museo si diventa spettatore
privilegiato della vita di un genio immortale. Dalle ori-
gini molto umili di ragazzo con una vita di insicurezze
e miseria al sommo Charlot con bombetta e bastone.
Insuperabile interprete di scene emotive e comiche che
evocano e rappresentano, con sensibilità semplice ed
efficace, i grandi temi della povertà, della vanità, dell’a-
lienazione, del narcisismo, dell’ingiustizia. Siamo nella
casa dove il grande attore visse gli ultimi suoi 25 anni
di vita, dal 1952 al 1977, circondato dalla sua ultima
moglie Oona e dagli otto figli nati tutti in questo posto
incantevole. Nella casa completamente ristrutturata
e sullo splendido parco, tutto evoca il celebre artista.
Siamo completamente coinvolti nell’osservare arredi,
cimeli, immagini, filmati, sonori e ricordi dell’artista,
con Charlot che ci accompagna in un suggestivo viaggio
che, indietro nel tempo, racconta la storia del cinema
mondiale. Grazie anche alle tecnologie di oggi nel rap-
presentare eventi di una vita unica e per trasmettere
emozioni. Attraverso oggetti personali ed esperienze
CHARLIE CHAPLIN
NELLA SUA CASA
IN SVIZZERA
Quel genio immortale
che affrontava con la risata
i problemi del mondo
di Marcello Martelli
multimediali che si mescolano ad immagini ad alta de-
finizione ed in 3D, acustica avanzata, effetti speciali e
realtà virtuali. Chaplin visse in questa casa durante il
Maccartismo, quando all’artista fu negato il permesso
di rientrare negli USA. A Vevey trascorse il resto della
sua esistenza, dove il giorno di Natale del 1977 morì
nel sonno in questa stanza arredata come allora.
“Riabilitato” dall’opinione pubblica americana solo
all’inizio degli anni Settanta Chaplin era tornato nella
sua patria per ritirare l’Oscar alla carriera. Dico gra-
zie agli amici de “Il Giornale” di Milano, con in testa
il collega Matteo Sacchi, che hanno promosso questo
magnifico “incontro con il genio”. Davvero nella lista
degli itinerari “da non perdere”.
Nela foto a sinistra: l’autore dell’articolo fra le cere di
Chaplin e sua moglie Oona O’Neill.
LE USANZE
NATALIZIE
TERAMANE
A TAVOLA
di Patrizia Manente
D
al punto di vista ga-
stronomico, il Natale è
la festività magica che
maggiormente ha conservato
i legami con le tradizioni e
con il passato.
Bisogna però riconoscere
che molto, attualmente, si
è ridotto a mera consuetu-
dine e anche ciò che sem-
bra rimasto immutato nel
tempo, in realtà si è svuo-
tato del suo significato più
profondo. La differenza
quindi è sostanziale, se si
pensa che una volta, dietro
il rispetto assoluto di certe
“regole” alimentari (la par-
tecipazione di tutta la famiglia
alla cena della vigilia, l’asti-
nenza dai piatti di carne, ecc.),
si nascondeva una profonda devo-
zione sia verso i valori di spiritualità
e fratellanza infusi dal messaggio
cristiano, sia verso le usanze del-
la propria zona di appartenenza.
“Chi nën dijunë la viggilië dë
Natalë, duvendë o lupë o canë” dice
un proverbio popolare. Era impensabile
mangiare il giorno del 24 dicembre e nessuna cir-
costanza poteva impedire a ciascun componente della
famiglia di partecipare alla cena della vigilia. Nessuno, inoltre,
poteva rompere il digiuno senza il consenso delle stelle: non si poteva
iniziare a mangiare prima della loro apparizione in cielo.
“Primë dë Natalë ne freddë ne famë - Dapù Natalë freddë e famë”.
Dai ricordi della tradizione di famiglia, da nonna Giulietta a mia madre Adele, discende lo stesso menu di un tempo,
mai abbastanza rimpianto. Trovo perciò importante conservare la tradizione culinaria teramana, anche per non
rischiare che molti piatti (un po’ dimenticati) rischino di andare perduti per sempre.
LE PIETANZE
SONO STATE PREPARATE
DA MIA MADRE
Adele
Di Franco
P
rincipe delle nostre tavole, da
sempre preparato per allie-
tare i pranzi delle ricorrenze
più importanti. Realizzato da numerosi
strati di “scrippelle” teramane condite con
ragù fatto in casa, polpettine di manzo, petto
di pollo tagliuzzato minutamente, moz-
zarella fresca a dadini, piselli, uova
sbattute e parmigiano grattugiato.
L
e sfogliatelle costituiscono il dolce natalizio più raffinato
e più difficile da preparare, perché richiede tempo, tanta
dedizione e soprattutto ingredienti genuini. A tutt’oggi è
fortissima usanza nel territorio abruzzese sia delle massaie
più esperte che quelle più giovani.
