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Il collegio
delle ragazze perdute
Giulia Amaranto
1. Noi e loro
Da una parte c'eravamo noi, le Ninfee.
Dall'altra c'erano loro, le Perdute.
Eravamo tutte ragazze tra i diciotto e i ventidue anni, vivevamo sotto lo
stesso tetto, nel Collegio. Avremmo potuto essere amiche, cercare di trovare
la nostra felicità insieme. Invece, appena avevo messo piede nel Collegio, ero
stata subito informata di questa regola che tutte le ragazze rispettavano e che
nessuna osava violare: le Ninfee non dovevano mescolarsi con le Perdute, per
alcuna ragione.
- Scansati, stanno arrivando!
Con il viso deformato da un'espressione di disprezzo, Vania mi tirò per un
braccio, costringendomi a farmi da parte per consentire il passaggio delle
Perdute, che si avviavano verso l'aula per la lezione di storia dell'arte
contemporanea.
Le Perdute erano indisciplinate, non camminavano in fila come noi e neppure
indossavano la divisa. Ridevano e scherzavano tra loro, mentre noi Ninfee ce
ne stavamo rigide e impettite, aspettando che passassero e che andassero a
occupare la loro area dell'aula. Noi Ninfee, solitamente, evitavamo di
incrociare gli sguardi con le Perdute, se non per canzonarle, mentre loro
cercavano di attirare la nostra attenzione. E con me, devo essere sincera, ci
riuscivano quasi sempre. Non l'avrei confessato a nessuno, ma le trovavo così
libere e spontanee che mi era difficile provare sentimenti ostili verso di loro.
Lo chiamavamo Collegio, semplicemente, ma si trattava dell'Accademia
Reale Femminile di New Heakon, fondata proprio dall'ultima regina del New
Heakon, prima della fine della monarchia. Era una sorta di Versailles, con
immensi giardini e piscine, chef prestigiosi nelle cucine della mensa e alcuni
tra gli insegnanti più illustri della nazione. Si studiava musica, arte,
recitazione o danza, a seconda della facoltà scelta, ma c'erano anche lezioni
comuni a tutte le studentesse.
Noi, le Ninfee, eravamo le ragazze di famiglia agiata. Pagavamo una retta
altissima per studiare in questo Collegio, dove gli smartphone erano proibiti e
l'accesso a internet molto limitato. C'erano le figlie di presidenti e di ministri,
di personalità del mondo della finanza, di imprenditori milionari, di celebrità.
Io, Ofelia detta Off, figlia di una famosa coppia di attori, ero stata destinata a
studiare qui sin da quando ero nella pancia di mia madre. I miei,
naturalmente, si aspettavano che scegliessi la facoltà di recitazione, ma io
avevo preferito continuare gli studi di violino, lo strumento che suono da
quand'ero bambina.
E poi c'erano loro, le Perdute. Erano ragazze senza disponibilità economica,
che potevano accedere al Collegio solo dopo una selezione durissima. Molte
di loro provenivano da famiglie problematiche, altre addirittura una famiglia
non l'avevano affatto.
Gli insegnanti, così come la Direttrice, non approvavano questa divisione tra
Perdute e Ninfee e in svariate occasioni avevano tentato di unire i gruppi e
farli lavorare insieme; ma sarebbe stato più semplice chiedere all'olio di
mescolarsi con l'acqua, e così anche gli insegnanti si erano arresi alla nostra
ostinazione.
Chiunque, al di fuori del Collegio, avrebbe capito il motivo alla base
dell'astio (per non dire dell'odio) che le Ninfee provavano verso le Perdute: il
talento. Noi Ninfee eravamo lì solo per merito dei nostri genitori e delle
ampie risorse economiche. Molte di noi erano ben consapevoli, nel profondo
del cuore, di valere poco come musiciste o artiste. Le Perdute, invece,
avevano avuto una vita difficile, ma erano state scelte per il loro straordinario
talento. Come potevamo accettare, noi Ninfee, di pagare quella retta
salatissima per le Perdute, quando poi – una volta uscite dal Collegio –
sarebbero state sempre e soltanto loro ad avere la gloria e il successo? E così,
in attesa dei nostri insuccessi al di fuori del Collegio, noi Ninfee ci
atteggiavamo a superiori, umiliando le Perdute e ricordando loro – sempre –
che, se non fosse stato per i nostri soldi, il Collegio non l'avrebbero potuto
neanche nominare.
Io, però, mi sentivo un pesce fuor d'acqua. Appartenevo alle Ninfee, ovvio,
eppure provavo una timida simpatia verso quelle ragazze straordinarie. Avrei
voluto essergli amica, ma sapevo che avrei avuto una vita durissima, dopo,
perché nessuna delle Ninfee me l'avrebbe perdonato. Certe volte, quando la
mia insegnante di violino, la signora Jelinek, si complimentava per i miei
progressi, mi illudevo di avere del vero talento e fingevo di essere una delle
Perdute. Mi ritrovavo spesso a pensare che le vere Perdute fossimo noi
Ninfee, e non loro. Ce ne stavamo sempre rigide, con le nostre divise blu
disegnate apposta per noi da uno stilista italiano e con i fiori freschi appuntati
sulla giacca. Ci preoccupavamo che il nostro linguaggio non fosse mai
volgare, eravamo sempre in ordine e ben truccate, non ci concedevamo
neanche un minuto di ritardo e portavamo rispetto agli insegnanti.
Cercavamo, insomma, di distinguerci con un comportamento impeccabile.
Loro, invece, erano meravigliosamente se stesse. Sempre, dai vestiti al modo
di fare, dalle parole ai fatti.
Johanna, una delle Perdute, passò a larghe falcate in mezzo al corridoio di noi
Ninfee, schierate come soldatini. Si diceva che fosse una delle attrici più
dotate del Collegio ed era la preferita del maestro Schwimmer, che era stato
anche l'insegnante di recitazione di mio padre, nonché regista del suo primo
spettacolo all'Accademia. Mio padre, non faccio per vantarmi ma per
comunicare un fatto, ha vinto due volte quella famosa statuetta tanto ambita
dagli attori. La guardammo tutte, Johanna: si era colorata i capelli di un giallo
fluorescente, davvero orribile, ma che su di lei sembrava qualcosa di cool.
Be', almeno per me.
- Ehi, Johanna, ti sei accorta che hai usato le tempere al posto dello shampoo?
– la canzonò Keira, una delle Ninfee nonché mia compagna di stanza,
facendo ridere tutte quelle del nostro gruppo tranne me.
Johanna si voltò verso Keira e le sorrise. Keira, per tutta risposta, alzò un
sopracciglio e scosse la testa. Vania rincarò la dose:
- È passato così tanto tempo dall'ultima volta che si è fatta uno shampoo che
nemmeno si ricorda com'è!
- Infatti la puzza si sente da qui... – riprese Keira.
Risero di nuovo tutte. Io, invece, mi sentii in imbarazzo e cercai di catturare
lo sguardo di Johanna, per comunicarle con gli occhi la mia solidarietà. Lei,
però, non mi guardò. Si fermò, piazzandosi di fronte a Keira, avvicinando il
viso a pochi centimetri dal suo.
- La senti ancora quella puzza? – domandò Johanna a Keira. Si fissavano
come due leonesse pronte al combattimento.
- Ancora di più, adesso che mi sei vicina. Mi disgusti.
- Tu la senti sempre quella puzza, vero?
- Sempre, quando ci sei tu in giro.
- Non sono i miei capelli che puzzano, lo sai?
Io e le altre, sia Ninfee che Perdute, restammo in silenzio ad ascoltarle. Mi
batteva il cuore perché avevo la sensazione che una delle due cercasse il
pretesto per alzare le mani.
- E cos'è, allora?
- Il tuo cuore. Il tuo cuore che marcisce, Keira. Ecco perché non ti liberi di
quella puzza. Questo fiore fresco che ti appunti sulla giacca... Tu non ne sei
consapevole, ma lo metti per coprire la puzza del tuo cuore. Però non
funziona.
Rimasi a bocca aperta perché Johanna aveva detto questa cosa assurda con
una voce così lapidaria che veniva da crederle. Una grande attrice, ecco
cos'era destinata a diventare.
- Levati di torno.
Questa fu la sola cosa che Keira fu in grado di risponderle. Avevo notato un
lieve tremolio nella sua voce. Pensai che se persino lei era stata colpita da
quelle parole, forse un briciolo di verità doveva esserci. La guardai e notai
che si era come irrigidita.
- Dai, Keira... Lascia stare, non è così grave – le dissi sottovoce, senza
pensarci troppo. Keira mi fulminò con lo sguardo, si voltò e si diresse da sola
verso l'aula. Le Ninfee cercavano di non darlo a vedere, ma qualcuna
ridacchiava sotto i baffi. Johanna aveva vinto il round, decisamente.
Le ampie vetrate facevano sì che il Collegio fosse invaso dalla luce del
mattino. Prima di entrare in aula mi fermai a osservare il verde brillante dei
prati inglesi, interrotto solo da lunghe file di roseti. Le lezioni del professore
di storia dell'arte contemporanea, Laurent Ulay, erano sempre interessanti,
ma il richiamo delle passeggiate per i prati, o più in là sul lungomare, mi era
irresistibile. Ero persa a guardare i roseti con le tee quando vidi il Ghepardo
Bianco attraversare di corsa il prato. Mentre correva strappava morsi dal suo
sandwich. Sorrisi, guardandola.
- Dai, Off, non startene lì incantata, andiamo! – mi incitò Jane.
Distolsi lo sguardo dal Ghepardo Bianco, anche se malvolentieri, e seguii
Jane in aula. Prendemmo posto nella nostra area dell'aula, che era una sorta di
auditorium in stile anfiteatro greco. La nostra area sembrava una massa blu,
dato che tutte noi Ninfee vestivamo la divisa (giacca e gonna blu navy).
L'area delle Perdute, invece, era un arcobaleno confuso.
Sullo schermo gigante il professor Ulay proiettava le immagini delle opere
d'arte che andava illustrando di volta in volta.
Le mie amiche sapevano, perché glielo avevo confidato, che provavo per
Ulay una forte attrazione. Loro non riuscivano proprio a capire cosa ci
trovassi in un uomo dimesso e semplice come lui, eppure io non riuscivo più
a pensarlo come a un professore e basta. Mi sorprendevo spesso a fantasticare
su di lui e quando lo incontravo in giro per il Collegio mi sentivo attanagliare
lo stomaco per l'emozione. Avevo capito che mi piaceva come uomo, e non
solo come insegnante, da poco tempo, ma era come se nelle ultime settimane
il mio corpo fosse particolarmente sensibile a certi stimoli.
- Guarda come si è vestito oggi... mi fa una tristezza! – mormorò Jane nel
mio orecchio.
- Lui è un artista, si può vestire come vuole – lo difesi, ma in effetti quella
giacca sdrucita lo sviliva parecchio.
- Artista fallito... – ribatté Jane tra i denti.
Il professor Laurent Ulay aveva poco più di quarant'anni, ed era l'unico
insegnante sotto i sessant'anni che avevamo nel Collegio. Lo trovavo di
bell'aspetto (io sostenevo che somigliasse a Gabriel Byrne da giovane) e mi
aveva sempre affascinato anche per la materia che insegnava. Le Ninfee
sostenevano che fosse troppo vecchio e troppo “sfigato”. Quando provavo a
ribattere che non poteva essere sfigato, visto che insegnava nel nostro
prestigioso Collegio, le altre mi rispondevano che si era ridotto a insegnare
arte solo perché come artista era un fallito. Fuori dal Collegio, le Ninfee
erano quasi tutte fidanzate con altri figli di celebrità, giovani imprenditori di
successo, rapper e giovani attori. Perciò, perché fissarsi su un professore
quarantenne che vestiva malissimo e che di certo non era milionario? Laurent
Ulay era invece l'oggetto del desiderio di molte Perdute, e questa era cosa
nota in tutto il Collegio. Forse era anche per questo motivo, il suo essere
l'idolo delle Perdute, che le Ninfee lo sminuivano. E anche in questo io mi
sentivo più vicina alle Perdute che alle Ninfee.
Mi preparai a mettermi in contemplazione di Ulay, fantasticando di baciarlo,
quando sullo schermo apparve un quadro inquietante. Raffigurava un papa
seduto sul trono, con il viso blu, sfigurato da un urlo disumano.
- Oggi parliamo del più importante pittore figurativo della seconda metà del
Novecento. Sapete di chi parliamo, no?
Si udì forte e chiara la voce del Ghepardo Bianco, che doveva essere appena
entrata perché se ne stava in piedi sulla soglia.
- È Francis Bacon.
Ulay annuì e cominciò una lezione splendida: faticavo a prendere appunti,
perché non volevo perdermi neanche una parola di quello che diceva. Me ne
stavo lì, imbambolata.
- Commetteremmo un grande errore a parlare semplicemente di deformazione
espressionista – continuava Ulay, mentre io me ne stavo con gli occhi
sognanti – perché qui abbiamo...
- Che ne dici se dopo pranzo ci andiamo a fare una bella cavalcata, Off? – mi
distolse Jane. – Voglio chiedere se mi fanno montare Drop, è tanto tempo
che...
- Jane, sto seguendo! Ne parliamo dopo!
- Ci vengo io, Jane – intervenne Keira, che aveva sentito. – Lascia perdere
Off, sta ascoltando il suo cocco...
Cercai di ignorare Keira e di concentrarmi di nuovo sulla lezione. Il
Ghepardo Bianco chiese la parola e domandò al professore se il parallelismo
con Munch fosse azzardato. Ulay le sorrise e la ringraziò per l'osservazione, a
suo dire corretta.
- Se avete visto il film La Corazzata Potemkin, allora potrete anche ravvisare
una somiglianza con il volto urlante di Odessa...
- La prossima volta, Off, siediti in mezzo alle Perdute. Il fan club di Ulay è
tutto lì...
La provocazione di Keira mi urtò i nervi, più perché mi aveva distratto dalla
lezione che per ciò che aveva detto.
- Scusa se mi interesso più all'arte che alle cavalcate – le risposi, mentre il
cuore mi batteva forte. Dissi cavalcate come se volessi intendere rapporti
sessuali, perché Keira adorava vantarsi delle sue conquiste. Avevo cercato di
usare lo stesso tono di Johanna, ma l'effetto non era paragonabile. Keira colse
bene il significato dietro cavalcate.
- Almeno io cavalco cavalli di razza. Tu non riusciresti a farti cavalcare
neanche da uno sfigato come Ulay, insulsa come sei.
Avvampai, non so se più per la rabbia o perché mi aveva colta sul vivo. Finsi
di ignorarla, invece quelle parole mi risuonarono in testa per tutta la lezione.
2. Nanskij, il Ghepardo Bianco
Dopo cena ero solita esercitarmi per una mezz'oretta al violino e poi fare una
passeggiata lungomare con le mie amiche, ma quel giorno ero ancora
arrabbiata con Keira per ciò che aveva detto e avevo preferito restare da sola,
con l'unica compagnia dei biscotti al cioccolato. Ero molto golosa e, per
compensare la mia voracità in fatto di dolciumi, mi costringevo a sfiancanti
nuotate nella piscina del collegio.
Mi ero tolta le scarpe e le avevo infilate nello zainetto. Volevo sentire la
carezza della sabbia fresca sotto le piante, mentre camminavo, e intanto
sgranocchiavo biscotti. Non c'era niente di più bello che guardare il mare e
pensare ai fatti miei. Be', a parte suonare il violino. Le luci dei grattacieli di
New Heakon si moltiplicavano sul mare, con i loro colori, e mi sentivo un po'
felice e un po' triste. Keira aveva detto qualcosa che mi aveva fatto male e io
sapevo perché mi avesse colpita così tanto. Avevo diciannove anni e fino ad
allora avevo avuto solo una breve storia con un ragazzo, Matthew, durata
neanche tre mesi. Dopo di lui, che mi aveva lasciata per mettersi con una
modella conosciuta su Instagram, mi ero bloccata e non ero più uscita con
nessuno. Mi ero convinta che i ragazzi che mi corteggiavano lo facessero solo
per via della celebrità dei miei genitori. Erano incuriositi dalle feste, dai red
carpet, volevano semplicemente venire nella nostra villa di Miami o nel
nostro attico nella zona più esclusiva di New Heakon. D'altra parte uscire con
ragazzi famosi mi spaventava, perché avrei sempre avuto i paparazzi addosso,
la mia faccia sui siti di gossip e sui giornali, ed essere al centro dell'attenzione
proprio non faceva al caso mio. Il mio sogno era di suonare il violino in
un'orchestra sinfonica e basta. Insomma, da un certo punto di vista ero una
specie di suora. Non avevo mai niente da raccontare durante le serate del
terzo venerdì del mese, quando io e un gruppo di Ninfee ci incontravamo per
parlare di ragazzi e di sesso.
Pescai dalla busta un altro biscotto al cioccolato e, non appena feci per
addentarlo, vidi il Ghepardo Bianco venire verso di me. La regola non scritta
imponeva che le Perdute e le Ninfee non dovessero salutarsi e possibilmente
neanche rivolgersi la parola, se non per lanciarsi qualche provocazione. Mi
preparavo ad abbassare gli occhi e fare finta di niente, aspettando che mi
superasse, ma poi, quando me la ritrovai di fronte, alzai lo sguardo. Non so
perché, ma all'improvviso fui assalita da uno strano imbarazzo che mi portò a
rompere il silenzio.
- Ciao – la salutai.
Il Ghepardo Bianco mi fissò, sorpresa. Rispose al mio saluto con un sorriso
che mi allargò il cuore.
La chiamavano il Ghepardo Bianco, ma il suo nome era Alexandra Nanskij.
Doveva il suo soprannome al fatto che, dalla tempia sinistra fino al collo era
coperta di piccole macchie, come fitte lentiggini. Rendevano il suo viso
ancora più particolare di quanto già non fosse. Vestiva come un ragazzo e
solo di bianco, magari con una piccola nota di colore come un fazzoletto
rosso nel taschino della giacca o un foulard blu intorno al collo. Era una
ragazza altissima, con un fisico androgino scolpito dallo sport. Aveva i
capelli castani, che le arrivavano poco sotto il collo ed erano sempre
disordinati e arruffati. Le sue labbra erano sottili e il mento era attraversato da
una piccola spaccatura.
- Mi avresti salutata lo stesso, se ci fosse stato qualcuno in giro? – mi chiese.
- E tu? – rilanciai.
Lei rise. La luce della luna sembrava esserle entrata negli occhi e lei la
restituiva sotto forma di piccoli bagliori.
- Be', comunque un errore può capitare a tutti – scherzai. La verità era che il
suo sguardo mi metteva un po' in soggezione.
- Non mi offri neanche un biscotto? Dobbiamo celebrare questa nuova
amicizia, non trovi?
Il Ghepardo Bianco infilò la mano nella mia busta di biscotti, senza nemmeno
chiedermi il permesso. Rimasi spiazzata da tanta confidenza, dopo che per
quasi un anno non ci eravamo filate di pezza.
- Sarà meglio che sloggi. Sono molto suscettibile sui miei biscotti.
- Hai paura che arrivi qualcuno? – mi provocò, sgranocchiando il biscotto e
prendendone subito un altro.
- Adesso sono io la paurosa? Guarda che sono stata io a salutarti per prima.
Direi che ne ho di coraggio!
Nanskij sorrise.
