La società contemporanea caratterizzata da processi di globalizzazione e internazionalizzazione, diviene sempre più spesso scenario di crocevia multiculturali e culture multietniche. Il diritto alla salvaguardia delle culture minoritarie si scontra con il desiderio di rivendicazione e affermazione delle proprie identità. Un nuovo sistema culturale tende ad affermarsi; una nuova composizione multirazziale contraddistinta da una frammentazione eterogenea etnica e religiosa; divisioni culturali di una società contemporanea che inevitabilmente conducono a tensioni e scontri. Queste contraddizioni possono essere efficacemente riassunte considerando gli opposti interessi in conflitto: comportamenti che, pur considerati in aperto contrasto con il diritto penale e più in generale con i valori etico-sociali prevalenti nell’ordinamento giuridico civilizzato, sono giudicati permessi e accettati da parte di minoranze in quanto conformi alle loro tradizioni e alle loro regole culturali. E’ in questo contesto che il reato “culturalmente orientato” trova la propria dimensione internazionale all’interno della quale, più specificamente, si inquadrano gravi delitti. La riflessione scientifica a cui si ispira questo contributo è considerare se sia antropologicamente accettabile procedere ad una comprensione e tolleranza di determinate condotte giustificate da un gruppo sociale di appartenenza o considerarle illecite da parte del Paese ospitante
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dell’Università Kore di Enna
I REATI CULTURALMENTE ORIENTATI
Simone Borile
Professore di Antropologia e Direttore della Scuola Superiore Universitaria per mediatori
linguistici CIELS di Padova
ABSTRACT: La società contemporanea caratterizzata da processi di globalizzazione e
internazionalizzazione, diviene sempre più spesso scenario di crocevia multiculturali e culture
multietniche. Il diritto alla salvaguardia delle culture minoritarie si scontra con il desiderio di
rivendicazione e affermazione delle proprie identità. Un nuovo sistema culturale tende ad affermarsi;
una nuova composizione multirazziale contraddistinta da una frammentazione eterogenea etnica e
religiosa; divisioni culturali di una società contemporanea che inevitabilmente conducono a tensioni e
scontri. Queste contraddizioni possono essere efficacemente riassunte considerando gli opposti
interessi in conflitto: comportamenti che, pur considerati in aperto contrasto con il diritto penale e più
in generale con i valori etico-sociali prevalenti nell’ordinamento giuridico civilizzato, sono giudicati
permessi e accettati da parte di minoranze in quanto conformi alle loro tradizioni e alle loro regole
culturali. E’ in questo contesto che il reato “culturalmente orientato” trova la propria dimensione
internazionale all’interno della quale, più specificamente, si inquadrano gravi delitti. La riflessione
scientifica a cui si ispira questo contributo è considerare se sia antropologicamente accettabile
procedere ad una comprensione e tolleranza di determinate condotte giustificate da un gruppo sociale
di appartenenza o considerarle illecite da parte del Paese ospitante
PAROLE CHIAVE: Reato, Antropologia, Pericolosità, Diritto internazionale, Laicità
Il reato è, ovviamente ma non solamente, un comportamento posto in essere in
violazione di una norma nazionale e internazionale (vigente in un determinato contesto
sociale e facente parte di un corpus che la rende legittima). E’ però anche un concetto
giuridico, diremo oggi, prettamente Europeo.
Questo comportamento e questo concetto ci investono del problema dei rapporti
intercorrenti tra l’ordinamento giuridico di una nazione e le sue norme e la giustizia.
Potremmo anche dire: tra la norma vigente e quella naturale, ma la corrispondenza non
sarebbe scontata e comunque per poter essere accettata richiederebbe almeno un
approfondimento da effettuarsi in sede di teoria generale del diritto che ci porterebbe fuori
tema.
Questo comportamento,
censurato e perseguito nell’ambito di un ordinamento
giuridico, non può non trovare a monte una serie assai ampia di motivazioni. Ed in effetti
nella nostra storia le ritroviamo, più o meno valorizzate nei diversi momenti e nelle cangianti
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situazioni. Delle motivazioni che sono attinenti il mondo della realtà, interpretabili alla luce
delle variegate competenze disciplinari, capaci di suscitare emozioni nell’ambito della
coscienza di un singolo uomo e di quella di gruppi nei quali si consolida e potenzia la
presenza dei singoli.
Dalla meno recente indagine condotta in sede di antropologia culturale (e l’importanza
dei contributi che ci sono stati offerti non deve essere dimenticata) a quelle più recenti
condotte in sede di criminologia (dalle diverse scuole criminologiche) sono emerse delle
ipotesi e delle tesi che sono di notevole interesse e che fanno ormai e di pieno diritto parte
della storia della disciplina (e di quella più ampia del diritto).