FOTO DI:
Patrizia Manente
È
un piatto completo e gustosissimo, che non man-
cherà sulla tavola il giorno di Natale. Il cardo, or-
taggio delizioso e leggero, una volta lessato, sarà
unito al brodo rigorosamente di gallina o gallotta, in-
sieme alle polpettine di carne (preparate con carne di
vitello, parmigiano, sale, noce moscata), alla straccia-
tella (uova sbattute), ai fegatini, ai durelli e alla carne
già bollita. Una spruzzata di parmigiano completerà
questa prelibatezza.
Brodo con il Cardo
Il Timballo
Li Sfujatelle
18
S
ono Claudio, chef
che ha lavorato
in tanti luoghi del
mondo, anche in Ameri-
ca, e alla fine ho realiz-
zato il grande desiderio
di avere una mia gela-
teria. La GELATERIA IL
SORRISO è un’attività
artigianale a condu-
zione familiare. Nata
precisamente 22 anni
fa, al termine di uno dei
miei viaggi di lavoro.
Con l’appoggio dei miei
familiari, ho deciso di
iniziare questa grande
avventura, che è riuscita
a darmi tante soddisfazioni. Negli anni ho frequentato
corsi di specializzazione sulla gelateria e ho partecipato
anche a concorsi internazionali dove alcune delle mie
creazioni sono state premiate. In questi 22 anni ho avu-
to modo di capire che anche il mondo della gelateria,
come ogni altro comparto, è sempre in evoluzione. Per
questo, rimanendo ben ancorato alla tradizione gelataia,
ho sempre considerato importante ascoltare il mercato,
le richieste dei clienti e
le tendenze per poter
migliorare e cresce-
re. La mia famiglia ha
sempre avuto un ruolo
fondamentale, sia mo-
tivando il mio lavoro e
la mia formazione, sia
come un vero e proprio
sostegno nella gestione
della gelateria. Senza la
mia famiglia forse non
sarei riuscito a creare
questo piccolo grande
angolo di mondo che si
chiama GELATERIA IL
SORRISO.
C
he significa “ge-
lato artigianale”?
Tutto nasce nel
nostro laboratorio. Ogni
mattina viene prepara-
ta la crema base con
cui vengono fatti buona parte dei gusti, così come vie-
ne sbucciata la frutta per i sorbetti. Insomma, il gelato
viene preparato fresco tutti i giorni. Non solo, poniamo
tantissima attenzione nella scelta delle materie prime.
Prediligiamo prodotti a km zero o comunque made in
Italy. Utilizziamo prodotti esteri solo quando non sono
coltivati in Italia. La nostra ricerca ci ha portato a speri-
mentare anche il gelato “Benessere Light” senza zuc-
chero, senza latte e senza glutine, indicato anche per
chi segue regimi alimentari particolari o per chi ha scel-
to l’alimentazione vegana o vegetariana. Ma non solo
gelato, un’altra importante produzione della nostra
gelateria sono le crepes. L’impasto è una nostra ricet-
ta fatta sempre con prodotti freschi e poi il segreto è la
cottura. Abbiamo sperimentato diverse tipologie e così,
ogni cliente, può scegliere quella che preferisce di più. Il
nostro menù ha moltissime varietà di crepes per soddi-
sfare tutti i veri golosi, anche i più esigenti.
Da quest’anno sono entrato a far parte degli Accade-
mici Italiani Gelatieri Artigiani, una realtà importante
che ha come scopo quello di promuovere e tutelare la
qualità del Gelato Artigianale Italiano attraverso l’ap-
profondimento delle tematiche produttive, come l’im-
piego degli ingredienti e delle attrezzature ritenute più
idonee al perfezionamento dei processi di lavorazione.
Essere un Accademico dimostra anche la volontà di mi-
gliorare ancor di più il proprio gelato artigianale grazie
al supporto reciproco e alla condivisione di sapienza ed
esperienza con gli altri grandi mastri gelatieri dell’asso-
ciazione. Infatti una delle iniziative più importanti degli
Accademici Italiani Gelatieri Artigiani è “Contaminazioni
Stellate”. Si tratta di una manifestazione che si è svolta
durante l’anno, e che si ripeterà anche nel 2023, in cui
la sinergia degli Accademici ha dato vita alla creazione
di un gusto unico e irripetibile ogni secondo weekend
del mese presso tutte le gelaterie degli associati e
quindi anche alla Gelateria il Sorriso.
GELATERIA IL SORRISO,
PICCOLO GRANDE
ANGOLO DI MONDO
E DI SAPORI ECCELLENTI
di Patrizia Manente
Gelateria il Sorriso
Viale G. Marconi, 242
Alba Adriatica (TE)
20
FORTUNATA
LA REGIONE CHE PUNTA
SULLA MAGIA
DEI TRENI STORICI
di Marcello Martelli
M
agra consolazione scoprire su “il Corriere della Sera”
che il ministro della Cultura, traccia l’apoteosi dei treni
locali che, con la loro “magia antica e sempre nuova”,
sono “il fulcro di una precisa strategia per promuovere un
modo di viaggiare lento e sostenibile, un’autentica esperien-
za culturale”. Fortunata la Puglia, dove persino la popstar Ma-
donna, viaggiando su un treno storico, può cogliere “la potenza
evocativa” di un mezzo di trasporto che rappresenta “un bene
culturale”. Poi c’è un altro Sud, il nostro, dove un patrimonio
così prezioso non viene considerato ed è anche dimenticato.