- Ti giuro che da oggi in poi ti saluterò sempre io per prima, Ofelia.
Soprattutto davanti alle Ninfee.
- Allora, punto primo. Ofelia mi ci chiama solo mia madre quando è
arrabbiata. Chiamami Off.
- Off?! Ma che sei, un interruttore? On e Off?
- Non mi piace che mi chiamino Ofelia, va bene?
- E allora io cosa dovrei dire? Odio essere chiamata Ghepardo, anzi ti prego
di non mettertici anche tu!
- Non cambiare argomento. Punto secondo, non mi pare il caso di salutarsi
davanti alle Ninfee. Penso che tu conosca il codice di comportamento...
Avevo appena chiarito una cosa che non condividevo. Ma perché? La
delusione nel suo sguardo era palese. Mi fece male vederla così. In fondo io
non dicevo sul serio... o sì? Non lo sapevo neppure io: volevo o non volevo
salutarla davanti a tutti?
- Come preferisci, Off. È stato bello lo stesso. Buona passeggiata e grazie dei
biscotti.
Il Ghepardo Bianco mi superò e io mi sentii subito una cretina di prim'ordine.
- Aspetta, Ghepardo – era così strano rivolgersi a lei.
- Nanskij, ti prego.
- Va bene. Nanskij. Possiamo fare un compromesso.
Guardai la sua ampia schiena. Lei si voltò appena, mostrandomi il profilo.
- E quale sarebbe?
- Potremmo salutarci con un sorriso. Ti va?
- No, Off. Non rinuncio al tuo “ciao”, adesso.
Mi scappava da ridere, ma non glielo detti a vedere.
- Okay. Però hai giurato che mi saluterai sempre tu, per prima.
- Lo farò. Ah, se ne hai voglia mi farebbe piacere mostrarti qualcuno dei miei
quadri.
Ci accordammo per sabato mattina, nella sua stanza, poi se ne andò,
lasciandomi sola con i miei pensieri.
Era stato tutto così strano, quasi incredibile. Ed ero stata io a rompere quel
muro che altre, prima di me, avevano innalzato tra noi e loro. Avrei voluto
restare ancora un po' con lei. Non sapevo neanche cosa avremmo potuto dirci,
eppure la sua compagnia mi attirava.
Proseguii con la mia passeggiata sul lungomare, sentendo dentro di me che
avevo fatto una cosa giusta, quella sera. Una cosa che, tra l'altro, aveva
spazzato via dalla mia mente la cattiveria detta da Keira. Ero fiera di me
stessa. Arrotolai la busta di biscotti e la infilai nello zaino. Non riuscivo a
smettere di sorridere e di sentire il mio cuore gonfio di orgoglio.
3. Come in quel film...
C'era l'usanza, nel Collegio, di incontrarci ogni terzo venerdì del mese, verso
le due di notte, per leggere, suonare e per confidarci segreti. Il nostro gruppo
era formato da quindici Ninfee e il luogo dell'incontro era un deposito di
legna situato in fondo al bosco. Era una cosa che avevamo copiato dal film
“L'attimo fuggente”: l'idea di formare anche noi una piccola Società di Poeti
Estinti ci aveva eccitato sin dal primo giorno, quando a Keira venne l'idea.
L'aria della notte era qualcosa che accendeva la nostra voglia di raccontarci,
come se poi la luce del mattino avrebbe cancellato le parole dette e le
confidenze. Le riunioni, coordinate sempre da Keira, iniziavano con la lettura
di qualche poesia che avevamo studiato o letto per conto nostro, poi
proseguivano con un po' di musica, se qualcuna di noi aveva voglia di portare
con sé lo strumento. La parte più attesa, però, era quella delle confidenze.
Non c'era verso di sottrarsi, perché la regola era chiara: ognuna doveva
raccontare qualcosa, altrimenti avrebbe saltato le tre riunioni successive e si
sarebbe persa un bel mucchio di segreti!
Per fortuna io e Keira, dopo il battibecco di quel giorno a lezione, ci eravamo
perdonate, anche perché essendo compagne di stanza sarebbe stato davvero
triste restare offese a lungo. Io avevo riconosciuto che il mio “cavalcate” era
stata una sgradevole allusione, mentre lei si era scusata per il suo “insulsa
come sei”, dettato dalla rabbia. E così, messi da parte i dissapori, la riunione
di quella notte era cominciata. Naturalmente, quello che veniva confidato
durante quegli incontri doveva restare tra di noi e finora, a essere sincere,
tutte sembravano aver preso la regola con assoluta serietà.
Avevo voglia di far ascoltare alle ragazze un pezzo su cui mi ero esercitata in
quelle settimane, ovvero “La capricieuse Op.17” di Edward Elgar. Mi
piaceva suonare per me stessa, ma ancora di più mi emozionava esibirmi per
qualcuno, e le ragazze mi incoraggiavano sempre. Talvolta ci esibivamo
insieme, lì nel deposito, ed era qualcosa di così emozionante, quando
eravamo in sintonia, che talvolta mi ero ritrovata a pensare che quella potesse
essere la felicità perfetta!
Sedute sul tappeto, alla luce di qualche candela, le ragazze mi ascoltarono
suonare nel più religioso dei silenzi. Mi sentivo scoppiare il cuore
dall'emozione, nonostante non si trattasse di un brano malinconico, come
quelli che preferivo.
- Sei grande, Off!
- Bravissima!
Le ragazze applaudirono, mentre la luce tremolante delle candele illuminava i
loro occhi brillanti. Eravamo tutte felici di trovarci lì, pregustando le
confidenze e preparando nella mente qualcosa da confidare alle altre.
- Bene, ragazze! Se qualcuna vuole condividere una lettura o un pensiero,
prima di cominciare la seconda parte della riunione... – disse Keira.
- No, no... – rispondemmo quasi in coro, ansiose di passare alla parte più
divertente.
- Perfetto, allora direi che possiamo iniziare il giro. Atmosfera, Nora!
Nora spense due candele, in modo che la luce fosse più flebile e si creasse
un'atmosfera ancora più raccolta.
- Posso cominciare io? Sto scoppiando dalla voglia di dirvi una cosa... –
dichiarò Adele.
Tutte assentimmo col capo. Io ero già entrata appieno nel clima confidenziale
e me ne stavo rannicchiata, con le orecchie tese all'ascolto e il classico mal di
pancia da emozione. Istigammo Adele a iniziare subito il racconto e lei per un
po' non riuscì a smettere di ridacchiare per il nervosismo.
- Ho fatto sesso con Justin Holloway.
- Cosa?! – fu il commento corale.
Justin Holloway era il cantante del momento. La sua ultima hit, utilizzata
come brano principale di un film d'animazione, era stata il tormentone
dell'anno in tutto il mondo. Di lui si parlava di continuo sui giornali, perché
aveva un pessimo rapporto con i fan (che comunque lo adoravano) e con i
paparazzi, e finiva spesso nell'occhio del ciclone.
- Ma non stava con Emily... quella lì, la modella tettona?
- Non lo so, ma anche se fosse chissenefrega!
- Raccontaci tutto, che aspetti? Come vi siete conosciuti?
- Al party dei Globes. Avevo accompagnato mio padre, non avete visto le
foto?
E chi non le aveva viste? Suo padre era uno degli attori candidati al premio, e
aveva fatto la sua passerella sul red carpet tutto orgoglioso, insieme alla sua
splendida figlia.
- A proposito, avevi un vestito favoloso. Dior, vero? – intervenni io.
- Sì, Dior. Be', comunque... Lui si è avvicinato, mi ha fatto i complimenti e
mi ha dato l'indirizzo del suo albergo. Ovviamente dopo la serata mi sono
presentata lì. E niente, mi è saltato addosso. L'abbiamo fatto tre volte.
Ci rimasi male. Non che mi aspettassi qualcosa di romantico, però, ecco...
andare a letto con un ragazzo, per quanto bello e desiderato, senza neppure
scambiare due parole, era una cosa che faticavo a concepire. Dov'era il
desiderio, la tensione così preziosa che precede l'incontro tra due corpi?
- E com'è lì sotto? È messo bene? – domandò Jane.
Adele riprese le sue risatine nervose.
- Ragazze, io ve lo posso giurare: non ho mai fatto del sesso così appagante.
Non ce l'ha enorme, ma sa usarlo bene, cavolo! E poi si è dedicato a me in un
modo... Be', insomma, mi avete capita!
- Vi rivedrete, al prossimo permesso? – chiesi.
- Ma no, non mi ha mica lasciato il numero! Poi va in tour, quindi...
- Non me la conti giusta – osò Keira. – Ci sei stata a letto davvero o ci prendi
in giro?
- Vogliamo le prove! Vero, ragazze? – ci istigò Vania.
Adele, piccata da quei sospetti, spiegò che per evitare i paparazzi, appostati
davanti all'hotel, si era travestita e quindi resa irriconoscibile. Quindi non
esistevano prove del loro incontro. Le ragazze la canzonarono, sostenendo
che invece avrebbe dovuto farsi fotografare, perché ne avrebbe avuto in
cambio una bella pubblicità.
- Comunque ragazze, non so voi, ma a me questa cosa che abbiamo tre
permessi all'anno sinceramente pesa parecchio – si confidò Jane. – A voi non
rende nervose, l'astinenza?
Più o meno tutte assentirono, con versi e mugugni.
- Sì, ma anche se avessimo più permessi non è che cambierebbe tanto... In
una settimana mica ci si può fidanzare! Quindi comunque non faremmo sesso
– osservò Vania.
- Ah, vabbè. Tu sei troppo romantica, cara mia. Guarda che non c'è bisogno
di fidanzarsi, per fare sesso!
Ridemmo tutte, per ciò che Adele aveva detto.
- Alla fine chi sta meglio di tutti, qua dentro, sapete chi è? – parlò Nora.
- Chi? – chiedemmo quasi in coro.
- Lo sapete, dai! Il Ghepardo Bianco e Johanna.
Le ragazze annuirono. Io, invece, restai un po' interdetta.
- Secondo me quelle due si danno da fare alla grande... – continuò Nora. –
Sono anche nella stessa camera, quindi figuriamoci! Notti di sesso sfrenato...
- A me il Ghepardo dà l'idea di essere una porca di prima categoria – disse
Adele.
- Tu che ne sai? – domandò Keira.
- Be', dai... Come guarda, come si muove. Sembra che voglia leccarla a
chiunque!
- Quanto sei volgare! – disse qualcuna, e poi scoppiarono tutte a ridere.
- Ma sì, ragazze, fidatevi che è così! Ma lo sapete che si dice in giro? Che si è
fatta pure quella gran racchia della Jelinek!
Nanskij e la mia insegnante di violino? Quella diceria non era mai arrivata
prima d'ora alle mie orecchie. Anche le altre apparvero stupite da quel
pettegolezzo e sembravano volerne ancora.
- Ve l'ho detto – continuò Adele. – Il Ghepardo è una gran porca. Una porca
molto generosa...
Non mi piaceva che si parlasse di Nanskij in quel modo così triviale ed ebbi
l'impulso di difenderla; ma non sapevo proprio cosa dire; ero come bloccata.
Quando la risata morì sulle loro labbra, ci fu un momento di silenzio
generale.
- Certe volte mi dimentico che è una donna – Jane ruppe il silenzio.
- Cos'è, ti piace? – la stuzzicò Adele.
- Perché, volete dirmi che nessuna di voi ci ha mai fatto un pensiero? – Jane
si mise sulla difensiva.
- No! Va bene l'astinenza, ma è sempre una Perduta! Lo sai cosa pensiamo di
loro!
- Sì, ma... se non ci fosse questo regolamento? – continuò Jane. – Se fosse
una Ninfea... a voi non farebbe nessun effetto?
- Stai dicendo che tu andresti a letto con lei?
- Un pensiero ce lo farei, sì... Perché, voi no?
- Il regolamento è sacro – sbottò Keira.
- Dobbiamo considerarlo un coming out, Jane? – chiese Nora, maliziosa. –
Non ci avevi mai detto che ti piacciono le donne.
- Anche se fosse? Avreste problemi?
- Sei matta? Certo che no! Il nostro problema è solo che lei è una Perduta,
tutto qua.
- Lo so, Nora. L'abbiamo detto mille volte. Io preferisco gli uomini, ma non
ci posso fare niente se il Ghepardo mi attizza. E una notte con lei... sì, la
proverei!
- Però, pensandoci... – disse Adele – Basterebbe bussare alla sua porta, di
notte... E il Ghepardo sarebbe pronta a soddisfarti... D'altronde se ha avuto il
coraggio di andare con la Jelinek, si farebbe chiunque di noi, no?
- Sei veramente volgare, Adele... Pessima, proprio!
- Possiamo cambiare argomento? – disse Keira, infastidita, poi si rivolse a
me. – Off! Tu che ci racconti?
Io ero così presa dalla conversazione che quell'attenzione repentina su di me
mi spiazzò. Le ragazze mi incitarono a concedere loro qualche chicca, ma io
davvero non avevo novità, né sessuali né di altro genere.
- Be'... che mi piace Ulay già lo sapete...
- Oh mio dio, carina come sei potresti aspirare a ben altri che a Ulay! –
intervenne Adele.
Quella frase mi irritò.
- Be' – risposi di getto, boccaccia larga che non sono altro, – non è che
devono per forza chiamarsi Justin Holloway per portarmi a letto!
Tutte risero, anche perché la mia allusione al fatto che Justin per lei fosse
rimasto soltanto un nome (e una notte di sesso) era evidente. Adele mi fece la
linguaccia e mi lanciò contro il suo bracciale. Ridemmo ancora.
- Comunque, cara la mia Off – ribatté Adele – tu sei l'unica che non parla mai
di sesso. Di noi sai tutto... Cos'è, dopo Matthew te la sei sigillata?
Si era vendicata, e piuttosto bene. Risi anche io, con le altre. In effetti, Adele
non era lontana dalla verità.
- Povero Ulay... Tutto il giorno in un istituto pieno di ragazze... Ti pare che
non abbia voglia di fare sesso?
- Non è solo questione di sesso... – spiegai. – Io sarei contenta anche solo di
passare del tempo da sola con lui a parlare...
Partirono delle risate fortissime: ma chi volevo prendere in giro? Sì che mi
sarei accontentata di andare a letto con lui, per come mi sentivo “sensibile” in
quel periodo!
- Ma scusa, se ti piace tanto Ulay... almeno provaci, no? – intervenne Debbie.
Io arrossii un poco, all'idea che potessi farmi avanti con Ulay. Presi in mano
il mio violino, come se potesse darmi coraggio, ma le altre, pensando che
volessi suonare per evitare l'argomento, me lo tolsero di mano. Qualcuna di
loro mi si gettò addosso, facendomi il solletico. Mi scompisciai dalle risate,
urlando loro di smetterla, per pietà, e quando tornammo serie Keira disse: -
Devi parlare con Ulay, Off. Devi farlo per te stessa, non per noi! Anche se,
vista la qualità scadente delle tue confidenze... potremmo anche sospenderti
dal gruppo!
Keira mi strizzò l'occhio e le altre mi dettero delle pacche sulla schiena. Mi
sentii talmente sfigata, in quel momento, mentre le ragazze mi davano
colpetti come si fa per incoraggiare i bimbi, che decisi: - Vi prometto che alla
prossima riunione avrò qualcosa di importante da confidarvi.
Dopo un istante di smarrimento, gli urletti e gli applausi delle ragazze
riempirono il deposito. Mi sentii forte, in quel momento, totale padrona della
mia vita.
4. Blu
Sabato mattina, il giorno dell'appuntamento con Nanskij, era arrivato.
Una Ninfea avrebbe preferito rasarsi i capelli a zero piuttosto che mettere
piede nell'area del Collegio dove c'era il dormitorio delle Perdute. Era come
entrare in un quartiere pieno di topi, dicevano così. Invece, quando io arrivai,
restai stupita da quanto, in tutto e per tutto, la loro area fosse identica alla
nostra. Il lungo corridoio con la moquette scura, le pareti color champagne, i
vasi di fiori sulle piccole consolle. E, in fondo, cosa mi aspettavo di trovare?
Porte divelte e graffiti sui muri? Risi tra me e me. Durante il tragitto lungo il
corridoio qualcuna delle ragazze mi vide e mi rivolse un sorriso, nonostante
sapessero bene che non fossi una di loro. Com'erano diverse da noi Ninfee!
Più umane. Di certo, se una di loro si fosse avventurata nel nostro corridoio,
le Ninfee avrebbero cominciato a urlare come se si stesse avvicinando un
ladro. Ricambiai il loro silenzioso sorriso, mentre il petto mi si gonfiava
dall'emozione. La camera di Nanskij era la numero ventisette. Mi sistemai la
divisa e mi passai una mano tra i capelli, poi mi decisi a bussare. Mi
aspettavo che ad aprire la porta fosse Nanskij, invece venne Johanna.
- Entra, Off. È così che ti chiamano, no?
- Sì. Il Ghepardo...
- C'è, tranquilla. Ti sta aspettando.
Entrai in camera e venni assalita dai colori forti che dominavano in essa. In
questo sì che era diversa da una delle nostre camere, così da signorine della
upper class! Era come se fosse scoppiata una bomba. Letti sfatti, fogli
appuntati su una bacheca improvvisata, vestiti buttati ovunque e un odore che
non riuscivo a definire. Le pareti erano ricoperte di quadri, tanto che non c'era
neanche uno spazio bianco.
- Ghepardo, è arrivato il fiorellino... – mi canzonò Johanna, grattandosi con
energia la testa. Ripensai alla storia dello shampoo e alla discussione tra lei e
Keira.
- Ora capisco perché siete così creative! – risi.
- Non ti seguo – rispose Johanna.
- Be', si dice che il disordine stimoli la creatività... Scusa, era una battuta
scema...
Johanna rise.
- Sei simpatica, fiorellino!
Nanskij si affacciò dal bagno, mi salutò e poi mi venne incontro. Si era
ingolfata in una felpa bianca e indossava anche il cappuccio. Mi sorrise,
come se fino alla fine non pensasse che sarei venuta davvero
all'appuntamento e ora ne fosse sollevata.
- Allora, Off. Guardati intorno e dimmi se c'è qualcosa che ti piace – disse il
Ghepardo, accomodandosi sulla poltroncina. Si era seduta con le gambe
larghe, con i gomiti poggiati sulle ginocchia, come un ragazzo.
Osservai in silenzio le tele appese alle pareti. C'era qualcosa, non so dire se in
quei quadri o in generale nella stanza, che mi provocava una sensazione di
turbamento. Le tele erano dipinte con colori violenti. Molte erano
monocromatiche e sembravano incorporare anche dei frammenti di vetri o
metallo.
Johanna sembrava divertita dal mio restare lì, imbambolata a guardare i
quadri senza dire nulla. Ridacchiava, e a un certo punto, passandomi davanti,
cominciò a sfilarsi la maglietta come per prepararsi ad andare a dormire. Io
cercai di astrarmi dal contesto e studiai le tele per diversi minuti. Ero
sopraffatta da quei colori, da quell'universo così strano che sembrava
trasportarmi dentro di sé. Mi voltai verso Nanskij e la trovai che mi fissava,
in attesa del mio responso.
- Se ti fanno schifo dillo, lo accetto – mi rassicurò, sorridendomi. Sentii il
cuore accelerare il battito.
- No, è che... Non mi sono mai sentita così, guardando un quadro.