Ne presupponiamo la conoscenza; così come presupponiamo siano state colte l’indubbia
importanza e fecondità di un dibattito internazionale (proseguito nel tempo ed a partire dalla
rivoluzione illuministica di Cesare Beccaria alla fine del diciottesimo secolo e di quella
antropologica di Cesare Lombroso, Enrico Ferri, Raffaele Garofalo a cavallo tra il
diciannovesimo ed il ventesimo secolo) il quale ha vista focalizzarsi l’attenzione, ad esempio:
1.
su di una metodologia sperimentale e non
2.
su degli studi casistici, tipologici e sperimentali
3.
su degli aspetti del crimine fisici, sociologici, psicologici
privilegiando, in esse, le indagini investigative relative i molti fattori di ordine sociale,
le indagini investigative relative alcuni fattori di ordine psichiatrico, psicologico,
psicoanalitico e le coerenze e le incoerenze di approcci mono e plurifattoriali, quantitativi e
qualitativi.
Gli studi sulla pericolosità si sono ritrovati ristretti e costretti in uno spazio che ha
privilegiato e privilegia ancora:
gli indicatori classici, precoci, interazionisti
gli elementi di predizione intuitiva, clinica, statistica (con sottolineatura della comune
limitatezza delle scale di predizione comunque ispirate e collocate).
E’ nostro interesse focalizzare invece ora l’attenzione su di alcuni elementi i quali
possono oggi favorire un salto di qualità, il raggiungimento di un diversa dimensione, la
costituzione di una nuova criminologia (la quale rimanga peraltro
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antropologicamente
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ispirata e quindi confermandosi quale scienza della natura utilizzante di necessità i giudizi
nomotetici).
Il principale di questi elementi è a nostro giudizio quello della pericolosità.
Si tratta di un elemento il quale chiama in giuoco le diverse competenze che sono
peculiari dei giuristi, dei medici, degli antropologi, dei sociologi, degli psicologi e degli
psicoanalisti, oltre naturalmente quelle dei criminologi appartenenti alle diverse scuole e
tendenze.
La pericolosità (della quale sempre si è parlato più che altro per segnalarne la socialità e
rilevandone ovviamente il rilievo, peraltro non riconoscendone esplicitamente la centralità
nella nostra disciplina) può essere così definita la più o meno elevata probabilità che un
soggetto (anche eventualmente non imputabile e non punibile) possa commettere, ovvero
iterare, la commissione di reati.
Questa pericolosità presuppone dei particolarissimi contesti culturali internazionali (ed
anche sottoculturali) in cui si innesta.
Vale a dire che presuppone:
un complesso di esperienze comunitarie
un complesso di presunte verità e certezze momentaneamente acquisite
un orientamento nella polis e nell’ambito di uno jus partendo da una situazione
sufficientemente nota a monte e da una situazione pressoché sconosciuta a valle.
Vale a dire, inoltre, che indica anche un fattore, che è appunto culturale internazionale, il quale specificatamente riesce a condizionare i comportamenti umani.
Per cui risulta lecito per noi affermare che alcuni di questi reati, segnati da una
pericolosità sociale, risultano essere “ culturalmente orientati “.
Vediamo allora da presso.
Noi abbiamo delle motivazioni grazie alle quali illuminiamo e spieghiamo il crimine.
Noi riconosciamo che alcune di queste motivazioni presentano una natura culturale la
quale può essere addirittura predominante. Esse richiamano un contesto culturale (o, più
spesso, sotto culturale), ove il confine tra i due mondi (quello della cultura e quello della
sottocultura), in astratto sufficientemente chiaro é nel concreto tutt’altro che chiaro, ed ove
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non vi sono certezze, ma viene scontata la possibilità che si presentino delle imponenti
modulazioni e correzioni storiche e geografiche.
Queste motivazioni arricchiscono il nostro dibattito circa una pur sempre possibile
interpretazione dei comportamenti umani, asseritamente pericolosi, quali delle vere e proprie:
actiones liberae in causa e fino a che punto liberae?, e fino a che punto possiamo ipotizzare
una riserva del problema, quello appunto delle actiones liberae in causa a favore della sola
riflessione filosofica, con esclusione di altre?
In proposito, il dibattito può essere arricchito interpellandosi sulla quantità (la forza di
spinta) che è peculiare di queste motivazioni; sulla qualità di questa spinta; sulla interazione,
che è certamente esistente, tra l’elemento quantitativo e quello invece qualitativo.
Forse è opportuno tentare una loro individuazione internazionale (ancorché essa sia
necessariamente non esauriente) ed una loro indicazione, anche
se a qualcuno questa
operazione potrebbe apparire del tutto superflua.