Parlo di un’Italia che non trova ascolto e confermata nel suo
isolamento anche dai massici investimenti dell’Alta Velocità.
Mentre è già penalizzata dall’assenza d’una seria difesa e va-
lorizzazione del patrimonio ereditato, come la storica tratta
ferroviaria Teramo-Giulianova inaugurata il 15 luglio 1884
con previsione di collegamenti con Roma e L’Aquila. Nel do-
poguerra l’ex “ramo secco” si è salvato con l’elettrificazione
come linea di collegamento verso l’Adriatico, rimasta però
sempre “una incompiuta”. Specie per il progetto mai realizza-
to e con studio di fattibilità della Regione Abruzzo, per portare il
binario verso il centro storico di Teramo e la popolazione della
sua Università, avvicinandosi ai borghi e alle aree interne della
montagna, dove la desertificazione e l’abbandono avanzano.
Qui il rilancio dei treni storici è più che mai necessario, non solo
per aprire al turismo nuovi panorami e itinerari, anche per con-
sentire a questa parte ignorata della montagna di avviare una
concreta valorizzazione, attingendo anche agli incentivi previsti
dal progetto “Binari senza tempo”, per l’istituzione “di ferrovie
turistiche mediante il reimpiego di linee in aree di particolare
pregio naturalistico o archeologico”. Normativa perfettamen-
te su misura, visto che un binario arrugginito c’è anche dalla
parte de L’Aquila. A Capitignano dove, fin dagli anni ’20, lun-
gimiranti cultori della “magia del treno” progettarono una
linea per Teramo di 58 km, turisticamente molto attrattiva e
realizzata anche la prima parte di un’opera strategica, poi la-
sciata in abbandono. L’auspicio è che arrivino fondi dal nuovo
governo e si prepari subito un progetto per arricchire la fitta
rete dei cammini e per dare una scossa anche ai borghi mo-
renti del Gran Sasso.
22
SULMONA,
CITTÀ DI OVIDIO E
DEL CONFETTO
TRADIZIONALE
di Patrizia Manente
S
ulmona, città storica di Ovidio e dei confetti. Gustati
dall’ imperatore Tiberio, elogiati da Boccaccio, re-
galati da Goethe, i confetti di Sulmona da sempre
vengono utilizzati per scandire le tappe più importanti
della vita di un chiunque. Come simbolo di augurio e buon
auspicio. Dalle diverse testimonianze storiche, l’uso dei
confetti sembra inserirsi soprattutto in contesti elitari
nelle famiglie di nobili origini, con la funzione di omaggio
durante le feste o le ricorrenze. Nell’ambito del patriziato
romano, ad esempio, si usavano per celebrare nascite e
matrimoni ma con una piccola variante: il cuore di man-
dorla era ricoperto da miele e farina, al posto dello zuc-
chero. Il confetto, nella sua forma originaria, è costituito
da un nucleo centrale di mandorla ricoperto da uno strato
di zucchero bianco. La varietà più pregiata è la mandorla
di Avola (tipica della Sicilia) che, grazie alla sua forma
ovale ed appiattita, permette allo zucchero (finemente
lavorato) di avvolgere al meglio la mandorla, dando vita
a confetti raffinati e dal sapore caratteristico e tradi-
zionale. Solitamente vengono distribuiti al termine delle
cerimonie all’interno di sacchetti decorati, le bomboniere
(dal francese “bonbonnière”), come dono per gli invitati
che, con la loro presenza, rendono omaggio al festeg-
giato. Nella tradizione dei confetti è importante anche
la numerologia. Normalmente, il numero inserito nelle
bomboniere è dispari e può variare da cinque a tre, fino
ad uno. Il numero cinque si riferisce all’augurio di fertilità,
lunga vita, salute, ricchezza e felicità; il tre simboleggia la
coppia ed il figlio, un confetto rappresenta, invece, l’uni-
cità dell’evento.Quando si parla di confetti anche il colore
riveste la sua importanza. Esistono, infatti, più di cinquan-
ta tipologie diverse per festeggiare le varie ricorrenze. Il
bianco è il colore tradizionale dei confetti. Simbolo per ec-
cellenza della purezza, risulta essere adatto per festeg-
giare un momento particolare della vita di un uomo come
la ricezione dei sacramenti.