Nanskij sembrò illuminarsi. Si portò un po' in avanti con il busto, come
protendendosi verso di me.
- Spiegati.
- Non posso. È proprio questa la forza dei tuoi quadri. Io... – stavo
balbettando e, porca miseria, odiavo da morire quando mi succedeva – io non
riesco a spiegare quello che sento. So solo che... che faccio fatica a tirarmene
fuori. Vorrei restarci dentro per tanto tempo. Vorrei provare a capire e allo
stesso tempo... non voglio capire perché ho paura.
Forse mi sbagliavo, ma ebbi l'impressione che Nanskij avesse avuto un
sussulto, a quelle mie parole. Ci guardammo negli occhi per qualche istante e
fu ancora più sconvolgente che guardare un suo quadro. Non so perché. In
quel momento non mi importava di saperlo. Eravamo solo io e Nanskij in
quel piccolo universo.
- È bello quello che hai detto – commentò lei con una voce che uscì cupa,
densa.
Sentii un brivido percorrermi la schiena e volevo godermelo, ma Johanna
rovinò tutto: - Cazzo! Quanto avrei voluto dirtelo io, Ghepardo! Da come la
guardi adesso si direbbe che ha colto nel segno.
- Ho detto solo quello che penso – mi schernii io, che finalmente avevo
recuperato la capacità di parlare senza impappinarmi. Ma perché, come mi
guardava il Ghepardo?
- Sì, ti dico di sì! Hai detto una cosa semplice ma l'hai detta in un modo
intenso e al Ghepardo piacciono queste cose.
- Ma... ma se ho balbettato! – Guardai il Ghepardo e poi subito distolsi lo
sguardo per posarlo su Johanna.
- Hai detto le cose giuste. Io non sono brava con le parole. Faccio quello che
posso... – dicendo così si slacciò il reggiseno, catturando subito lo sguardo di
Nanskij. Johanna rise, facendo un po' la sciocca e passandosi le mani sui seni
generosi.
Mi si bloccò il respiro perché all'improvviso capii che tra Johanna e Nanskij
doveva esserci davvero qualcosa, come sostenevano le ragazze. Osservai
Nanskij. Era come se avesse morso Johanna con gli occhi, un morso fugace,
per poi distrarre lo sguardo mentre lei si infilava la maglia del pigiama, ben
aderente sui capezzoli turgidi. Che potere ha, un seno del genere! Io, con la
mia ridicola prima misura, avrei dovuto faticare dieci volte di più per essere
così sensuale, mentre a lei bastava solo sollevare un po' la maglietta per far
impazzire chiunque. Mi sentii fuori luogo; forse quello era solo un assaggio
di quello che ci sarebbe stato, di lì a poco, tra Johanna e Nanskij.
- Io vado, ragazze – dissi, scandendo bene le parole perché temevo che la mia
voce uscisse sconfitta come io mi sentivo da qualche parte di me.
- Non far caso a Johanna, non è ancora ora di dormire. Resta qui.
- No, davvero. Vado via.
Nanskij si alzò dalla poltroncina e venne verso di me. Ebbi quasi voglia di
indietreggiare, per una strana paura di emozionarmi più del dovuto. Ora che
sapevo quale meravigliosa artista fosse e che avevo la certezza sui suoi gusti
sessuali... be', era come se la mia curiosità su di lei si fosse centuplicata.
- Sarei felice se prendessi uno dei miei quadri – disse, posandomi una mano
sulla spalla. – Puoi farne ciò che vuoi. Appenderlo, darlo via... Ma voglio che
ne prenda uno.
- Non posso!
Lei allontanò la mano dalla mia spalla.
- E perché non puoi? Temi quello che ti direbbero le altre?
- No! È che mi sembra un regalo troppo importante!
Si curvò un po' su di me, per guardarmi dritto in viso. Ero bassina, al suo
confronto.
- Voglio che tu possa perderti in uno di questi quadri in qualsiasi momento lo
desideri.
Le sorrisi. I suoi occhi castani, seminascosti dal cappuccio della felpa, erano
come nocciole intrappolate in globi di vetro scintillante.
- Allora prenderò quello blu.
- Meno male! – sospirò Johanna, che si era infilata sotto le lenzuola –
Temevo che scegliessi quello rosso, che è il mio preferito.
- È tuo, Off.
Nanskij staccò la tela dalla parete e me la porse. La ringraziai, e lei si sporse
verso di me; mi baciò la fronte, tenendo incollate su di me le sue labbra per
diversi secondi.
Uscii frastornata da quella stanza, come se mi avessero lanciata nello spazio e
poi recuperata. Camminai a passo svelto verso la mia camera, stringendo la
mia tela dipinta di blu e... di anima.
5. Ulay
Non ebbi il coraggio di appendere il quadro blu di Nanskij. Lo avvolsi in un
telo e lo riposi nella mia parte della cabina armadio. Era da codarde, e me ne
rendevo ben conto, ma sapevo che quel quadro mi avrebbe fatto litigare con
Keira, e credetti che fosse meglio se la preparassi gradualmente alla cosa; ma
non era solo questo: mi piaceva l'idea di avere un piccolo segreto da
condividere con Nanskij (be', certo, anche con Johanna). Ormai era diventato
un rituale, per me, andare a sbirciare di nascosto il quadro sotto il telo, entrare
in quell'universo che Nanskij aveva dipinto con tanta forza, e perdermi nei
pensieri. Era difficile da spiegare, ma dentro di me sentivo come se quella
tela potesse darmi un po' di coraggio riguardo al professor Ulay. Ignoro quale
fosse il rapporto tra quel quadro e la mia intenzione di farmi avanti con Ulay:
forse, pensavo, quel quadro possedeva un'energia tutta sua, quasi una energia
sessuale. Ed era per questo che, quando mi perdevo in quel dipinto, era come
se nella mia mente qualcosa si svegliasse e mi dicesse: “hai diciannove anni,
hai un corpo che desidera essere di qualcuno, hai un'anima che vuole amare
ed essere amata... goditi questo momento, perché tutto potrebbe cambiare!”.
Così quella mattina mi accovacciai nella cabina armadio e scoprii il quadro
per poterlo guardare e farmi coraggio. Promisi a me stessa che quel giorno
avrei mosso un passo verso Ulay, e che – anche se fosse andata male – non
mi sarei arresa. Mi spazzolai i capelli a lungo. Erano il mio orgoglio, quei
capelli rossi, l'unica cosa di me che davvero mi piaceva. Spazzolarli mi
tranquillizzava e lo facevo spesso, soprattutto quando dovevo prepararmi a un
saggio musicale o esibirmi in pubblico.
Più tardi ero immersa nei miei pensieri su come approcciare Ulay quando una
voce mi raggiunse alle spalle.
- Buongiorno, Off!
Mi voltai. Era Nanskij. Sembrava di ottimo umore e le brillavano gli occhi.
Mi sovrastava con la sua altezza.
- Buongiorno, Nanskij – le risposi, sottovoce e un po' confusa. Pensai a
quante volte avevo visto il suo quadro e a quante cose volessi conoscere di lei
che l'aveva dipinto.
Il saluto, anche se l'avevo pronunciato a bassa voce, non sfuggì a una delle
Ninfee, che era nei paraggi. Mi guardò stizzita e poi si allontanò da noi.
- Grazie del saluto, Off. Se alzerai la voce un pochino di più ogni giorno,
magari a settembre potrò sentire il tuo saluto forte e chiaro.
Detto questo, Nanskij rise, mi scompigliò i capelli con una manata e poi si
recò spedita verso l'auditorium. Uffa, i miei capelli!
Quella mattina avevamo lezione di storia dell'arte con Ulay. Ricordando la
promessa che avevo fatto loro nella riunione di qualche giorno prima, le
ragazze del gruppo mi stuzzicarono parecchio, mormorandomi battutine e
incitandomi a darmi una mossa.
- Smettetela di impicciarvi, vi ho promesso che avrò notizie! Se mi date il
tormento, non vi dirò un accidente! – cercai di difendermi, ma fu piuttosto
inutile. Mi pentii della mia promessa, che era stata dettata solo da un moto di
orgoglio. Avrei voluto, invece, fare questa cosa solo e soltanto per me, non
per dare dimostrazioni a qualcuno. D'altra parte, chissà, la promessa alle
ragazze poteva anche essere uno stimolo in più per agire, oltre alla forza
ispiratrice del quadro blu.
Mi persi, come ogni volta, a fantasticare sul professore. Era così sicuro di sé
quando spiegava, tanto quanto sembrava timido sul piano personale. Cosa
che, peraltro, era solo nella mia immaginazione, dato che non lo conoscevo
affatto. I suoi occhi azzurro piombo in certi momenti brillavano sotto le
palpebre (molto cadenti, per uno che aveva in fondo solo quarant'anni):
ormai, da come cambiava la luce nel suo sguardo, capivo quando ci parlava
di un artista che amava in modo particolare, e la trovavo una cosa bellissima.
Gli altri professori, invece, erano talmente severi che non lasciavano
trasparire emozioni, ed era anche per questo che Ulay, oltre alla mia
insegnante di violino, era quello che sembrava più “vivo”. Sì, un po' come il
professore del nostro amato film “L'attimo fuggente”, di quelli che ti
farebbero appassionare persino a un foglio di carta bianco, tanto sanno
incantarti con le parole!
Giacometti, l'artista che stavamo affrontando nella lezione odierna, doveva
piacergli moltissimo, a giudicare dalla luminosità dei suoi occhi.
Quando la lezione terminò e chiusi i libri, conservai per un po' dentro di me
quella sensazione di nostalgia e di consapevolezza di aver imparato ancora
qualcosa di meraviglioso. Pensai che se Ulay fosse stato il mio insegnante di
violino avrei amato la musica dieci volte più di quanto la amassi già (ed era
una cosa quasi impossibile, visto che il violino era la mia vita)!
Le ragazze cominciarono ad abbandonare l'aula, le Ninfee in ordine e le
Perdute nella loro maniera caotica. Io feci segno a Keira di non aspettarmi e
lei, capendo al volo le mie intenzioni, mi strizzò l'occhio e poi si allineò con
le altre ragazze del gruppo, diffondendo la notizia nell'orecchio di ciascuna.
Raccolsi i miei libri e lasciai la mia postazione, scendendo le scalette
dell'auditorium per raggiungere Ulay. Lui non si accorse di me. Lo osservai
togliere il tappo della penna con la bocca, tenendolo ancora in bilico tra le
labbra, mentre scriveva qualcosa su un blocco. Lo trovai sensuale e quasi non
osavo interrompere la sua scrittura, ma ormai gli ero davanti.
- Professor Ulay!
Lui sollevò il mento e guardò nella mia direzione. Si tolse lentamente il tappo
della penna dalla bocca, forse vergognandosi di essersi fatto vedere così.
- Signorina Hunter. Mi dica.
Cercai di evocare alla mente il quadro blu di Nanskij, per farmi coraggio, ma
venni distratta dal pensiero delle labbra di Ulay e di quel tappo che aveva
appena abbandonato ma che conservava ancora l'impronta della sua bocca.
- Volevo chiederle se può consigliarmi un testo di approfondimento su
Giacometti – cercai di controllarmi anche se mi veniva da balbettare,
emozionata com'ero.
- Certo che sì. Sono contento che abbia suscitato il suo interesse – disse,
tenendo i suoi occhi fermi nei miei. L'idea che stesse solo fingendo sicurezza
mi dette il coraggio di osare.
- Se posso permettermi, professor Ulay, tutte le sue lezioni suscitano il mio
interesse. – Lo avevo detto davvero, e persino senza balbettare.
Ulay abbassò lo sguardo. Non mi sbagliavo, allora, sulla sua timidezza!
- Ne sono lusingato – disse, senza più guardarmi negli occhi, ma sorridendo.
Mi batteva forte il cuore.
- Posso chiederle cosa l'ha attratta così tanto di Giacometti da volere un testo
di approfondimento? – Aveva rialzato lo sguardo ora, e adesso ero io che mi
sentivo intimidita.
- Quando ci ha parlato delle sue sculture... che diventavano sempre più
piccole tra le sue mani e che lo spaventavano... Be', ho capito che doveva
essere un artista molto fragile.
- E la fragilità la colpisce?
- Be', sì. Mi spaventa e mi colpisce nello stesso tempo.
Ulay aggrottò le sopracciglia, come se per un momento non riuscisse più a
capire chi fossi o cosa gli stessi dicendo. Poi riabbassò lo sguardo e sorrise al
legno della scrivania.
- Amo moltissimo Giacometti.
Mi venne un tuffo al cuore, quando lo disse: non mi sbagliavo sulla luce nei
suoi occhi, quando parlava di un artista che amava!
- C'è un testo molto bello che posso prestarle – riprese, – ma non ce l'ho con
me, adesso. Posso portarglielo la prossima volta, se ha pazienza. Altrimenti
posso darle il titolo per procurarselo in altro modo.
- Non ho fretta, professore.
- Allora tra un paio di giorni sarà suo.
Lo ringraziai. Lui assentì con la testa e poi mi rivolse un ultimo sorriso, a
sguardo basso, prima di rimettere il tappo alla penna, raccogliere le sue cose e
lasciare la scrivania. Io rimasi lì, imbambolata, a guardarlo andare via.
Quando aveva già voltato le spalle e io stavo ormai per lasciare l'auditorium,
Ulay si girò appena verso di me, dandomi il profilo:
- Sono molto colpito. È un grande orgoglio, per un insegnante, che un allievo
voglia approfondire la lezione.
A stento trattenni l'emozione. Volevo dirgli qualcos'altro ma Ulay non si
aspettava risposta e così lasciò l'aula, quasi in fretta. Timido lo era senza
dubbio. Eppure era riuscito a esprimere la sua contentezza.
Non avevo barato, intuendo che Giacometti appassionasse anche lui; l'artista
svizzero mi aveva affascinata davvero e avrei letto ogni riga del testo che
Ulay mi avrebbe prestato. Avrei accarezzato ogni pagina di quel libro,
sapendo che il suo sguardo si era posato su quelle parole, che le sue dita lo
avevano sfogliato, con la delicatezza che si usa per toccare le cose preziose.
Ero così felice e orgogliosa di me! Ora avevamo qualcosa, anche se era una
piccola cosa, che ci legava.
Stavo ancora rallegrandomi per la mia iniziativa quando, fuori
dall'auditorium, trovai Keira e Nora che mi aspettavano. Ero certa che
volessero delle anticipazioni su com'era andata con Ulay, ma poi notai che
non sorridevano e, anzi, avevano delle facce strane.
- Andiamo a pranzo, raga? – domandai, fingendo di ignorare la loro
espressione.
- Constance ci ha detto che prima della lezione hai risposto al saluto del
Ghepardo Bianco. È vero?
Oh, cavolo.
- Come corrono, le notizie! – provai a sdrammatizzare.
- Si può sapere perché diavolo rispondi a quella pazza? La sai la regola, no? –
Keira sembrava quasi volermi sputare addosso, tanto il suo sguardo era pieno
di disprezzo.
- La conosci, la regola! – ribadì Nora.
- Be', state a sentire, forse è ora di piantarla con questa cavolata – sbottai. –
Anzi, sarebbe meglio che cominciaste a salutare anche voi.
- Dico, sei impazzita? – Keira mi si avvicinò a pochi centimetri dalla faccia.
- Cos'è, vuoi fare la rivoluzione? – La sostenne Nora. – Fai ridere i polli, Off.
- Non vi conviene litigare con me – giocai d'astuzia – perché rischiereste di
non sapere più niente. E sapete a cosa mi riferisco!
Funzionò. Keira abbandonò l'espressione astiosa e si allontanò dalla mia
faccia, e Nora si ammutolì.
- Andiamo a pranzo, va'.
Ci avviammo tutte e tre verso la sala mensa. Dentro di me non la smettevo di
ridere, anche se poi quel divertimento svanì al pensiero che forse ero stata sin
troppo ottimista a promettere alle ragazze qualche novità: e se il canale di
comunicazione che avevo appena aperto con Ulay si fosse chiuso?
6. Tramonto
Quando il professor Ulay mi chiamò alla fine della lezione successiva per
consegnarmi il libro su Giacometti, quasi trasalii. Mi chiamò a gran voce,
mentre le ragazze si stavano preparando a uscire dall'aula, e io – che pensavo
che saremmo rimasti soli come l'altra volta – ci rimasi non poco male. Mi
consegnò il libro dicendomi solo che potevo restituirglielo con calma perché
non aveva fretta di rientrarne in possesso. Io raccolsi dalle sue mani il
volume, lo ringraziai e poi mi avviai verso l'uscita, mentre le mie amiche mi
ronzavano intorno, lanciandomi qualche provocazione. Credo che nessuna di
loro, e in particolare Keira, credesse davvero che il mio interesse verso Ulay
fosse sincero. Per loro era incredibile che quell'uomo potesse attirarmi. Io,
invece, ero molto più preoccupata che lui potesse non essere attratto da me.
Quando più tardi, nei giorni successivi, restavo in camera a leggere il libro su
Giacometti, pensavo a tutto fuorché a ciò su cui stavo posando gli occhi. Il
mio sguardo scorreva in modo meccanico sulle parole e sulle immagini, e io
invece mi arrovellavo su come far capire a Ulay che mi piaceva. Necessitavo
di un consiglio, ma non avevo intenzione di chiederlo a Keira o alle altre
ragazze del gruppo, per carità. Avrebbero riso del mio essere così imbranata,
mi avrebbero dato il tormento. No, io avevo bisogno del consiglio di una
persona sensibile e seria. Appena formulai questo pensiero, mi balenò in
mente lei: Nanskij. Sorrisi, sentendomi subito preda dell'emozione. Ero certa
che Nanskij mi avrebbe capita, dandomi il consiglio che cercavo. Chiusi il
libro, lo sistemai con cura nel cassetto della scrivania e poi mi fiondai fuori
dalla stanza.
Cercai Nanskij nella sua camera, ma Johanna mi informò, un po' infastidita,
che era andata a correre sul prato intorno al maneggio.
Era l'ora del tramonto. Il cielo brillava di un rosa aranciato da una parte,
mentre voltando un po' la testa ci si poteva immergere in un timido blu.
Soffiava un vento che profumava di erba. Mi abbottonai il cardigan che
indossavo sul vestito (dopo le lezioni toglievo sempre la divisa) e mi
incamminai verso il maneggio, decisa ad aspettare Nanskij.
La vidi spuntare dopo qualche minuto dall'angolo dello steccato. Correva
fortissimo, con gli auricolari nelle orecchie. Le feci un cenno con la mano ma
lei, tutta presa dalla sua corsa, non si accorse di me. Sorrisi. Poco male,
l'avrei attesa. Dopotutto si stava così bene lì, con gli occhi persi in tutto quel
verde, spento dal tramonto del sole, e con lo skyline di New Heakon
all'orizzonte.
Potevo anche fingere che non fosse così, eppure l'idea che di lì a poco avrei
parlato da sola con Nanskij, e poi per chiederle un consiglio sentimentale, mi
emozionava. Mi sentivo dell'agitazione addosso, come tante formiche che mi
camminassero sulla pancia. Che idea sciocca, quella di paragonare l'ansia alle
formiche, eppure era proprio così che mi sentivo. Nanskij mi aveva sempre
affascinata, per quella sua aria da persona libera, che se ne frega del giudizio
altrui, ma anche per la sua fisicità così diversa da noi ragazze. Solo negli
ultimi tempi, però, avevo sentito il desiderio di conoscerla meglio, anzi, più
che un desiderio era quasi una necessità. Il suo talento mi attirava, il suo
rapporto con Johanna mi turbava, il suo sorriso mi rassicurava e allo stesso
tempo mi metteva sulle spine. Perché avevo sentito l'urgenza di chiedere a lei
un consiglio del genere? Eppure, ormai ero lì e...