Una summa divisio, tra delle culture e delle sottoculture presenti in historicis, potrebbe
essere la seguente:
a)
culture e sottoculture religiose
b)
culture e sottoculture filosofiche
c)
culture e sottoculture economiche
d)
culture e sottoculture politiche
Il dibattito filosofico e teologico sulla natura del katechon (cfr. nel nuovo testamento la
Seconda epistola apostolica ai tessalonicesi di Paolo), vivacizzato in Italia da un breve ma
assai stimolante saggio del filosofo Massimo Cacciari (Il potere che frena Adelphi 2013), ci
consiglierebbe di inserire, in questo giuoco culturale e sotto culturale ed in quella
particolarissima sede criminologica che è la nostra, i problemi che sono ricollegabili alla
potestas (la quale tende alla conservazione, al consolidamento, al rallentamento) e alla
auctoritas (la quale tende alla innovazione, alla crescita, alla accelerazione).
Però questo ci allontanerebbe e distrarrebbe troppo dal nostro tema.
Dicevamo dunque: diritto internazionale, religione, filosofia, economia, politica.
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Nel nostro contesto tutte riconducibili, alla fine ed a voler guardare bene le cose, alla
sola politica, per la sua preservata capacità di esprimere ancor oggi dei condizionamenti
(laici? solo apparentemente laici? di natura quasi religiosa?) socialmente significativi e
rilevanti.
Certo socialmente ben presenti.
Se scendiamo nelle nostre piazze ritroviamo in effetti masse di uomini (spinti da una
qualche tentazione utopica) i quali contrappongono all’ordine il caos nella previsione che
questo caos possa esprimere un nuovo ordine, un nuovo ordine di natura inequivocabilmente
utopica. Una utopia che inserisce nel giuoco l’ambiente, con la sua preservazione e la sua
custodia, la pace come condizione per rompere con le prevalenti dinamiche storiche e una
perduta armonia sociale, collocata in uno spazio storicamente opinabile.
Una utopia, si ponga sul punto una particolare attenzione, la quale dovrebbe spiegare,
giustificare, apprezzare l’elemento violenza. Una violenza colta quale strumento su tutti
adeguato allo scopo di garantire la possibilità stessa di quel nuovo ordine di cui è stato fatto
cenno.
Una violenza obiettivamente pericolosa. Pericolosa nella prospettiva delle tutela del
singolo uomo, del singolo uomo inserito nella realtà gruppale. Una violenza particolarmente
pericolosa la quale, in termini criminologici, determina delle concrete fattispecie le quali
spesso rientrano nella sfera (sociale e giuridica) bene espressa dal termine: sabotaggio. Ed è
proprio il sabotaggio quello che noi rileviamo essere posto in essere ove prevalga, nelle nostre
piazze e nel presente, l’esigenza di dare finalmente una forma politica internazionale alla
istanza utopica.
Si osservi:
creiamo delle condizioni per la morte al fine di affermare la vita
determiniamo condizioni di povertà al fine di vincere la povertà
imponiamo condizioni di disordine perché siano matrici di un ordine nuovo
Vita, ricchezza, ordine finiscono per assumere un valore che è, appunto, utopico. Questi
termini assumono quindi un significato che non può che essere irriducibile a quello che è
presente nella nostra cultura.
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Le fattispecie che possono essere ricondotte al sabotaggio costituiscono dei reati
culturalmente (rectius: sub culturalmente) orientati l’ultimo conato della utopia nella storia.
Per quanto attiene alla violenza in generale non può sfuggire, ed ai nostri fini questo
costituisce un indicatore che è di eccezionale rilievo che ogni posizione sub culturale, e
proprio in quanto tale comporta una elevata propensione alla risposta violenta. La presenza,
anche se non in sviluppo, dei reati culturalmente orientati consiglia di portare attenzione al
momento preventivo.
Come sempre la prevenzione si articola in due momenti: quello generale e quello
speciale entrambi orientati ad aumentare i fattori di protezione e a ridurre i fattori di rischio
puntando in modo coordinato sul momento etiologico sul momento situazionale.
Una adeguata efficace prevenzione speciale deve essere orientata alla riduzione degli
spazi (dei presunti vantaggi) che possano conseguire alla adesione data ad una particolare
ideologia, alla sicurezza riconducibile alla partecipazioni alle sue manifestazioni più o meno
accentuatamente rituali. Deve risaltare l’assenza di vantaggi di ordine economico, affettivo,
culturale. Ci troviamo in un ambito eminentemente situazionale.
Una adeguata efficace prevenzione generale deve essere orientata alla educazione alla
corretta valutazione critica dei messaggi provenienti da ogni agenzia culturale (ed in
particolar modo qualora emerga, ed è quasi sempre così, una reale od anche solamente
potenziale marginalità dell’agenzia).
Ci troviamo in questo caso in un ambito che aggiunge al consueto dato situazionale
quello etiologico.
La funzione preventiva, e quindi di deterrenza, del complessivo sistema penale
nazionale e internazionale pare essere chiaramente inadeguata (e non solamente nel nostro
paese), ed esserlo anche, ma non solamente, per carenze di ordine operativo.
Questo fatto, qualora dovesse trovare conferma, aprirebbe notevoli spazi per i nostri
studi e per nuove ricerche.
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