I confetti bianchi sono utilizzati per il matrimonio e le
due metà della mandorla simboleggiano l’unione indis-
solubile della coppia, tenute insieme dal sottile, ma forte
strato di zucchero che le avvolge saldandole insieme.Tra
più comuni ci sono i confetti rosa e celesti, utilizzati per
festeggiare la Nascita, il Battesimo e la Prima Comunio-
ne. I confetti rosa possono essere i protagonisti anche
del primo anniversario di matrimonio, ideali per giovani
sposi che vogliono rinnovare e consolidare il loro legame,
con l’auspicio di una lunga e solida vita insieme.I confetti
rossi sono particolarmente indicati per il raggiungimento
del traguardo di laurea. Il rosso, infatti, è un colore dai
significati molteplici,
forza e coraggio, ma
anche simbolo della
passione e dell’amore,
per questo, vengono
utilizzati anche per le
Nozze di Rubino, con
le quali si suggellano
40 anni di vita matri-
moniale insieme.
I confetti non sono
presenti soltanto nel-
la forma tradiziona-
le, esiste una grande
quantità di varianti
che utilizzano, in luo-
23
di soldi possibile! La storia dei confetti è antica: lo zuc-
chero fa la sua comparsa in Europa importato dagli arabi.
Nel 1400 inizia ad essere utilizzato costantemente nella
produzione di questi dolci, favorendo lo sviluppo di con-
fetterie, centri specializzati nella lavorazione artistica. Si
dà impulso ad una lunga tradizione confettiera che vede
in Sulmona uno dei massimi centri di produzione. La la-
vorazione avveniva presso il Monastero di Santa Chiara
dove, tramite una tecnica particolare, i confetti erano uti-
lizzati per dare vita a motivi decorativi quali fiori, spighe,
grappoli, rosari.
go della usuale mandorla, nuclei di pistacchi, nocciole,
frutta o cioccolato. In questo caso avremo un gran mix di
confetti allegri e colorati particolarmente adatti per fe-
steggiare i compleanni. I confetti verdi vengono utilizzati
per ricorrenze speciali come un fidanzamento, con la
promessa di appartenersi l’un l’altro o per festeggiare
le Nozze di smeraldo, con le quali si rinnovano 55 anni di
vita insieme. Accanto ai canonici ed importanti traguar-
di di festeggiamento, come il 25° anniversario, le Nozze
d’Argento (confetti di colore argento) o il 50° anniver-
sario, le Nozze d’oro (confetti dorati), è invalso l’uso di
festeggiare anche altri traguardi del cammino matrimo-
niale. Per chi volesse festeggiare il 20° anniversario di
matrimonio, le Nozze di porcellana, può farlo con delle
bomboniere contenenti confetti di colore beige, il 15°
anniversario ha come colore il giallo, con le Nozze di cri-
stallo.Il 14° anniversario, Nozze d’avorio, richiede raffi-
naticonfettidalcoloravorio;lenozzediperlesuggellano
il 30° anniversario con suggestivi confetti Acquamarina;
le Nozze di zaffiro, per il 45°, prevedono confetti blu; ed
infine, nelle Nozze di diamante si utilizzano confetti dal
tradizionale colore bianco per sancire 60 anni di matri-
monio insieme. I confetti di Sulmona, oltre che per riem-
pire bomboniere nuziali, possono essere i protagonisti di
un’antica tradizione popolare, diffusa in tutta Italia, il lan-
cio dei confetti. All’uscita della chiesa gli invitati aspetta-
no trepidanti i novelli sposi che, nell’istante in cui varcano
la soglia dell’edificio sacro, si vedono lanciarsi addosso
riso e confetti, come augurio e partecipazione nei con-
fronti della nuova unione. In alcuni comuni abruzzesi, a
Campo di Giove, ad
esempio, la tradizione
vuole che le rispettive
mamme degli sposi
gettino dalla finestra,
prima del rito nuziale,
riso, confetti e soldi.
Al termine della ceri-
monia, invece, sono gli
sposi ad ottemperare
al rito. Durante que-
sta lieta usanza tutti
i ragazzi del paese
accorrono aspettando
trepidanti di raccoglie-
re il più gran numero
Interno Cattedrale di San Panfilo e particolare Cripta
24
QUANDO ANDAVAMO
AL CANTINONE
CON PASOLINI
E CARLO LEVI
di Marcello Martelli
N
on basta pensare al centro cittadino senza pro-
grammare un piano per dare prospettiva turi-
stica all’intero territorio, intercettando il flusso
dei vacanzieri che ora ci ignora. Il discorso è vecchio e
complesso, più volte portato al centro dell’attenzione
e mai abbastanza considerato ieri e oggi. Ora si punta
su personaggi noti della gastronomia stellata, chiamati
in città per promuovere specialità e professionalità lo-
cali. O sé medesimi? Qui le idee sono un po’ confuse e
vanno chiarite, per non spendere soldi pubblici in pas-
serelle inutili. Forse non è questa la strada per valo-
rizzare la cucina tipica locale. Se non ci mobiliteremo
tutti per fermare gl’innovatori ad oltranza e, ancora di
più, i dilettanti dei fornelli allo sbaraglio, molto presto
i piatti della tradizione abruzzese li ritroveremo solo
nei vecchi libri della
nonna, con il kebab e
i kebabari, con tutto
il rispetto, disponibili
in ogni angolo delle
strade, e in qualche
piccola osteria di buo-
na volontà. In genere,
l’immaginario del tu-
rista è alla ricerca di
novità anche a tavo-
la e non si coniuga con l’alta cucina. Non tutti hanno
capito e intanto avanza la metastasi che colpisce pa-
esini e intere zone dell’interno e della montagna. Un
tempo ristoranti e trattorie erano una forte attrattiva
nel centro storico della città di Teramo. Quando c’e-
ra anche l’Antico Cantinone, locale chiuso e riaperto
con una proposta tutta diversa per i clienti, archivian-
do una lunga tradizione culinaria rinomata e attrattiva.