- Off! – mi chiamò lei, arrivando nella mia direzione trafelata dalla corsa.
Io la salutai, mentre lei si tamponava la fronte con un asciugamano e mi
veniva incontro, con la maglietta così madida di sudore che le aderiva al
corpo. Sul suo petto c'era appena un accenno di seno.
- Stavi aspettando me? – mi chiese, ansimando un po' e sistemandosi
l'asciugamano intorno al collo. Era la fatica della corsa o la luce del tramonto
a rendere tanto rosa la pelle del suo viso?
- Sì! Perché, ti sembra strano?
- Strano... però bello – mi sorrise. – Che è successo?
Mi ronzava ancora in testa quello “strano però bello”, ma riuscii a risponderle
con nonchalance: - Non è che deve per forza essere successo qualcosa. Ormai
siamo amiche, no?
Nanskij rimase spiazzata dalle mie parole perché aggrottò le sopracciglia e
storse la bocca, come se le avessi appena detto chissà che.
- No? – continuai io, senza distogliere lo sguardo dal suo, così stranito.
Lei, di scatto, mi posò una mano sulla fronte, come per sentire se avessi la
febbre. Non so perché, ma quel suo gesto così fulmineo mi fece sobbalzare.
- Niente febbre, meno male – e rise, non prima di avermi scompigliato i
capelli.
- Cos'è, un vizio? – dissi un po' stizzita, dato che per me i capelli erano quasi
sacri, e non era la prima volta che Nanskij me li scompigliasse con una
manata. – Guarda che sono suscettibile sui capelli, eh. Toccami tutto, ma non
i capelli.
Lo dissi senza pensarci, lo giuro, ma poi riflettei un attimo sulla frase che
avevo detto e in qualche modo mi sembrò una provocazione sessuale. Lei,
però, continuava a ridere vedendo che mi sistemavo i capelli con le dita,
come meglio potevo.
- Devo farmi la doccia – annunciò Nanskij, facendo segno di avviarci verso
l'istituto.
- Aspetta... Ero venuta a chiederti un consiglio – osai.
- Certo, ormai siamo amiche – disse ironica, facendomi il verso per quello
che avevo detto prima.
- Dai! È una cosa seria.
Nanskij mi guardò con un misto di incredulità e divertimento, come si
guarderebbe un bambino che ti zittisca in modo brusco perché vuole
continuare a seguire l'andamento della Borsa in tv. Poi, però, il suo sguardo
cambiò, forse perché cambiò anche il mio: mi ero fatta terribilmente seria.
- Mettiamoci a sedere, allora – mi invitò, quasi buttandosi sul prato.
Io avevo un vestito pulito e non volevo sporcarmelo d'erba. Esitai.
- Muoviti, ne avrai trecento di vestiti! – e ridendo mi tirò giù, afferrandomi
dai polsi.
Senza grazia, rovinai sul prato e mi sentii una principessina imbecille.
Quando mi fui sistemata, cercai di ritrovare la giusta calma per cominciare il
mio discorso, ma ero emozionata. Osservai Nanskij, con i suoi arti
lunghissimi e i capelli incollati al viso.
- Ti decidi o no?
- Sì. Sì... È che c'è uno.
- Uno che?
- Un uomo.
- Aaah – Nanskij si lasciò andare a una specie di verso di noia. - È una cosa
d'amore? – chiese con voce schifata.
- Quale amore?! No! Diciamo... di attrazione.
- Di sesso?
Mi guardò dritto in faccia.
- Eh. Sì. Diciamo così.
- Sesso con un uomo?
Trasalii. Mi venne in mente lei che guardava il seno nudo di Johanna.
- Eh sì! Ti ho detto che c'è un uomo!
- Tu l'hai capito che non sono la persona giusta a cui chiedere certe cose? – e
rise.
Giocherellai nervosamente con i lacci delle mie Converse, tanto per
distogliere lo sguardo da lei. Cavolo, una reazione del genere non me
l'aspettavo. Adesso mi vergognavo a chiederle ciò che pensavo di chiederle,
perché mi rendevo conto che... ecco... da un certo punto di vista non poteva
comprendermi del tutto.
- Che fai, non rispondi? – mi chiese Nanskij, con dolcezza, sollevandomi il
mento con una mano in modo che riportassi lo sguardo su di lei. Guardai le
macchie che coprivano una parte del suo viso: nella luce del tramonto
sembravano quasi dorate e le davano l'aspetto di una creatura non terrena.
- Sì, lo so. Ho capito cosa vuoi dire.
Nanskij assentì con lo sguardo. Sembrava sollevata che io avessi capito,
senza dubbi, che gli uomini non le interessavano e che quindi lei era la
persona meno adatta a darmi consigli su come comportarsi con loro.
- Neanche vuoi sapere chi è che mi piace? – tentai l'ultima carta.
- E va bene, Off. Dimmi tutto. Ti prometto che ti darò questo consiglio, anche
se non ci capisco niente.
Bene! Mentre io esultavo, dentro di me, Nanskij si frizionava di nuovo i
capelli con l'asciugamano, senza smettere di guardarmi, in attesa della mia
“rivelazione”.
- Allora... Non ridere: è il professor Ulay.
Mi batté forte il cuore, appena pronunciai quel nome. Nanskij si arrestò per
un istante.
- Perché dovrei ridere? Ulay farebbe innamorare persino me, se non fosse un
uomo.
Sorrisi a trentadue denti, fiera della mia scelta che invece le Ninfee tanto
disprezzavano.
- Io non sono innamorata, però. Mi piace tantissimo e...
- Vuoi fare sesso con lui. E magari ti immagini che mentre ti apre le cosce ti
fa anche una bella lezione extra su Malevic o su Duchamp.
- Che dici?!
Meno male che il tramonto già falsava i colori sulle nostre facce, altrimenti
Nanskij si sarebbe accorta che ero arrossita.
- Ti prendo in giro, sciocca. Allora, da me cosa vuoi sapere? Come sedurlo? –
Nanskij sorrise, poi si passò una mano tra i capelli inumiditi di sudore.
- Non lo so, dammi un consiglio! L'unica cosa che sono stata capace di fare è
stata chiedergli un libro in prestito, vedi un po' tu come sono messa...
Nanskij sembrò riflettere per un attimo, poi, con naturalezza, mi disse: -
Allora la chiave deve essere quel libro. Scrivi un biglietto e lo infili tra le
pagine, ma in modo che sporga un po', altrimenti non lo vedrà mai.
Sgranai gli occhi: cavolo, sì che era un'idea! Così non dovevo neanche
dirglielo a voce!
- Che scrivo? – chiesi, con il candore di una bambina (scema!).
Nanskij mi fulminò con lo sguardo, poi ridendo si avventò su di me e mi
atterrò, facendomi ritrovare con la schiena sull'erba. Scoppiai a ridere,
cercando di respingerla mentre lei mi bloccava sul prato. Pensavo ai miei
poveri capelli, appena lavati, ma mi stavo divertendo. Nanskij mi lasciò
libera, poi si alzò in piedi, aiutando anche me a sollevarmi.
- Scrivigli qualcosa di semplice, niente cose esplicite.
- Ma ti pare che gli scrivo “professore, voglio venire a letto con lei?” – risi.
- Tanto lo capisce lo stesso, brutta viziosa che non sei altro. Fammi andare a
lavare, dai, che puzzo da sei metri.
Si avviò a passo veloce verso l'istituto, mentre io la seguivo a poca distanza,
felice per il consiglio ricevuto ma soprattutto per qualcosa che ancora ero ben
lontana dal comprendere.
- Lo sai che lo guardo spesso, il tuo quadro? – le confessai, mentre il sole era
ormai scomparso dalla vista.
- Sul serio? – rispose lei, senza rallentare il suo passo spedito.
Le dissi che era così, che quel quadro mi trasmetteva una grande forza e
neppure io sapevo spiegarmi perché. Spiai la sua espressione. Sorrideva, e la
cosa mi rese fiera di averglielo detto.
Quando rientrammo nell'istituto, io e Nanskij ci separammo in silenzio, senza
salutarci. Solo con un sorriso.
7. Violino e vestiti azzurri
La lezione di musica con la signora Jelinek era terminata da mezz'ora, le altre
ragazze erano andate via, ma io ancora non mi decidevo a lasciare l'aula.
Quando si trattava di suonare il violino quasi non riuscivo a sentire la
stanchezza ed era solo la fame, a un certo punto, a segnalarmi che era ora di
posare lo strumento e recarmi in sala mensa.
Ero nel bel mezzo dell'esecuzione di un pezzo quando percepii la presenza di
qualcuno che entrava dalla porta socchiusa e si fermava. Dalla mia posizione
non potevo vedere chi fosse, anche perché avrei dovuto voltare la testa.
Decisi allora di continuare a suonare, anche se concentrarmi sulla musica
risultò più difficile, perché per tutto il tempo mi domandai chi potesse essere
il curioso di turno. Cercai di astrarmi e di lasciarmi prendere di nuovo dalla
musica e per fortuna ci riuscii. Portai a conclusione il pezzo, poi mi voltai.
Nanskij era lì, immobile e sottile quasi come una scultura di Giacometti.
Quando i nostri sguardi si incrociarono, lei mi applaudì fortissimo.
- Che meraviglia! – ripeteva – Sei straordinaria!
Sentivo che la mia faccia passava attraverso tutti i colori dell'arcobaleno,
eppure riuscii a mantenere un po' di calma apparente.
- Non esageriamo, ho ancora molto da imparare.
Lei mi venne incontro, mentre io sistemavo il violino e l'archetto nella
custodia.
- Davvero, Off. Ci è mancato poco che mi mettessi a piangere.
- Vedi? – mi voltai a guardarla. – Devo ancora studiare molto prima di farti
piangere.
Lei mi sorrise. Aveva i capelli più ordinati del solito, e portava una camicia
alla coreana, ovviamente bianca, e jeans bianchi strappati all'altezza delle
ginocchia e spruzzati di vernice blu. Si era disegnata due strisce colorate sotto
un occhio, come un capo indiano. Eccentrica come sempre. Pensavo che un
giorno sarebbe diventata famosa, dentro di me ne ero convinta. E forse su
Wikipedia avrebbero scritto, nella sezione curiosità, che si vestiva sempre di
bianco.
- Sai cosa mi piacerebbe, Off?
- Cosa?
- Mi piacerebbe lavorare insieme a te. Non lo so, improvvisare. Tu suoni e io
dipingo.
- Sarebbe bello – le risposi, ma senza guardarla. Pensai che dovevo esserle
piaciuta davvero tanto, se mi chiedeva di fare una cosa simile. Fingevo di non
essere turbata dalla sua richiesta, ma dentro di me mi sentivo in fibrillazione.
Vederla al lavoro su uno dei suoi quadri doveva essere straordinario, un vero
privilegio.
- Ehi, mi concedi un po' della tua attenzione? – scherzò lei, ma con una punta
di risentimento nella voce.
- Sì, eccomi – la guardai.
- Allora, che ne pensi?
- Sì, te l'ho già detto.
Mi sentivo assalire da una strana sensazione mentre la guardavo di fronte a
me, con quel suo viso così particolare e colorato e quei capelli che un po' la
nascondevano. La sua altezza contribuiva a incutermi un certo senso di
inferiorità, che però cercavo di non dare a vedere.
- Sei strana, Off. È perché lui non ti ha ancora risposto, vero?
Si riferiva a Ulay, naturalmente. Gli avevo restituito il libro al termine di una
lezione, dicendogli semplicemente che lo avevo trovato illuminante.
- Non mi ha risposto, infatti. Ma non sono strana, per niente!
- Allora poi ci accordiamo per quella cosa, okay?
- Quale cosa?
- Creare insieme, no? Lo vedi che sei strana? – Mi scompigliò i capelli di
brutto. Ci provava gusto, c'era poco da fare.
- Sei stronza, allora! – sbottai, sistemandomeli subito.
- Devi vestirti di azzurro, Off. Esalterebbe il rosso dei capelli – disse,
avviandosi verso l'uscita dell'aula.
- Vaffanculo – e continuai a lisciarmi i capelli con le dita.
- Arrivederci, Miss Ninfea. Vestiti azzurri, mi raccomando.
Risi tra me e me e raccolsi le mie cose. Ripassai nella mente i capi azzurri
che avevo nell'armadio.
8. Luce e buio
Una domenica mattina Nanskij e io ci ritrovammo nel laboratorio artistico, di
buon'ora. Mi aveva dato appuntamento all'alba; non credevo che sarei mai
riuscita a svegliarmi tanto presto, invece il pensiero di quell'incontro mi
aveva messo addosso una specie di agitazione, tanto che mi ero destata già
nel cuore della notte.
Ero ancora un po' intontita, mentre lei sembrava già carica, e anche molto
affamata, dato che aveva trafugato dei cupcake dal buffet della colazione e li
aveva depositati su un tavolinetto disseminato di tubetti di colori.
- Guarda che bella luce – la invitai ad affacciarsi dalla finestra, ma Nanskij si
era già infilata il camice e stava preparando i materiali per la sua opera. La
osservai, sorridendole senza che lei mi guardasse, perché mi intenerì il suo
essere così innamorata delle sue cose. Era delicata quando toccava i tubetti di
tempere e i materiali di cui si serviva, tanto quanto era brusca e mascolina
quando si trattava di maneggiare cibo, libri o altro. Forse accorgendosi del
mio sguardo fisso su di lei, Nanskij sollevò la testa da ciò che stava facendo.
- Suona.
Era un ordine troppo gradito perché io potessi ribellarmi. In fondo ero lì
apposta, per suonare tutto quello che volevo mentre lei creava alla sua
maniera. La gioia improvvisa mi svegliò dal mio intorpidimento e così
cominciai a suonare. Dentro di me indovinavo perché Nanskij avesse scelto
un orario così mattiniero: voleva che il laboratorio fosse, per qualche ora,
tutto per noi, lo scenario perfetto per la combinazione delle nostre arti e la
reciproca ispirazione.
Suonavo, mentre la osservavo rapita nel suo lavoro. Operava tutta
concentrata, con l'espressione seria e quel camice che le dava la parvenza di
un medico. I capelli arruffati, le mani impiastricciate di colori. Sembrava
alienata da tutto il resto; poi, però, i sorrisi che mi rivolgeva di tanto in tanto
mi comunicavano che sì, stava ascoltando la mia musica, e le piaceva. Per me
erano come piccoli momenti di felicità, gocce di pioggia residue che cadono
da un filo teso.
Stavo ancora suonando quando Nanskij posò tutto e si allontanò dal suo
quadro per prendere i cupcake che aveva posato sul tavolinetto. Ecco che le
sue mani non conoscevano più la delicatezza, e tornavano a essere sbrigative,
quasi rudi, su quei dolcetti. Venne verso di me, staccando un morso dal
cupcake. Io allontanai l'archetto dal violino.
- Non smettere – mi invitò, tenendo i suoi occhi fissi dentro ai miei.
Stavo per rimettermi a suonare quando lei avvicinò il cupcake alle mie
labbra, come se volesse imboccarmi e come se fosse la cosa più naturale del
mondo offrirmi dalle sue mani sporche di colori quel dolce che aveva morso.
Io schiusi le labbra e lei avvicinò il cupcake alla mia bocca. Qualcosa, in quel
gesto, mi turbò. Distolsi subito lo sguardo da lei e riattaccai a suonare,
masticando e cercando di scacciare quella sensazione. Credevo che Nanskij si
mettesse di nuovo al lavoro, invece si sedette sullo sgabello e rimase ad
ascoltarmi.
- Ma sì, prendiamoci una pausa – inventai, un po' perché ero imbarazzata da
tutta quell'attenzione, un po' perché pensai che forse voleva fare quattro
chiacchiere. Deposi lo strumento.
- Cos'è che ami di più, della musica?
Rimasi un po' spiazzata dalla sua domanda e ci riflettei su un momento.
- Quando suono è come se... come se fossi la Ofelia che vorrei sempre essere.
- E com'è che vorresti essere?
Nanskij sembrava divertita, o forse intenerita, da ciò che avevo risposto.
Anche quella era una domanda difficile.
- Vorrei essere sicura di sapere chi sono.
- Non lo sai, chi sei?
I suoi occhi mi puntavano.
- Non sempre, però la musica mi dà un'identità. Non so come dire. È una
cavolata?
- Per niente. È una cosa molto profonda. Non me l'aspettavo mica, una
risposta del genere! – rise.
- Bella considerazione, hai di me!
- Dai, lo sai che scherzo. Chi ama la musica non può non essere profondo.
- Ti sei salvata per un pelo – scherzai.
Mi avvicinai al tavolinetto per prendere un cupcake. Era come se volessi
anticiparla, per evitare di ripetere la scena di poco prima, anche se non avevo
capito cos'era di preciso a procurarmi quel timore.
- Ti sei mai innamorata, Off?
Per poco non mi andava di traverso il boccone, ma finsi noncuranza.
- Forse.
- Che razza di risposta è “forse”?
- Che non ne sono sicura. Perché, ti sembra strano?
Nanskij si alzò di scatto dallo sgabello e venne verso di me. Mi bloccò il
braccio a mezz'aria e rubò il pezzo di cupcake che stavo portando alla bocca.
Masticò il boccone, dopo avermi lasciato libero il polso, mentre io ero di
nuovo in preda a quella strana confusione.
- Amore e forse non possono nemmeno stare nella stessa frase. Se ami lo sai,
lo sai di sicuro. Buoni questi dolci, eh?
Si succhiò le dita sporche di crema e anche quel gesto così stupido mi
sembrò, fatto lei, qualcosa che avrei preferito non vedere.
- Perché tu, scusa, quante volte ti sei innamorata? – cercai di darmi un tono.
- Una volta sola – la sua voce si era fatta grave.
- Come è finita?
Nanskij andò lentamente verso la finestra, la aprì e si sporse, sollevando il
viso per lasciarsi baciare dal sole. Io morivo dalla curiosità e insistei:
- Chi era?
- Una mia compagna di scuola. Si chiamava Loreena. Avevamo quindici
anni, più o meno. Mi aveva incuriosita subito, perché portava occhiali da
presbite e quegli occhi azzurri sembravano giganteschi. Era molto timida, non
parlava con nessuno. Durante la ricreazione, invece che uscire nel cortile
della scuola come me e gli altri, si metteva a disegnare.
- Era un'artista come te.
- Sì, ed era bravissima. Cominciai a fermarmi anche io in classe nelle pause.
Le parlai della mia passione per il disegno e lei ne fu molto felice. Piano
piano iniziammo a disegnare insieme. Era bellissimo.
- Ti innamorasti subito di lei?
- Sì. Ogni giorno aspettavo con ansia la ricreazione per poter disegnare con
lei e mentre disegnavamo parlavamo, ci conoscevamo... Ero l'unica con cui
Loreena parlasse, e questo mi rendeva felice.
Raggiunsi Nanskij alla finestra e mi affacciai con lei.