Era un piacevolissimo punto-d’incontro della miglio-
re convivialità cittadina, arma segreta di Pasquale
Limoncelli, promotore culturale amico dei famosi
dell’arte e della cultura. Nella felice stagione degli
anni ’60 e ‘80 vi trovarono degna ospitalità grandi
personaggi come Moravia, Ungaretti, Guttuso, Levi,
Pasolini, Zurlini, Mazzacurati e altri, che nell’Antico
Cantinone trascorsero momenti ricordati in alcuni loro
scritti letterari, con testimonianze ormai storiche, che
della Teramo del passato documentano e tramandano
i valori della tavola, dell’ospitalità e dei sapori. Un filo
conduttore che, purtroppo, si è spezzato con l’incalzare
delle nuove mode e della crisi. Ricordo una delle ulti-
me serate con l’Accademia Italiana della Cucina e la
Fondazione de Victoriis Medori de Leone, che fu quasi
l’addio e il testamento del vecchio “Cantinone” nelle
parole di Paolo C. Conti, noto giornalista e scrittore,
per la presentazione del suo libro: “La leggenda del
buon cibo italiano” (Fazi Editore). Un’inchiesta gior-
nalistica durata due anni, in stile “anglosassone”, sulla
natura nascosta di ciò che finisce nei nostri piatti. Con
una conclusione che, con il passare degli anni, si è con-
fermata inquietante: raramente quello che mangiamo
è davvero ciò che sembra. L’indagine insegnava ad
andare “oltre l’etichetta” perché il buon cibo italiano
torni ad essere tale, in nome della vecchia tradizione.
E il “Cantinone” aveva fatto suo quell’appello estre-
mo. Inascoltato.
26
LE TRADIZIONI
POPOLARI IN ABRUZZO
L’etimologia del termine
“folklore” deriva dall’unione
di due parole di antica origine
sassone: “folk” popolo e “lore”
sapere, sapere del popolo.
di Elisabetta Mancinelli
L
o studio e l’interpretazione delle tradizioni popolari
in Abruzzo sono iniziati ad opera di studiosi che ne
avevano intuito l’importanza molto tempo prima che
Gramsci così definisse il folclore: “non una bizzarria,
una stranezza, una cosa ridicola ma una cosa molto se-
ria.
Finora il folclore è stato studiato prevalentemente come
elemento pittoresco, occorrerebbe studiarlo invece come
concezione del mondo e della vita”.
Uno dei padri delle tradizioni popolari si deve ritenere
il medico siciliano Giuseppe Pitrè che iniziò il lavoro di
raccolta, studio ed interpretazione del folclore con la cre-
azione della Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane.
Egli uscì dai confini della sua isola e si relazionò con altri
studiosi tra cui l’eminente antropologo. Gennaro Fina-
more (Gessopalena 1836-1923) che per primo sistemò
organicamente la cultura popolare abruzzese; anch’egli
medico, proprio dall’esercizio della sua professione ebbe
il primo impulso a raccogliere i documenti della vita po-
polare della nostra regione. I suoi due volumi “Curiosità
e credenze“ costituiscono il corpus più completo delle
tradizioni regionali: materiale relativo a credenze, con-
suetudini, superstizioni, norme di medicina popolare. Suo
contemporaneo e altro studioso del folclore abruzzese fu
Antonio De Nino (Pratola Peligna 1832- 1907) che si de-
dicò agli studi demiologici e linguistici contenuti nella sua
raccolta “Tradizioni popolari abruzzesi” che fu definita
letteraria in contrapposizione a quella dello scientifico
Finamore. Un saggio di questa tipologia di studi è il rac-
conto “La gallina nera” ispirato alla credenza popolare
secondo cui la cresta della gallina nera guarisce dal mal
di testa. Anche il sulmonese Giovanni Pansa (1865-1929)
legò il suo nome ad importanti ricerche relative a super-
stizioni e miti abruzzesi. I suoi due volumi “Miti e leggen-
de e superstizioni d’Abruzzo” sono ritenuti fondamentali
per gli studi etnografici regionali. Il Pansa si è dedicato
nello specifico al culto delle grotte, delle pietre miraco-
lose e alle usanze devozionali nei pellegrinaggi in parti-
colare agli ‘strofinamenti rituali’ nei confronti dei quali lo
studioso mostra uno spirito interpretativo all’avanguar-
dia ritenendo queste antiche pratiche, ancora esercitate
in qualche santuario, finalizzate ad ottenere un contatto
completo con la divinità dalla quale ci si aspetta di riceve-
re guarigioni e grazie.
Domenico Ciampoli (Atessa 1852-Roma 1926) narratore
e saggista fu un fecondo scrittore di fiabe e racconti in
stile verista ispirati alla tradizione folcloristica abruzzese
e, anche se non fu un vero e proprio studioso, trascris-
se leggende e credenze della vita popolare del proprio
tempo. Nella sua raccolta “Fiabe abruzzesi” descrive il
mondo agropastorale, le celebrazioni votive del mese di
maggio in onore della Madonna e le consuetudini magi-
co-sacrali legate al matrimonio.
CREDENZE POPOLARI, RITI E PRATICHE MAGICHE
D
alle ricerche e da-
gli studi compiuti
da questi padri del
folklore e delle tradizio-
ni popolari sono venuti
alla luce tutta una serie
di documenti riguardanti
i riti di magia, le super-
stizioni e le terapie na-
turali dei tempi passati.
Tante erano le pratiche magiche che avevano lo scopo
di scongiurare gli eventi da ogni influsso negativo pro-
veniente dal soprannaturale. Queste riguardavano tutti
gli aspetti e le tappe della vita umana secondo un ritmo
cadenzato del tempo: la nascita, il fidanzamento, il matri-
monio, la morte.
Numerose erano le credenze popolari che accompagna-
vano la nascita di un bimbo e i suoi primi anni di vita, si
tratta in genere di una serie di precauzioni miranti a te-
nere lontano i mali, da quelli reali a quelli “magici”. La
necessità di protezione da quanto può provocare danno
anche da un’occhiata invidiosa, causa di malocchio, si
spiega con il fatto che la venuta dei figli era considerato
segno della benevolenza divina in Abruzzo come in tutto
il centro Sud. Antiche usanze al riguardo erano il divieto
di baciare il bambino prima del battesimo e quella di ap-
pendere alla camicina del neonato cornetti, oggetti d’oro
e d’argento a forma di cuore. Molti erano gli scongiu-
ri per i mali dell’infanzia dalle forme di incantesimo
per la verminara e il Fuoco di Sant’Antonio ai riti per
la propiziazione del buon afflusso del latte materno
con il ricorso all’acqua “terapeutica” di alcune fontane
considerate miracolose, dedicate alla Madonna a Santa
Scolastica e Santa Eufemia. Riguardo il fidanzamento e
gli usi nuziali vi erano norme particolari nella scelta del-
la sposa, la richiesta ai genitori, il trasporto della dote, il
canto della partenza, il pianto rituale della madre per il
27
distacco dalla figlia.
Ma un momento importante era rappresentato dal tra-
sporto della dote nuziale: venivano scritti veri e propri
contratti tra i genitori degli sposi nel corso di lunghe ri-
unioni alla presenza di testimoni. Il trasporto avveniva
in un lungo corteo di carri addobbati in cui la biancheria
veniva esposta in modo che tutti ne potessero ammira-
re merletti e ricami. In alcuni paesi vi era l’usanza di
seguire gli sposi in corteo dopo il rito religioso e creare
barriere di nastri colorati con cui i partecipanti sbarra-
vano il cammino al seguito nuziale che potevano venire
tagliati dallo sposo solo dopo il pagamento di un meta-
forico pedaggio in dolci, confetti e denaro. La festa com-
portava la partecipazione di tutto il paese e le più antiche
costumanze vogliono che il banchetto nuziale considerato
un vero e proprio rito di aggregazione, si tenesse a casa
della sposa e durasse molte ore. Esso era rallegrato da
canti e brindisi che inneggiavano alla bellezze della spo-
sa, auguravano ricchezza e abbondanza soprattutto di fi-
gli e tessevano complimenti per il cibo e il vino.
Le usanze legate alla morte secondo arcaiche tradizioni
comportavano tutta una serie di rituali dopo la constata-
zione del decesso. I familiari del defunto interrompevano
il lavoro, non dovevano pulire la casa e stare in silenzio.
Al trapassato venivano fatti indossare gli abiti migliori,
le mani gli venivano giunte sul petto e gli si metteva una
moneta in bocca o in tasca che gli doveva servire perché
si potesse pagare il tragitto verso l’aldilà. La bara veniva
corredata di tutti quegli oggetti che furono in vita cari
all’estinto, cappello, pipa, bastone, attrezzi per la bar-
ba… Largamente in uso era il pranzo funebre, chiamato
“consolo” preparato da parenti ed amici della famiglia
dell’estinto a scopo consolatorio.