- Un giorno avevamo un compito in classe di algebra. Io me la cavavo molto
bene, mentre per lei era un incubo. Io lo sapevo, perciò le passai un
foglietto... Alla fine dell'espressione, proprio sotto il risultato... scrissi “ti
amo”.
- Bello – commentai, e Nanskij mi guardò e sorrise.
- Lei non disse nulla, neanche durante la pausa, tanto che mi venne quasi il
dubbio che non l'avesse letto... anche se era impossibile. Poi, però, un
pomeriggio mi invitò a casa sua, per fare un po' di algebra insieme.
Studiavamo l'una di fianco all'altra, quasi attaccate. Mi batteva forte il cuore,
a starle così vicino. Ci vedemmo altre volte, sempre a casa sua. Un giorno
prese la matita e scrisse “anch'io” sul mio libro di algebra.
- Bello... – ripetei.
- E allora ebbi il coraggio di baciarla. Fu un bacio molto dolce.
- E poi?
- Andavo a casa sua tutti i pomeriggi. Neanche li aprivamo più, i libri di
algebra.
- Tutto il tempo a baciarvi? – domandai di getto, poi me ne vergognai un po'.
- Che scema! – Nanskij rise e mi sospinse lievemente, toccandomi sulla
fronte. Risi anche io. – Disegnavamo e ci baciavamo.
Pensai a come dovevano essere i baci di Nanskij ma scacciai subito quel
pensiero dalla mia mente.
- La cosa andò avanti per settimane, finché un pomeriggio suo padre entrò in
camera senza bussare e ci sorprese.
- Cavolo... Come nei film!
- Si arrabbiò molto e mi cacciò di casa. Credo che l'idea di me e di sua figlia
non l'avesse mai nemmeno sfiorato.
- Che retrogrado! Se fossi stata un ragazzo non ti avrebbe sgridata, vero?
- Be', penso che lo avrebbe fatto comunque. Ma credo che per lui sia stato
uno choc vedere il nostro bacio, perché era l'ultima cosa che si aspettava.
- Poi che successe?
- Visto che non potevamo più vederci a casa sua... e che a casa mia era
impossibile...
- Perché impossibile?
Nanskij si rabbuiò.
- Questa è un'altra storia.
Le chiesi scusa. Non avevo idea che quella domanda potesse suscitarle tanto
imbarazzo. La mia mente divenne un turbinio di domande, ma sapevo che
non avrebbero avuto risposta, tanto valeva rassegnarmi.
- Comunque... Io e Loreena ormai potevamo vederci solo a scuola. Durante la
pausa dalle lezioni ci nascondevamo in bagno e lì... Per me era il paradiso.
Io pensavo ancora alla gaffe di prima e non avevo più il coraggio di
commentare o di incitare il suo racconto. Mi limitai a sorriderle.
- Andò avanti per un po'. Poi, un giorno, dal bagno sentimmo delle ragazze
parlare di noi, mentre si lavavano le mani... Avevano capito che tra noi c'era
qualcosa e dissero cose molto pesanti... Io cercai di proteggere Loreena, le
tappai le orecchie perché non ascoltasse altro... Lei però fu distrutta nel
sentire quelle cattiverie. E quella fu la fine della nostra storia. Non mi rivolse
più la parola e un mese dopo cambiò scuola.
L'espressione di Nanskij mi rese noto tutto il dolore che doveva aver provato.
- Sei stata molto male per questo, vero?
Nanskij non rispose, ma mi rivolse un sorriso amaro e poi si allontanò dalla
finestra.
- Riprendo a lavorare, finché c'è questa bella luce.
9. Convocazione
- Se il valore di un'opera – argomentò Keira – è troppo legato al suo
messaggio oppure, che ne so, alla tecnica innovativa... non mi convince. Per
me un'opera dovrebbe essere bella a prescindere da tutto, dovrebbe
trasmetterti quel senso di bellezza, di...
- Guarda che la bellezza è un concetto che l'arte ha superato da un sacco di
tempo! – intervenne Jane, subito sostenuta dalle altre ragazze.
Era da poco finita una lezione e io e il mio solito gruppetto ci eravamo
fermate a chiacchierare. A dire il vero, però, non stavo seguendo granché la
conversazione. Oltre le spalle di Keira, a una certa distanza da noi, Nanskij e
Johanna stavano ridendo insieme di qualcosa. Johanna, nella foga del suo
divertimento, si appoggiava a Nanskij, le dava pacche sulle braccia. Nanskij,
molto più contenuta e niente affatto sguaiata, rideva anche lei e ogni tanto le
mormorava qualcosa nell'orecchio. Johanna scoppiava un'altra volta e giù con
le risate e le pacche.
- Cos'è sto casino? – si girò Keira, quando la risata starnazzante di Johanna
risuonò fino alle sue orecchie.
- Ecco perché io non potrei mai mischiarmi con quella gente... – sentenziò
Adele.
Insultare Nanskij no, proprio no.
- Ah, perché invece quel troglodita di Justin Holloway è degno di te – mi
lasciai andare, avvelenata.
Le ragazze mi guardarono stupite. Lo sguardo di Adele era pieno di odio.
- Cosa c'entra Justin, adesso? E abbassa la voce, cretina!
- Nanskij è una grande artista e se vedessi i suoi quadri non ti permetteresti
mai di riferirti così a lei.
- E Justin, allora? Anche le sue canzoni sono arte!
- Per favore, quella non è musica...
- Senti, Off, e tu quando li avresti visti i quadri del Ghepardo, scusa? –
intervenne Keira, accigliata.
- Li ho visti, e allora? Hai qualcosa in contrario?
Ormai ero una furia. Spesso non riuscivo a frenarmi, nel dire ciò che
pensavo, ma la verità dietro tutta quella veemenza era che le risate e la
complicità tra Nanskij e Johanna mi avevano quasi... non lo so... ingelosito.
- Sì, che avrei qualcosa in contrario. Se tu cominci a frequentare le Perdute
allora...
Stavo proprio aspettando il seguito di quella frase, ma Keira dovette
interrompersi perché il signor Kallende, uno degli operatori dell'istituto, si
stava avvicinando.
- Signorina Hunter – mi chiamò Kallende – il professor Ulay la desidera in
Sala Docenti, le vuole parlare.
Mi sentii avvampare. Le ragazze rimasero anche loro un po' sorprese e si
ammutolirono.
- Lo raggiungo subito, grazie signor Kallende.
Quando l'operatore si allontanò, Keira e le altre mi guardarono estasiate e
incuriosite. Si erano dimenticate in un colpo solo della nostra discussione e
già si ingolosivano per la situazione. Loro non sapevano nulla del biglietto
che avevo lasciato a Ulay, naturalmente, ma il fatto che lui mi mandasse a
chiamare era già una grande novità.
- Allora stai facendo progressi... Dai, vai! – mi incitò Keira, curiosa da pazzi.
Le ragazze mi spinsero, proprio fisicamente, ad andare subito in Sala
Docenti. Io mi pentii per l'ennesima volta della promessa fatta alle ragazze
quel famoso venerdì, ma poi cercai di concentrarmi su quello che stava
succedendo: Ulay doveva aver letto il biglietto, per forza, e adesso... Adesso
c'erano infinite possibilità.
Inutile dire che non avevo più un goccio di saliva in gola. Percorsi
velocemente il corridoio, coperto da una moquette verde e oro, mentre
cercavo furtivamente di controllare lo stato della mia faccia nello specchietto
che mi portavo sempre dietro. Quella mattina mi ero truccata un po' di fretta,
perché avevo preferito dormire un quarto d'ora in più, e non mi piacevo
granché. Oddio, non che ci fossero giorni in cui mi piacessi del tutto,
figuriamoci! Ma per la legge di Murphy è sempre quando non sei al massimo
che ti capita l'incontro che aspettavi. Mi sistemai i capelli con le dita, anche
se almeno loro erano okay, e mi preparai a bussare alla porta della Sala
Docenti.
- Avanti! – sentii la voce di Ulay dall'interno e mi decisi a entrare.
- Buongiorno, professore – lo salutai, cercando di sembrare sicura di me, e
invece dentro ero un tamburello impazzito. Richiusi la porta alle mie spalle.
Ulay era in piedi davanti alla vetrata, contornata di tende bordeaux, che si
affacciava su quelli che io chiamavo i giardini di Versailles. C'era un sole
meraviglioso, quella mattina, ma Ulay era in controluce e non riuscivo a
vedere il suo viso, da quella distanza.
- Immagino che conosca il motivo per cui l'ho mandata a chiamare.
Ulay lasciò la sua postazione davanti alla vetrata e andò a occupare una delle
sedie intorno al tavolo ovale, invitandomi con un cenno a fare lo stesso. Mi
sedetti su una sedia di fronte a lui. Finalmente potei guardarlo bene in viso.
Portava gli occhiali da vista, di un modello vintage, e gli stavano molto bene.
Lo trovai più attraente che mai. Cercai di concentrarmi su quegli occhiali per
calmare la mia ansia.
- Sì, conosco il motivo – risposi, e la voce mi si incrinò un poco.
Ulay era serissimo. Persino i suoi occhi azzurro piombo, che però non mi
guardavano, sembravano essersi scuriti. Ebbi così paura che fosse arrabbiato
e che stesse per dirmi qualcosa di brutto che, di getto, dissi:
- Professore, se si è sentito offeso io le chiedo scusa. Non volevo essere così
sfrontata, non avrei dovuto... Spero che questo non cambi niente.
Mi sentii sollevata, ma al contempo mi sembrò di aver detto addio per sempre
alla possibilità di averlo. Ulay sollevò gli occhi su di me. Quello sguardo mi
invase e io mi sentii smarrita, piccolissima. Lui aggrottò le sopracciglia.
- Temo di non capire, signorina Hunter. Di cosa sta parlando?
Sbiancai. Mio dio, ma perché non avevo aspettato ad aprire la mia
dannatissima bocca? Non aveva letto il biglietto! E adesso, come ne uscivo?
- Professore...
- Mi dica, perché dovrei essere offeso?
Mi fissava. Dov'era finita la sua timidezza? Doveva essere davvero ansioso di
sapere a che mi riferissi. Non potevo sottrarmi.
Con un crampo allucinante allo stomaco, mi decisi a parlare. Fai la donna,
Off, non hai più quindici anni!
- Professore, io le avevo lasciato un biglietto all'interno del libro che mi ha
prestato. Speravo che lei lo trovasse, lo avevo fatto sporgere un po' dalle
pagine e...
Non riuscii più a reggere il suo sguardo interrogativo e così abbassai gli
occhi.
- E cosa c'era scritto di così offensivo?
No. Non potevo dirglielo a voce. Il mio potere di non riuscire a tenere la
boccaccia a freno spariva del tutto quando c'era di mezzo una cosa come
quella... un interesse.
- Preferirei che lo leggesse, professore.
Ero sicura che avesse portato il libro a casa e che quindi avrei avuto un po' di
respiro, ma la legge di Murphy oggi era più vera che mai, per me. Ulay si
alzò dalla sedia e si avviò verso l'armadietto dove gli insegnanti
conservavano i registri e gli effetti personali. Mi sentii sprofondare. Guardai
Ulay aprire l'anta di legno anticato con la sua chiave, estrarne il libro e
controllare lo spessore delle pagine per trovare il biglietto sporgente. Basta,
non volevo più guardare. La Sala Docenti piombò nel silenzio più totale. In
quel silenzio Ulay stava leggendo il mio biglietto.
Professor Ulay,
mi perdoni se utilizzo questo sciocco espediente, ma non riuscirei a dirle a
voce quello che sto per scriverle.
Provo un forte interesse verso di lei.
Sono inopportuna, lo so, ma se ho deciso di rischiare è perché vorrei avere
l'occasione di conoscerla, di poterle parlare al di fuori delle lezioni.
Non mi lasci senza una risposta. Basterà un sì o un no, in qualunque
momento, senza aggiungere altro. Io capirò.
Ofelia
Quei pochi secondi mi sembrarono infiniti. Per l'ansia mi conficcai le unghie
nei palmi delle mani, stringendo forte i pugni. Tirai un grosso sospiro quando
sentii Ulay chiudere il libro, riporlo e poi richiudere l'anta con la chiave.
Trovai il coraggio di sollevare gli occhi su di lui. Aveva lo sguardo basso e si
era un po' rallentato nei movimenti. Raggiunse il tavolo e riprese il posto
sulla sedia.
- Ofelia, ascolta.
Mi aveva chiamato con il mio nome di battesimo e mi aveva dato del tu!
Scoppiavo dall'ansia. Ci guardammo in viso, e non avrei saputo dire chi di
noi due fosse in maggiore difficoltà.
- Credo che il tuo vero interesse sia la materia che insegno. È la storia
dell'arte a essere tanto affascinante da riflettere il suo fascino su chi la
insegna. È naturale che sia così. Forse sono un bravo insegnante e questo...
questo mi lusinga moltissimo – abbassò lo sguardo. – Però credimi, Ofelia,
non è certo quest'uomo l'oggetto del tuo interesse.
Fu perché aveva ancora lo sguardo basso che riuscii a dirgli:
- Professore, con tutto il rispetto... Credo di saper distinguere tra l'interesse
per l'arte e l'interesse per la persona.
Ulay rialzò lo sguardo, ma io continuai.
- Ho diciannove anni e mezzo... quasi venti. Credo di essere abbastanza
matura.
Mi batteva il cuore, mentre lo dicevo. Ulay sorrise, di un sorriso così dolce
che quasi mi sentii offesa: pensai che fosse come quei sorrisi che si fanno ai
bambini.
- Tu pensi che sia una questione di età, Ofelia?
La sua osservazione mi fece risentire, e questo mi aiutò a trovare un po' di
coraggio:
- Ma se lei credesse nel mio interesse... cambierebbe qualcosa?
Lo avevo messo in difficoltà, adesso. Mio dio, lo avevo messo in difficoltà! E
allora... allora forse un po' gli piacevo!
- Ofelia.
Disse solo così. Disse il mio nome e poi si alzò dalla sedia. Fu lì che
cominciai a nutrire in me la speranza di non essergli indifferente. Dovevo
fargli capire che il mio interesse era reale, ma dove avrei trovato il coraggio?
Ero ancora frastornata da quella rivelazione quando Ulay parlò di nuovo.
- Perdonami se ti ho dato del tu. Appena uscirai da questa stanza tornerà tutto
com'era.
Mi alzai dalla sedia anche io, con un leggero stridio del legno sul pavimento.
- Il motivo per cui ti ho fatto chiamare, comunque, è che tuo padre mi ha
chiesto una consulenza. Vuole acquistare delle opere. Mi ha comunicato le
date in cui è disponibile.
- Non ne sapevo niente.
- In ogni caso, mi ha detto di riferire la data e il luogo dell'appuntamento a te.
- Va bene, mi dica.
- Allora, si chiama Galleria DeBlanco. Questo è il biglietto da visita – me lo
porse. – Naturalmente tuo padre può stare tranquillo, la Galleria apre solo per
noi, così evitiamo i curiosi. L'appuntamento è per giovedì alle quattordici.
Non dimenticare di riferirglielo.
- No, certo.
Ulay e io ci guardammo negli occhi per un istante, poi ci salutammo con un
cenno del capo. Uscii dalla Sala Docenti stringendo il biglietto da visita della
galleria d'arte. Dovevo assolutamente essere lì anch'io, giovedì. Era la mia
unica occasione di vedere Ulay al di fuori delle lezioni e fargli capire ciò che
volevo capisse...
10. Ritorno in città
Tenni quel segreto per me, anche con Nanskij a cui avevo chiesto consiglio:
dovevo fingere, persino un po' con me stessa, che Ulay non avesse mai letto
quel biglietto, perché comunque era servito a ben poco. Adesso dovevo fare
sul serio. Naturalmente le Ninfee del gruppo del venerdì sera volevano
qualche anticipazione, ma io fui irremovibile.
L'unico intralcio al mio piano era il fatto che i permessi di tornare a casa
erano limitati (anche in questo consisteva la rigidità e il metodo educativo
imposto nell'Accademia Reale Femminile di New Heakon). Io, però, dovevo
assolutamente essere in città, giovedì, e così parlai con la Direttrice
chiedendo un permesso speciale. La Direttrice, dopo varie insistenze, mi
accordò il permesso, ma fu perentoria nel dirmi che poteva concedermelo
solo una tantum. Mi bastava.
Così giovedì tornai nel superattico dei miei genitori, nella zona più esclusiva
della metropoli. Nel Collegio la vita era così diversa da quella a cui noi
Ninfee eravamo abituate! Tutto era condiviso, c'era benessere ma senza lo
sfarzo a cui, sin dalla nascita, ero stata abituata. Le comodità mi piacevano,
sarebbe sciocco negarlo, ma da qualche tempo sentivo di essere più felice nel
Collegio. I miei erano sempre stati permissivi nei miei riguardi, ma da
quando avevo cominciato l'Accademia avevo scoperto di aver bisogno di un
po' di rigidità, di regole, non perché fossi una ragazza “sbandata”, ma perché
sapevo che era la cosa giusta per me.
Nonostante questo, però, amavo i miei genitori ed ero contenta di rivederli
dopo due mesi. Giustificai il mio rientro con il fatto che mi stavo
appassionando molto alla storia dell'arte contemporanea e che, visto che mio
padre avrebbe acquistato pezzi di altissimo valore, volevo sentirmi partecipe
anche io.
- Ti sta proprio male questa barba, papà – gli dissi in macchina, mentre
Maxwell, il nostro autista, ci conduceva alla Galleria DeBlanco.
Mio padre rise. Per esigenze di copione aveva dovuto farsi crescere un
barbone foltissimo e gli avevano anche applicato delle extension ai capelli,
rossi come i miei. Sembrava una specie di diavolo (però bellissimo).
- Ne vale la pena, amore. Vedrai che il film ti piacerà – assicurò mio padre,
sporgendosi per strofinarmi il barbone sulla faccia. Ridemmo insieme, poi gli
arrivò una telefonata del suo agente e parlò con lui per il resto del tragitto.
Era sempre così, con i miei genitori. Se non erano sul set erano al telefono,
c'era poco da fare. Mia madre, per l'appunto, in questo momento era sul set
della serie tv.
I vetri scuri dell'auto impedivano ai curiosi di sbirciare chi fosse all'interno,
ma erano pochi quelli che non guardavano la macchina, intuendo che dovesse
essere per forza quella di una celebrità. Un tempo la cosa mi divertiva, ma
ultimamente gli sguardi di quelle persone, che sembravano incantarsi per
quella che in fondo era solo un'auto, mi stringevano il cuore. I miei genitori,
devo dirlo, facevano donazioni a non finire, e senza sbandierarlo alla stampa;
ma nonostante questo certe volte avvertivo il disagio dell'essere tanto ricchi
in un mondo di persone che lottavano per andare avanti.
Cercai di non pensare che stavamo andando a spendere un patrimonio in
pezzi d'arte, e mi concentrai sul mio unico obiettivo: Ulay.
Maxwell parcheggiò davanti alla Galleria. Inevitabilmente un gruppetto di
persone si fermarono intorno all'auto, curiosi di vedere chi ne sarebbe uscito.
Mio padre, tranquillo, scese dall'auto. Impossibile non riconoscerlo: i suoi
capelli rosso fuoco, anche se erano lunghi, gridavano il nome Tom Hunter,
per non parlare del suo viso così particolare. Si sentì qualche urletto, tutti i
presenti cominciarono a scattare foto con gli smartphone, come al solito.
Scesi dall'auto anch'io, guardando in basso. Io non ero famosa, per fortuna,
ma i miei capelli rossi parlavano chiaro e così fotografarono anche me. Mio
padre salutò con la mano i presenti, che risposero con altre urla, poi entrò
nella Galleria.
Inutile dire che l'accoglienza fu squisita. Un team di persone elegantissime ci
fecero accomodare per offrirci dello champagne. Il professor Ulay era già
seduto e, appena ci vide, si alzò per venirci incontro. Era elegantissimo anche
lui, come mai l'avevo visto, e mi si strinse il cuore quando mi guardò negli
occhi: aveva l'aria di essere sorpreso dalla mia presenza, ma non disse nulla
al riguardo.
Dai discorsi tra mio padre e Ulay capii che si erano parlati al telefono varie
volte. Dopo la sosta champagne, il giro in Galleria cominciò. Io ammiravo
quelle opere d'arte e ascoltavo rapita le spiegazioni di Ulay e degli altri
membri del team della Galleria. Quando parlava Ulay ero tutt'orecchi e mi
sembrava che anche mio padre ne fosse rapito. Di denaro, ovviamente, non si
parlò se non di sfuggita. Il giro durò quasi tre ore e mio padre si innamorò
delle stesse opere che Ulay diceva di trovare straordinarie. Dopo altri fiumi di
champagne, mio padre e il team della Galleria sbrigarono la questione
economica. Avremmo ricevuto gli acquisti entro la fine del mese e mio padre
era davvero su di giri. Sorrisi, pensando che Ulay avrebbe ricevuto un ricco
assegno per la consulenza offerta: se l'era più che meritato.
- Sarei felice di ospitarti stasera a cena, Laurent – disse mio padre al
professor Ulay.
Gioivo mentre Ulay ringraziava e accettava l'invito. Ci salutò, dandoci
appuntamento alla sera. Per un istante Ulay e io ci guardammo negli occhi e
fui scossa da un brivido di gioia.
Quella sera mi resi conto che forse Ulay si era pentito di aver accettato la
cena a casa nostra. Credeva forse di essere l'unico ospite, ma mio padre
amava circondarsi di gente e come al solito aveva invitato una trentina di
amici. E non amici qualunque, ovviamente. Erano attori e registi famosi con i
loro partner, oltre ai due migliori amici di mio padre (che non facevano parte
del jet set) e al suo immancabile agente. Seguii con lo sguardo Ulay per tutta
la cena. Aveva parlato solo quando era stato interrogato ed era facile intuire
quanto si sentisse a disagio. Amai quella situazione, perché sapevo di essere
l'unica a poterlo “salvare”. Cullai quell'idea per tutta la cena, soprattutto nei
frangenti – brevissimi – in cui i nostri occhi si incontravano per caso. Per
caso, sì, ma anche perché io lo cercavo di continuo e lui, di tanto in tanto, mi
ricambiava. Quando la cena fu terminata, gli invitati si trasferirono in sala per
il caffè e gli alcolici. Le risate, confuse alla musica, risuonavano per tutta la
casa. Ulay se ne stava in un angolo della sala, con le mani intrecciate dietro la
schiena, perso nella contemplazione di un Klimt che mio padre aveva
regalato a mia madre per il suo quarantesimo compleanno.
Era il momento, dovevo andare da lui. Mi detti una rapida occhiata di
controllo allo specchio. Il vestito, con dei piccoli papaveri ricamati su un
fondo bianco, mi stava piuttosto bene: lo avevo scelto pensando a lui, perché
era semplice ed ero certa che a lui sarebbe piaciuto.
- Professor Ulay – lo chiamai, per avvertirlo della mia presenza alle sue
spalle.
Lui si voltò e nel vedermi sorrise. Ricambiai il suo sorriso.
- Siamo Laurent e Ofelia, finché siamo qui – disse.
Suonava così bene, pensai. Laurent e Ofelia.
- Spero che non si senta a disagio... Laurent.
Lui sorrise, poi rivolse di nuovo lo sguardo al quadro.
- L'arte è l'unica cosa che mi mette a mio agio. Intendo sempre, nella vita. È
per questo che sono venuto qui, davanti a quest'opera meravigliosa.
Ero così abituata alla sicurezza degli uomini, negli ambienti che mi ero
trovata a frequentare grazie ai miei genitori, che la fragilità di Ulay mi
sembrava incredibile, ma così preziosa! Doveva essere una persona speciale e
io dovevo fare di tutto per conoscerlo meglio.
- Le andrebbe di uscire un po' in terrazza? – gli proposi.
Ulay assentì con un lieve cenno della testa e così io lo precedetti. Premetti un
pulsante che apriva la vetrata dell'attico e in un attimo ci lasciammo alle
spalle il caos della festa, immergendoci nella notte piena di luci di New
Heakon. Neppure io avevo fatto l'abitudine a quello spettacolo magnifico, per
cui riuscii a leggere sin troppo bene la meraviglia negli occhi del professor
Ulay, anzi... di Laurent.
- Sono stata molto fortunata, oggi pomeriggio, ad assistere alle sue
spiegazioni alla Galleria – gli dissi, dopo un breve silenzio di contemplazione
della città dal parapetto.
- Sarai fortunata a poterle guardare ogni giorno. Questo sì.
Un alito di vento mi portò i capelli davanti agli occhi. Pensai a Nanskij e a
come mi faceva incavolare quando mi scompigliava i capelli.
- Però una cosa te la devo dire, Ofelia.
Ulay aveva i gomiti poggiati sul parapetto, per godersi la vista della città da
quell'altezza. Poi cominciò a parlare e i suoi occhi furono di nuovo su di me;
mi sembrò di bere quell'azzurro piombo.
- Sono rimasto molto sorpreso nel vederti, oggi. Non credo che tu abbia fatto
bene a prenderti questo permesso per essere qui. Lo sai che è contro le regole
dell'Accademia. Hai creato un precedente e sarà inevitabile che anche le altre
vogliano fare lo stesso.
Invece di sentirmi umiliata da quel rimprovero, ne fui appagata. Ulay aveva
riconosciuto la gravità del mio gesto, ma questo mi offriva una grande
occasione. Mi lasciai guidare dall'onda dell'emozione:
- Sa bene perché l'ho fatto.
Da come sollevò, d'istinto, le sopracciglia, capii che era rimasto interdetto.
Subito dopo, però, sorrise.
- Quindi la tua violazione della disciplina è colpa mia.
Volli interpretare quel sorriso come la sua ammissione che gli aveva fatto
piacere, in fondo, anche se non lo avrebbe mai confessato. Mi morsi le labbra
per non ridere.
- Sì, assolutamente – risposi. – È colpa sua.
Ulay si passò una mano sul viso, perché io non mi accorgessi che si stava
trattenendo dal ridere; ma io me n'ero accorta, eccome, e godevo della sua
reazione.
Dopo qualche istante di silenzio, Ulay disse qualcosa a proposito delle opere
su cui aveva indirizzato mio padre. Man mano che parlavamo, notavo che
Ulay si faceva sempre più pensieroso, come se fosse troppo stanco per
argomentare ancora. Difatti di lì a poco mi comunicò di dover andare via.
Eppure, provai a convincerlo, erano appena le ventuno! Lui insistette e
proprio mentre ci stavamo accomiatando, uno degli inservienti si affacciò in
terrazza e mi chiamò, informandomi che mio padre avrebbe adorato che
suonassi qualcosa per i suoi ospiti. Ero certa che Ulay, a questo punto,
sarebbe rimasto, e invece mi disse:
- Mi rincresce di non poter rimanere ad ascoltarti, ma devo proprio andare.
Spero di avere presto l'occasione di sentirti suonare.
Per quanto ci rimasi male riuscii a malapena a fargli un cenno di assenso con
il capo. Eppure, nel fondo dei suoi occhi, c'era qualcosa che non mi tornava,
che mi faceva pensare di non essergli del tutto indifferente. Volevo crederlo,
dovevo crederlo! Non potevo sbagliarmi così...
Ci scambiammo un altro rapido sguardo, poi il professore mi salutò di nuovo,
quasi a mezza voce, e rientrò in casa per salutare i miei genitori e gli ospiti. Io
rimasi ancora un altro po' in terrazza, per sbollire l'amara delusione. Quanto
mi sarebbe piaciuto potermi esibire per lui! E, non so perché, ma avevo avuto
la sensazione che anche a lui avrebbe fatto piacere. Cos'era allora tutta quella
fretta di andare via?
Rientrai in casa, per raggiungere la camera dove conservavo una piccola
collezione di violini, che i miei genitori si ostinavano a rimpinguare,
nonostante non ce ne fosse bisogno. Me ne sarebbe bastato uno solo, di
violino, ma loro volevano incoraggiarmi in tutti i modi e capitava che me ne
regalassero uno nuovo. Scelsi un violino e mi guardai allo specchio:
immaginai di guardarmi con gli occhi di Ulay. Perché sentivo di piacergli,
almeno un po'? Il vestito bianco con i piccoli papaveri mi calzava a pennello,
ma forse – pensai – mi dava un'aria da ragazzina. “Che stupida che sono! Che
importanza vuoi che abbia per Ulay un vestito o un'acconciatura?”
Uscii dalla mia camera e mi diressi in sala, dove erano raccolti gli ospiti. Mio
padre, nel vedermi con il violino in mano, si aprì in un sorriso da star del
cinema, come in effetti era, e mi introdusse in pompa magna ai suoi amici,
che a dire il vero mi avevano sentita suonare altre volte.
E così mi esibii per loro. Non volava una mosca mentre il mio archetto si
muoveva sulle corde e la musica si addensava come una nuvola dolce sulle
teste di ognuno degli ascoltatori. Durante il pezzo pensai a Nanskij e a Ulay,
in modo confuso, immaginando che fossero lì anche loro ad ascoltarmi.
Un applauso caloroso mi accolse appena staccai l'archetto. Mia madre si
asciugò una lacrima col dorso della mano. Faceva sempre così, si
commuoveva come un agnellino quando suonavo, lei che era diventata
famosa per il ruolo di una detective dal cuore di ghiaccio. Mio padre venne
ad abbracciarmi, e mi mormorò nell'orecchio che ero diventata bravissima e
che era orgoglioso di me.
Pian piano mi raggiunsero anche gli ospiti, per congratularsi con me. Una
collega di set di mia madre mi propose di suonare per il party del suo
quarantesimo compleanno, ma dovetti declinare l'offerta perché non potevo
chiedere altri permessi alla Direttrice dell'Accademia.
Quando l'entusiasmo degli ospiti nei miei confronti tramontò, fui di nuovo
libera di aggirarmi per casa. Fu quando passai davanti al quadro di Klimt, che
tanto era piaciuto a Ulay, che mi balenò in mente un'idea. Si trattava di
un'idea rischiosa, ma ero in uno stato d'animo così strano, oscillante tra la
delusione e la voglia di rivalsa, che avevo tutta l'energia per metterla in
pratica.
Avvisai mia madre che mi ero accordata per uscire con un'amica e andai a
cercare Maxwell, il nostro autista. Mio padre, come gesto di estrema cortesia
nei confronti di Ulay, aveva incaricato Maxwell di andarlo a prendere a casa
sua, per la cena, e poi di riaccompagnarlo quando avrebbe voluto. Maxwell,
quindi, sapeva bene dove abitasse Ulay e dovevo ricorrere a lui per mettere in
pratica la mia idea. Pregai Maxwell di accompagnarmi a casa del professore,
inventando che avesse dimenticato qualcosa. Era una scusa cretinissima, me
ne rendevo conto, però non m'importava. Caricato il mio violino, montai
sull'auto dai vetri oscurati, tesa come una corda del mio strumento.
- Siamo arrivati. È al numero trentacinque.
Era una zona poco raffinata di New Heakon, e un po' mi meravigliò che un
professore come Ulay, che insegnava in un'Accademia tanto prestigiosa,
vivesse lì. Osservai la villetta corrispondente al numero trentacinque.
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  • 1.
  • 2. Il collegio delle ragazze perdute Giulia Amaranto
  • 3. 1. Noi e loro Da una parte c'eravamo noi, le Ninfee. Dall'altra c'erano loro, le Perdute. Eravamo tutte ragazze tra i diciotto e i ventidue anni, vivevamo sotto lo stesso tetto, nel Collegio. Avremmo potuto essere amiche, cercare di trovare la nostra felicità insieme. Invece, appena avevo messo piede nel Collegio, ero stata subito informata di questa regola che tutte le ragazze rispettavano e che nessuna osava violare: le Ninfee non dovevano mescolarsi con le Perdute, per alcuna ragione. - Scansati, stanno arrivando! Con il viso deformato da un'espressione di disprezzo, Vania mi tirò per un braccio, costringendomi a farmi da parte per consentire il passaggio delle Perdute, che si avviavano verso l'aula per la lezione di storia dell'arte contemporanea. Le Perdute erano indisciplinate, non camminavano in fila come noi e neppure indossavano la divisa. Ridevano e scherzavano tra loro, mentre noi Ninfee ce ne stavamo rigide e impettite, aspettando che passassero e che andassero a occupare la loro area dell'aula. Noi Ninfee, solitamente, evitavamo di incrociare gli sguardi con le Perdute, se non per canzonarle, mentre loro cercavano di attirare la nostra attenzione. E con me, devo essere sincera, ci riuscivano quasi sempre. Non l'avrei confessato a nessuno, ma le trovavo così libere e spontanee che mi era difficile provare sentimenti ostili verso di loro. Lo chiamavamo Collegio, semplicemente, ma si trattava dell'Accademia Reale Femminile di New Heakon, fondata proprio dall'ultima regina del New Heakon, prima della fine della monarchia. Era una sorta di Versailles, con immensi giardini e piscine, chef prestigiosi nelle cucine della mensa e alcuni tra gli insegnanti più illustri della nazione. Si studiava musica, arte, recitazione o danza, a seconda della facoltà scelta, ma c'erano anche lezioni comuni a tutte le studentesse. Noi, le Ninfee, eravamo le ragazze di famiglia agiata. Pagavamo una retta altissima per studiare in questo Collegio, dove gli smartphone erano proibiti e
  • 4. l'accesso a internet molto limitato. C'erano le figlie di presidenti e di ministri, di personalità del mondo della finanza, di imprenditori milionari, di celebrità. Io, Ofelia detta Off, figlia di una famosa coppia di attori, ero stata destinata a studiare qui sin da quando ero nella pancia di mia madre. I miei, naturalmente, si aspettavano che scegliessi la facoltà di recitazione, ma io avevo preferito continuare gli studi di violino, lo strumento che suono da quand'ero bambina. E poi c'erano loro, le Perdute. Erano ragazze senza disponibilità economica, che potevano accedere al Collegio solo dopo una selezione durissima. Molte di loro provenivano da famiglie problematiche, altre addirittura una famiglia non l'avevano affatto. Gli insegnanti, così come la Direttrice, non approvavano questa divisione tra Perdute e Ninfee e in svariate occasioni avevano tentato di unire i gruppi e farli lavorare insieme; ma sarebbe stato più semplice chiedere all'olio di mescolarsi con l'acqua, e così anche gli insegnanti si erano arresi alla nostra ostinazione. Chiunque, al di fuori del Collegio, avrebbe capito il motivo alla base dell'astio (per non dire dell'odio) che le Ninfee provavano verso le Perdute: il talento. Noi Ninfee eravamo lì solo per merito dei nostri genitori e delle ampie risorse economiche. Molte di noi erano ben consapevoli, nel profondo del cuore, di valere poco come musiciste o artiste. Le Perdute, invece, avevano avuto una vita difficile, ma erano state scelte per il loro straordinario talento. Come potevamo accettare, noi Ninfee, di pagare quella retta salatissima per le Perdute, quando poi – una volta uscite dal Collegio – sarebbero state sempre e soltanto loro ad avere la gloria e il successo? E così, in attesa dei nostri insuccessi al di fuori del Collegio, noi Ninfee ci atteggiavamo a superiori, umiliando le Perdute e ricordando loro – sempre – che, se non fosse stato per i nostri soldi, il Collegio non l'avrebbero potuto neanche nominare. Io, però, mi sentivo un pesce fuor d'acqua. Appartenevo alle Ninfee, ovvio, eppure provavo una timida simpatia verso quelle ragazze straordinarie. Avrei voluto essergli amica, ma sapevo che avrei avuto una vita durissima, dopo, perché nessuna delle Ninfee me l'avrebbe perdonato. Certe volte, quando la mia insegnante di violino, la signora Jelinek, si complimentava per i miei progressi, mi illudevo di avere del vero talento e fingevo di essere una delle
  • 5. Perdute. Mi ritrovavo spesso a pensare che le vere Perdute fossimo noi Ninfee, e non loro. Ce ne stavamo sempre rigide, con le nostre divise blu disegnate apposta per noi da uno stilista italiano e con i fiori freschi appuntati sulla giacca. Ci preoccupavamo che il nostro linguaggio non fosse mai volgare, eravamo sempre in ordine e ben truccate, non ci concedevamo neanche un minuto di ritardo e portavamo rispetto agli insegnanti. Cercavamo, insomma, di distinguerci con un comportamento impeccabile. Loro, invece, erano meravigliosamente se stesse. Sempre, dai vestiti al modo di fare, dalle parole ai fatti. Johanna, una delle Perdute, passò a larghe falcate in mezzo al corridoio di noi Ninfee, schierate come soldatini. Si diceva che fosse una delle attrici più dotate del Collegio ed era la preferita del maestro Schwimmer, che era stato anche l'insegnante di recitazione di mio padre, nonché regista del suo primo spettacolo all'Accademia. Mio padre, non faccio per vantarmi ma per comunicare un fatto, ha vinto due volte quella famosa statuetta tanto ambita dagli attori. La guardammo tutte, Johanna: si era colorata i capelli di un giallo fluorescente, davvero orribile, ma che su di lei sembrava qualcosa di cool. Be', almeno per me. - Ehi, Johanna, ti sei accorta che hai usato le tempere al posto dello shampoo? – la canzonò Keira, una delle Ninfee nonché mia compagna di stanza, facendo ridere tutte quelle del nostro gruppo tranne me. Johanna si voltò verso Keira e le sorrise. Keira, per tutta risposta, alzò un sopracciglio e scosse la testa. Vania rincarò la dose: - È passato così tanto tempo dall'ultima volta che si è fatta uno shampoo che nemmeno si ricorda com'è! - Infatti la puzza si sente da qui... – riprese Keira. Risero di nuovo tutte. Io, invece, mi sentii in imbarazzo e cercai di catturare lo sguardo di Johanna, per comunicarle con gli occhi la mia solidarietà. Lei, però, non mi guardò. Si fermò, piazzandosi di fronte a Keira, avvicinando il viso a pochi centimetri dal suo. - La senti ancora quella puzza? – domandò Johanna a Keira. Si fissavano come due leonesse pronte al combattimento. - Ancora di più, adesso che mi sei vicina. Mi disgusti. - Tu la senti sempre quella puzza, vero? - Sempre, quando ci sei tu in giro.