TERAPIE NATURALI DEI NOSTRI NONNI
G
li abruzzesi per secoli per curarsi hanno ricorso
alla cosiddetta “farmacia del buon Dio” cioè alle
erbe e ad altri prodotti naturali . Si trattava di ri-
cette molto diffuse tra il popolo e alla portata di tutti a
base di sambuco, rosmarino, salvia, menta, camomilla,
vino che venivano usati come veri e propri medicamen-
ti. Per ogni malattia c’erano almeno cinque erbe a cu-
rarla. L’acqua del fiore
di sambuco era consi-
derata un rinfrescante,
l’infuso di rosmarino
misto a vino fermentato
era usato per purificare
le gengive e profuma-
re l’alito, il succo delle
rose veniva ritenuto un
ottimo aperitivo, mentre
quello delle viole un efficace purgativo. I distillati di fio-
ri di sambuco, di finocchi e di salvia servivano per lenire
il male agli occhi, mentre il mal d’orecchi si curava con
succo di zucca unito ad olio di miglio, mentre l’impasto
di farina di fave serviva a curare le piaghe. Per lenire gli
arrossamenti dei lattanti si spalmava olio d’oliva talvol-
ta mescolato con cipria. Il male alle ginocchia si curava
applicando stoppa imbevuta di vino nero. Il singhiozzo
si debellava sorseggiando lentamente uno sciroppo di
papaveri misto ad orzo, il succo di ciclamino serviva in-
vece ad arrestare un’emorragia nasale, infine le piume
di pioppo, raccolte a suo tempo, sostituivano il cotone
idrofilo.
SAPONI E DETERSIVI DI UN TEMPO
L
e casalinghe di un tempo portavano a lavare lenzuo-
la, federe e tovaglie al fiume, le sbattevano contro i
sassi e poi le stendevano al sole sui prati finchè non
acquistavano il candore ed il profumo caratteristico del
bucato di un tempo. Il sapone per lavare la biancheria si
ricavava da lunghi e pazienti procedimenti. Si mettevano,
in un sacco appeso ad un chiodo della cucina o del fonda-
co, cenere, legna e calce miste ad acqua che si aggiun-
geva di tanto in tanto. Il liquido che da esso gocciolava,
che aveva forti proprietà detergenti, veniva raccolto in un
recipiente e poi, mescolato ad olio d’oliva di scarto ed a
grassi di maiale, veniva fatto bollire fino ad ottenerne un
miscuglio pastoso e sodo. Una volta raffreddato veniva ta-
gliato in pezzi di sapone. La liscivia veniva ricavata dalla
decantazione della cenere di legna nell’acqua bollente
e poi usata in dosi misurate per mettere in ammollo la
biancheria sporca. Un altro lavoro che richiedeva fatica
e pazienza alle massaie di un tempo, era la lucidatura
dei recipienti di rame: conche, pentole, tegami, bracie-
ri e scaldini. Specialmente in prossimità delle feste le
donne di casa toglievano a questi recipienti la patina
scura strofinandoli con sabbia bagnata e poi con aceto e
sale risciacquando alla fine con acqua e sapone. La sab-
bia, il sale e l’aceto erano usati quotidianamente dopo
ogni pasto nel lavaggio di pentole e posate per farle tor-
nare nitide e terse.
Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli
email: mancinellielisabetta@gmail.com
I documenti sono tratti dall’Archivio di Stato, da “Il carnevale tradi-
zionale abruzzese” di Francesco Stoppa; da “Folklore abruzzese” Lia
Giancristofaro e da “Abruzzo” di Luciano Verdone. Le immagini sono
tratte dal patrimonio fotografico di Tonino Tucci che ne autorizza la
pubblicazione. Indirizzo: Via Veneto 10 Montesilvano tel 085 834879
email: tuccifotografia@libero.it
28
DALLA BOTTE
PIÙ GRANDE
DEL MONDO,
ALLE LEGGENDE
DELL’ANTICO BORGO
DI MONTEPAGANO
di Marco Martini
F
orse non tutti sanno che Roseto degli Abruzzi
contende alla città di Heidelberg il primato della
botte più grande del mondo. La prima, nella sua
imponente grandiosità, può contenere mille ettolitri,
cioè un milione di bottiglie da un litro per un vino che
nel 1905 servì da assaggio - come ricorda l’ospitale
marchese Antonio Mazzarosa - alla mostra itineran-
te che si tenne a Parigi, Bordeaux e Torino. La Grande
Botte della città tedesca, sotto il regno di Carlo Teodo-
ro, portò la sua attuale capacità a oltre 220.000 litri.