  • 6. - Non sono i miei capelli che puzzano, lo sai? Io e le altre, sia Ninfee che Perdute, restammo in silenzio ad ascoltarle. Mi batteva il cuore perché avevo la sensazione che una delle due cercasse il pretesto per alzare le mani. - E cos'è, allora? - Il tuo cuore. Il tuo cuore che marcisce, Keira. Ecco perché non ti liberi di quella puzza. Questo fiore fresco che ti appunti sulla giacca... Tu non ne sei consapevole, ma lo metti per coprire la puzza del tuo cuore. Però non funziona. Rimasi a bocca aperta perché Johanna aveva detto questa cosa assurda con una voce così lapidaria che veniva da crederle. Una grande attrice, ecco cos'era destinata a diventare. - Levati di torno. Questa fu la sola cosa che Keira fu in grado di risponderle. Avevo notato un lieve tremolio nella sua voce. Pensai che se persino lei era stata colpita da quelle parole, forse un briciolo di verità doveva esserci. La guardai e notai che si era come irrigidita. - Dai, Keira... Lascia stare, non è così grave – le dissi sottovoce, senza pensarci troppo. Keira mi fulminò con lo sguardo, si voltò e si diresse da sola verso l'aula. Le Ninfee cercavano di non darlo a vedere, ma qualcuna ridacchiava sotto i baffi. Johanna aveva vinto il round, decisamente. Le ampie vetrate facevano sì che il Collegio fosse invaso dalla luce del mattino. Prima di entrare in aula mi fermai a osservare il verde brillante dei prati inglesi, interrotto solo da lunghe file di roseti. Le lezioni del professore di storia dell'arte contemporanea, Laurent Ulay, erano sempre interessanti, ma il richiamo delle passeggiate per i prati, o più in là sul lungomare, mi era irresistibile. Ero persa a guardare i roseti con le tee quando vidi il Ghepardo Bianco attraversare di corsa il prato. Mentre correva strappava morsi dal suo sandwich. Sorrisi, guardandola. - Dai, Off, non startene lì incantata, andiamo! – mi incitò Jane. Distolsi lo sguardo dal Ghepardo Bianco, anche se malvolentieri, e seguii Jane in aula. Prendemmo posto nella nostra area dell'aula, che era una sorta di auditorium in stile anfiteatro greco. La nostra area sembrava una massa blu, dato che tutte noi Ninfee vestivamo la divisa (giacca e gonna blu navy). L'area delle Perdute, invece, era un arcobaleno confuso.
  • 7. Sullo schermo gigante il professor Ulay proiettava le immagini delle opere d'arte che andava illustrando di volta in volta. Le mie amiche sapevano, perché glielo avevo confidato, che provavo per Ulay una forte attrazione. Loro non riuscivano proprio a capire cosa ci trovassi in un uomo dimesso e semplice come lui, eppure io non riuscivo più a pensarlo come a un professore e basta. Mi sorprendevo spesso a fantasticare su di lui e quando lo incontravo in giro per il Collegio mi sentivo attanagliare lo stomaco per l'emozione. Avevo capito che mi piaceva come uomo, e non solo come insegnante, da poco tempo, ma era come se nelle ultime settimane il mio corpo fosse particolarmente sensibile a certi stimoli. - Guarda come si è vestito oggi... mi fa una tristezza! – mormorò Jane nel mio orecchio. - Lui è un artista, si può vestire come vuole – lo difesi, ma in effetti quella giacca sdrucita lo sviliva parecchio. - Artista fallito... – ribatté Jane tra i denti. Il professor Laurent Ulay aveva poco più di quarant'anni, ed era l'unico insegnante sotto i sessant'anni che avevamo nel Collegio. Lo trovavo di bell'aspetto (io sostenevo che somigliasse a Gabriel Byrne da giovane) e mi aveva sempre affascinato anche per la materia che insegnava. Le Ninfee sostenevano che fosse troppo vecchio e troppo “sfigato”. Quando provavo a ribattere che non poteva essere sfigato, visto che insegnava nel nostro prestigioso Collegio, le altre mi rispondevano che si era ridotto a insegnare arte solo perché come artista era un fallito. Fuori dal Collegio, le Ninfee erano quasi tutte fidanzate con altri figli di celebrità, giovani imprenditori di successo, rapper e giovani attori. Perciò, perché fissarsi su un professore quarantenne che vestiva malissimo e che di certo non era milionario? Laurent Ulay era invece l'oggetto del desiderio di molte Perdute, e questa era cosa nota in tutto il Collegio. Forse era anche per questo motivo, il suo essere l'idolo delle Perdute, che le Ninfee lo sminuivano. E anche in questo io mi sentivo più vicina alle Perdute che alle Ninfee. Mi preparai a mettermi in contemplazione di Ulay, fantasticando di baciarlo, quando sullo schermo apparve un quadro inquietante. Raffigurava un papa seduto sul trono, con il viso blu, sfigurato da un urlo disumano. - Oggi parliamo del più importante pittore figurativo della seconda metà del Novecento. Sapete di chi parliamo, no? Si udì forte e chiara la voce del Ghepardo Bianco, che doveva essere appena entrata perché se ne stava in piedi sulla soglia.
  • 8. - È Francis Bacon. Ulay annuì e cominciò una lezione splendida: faticavo a prendere appunti, perché non volevo perdermi neanche una parola di quello che diceva. Me ne stavo lì, imbambolata. - Commetteremmo un grande errore a parlare semplicemente di deformazione espressionista – continuava Ulay, mentre io me ne stavo con gli occhi sognanti – perché qui abbiamo... - Che ne dici se dopo pranzo ci andiamo a fare una bella cavalcata, Off? – mi distolse Jane. – Voglio chiedere se mi fanno montare Drop, è tanto tempo che... - Jane, sto seguendo! Ne parliamo dopo! - Ci vengo io, Jane – intervenne Keira, che aveva sentito. – Lascia perdere Off, sta ascoltando il suo cocco... Cercai di ignorare Keira e di concentrarmi di nuovo sulla lezione. Il Ghepardo Bianco chiese la parola e domandò al professore se il parallelismo con Munch fosse azzardato. Ulay le sorrise e la ringraziò per l'osservazione, a suo dire corretta. - Se avete visto il film La Corazzata Potemkin, allora potrete anche ravvisare una somiglianza con il volto urlante di Odessa... - La prossima volta, Off, siediti in mezzo alle Perdute. Il fan club di Ulay è tutto lì... La provocazione di Keira mi urtò i nervi, più perché mi aveva distratto dalla lezione che per ciò che aveva detto. - Scusa se mi interesso più all'arte che alle cavalcate – le risposi, mentre il cuore mi batteva forte. Dissi cavalcate come se volessi intendere rapporti sessuali, perché Keira adorava vantarsi delle sue conquiste. Avevo cercato di usare lo stesso tono di Johanna, ma l'effetto non era paragonabile. Keira colse bene il significato dietro cavalcate. - Almeno io cavalco cavalli di razza. Tu non riusciresti a farti cavalcare neanche da uno sfigato come Ulay, insulsa come sei. Avvampai, non so se più per la rabbia o perché mi aveva colta sul vivo. Finsi di ignorarla, invece quelle parole mi risuonarono in testa per tutta la lezione.
  • 9.
  • 10. 2. Nanskij, il Ghepardo Bianco Dopo cena ero solita esercitarmi per una mezz'oretta al violino e poi fare una passeggiata lungomare con le mie amiche, ma quel giorno ero ancora arrabbiata con Keira per ciò che aveva detto e avevo preferito restare da sola, con l'unica compagnia dei biscotti al cioccolato. Ero molto golosa e, per compensare la mia voracità in fatto di dolciumi, mi costringevo a sfiancanti nuotate nella piscina del collegio. Mi ero tolta le scarpe e le avevo infilate nello zainetto. Volevo sentire la carezza della sabbia fresca sotto le piante, mentre camminavo, e intanto sgranocchiavo biscotti. Non c'era niente di più bello che guardare il mare e pensare ai fatti miei. Be', a parte suonare il violino. Le luci dei grattacieli di New Heakon si moltiplicavano sul mare, con i loro colori, e mi sentivo un po' felice e un po' triste. Keira aveva detto qualcosa che mi aveva fatto male e io sapevo perché mi avesse colpita così tanto. Avevo diciannove anni e fino ad allora avevo avuto solo una breve storia con un ragazzo, Matthew, durata neanche tre mesi. Dopo di lui, che mi aveva lasciata per mettersi con una modella conosciuta su Instagram, mi ero bloccata e non ero più uscita con nessuno. Mi ero convinta che i ragazzi che mi corteggiavano lo facessero solo per via della celebrità dei miei genitori. Erano incuriositi dalle feste, dai red carpet, volevano semplicemente venire nella nostra villa di Miami o nel nostro attico nella zona più esclusiva di New Heakon. D'altra parte uscire con ragazzi famosi mi spaventava, perché avrei sempre avuto i paparazzi addosso, la mia faccia sui siti di gossip e sui giornali, ed essere al centro dell'attenzione proprio non faceva al caso mio. Il mio sogno era di suonare il violino in un'orchestra sinfonica e basta. Insomma, da un certo punto di vista ero una specie di suora. Non avevo mai niente da raccontare durante le serate del terzo venerdì del mese, quando io e un gruppo di Ninfee ci incontravamo per parlare di ragazzi e di sesso. Pescai dalla busta un altro biscotto al cioccolato e, non appena feci per addentarlo, vidi il Ghepardo Bianco venire verso di me. La regola non scritta imponeva che le Perdute e le Ninfee non dovessero salutarsi e possibilmente neanche rivolgersi la parola, se non per lanciarsi qualche provocazione. Mi preparavo ad abbassare gli occhi e fare finta di niente, aspettando che mi superasse, ma poi, quando me la ritrovai di fronte, alzai lo sguardo. Non so
  • 11. perché, ma all'improvviso fui assalita da uno strano imbarazzo che mi portò a rompere il silenzio. - Ciao – la salutai. Il Ghepardo Bianco mi fissò, sorpresa. Rispose al mio saluto con un sorriso che mi allargò il cuore. La chiamavano il Ghepardo Bianco, ma il suo nome era Alexandra Nanskij. Doveva il suo soprannome al fatto che, dalla tempia sinistra fino al collo era coperta di piccole macchie, come fitte lentiggini. Rendevano il suo viso ancora più particolare di quanto già non fosse. Vestiva come un ragazzo e solo di bianco, magari con una piccola nota di colore come un fazzoletto rosso nel taschino della giacca o un foulard blu intorno al collo. Era una ragazza altissima, con un fisico androgino scolpito dallo sport. Aveva i capelli castani, che le arrivavano poco sotto il collo ed erano sempre disordinati e arruffati. Le sue labbra erano sottili e il mento era attraversato da una piccola spaccatura. - Mi avresti salutata lo stesso, se ci fosse stato qualcuno in giro? – mi chiese. - E tu? – rilanciai. Lei rise. La luce della luna sembrava esserle entrata negli occhi e lei la restituiva sotto forma di piccoli bagliori. - Be', comunque un errore può capitare a tutti – scherzai. La verità era che il suo sguardo mi metteva un po' in soggezione. - Non mi offri neanche un biscotto? Dobbiamo celebrare questa nuova amicizia, non trovi? Il Ghepardo Bianco infilò la mano nella mia busta di biscotti, senza nemmeno chiedermi il permesso. Rimasi spiazzata da tanta confidenza, dopo che per quasi un anno non ci eravamo filate di pezza. - Sarà meglio che sloggi. Sono molto suscettibile sui miei biscotti. - Hai paura che arrivi qualcuno? – mi provocò, sgranocchiando il biscotto e prendendone subito un altro. - Adesso sono io la paurosa? Guarda che sono stata io a salutarti per prima. Direi che ne ho di coraggio! Nanskij sorrise. - Ti giuro che da oggi in poi ti saluterò sempre io per prima, Ofelia. Soprattutto davanti alle Ninfee. - Allora, punto primo. Ofelia mi ci chiama solo mia madre quando è
  • 12. arrabbiata. Chiamami Off. - Off?! Ma che sei, un interruttore? On e Off? - Non mi piace che mi chiamino Ofelia, va bene? - E allora io cosa dovrei dire? Odio essere chiamata Ghepardo, anzi ti prego di non mettertici anche tu! - Non cambiare argomento. Punto secondo, non mi pare il caso di salutarsi davanti alle Ninfee. Penso che tu conosca il codice di comportamento... Avevo appena chiarito una cosa che non condividevo. Ma perché? La delusione nel suo sguardo era palese. Mi fece male vederla così. In fondo io non dicevo sul serio... o sì? Non lo sapevo neppure io: volevo o non volevo salutarla davanti a tutti? - Come preferisci, Off. È stato bello lo stesso. Buona passeggiata e grazie dei biscotti. Il Ghepardo Bianco mi superò e io mi sentii subito una cretina di prim'ordine. - Aspetta, Ghepardo – era così strano rivolgersi a lei. - Nanskij, ti prego. - Va bene. Nanskij. Possiamo fare un compromesso. Guardai la sua ampia schiena. Lei si voltò appena, mostrandomi il profilo. - E quale sarebbe? - Potremmo salutarci con un sorriso. Ti va? - No, Off. Non rinuncio al tuo “ciao”, adesso. Mi scappava da ridere, ma non glielo detti a vedere. - Okay. Però hai giurato che mi saluterai sempre tu, per prima. - Lo farò. Ah, se ne hai voglia mi farebbe piacere mostrarti qualcuno dei miei quadri. Ci accordammo per sabato mattina, nella sua stanza, poi se ne andò, lasciandomi sola con i miei pensieri. Era stato tutto così strano, quasi incredibile. Ed ero stata io a rompere quel muro che altre, prima di me, avevano innalzato tra noi e loro. Avrei voluto restare ancora un po' con lei. Non sapevo neanche cosa avremmo potuto dirci, eppure la sua compagnia mi attirava. Proseguii con la mia passeggiata sul lungomare, sentendo dentro di me che avevo fatto una cosa giusta, quella sera. Una cosa che, tra l'altro, aveva spazzato via dalla mia mente la cattiveria detta da Keira. Ero fiera di me stessa. Arrotolai la busta di biscotti e la infilai nello zaino. Non riuscivo a smettere di sorridere e di sentire il mio cuore gonfio di orgoglio.