Ottima l’idea di una visita alla storica Cantina Mazzaro-
sa di Roseto, sorta per volontà del senatore Giuseppe
Devincenzi, prestigioso politico “del fare” d’altri tempi,
che dedicò la sua vita alla “cosa pubblica” con nume-
rosi incarichi parlamentari nel Regno delle Due Sicilie
e poi nel Regno d’Italia. Lavorò con successo per la
rinascita regionale postunitaria e la cantina Devincenzi
vide la luce in armonia con gli eventi migliori del Regno
d’Italia. Non solo per i vini pregiati che ora più di ieri
si fanno onore sui mercati anche all’estero, l‘incontro
si rivela interessante anche per approfondire la sin-
golare figura di un politico-innovatore e creativo, che
in Abruzzo riuscì ad importare vitigni sconosciuti, do-
tando le sue terre di ricchi vigneti che dettero vita ad
un’azienda enologica d’avanguardia nel territorio allo-
ra comune di Montepagano. Naturalmente, il tour non
poteva non includere una passeggiata a piedi per le
antiche strade della vicina Montepagano, scortati dalla
sapiente guida turistica Giancarlo Rapagnà. Alla sco-
perta di un borgo antico, ricco di storia e sorprese, con
sosta finale tutta dedicata alle eccellenze enogastro-
nomiche locali.
Marchese Antonio Mazzarosa
30
RIFLESSOLOGIA,
TECNICA ANTICA PER
UNIRE GENITORI E FIGLI
di Roberta Guidi
L
a riflessologia plantare è un’antichissima tecnica
manuale orientale dall’effetto preventivo e curativo.
Essa stimola l’omeostasi, ossia la capacità di un or-
ganismo di autoregolarsi mantenendo costante l’ambiente
interno, pur nel cangiare delle condizioni dell’ambiente
esterno. Questa tecnica è adatta a tutti, in particolar modo
può essere utilizzata sin dalla prima infanzia, per instaura-
re il rapporto di contatto e relazione genitore-figlio. Infatti,
il modo di curare attraverso l’uso delle mani, è naturale ed
istintivo, un istinto primordiale in quanto il bisogno di con-
tatto fisico di cui necessita il bambino è fondamentale per il
suo futuro equilibrio, il suo sviluppo ed apprendimento. La
riflessologia può essere applicata fin dai primi giorni di vita
ed accompagnare la crescita del bambino. È consigliabile
iniziare con piccoli sfioramenti leggeri e delicati soprat-
tutto nei primi sette mesi di vita con una frequenza gior-
naliera e con una durata di pochi minuti. Le tempistiche e
la dinamicità del massaggio aumenteranno con la crescita
del bimbo. Ovviamente affidarsi ad un professionista per
una prima seduta, sarebbe sicuramente più opportuno e
consigliato, in quanto potrà mostrarvi i punti più benefici e
le posizioni più comode. Il genitore che impara ad applica-
re questa tecnica, riuscirà ad ascoltare, stimolare ed atti-
vare una comunicazione d’amore che indurrà il processo di
autostima del bambino e di consapevolezza corporea. Inol-
tre, rispondere al suo bisogno di amore aiuterà la sua cre-
scita e ne preserverà la sua salute, soprattutto grazie alla
potenza preventiva di questo massaggio. In questo modo la
riflessologia diverrà uno strumento di conoscenza, di re-
ciprocità, di nutrimento che accompagnerà la crescita del
bambino con maggiore consapevolezza. Essa creerà un
collegamento diretto, un legame energetico tra genitore e
figlio in quanto, quest’ultimo, imparerà ad abbandonarsi al
contatto ed a fidarsi della persona che si prende cura di lui.
Si potrebbe incorrere in resistenze da parte del bambino
ma, una volta conquistata la sua fiducia e la sua attenzio-
ne nei confronti del contatto, sarà lui a chiederlo. I piedi
sono lo specchio delle nostre strutture interne, del nostro
organismo, ed abituare i nostri bambini, sin dalla nascita,
a questo massaggio può apportare dei grandi benefici, so-
prattutto quando si incorre nei sintomi tipici dei primi mesi
come: coliche gassose, stipsi, difficoltà digestive. Questa
tecnica risulta utilissima per tonificare ed attivare il lavoro
dell’intero organismo, per favorire lo stato di benessere
psicofisico generale in quanto aiuta a stimolare le funzioni
vitali come ad esempio la circolazione, il sistema nervoso,
la respirazione e a promuovere l’aumento delle difese im-
munitarie. Un massaggio diffuso in tutta la pianta del pie-
de, aiutandosi se necessario, con qualche goccia di olio
d’oliva, di calendula o mandorla, puro e possibilmente
biologico, stimola le funzionalità interne e aiuta il rilas-
samento del bambino. Bisogna sempre assicurarsi che il
bambino sia predisposto al massaggio, in tal caso, prima di
operare sul piede, cercheremo un primo contatto a mano
ferma sul torace per poi, delicatamente, arrivare ai piedini.
Un massaggio intuitivo da parte del genitore, empatico e
spontaneo, tenero e soffice, praticato con disponibilità da
parte di entrambi, diverrà un’occasione unica di scam-
bio affettivo, di conoscenza e di reciprocità. L’evoluzione
dell’essere umano si basa sulla moltitudine di esperienze
relazionali. Se il clima emotivo ed emozionale intorno a
lui è intriso d’amore, rispetto e coerenza, diverrà il ter-
reno di nutrimento per la sua futura maturazione.