  • 13. 3. Come in quel film... C'era l'usanza, nel Collegio, di incontrarci ogni terzo venerdì del mese, verso le due di notte, per leggere, suonare e per confidarci segreti. Il nostro gruppo era formato da quindici Ninfee e il luogo dell'incontro era un deposito di legna situato in fondo al bosco. Era una cosa che avevamo copiato dal film “L'attimo fuggente”: l'idea di formare anche noi una piccola Società di Poeti Estinti ci aveva eccitato sin dal primo giorno, quando a Keira venne l'idea. L'aria della notte era qualcosa che accendeva la nostra voglia di raccontarci, come se poi la luce del mattino avrebbe cancellato le parole dette e le confidenze. Le riunioni, coordinate sempre da Keira, iniziavano con la lettura di qualche poesia che avevamo studiato o letto per conto nostro, poi proseguivano con un po' di musica, se qualcuna di noi aveva voglia di portare con sé lo strumento. La parte più attesa, però, era quella delle confidenze. Non c'era verso di sottrarsi, perché la regola era chiara: ognuna doveva raccontare qualcosa, altrimenti avrebbe saltato le tre riunioni successive e si sarebbe persa un bel mucchio di segreti! Per fortuna io e Keira, dopo il battibecco di quel giorno a lezione, ci eravamo perdonate, anche perché essendo compagne di stanza sarebbe stato davvero triste restare offese a lungo. Io avevo riconosciuto che il mio “cavalcate” era stata una sgradevole allusione, mentre lei si era scusata per il suo “insulsa come sei”, dettato dalla rabbia. E così, messi da parte i dissapori, la riunione di quella notte era cominciata. Naturalmente, quello che veniva confidato durante quegli incontri doveva restare tra di noi e finora, a essere sincere, tutte sembravano aver preso la regola con assoluta serietà. Avevo voglia di far ascoltare alle ragazze un pezzo su cui mi ero esercitata in quelle settimane, ovvero “La capricieuse Op.17” di Edward Elgar. Mi piaceva suonare per me stessa, ma ancora di più mi emozionava esibirmi per qualcuno, e le ragazze mi incoraggiavano sempre. Talvolta ci esibivamo insieme, lì nel deposito, ed era qualcosa di così emozionante, quando eravamo in sintonia, che talvolta mi ero ritrovata a pensare che quella potesse essere la felicità perfetta! Sedute sul tappeto, alla luce di qualche candela, le ragazze mi ascoltarono suonare nel più religioso dei silenzi. Mi sentivo scoppiare il cuore dall'emozione, nonostante non si trattasse di un brano malinconico, come
  • 14. quelli che preferivo. - Sei grande, Off! - Bravissima! Le ragazze applaudirono, mentre la luce tremolante delle candele illuminava i loro occhi brillanti. Eravamo tutte felici di trovarci lì, pregustando le confidenze e preparando nella mente qualcosa da confidare alle altre. - Bene, ragazze! Se qualcuna vuole condividere una lettura o un pensiero, prima di cominciare la seconda parte della riunione... – disse Keira. - No, no... – rispondemmo quasi in coro, ansiose di passare alla parte più divertente. - Perfetto, allora direi che possiamo iniziare il giro. Atmosfera, Nora! Nora spense due candele, in modo che la luce fosse più flebile e si creasse un'atmosfera ancora più raccolta. - Posso cominciare io? Sto scoppiando dalla voglia di dirvi una cosa... – dichiarò Adele. Tutte assentimmo col capo. Io ero già entrata appieno nel clima confidenziale e me ne stavo rannicchiata, con le orecchie tese all'ascolto e il classico mal di pancia da emozione. Istigammo Adele a iniziare subito il racconto e lei per un po' non riuscì a smettere di ridacchiare per il nervosismo. - Ho fatto sesso con Justin Holloway. - Cosa?! – fu il commento corale. Justin Holloway era il cantante del momento. La sua ultima hit, utilizzata come brano principale di un film d'animazione, era stata il tormentone dell'anno in tutto il mondo. Di lui si parlava di continuo sui giornali, perché aveva un pessimo rapporto con i fan (che comunque lo adoravano) e con i paparazzi, e finiva spesso nell'occhio del ciclone. - Ma non stava con Emily... quella lì, la modella tettona? - Non lo so, ma anche se fosse chissenefrega! - Raccontaci tutto, che aspetti? Come vi siete conosciuti? - Al party dei Globes. Avevo accompagnato mio padre, non avete visto le foto? E chi non le aveva viste? Suo padre era uno degli attori candidati al premio, e aveva fatto la sua passerella sul red carpet tutto orgoglioso, insieme alla sua splendida figlia. - A proposito, avevi un vestito favoloso. Dior, vero? – intervenni io. - Sì, Dior. Be', comunque... Lui si è avvicinato, mi ha fatto i complimenti e mi ha dato l'indirizzo del suo albergo. Ovviamente dopo la serata mi sono
  • 15. presentata lì. E niente, mi è saltato addosso. L'abbiamo fatto tre volte. Ci rimasi male. Non che mi aspettassi qualcosa di romantico, però, ecco... andare a letto con un ragazzo, per quanto bello e desiderato, senza neppure scambiare due parole, era una cosa che faticavo a concepire. Dov'era il desiderio, la tensione così preziosa che precede l'incontro tra due corpi? - E com'è lì sotto? È messo bene? – domandò Jane. Adele riprese le sue risatine nervose. - Ragazze, io ve lo posso giurare: non ho mai fatto del sesso così appagante. Non ce l'ha enorme, ma sa usarlo bene, cavolo! E poi si è dedicato a me in un modo... Be', insomma, mi avete capita! - Vi rivedrete, al prossimo permesso? – chiesi. - Ma no, non mi ha mica lasciato il numero! Poi va in tour, quindi... - Non me la conti giusta – osò Keira. – Ci sei stata a letto davvero o ci prendi in giro? - Vogliamo le prove! Vero, ragazze? – ci istigò Vania. Adele, piccata da quei sospetti, spiegò che per evitare i paparazzi, appostati davanti all'hotel, si era travestita e quindi resa irriconoscibile. Quindi non esistevano prove del loro incontro. Le ragazze la canzonarono, sostenendo che invece avrebbe dovuto farsi fotografare, perché ne avrebbe avuto in cambio una bella pubblicità. - Comunque ragazze, non so voi, ma a me questa cosa che abbiamo tre permessi all'anno sinceramente pesa parecchio – si confidò Jane. – A voi non rende nervose, l'astinenza? Più o meno tutte assentirono, con versi e mugugni. - Sì, ma anche se avessimo più permessi non è che cambierebbe tanto... In una settimana mica ci si può fidanzare! Quindi comunque non faremmo sesso – osservò Vania. - Ah, vabbè. Tu sei troppo romantica, cara mia. Guarda che non c'è bisogno di fidanzarsi, per fare sesso! Ridemmo tutte, per ciò che Adele aveva detto. - Alla fine chi sta meglio di tutti, qua dentro, sapete chi è? – parlò Nora. - Chi? – chiedemmo quasi in coro. - Lo sapete, dai! Il Ghepardo Bianco e Johanna. Le ragazze annuirono. Io, invece, restai un po' interdetta. - Secondo me quelle due si danno da fare alla grande... – continuò Nora. – Sono anche nella stessa camera, quindi figuriamoci! Notti di sesso sfrenato... - A me il Ghepardo dà l'idea di essere una porca di prima categoria – disse
  • 16. Adele. - Tu che ne sai? – domandò Keira. - Be', dai... Come guarda, come si muove. Sembra che voglia leccarla a chiunque! - Quanto sei volgare! – disse qualcuna, e poi scoppiarono tutte a ridere. - Ma sì, ragazze, fidatevi che è così! Ma lo sapete che si dice in giro? Che si è fatta pure quella gran racchia della Jelinek! Nanskij e la mia insegnante di violino? Quella diceria non era mai arrivata prima d'ora alle mie orecchie. Anche le altre apparvero stupite da quel pettegolezzo e sembravano volerne ancora. - Ve l'ho detto – continuò Adele. – Il Ghepardo è una gran porca. Una porca molto generosa... Non mi piaceva che si parlasse di Nanskij in quel modo così triviale ed ebbi l'impulso di difenderla; ma non sapevo proprio cosa dire; ero come bloccata. Quando la risata morì sulle loro labbra, ci fu un momento di silenzio generale. - Certe volte mi dimentico che è una donna – Jane ruppe il silenzio. - Cos'è, ti piace? – la stuzzicò Adele. - Perché, volete dirmi che nessuna di voi ci ha mai fatto un pensiero? – Jane si mise sulla difensiva. - No! Va bene l'astinenza, ma è sempre una Perduta! Lo sai cosa pensiamo di loro! - Sì, ma... se non ci fosse questo regolamento? – continuò Jane. – Se fosse una Ninfea... a voi non farebbe nessun effetto? - Stai dicendo che tu andresti a letto con lei? - Un pensiero ce lo farei, sì... Perché, voi no? - Il regolamento è sacro – sbottò Keira. - Dobbiamo considerarlo un coming out, Jane? – chiese Nora, maliziosa. – Non ci avevi mai detto che ti piacciono le donne. - Anche se fosse? Avreste problemi? - Sei matta? Certo che no! Il nostro problema è solo che lei è una Perduta, tutto qua. - Lo so, Nora. L'abbiamo detto mille volte. Io preferisco gli uomini, ma non ci posso fare niente se il Ghepardo mi attizza. E una notte con lei... sì, la proverei! - Però, pensandoci... – disse Adele – Basterebbe bussare alla sua porta, di notte... E il Ghepardo sarebbe pronta a soddisfarti... D'altronde se ha avuto il
  • 17. coraggio di andare con la Jelinek, si farebbe chiunque di noi, no? - Sei veramente volgare, Adele... Pessima, proprio! - Possiamo cambiare argomento? – disse Keira, infastidita, poi si rivolse a me. – Off! Tu che ci racconti? Io ero così presa dalla conversazione che quell'attenzione repentina su di me mi spiazzò. Le ragazze mi incitarono a concedere loro qualche chicca, ma io davvero non avevo novità, né sessuali né di altro genere. - Be'... che mi piace Ulay già lo sapete... - Oh mio dio, carina come sei potresti aspirare a ben altri che a Ulay! – intervenne Adele. Quella frase mi irritò. - Be' – risposi di getto, boccaccia larga che non sono altro, – non è che devono per forza chiamarsi Justin Holloway per portarmi a letto! Tutte risero, anche perché la mia allusione al fatto che Justin per lei fosse rimasto soltanto un nome (e una notte di sesso) era evidente. Adele mi fece la linguaccia e mi lanciò contro il suo bracciale. Ridemmo ancora. - Comunque, cara la mia Off – ribatté Adele – tu sei l'unica che non parla mai di sesso. Di noi sai tutto... Cos'è, dopo Matthew te la sei sigillata? Si era vendicata, e piuttosto bene. Risi anche io, con le altre. In effetti, Adele non era lontana dalla verità. - Povero Ulay... Tutto il giorno in un istituto pieno di ragazze... Ti pare che non abbia voglia di fare sesso? - Non è solo questione di sesso... – spiegai. – Io sarei contenta anche solo di passare del tempo da sola con lui a parlare... Partirono delle risate fortissime: ma chi volevo prendere in giro? Sì che mi sarei accontentata di andare a letto con lui, per come mi sentivo “sensibile” in quel periodo! - Ma scusa, se ti piace tanto Ulay... almeno provaci, no? – intervenne Debbie. Io arrossii un poco, all'idea che potessi farmi avanti con Ulay. Presi in mano il mio violino, come se potesse darmi coraggio, ma le altre, pensando che volessi suonare per evitare l'argomento, me lo tolsero di mano. Qualcuna di loro mi si gettò addosso, facendomi il solletico. Mi scompisciai dalle risate, urlando loro di smetterla, per pietà, e quando tornammo serie Keira disse: - Devi parlare con Ulay, Off. Devi farlo per te stessa, non per noi! Anche se, vista la qualità scadente delle tue confidenze... potremmo anche sospenderti dal gruppo! Keira mi strizzò l'occhio e le altre mi dettero delle pacche sulla schiena. Mi
  • 18. sentii talmente sfigata, in quel momento, mentre le ragazze mi davano colpetti come si fa per incoraggiare i bimbi, che decisi: - Vi prometto che alla prossima riunione avrò qualcosa di importante da confidarvi. Dopo un istante di smarrimento, gli urletti e gli applausi delle ragazze riempirono il deposito. Mi sentii forte, in quel momento, totale padrona della mia vita.
  • 19. 4. Blu Sabato mattina, il giorno dell'appuntamento con Nanskij, era arrivato. Una Ninfea avrebbe preferito rasarsi i capelli a zero piuttosto che mettere piede nell'area del Collegio dove c'era il dormitorio delle Perdute. Era come entrare in un quartiere pieno di topi, dicevano così. Invece, quando io arrivai, restai stupita da quanto, in tutto e per tutto, la loro area fosse identica alla nostra. Il lungo corridoio con la moquette scura, le pareti color champagne, i vasi di fiori sulle piccole consolle. E, in fondo, cosa mi aspettavo di trovare? Porte divelte e graffiti sui muri? Risi tra me e me. Durante il tragitto lungo il corridoio qualcuna delle ragazze mi vide e mi rivolse un sorriso, nonostante sapessero bene che non fossi una di loro. Com'erano diverse da noi Ninfee! Più umane. Di certo, se una di loro si fosse avventurata nel nostro corridoio, le Ninfee avrebbero cominciato a urlare come se si stesse avvicinando un ladro. Ricambiai il loro silenzioso sorriso, mentre il petto mi si gonfiava dall'emozione. La camera di Nanskij era la numero ventisette. Mi sistemai la divisa e mi passai una mano tra i capelli, poi mi decisi a bussare. Mi aspettavo che ad aprire la porta fosse Nanskij, invece venne Johanna. - Entra, Off. È così che ti chiamano, no? - Sì. Il Ghepardo... - C'è, tranquilla. Ti sta aspettando. Entrai in camera e venni assalita dai colori forti che dominavano in essa. In questo sì che era diversa da una delle nostre camere, così da signorine della upper class! Era come se fosse scoppiata una bomba. Letti sfatti, fogli appuntati su una bacheca improvvisata, vestiti buttati ovunque e un odore che non riuscivo a definire. Le pareti erano ricoperte di quadri, tanto che non c'era neanche uno spazio bianco. - Ghepardo, è arrivato il fiorellino... – mi canzonò Johanna, grattandosi con energia la testa. Ripensai alla storia dello shampoo e alla discussione tra lei e Keira. - Ora capisco perché siete così creative! – risi. - Non ti seguo – rispose Johanna. - Be', si dice che il disordine stimoli la creatività... Scusa, era una battuta scema... Johanna rise.
  • 20. - Sei simpatica, fiorellino! Nanskij si affacciò dal bagno, mi salutò e poi mi venne incontro. Si era ingolfata in una felpa bianca e indossava anche il cappuccio. Mi sorrise, come se fino alla fine non pensasse che sarei venuta davvero all'appuntamento e ora ne fosse sollevata. - Allora, Off. Guardati intorno e dimmi se c'è qualcosa che ti piace – disse il Ghepardo, accomodandosi sulla poltroncina. Si era seduta con le gambe larghe, con i gomiti poggiati sulle ginocchia, come un ragazzo. Osservai in silenzio le tele appese alle pareti. C'era qualcosa, non so dire se in quei quadri o in generale nella stanza, che mi provocava una sensazione di turbamento. Le tele erano dipinte con colori violenti. Molte erano monocromatiche e sembravano incorporare anche dei frammenti di vetri o metallo. Johanna sembrava divertita dal mio restare lì, imbambolata a guardare i quadri senza dire nulla. Ridacchiava, e a un certo punto, passandomi davanti, cominciò a sfilarsi la maglietta come per prepararsi ad andare a dormire. Io cercai di astrarmi dal contesto e studiai le tele per diversi minuti. Ero sopraffatta da quei colori, da quell'universo così strano che sembrava trasportarmi dentro di sé. Mi voltai verso Nanskij e la trovai che mi fissava, in attesa del mio responso. - Se ti fanno schifo dillo, lo accetto – mi rassicurò, sorridendomi. Sentii il cuore accelerare il battito. - No, è che... Non mi sono mai sentita così, guardando un quadro. Nanskij sembrò illuminarsi. Si portò un po' in avanti con il busto, come protendendosi verso di me. - Spiegati. - Non posso. È proprio questa la forza dei tuoi quadri. Io... – stavo balbettando e, porca miseria, odiavo da morire quando mi succedeva – io non riesco a spiegare quello che sento. So solo che... che faccio fatica a tirarmene fuori. Vorrei restarci dentro per tanto tempo. Vorrei provare a capire e allo stesso tempo... non voglio capire perché ho paura. Forse mi sbagliavo, ma ebbi l'impressione che Nanskij avesse avuto un sussulto, a quelle mie parole. Ci guardammo negli occhi per qualche istante e fu ancora più sconvolgente che guardare un suo quadro. Non so perché. In quel momento non mi importava di saperlo. Eravamo solo io e Nanskij in quel piccolo universo. - È bello quello che hai detto – commentò lei con una voce che uscì cupa,
  • 21. densa. Sentii un brivido percorrermi la schiena e volevo godermelo, ma Johanna rovinò tutto: - Cazzo! Quanto avrei voluto dirtelo io, Ghepardo! Da come la guardi adesso si direbbe che ha colto nel segno. - Ho detto solo quello che penso – mi schernii io, che finalmente avevo recuperato la capacità di parlare senza impappinarmi. Ma perché, come mi guardava il Ghepardo? - Sì, ti dico di sì! Hai detto una cosa semplice ma l'hai detta in un modo intenso e al Ghepardo piacciono queste cose. - Ma... ma se ho balbettato! – Guardai il Ghepardo e poi subito distolsi lo sguardo per posarlo su Johanna. - Hai detto le cose giuste. Io non sono brava con le parole. Faccio quello che posso... – dicendo così si slacciò il reggiseno, catturando subito lo sguardo di Nanskij. Johanna rise, facendo un po' la sciocca e passandosi le mani sui seni generosi. Mi si bloccò il respiro perché all'improvviso capii che tra Johanna e Nanskij doveva esserci davvero qualcosa, come sostenevano le ragazze. Osservai Nanskij. Era come se avesse morso Johanna con gli occhi, un morso fugace, per poi distrarre lo sguardo mentre lei si infilava la maglia del pigiama, ben aderente sui capezzoli turgidi. Che potere ha, un seno del genere! Io, con la mia ridicola prima misura, avrei dovuto faticare dieci volte di più per essere così sensuale, mentre a lei bastava solo sollevare un po' la maglietta per far impazzire chiunque. Mi sentii fuori luogo; forse quello era solo un assaggio di quello che ci sarebbe stato, di lì a poco, tra Johanna e Nanskij. - Io vado, ragazze – dissi, scandendo bene le parole perché temevo che la mia voce uscisse sconfitta come io mi sentivo da qualche parte di me. - Non far caso a Johanna, non è ancora ora di dormire. Resta qui. - No, davvero. Vado via. Nanskij si alzò dalla poltroncina e venne verso di me. Ebbi quasi voglia di indietreggiare, per una strana paura di emozionarmi più del dovuto. Ora che sapevo quale meravigliosa artista fosse e che avevo la certezza sui suoi gusti sessuali... be', era come se la mia curiosità su di lei si fosse centuplicata. - Sarei felice se prendessi uno dei miei quadri – disse, posandomi una mano sulla spalla. – Puoi farne ciò che vuoi. Appenderlo, darlo via... Ma voglio che ne prenda uno. - Non posso! Lei allontanò la mano dalla mia spalla.
  • 22. - E perché non puoi? Temi quello che ti direbbero le altre? - No! È che mi sembra un regalo troppo importante! Si curvò un po' su di me, per guardarmi dritto in viso. Ero bassina, al suo confronto. - Voglio che tu possa perderti in uno di questi quadri in qualsiasi momento lo desideri. Le sorrisi. I suoi occhi castani, seminascosti dal cappuccio della felpa, erano come nocciole intrappolate in globi di vetro scintillante. - Allora prenderò quello blu. - Meno male! – sospirò Johanna, che si era infilata sotto le lenzuola – Temevo che scegliessi quello rosso, che è il mio preferito. - È tuo, Off. Nanskij staccò la tela dalla parete e me la porse. La ringraziai, e lei si sporse verso di me; mi baciò la fronte, tenendo incollate su di me le sue labbra per diversi secondi. Uscii frastornata da quella stanza, come se mi avessero lanciata nello spazio e poi recuperata. Camminai a passo svelto verso la mia camera, stringendo la mia tela dipinta di blu e... di anima.
  • 23. 5. Ulay Non ebbi il coraggio di appendere il quadro blu di Nanskij. Lo avvolsi in un telo e lo riposi nella mia parte della cabina armadio. Era da codarde, e me ne rendevo ben conto, ma sapevo che quel quadro mi avrebbe fatto litigare con Keira, e credetti che fosse meglio se la preparassi gradualmente alla cosa; ma non era solo questo: mi piaceva l'idea di avere un piccolo segreto da condividere con Nanskij (be', certo, anche con Johanna). Ormai era diventato un rituale, per me, andare a sbirciare di nascosto il quadro sotto il telo, entrare in quell'universo che Nanskij aveva dipinto con tanta forza, e perdermi nei pensieri. Era difficile da spiegare, ma dentro di me sentivo come se quella tela potesse darmi un po' di coraggio riguardo al professor Ulay. Ignoro quale fosse il rapporto tra quel quadro e la mia intenzione di farmi avanti con Ulay: forse, pensavo, quel quadro possedeva un'energia tutta sua, quasi una energia sessuale. Ed era per questo che, quando mi perdevo in quel dipinto, era come se nella mia mente qualcosa si svegliasse e mi dicesse: “hai diciannove anni, hai un corpo che desidera essere di qualcuno, hai un'anima che vuole amare ed essere amata... goditi questo momento, perché tutto potrebbe cambiare!”. Così quella mattina mi accovacciai nella cabina armadio e scoprii il quadro per poterlo guardare e farmi coraggio. Promisi a me stessa che quel giorno avrei mosso un passo verso Ulay, e che – anche se fosse andata male – non mi sarei arresa. Mi spazzolai i capelli a lungo. Erano il mio orgoglio, quei capelli rossi, l'unica cosa di me che davvero mi piaceva. Spazzolarli mi tranquillizzava e lo facevo spesso, soprattutto quando dovevo prepararmi a un saggio musicale o esibirmi in pubblico. Più tardi ero immersa nei miei pensieri su come approcciare Ulay quando una voce mi raggiunse alle spalle. - Buongiorno, Off! Mi voltai. Era Nanskij. Sembrava di ottimo umore e le brillavano gli occhi. Mi sovrastava con la sua altezza.
  • 24. - Buongiorno, Nanskij – le risposi, sottovoce e un po' confusa. Pensai a quante volte avevo visto il suo quadro e a quante cose volessi conoscere di lei che l'aveva dipinto. Il saluto, anche se l'avevo pronunciato a bassa voce, non sfuggì a una delle Ninfee, che era nei paraggi. Mi guardò stizzita e poi si allontanò da noi. - Grazie del saluto, Off. Se alzerai la voce un pochino di più ogni giorno, magari a settembre potrò sentire il tuo saluto forte e chiaro. Detto questo, Nanskij rise, mi scompigliò i capelli con una manata e poi si recò spedita verso l'auditorium. Uffa, i miei capelli! Quella mattina avevamo lezione di storia dell'arte con Ulay. Ricordando la promessa che avevo fatto loro nella riunione di qualche giorno prima, le ragazze del gruppo mi stuzzicarono parecchio, mormorandomi battutine e incitandomi a darmi una mossa. - Smettetela di impicciarvi, vi ho promesso che avrò notizie! Se mi date il tormento, non vi dirò un accidente! – cercai di difendermi, ma fu piuttosto inutile. Mi pentii della mia promessa, che era stata dettata solo da un moto di orgoglio. Avrei voluto, invece, fare questa cosa solo e soltanto per me, non per dare dimostrazioni a qualcuno. D'altra parte, chissà, la promessa alle ragazze poteva anche essere uno stimolo in più per agire, oltre alla forza ispiratrice del quadro blu. Mi persi, come ogni volta, a fantasticare sul professore. Era così sicuro di sé quando spiegava, tanto quanto sembrava timido sul piano personale. Cosa che, peraltro, era solo nella mia immaginazione, dato che non lo conoscevo affatto. I suoi occhi azzurro piombo in certi momenti brillavano sotto le palpebre (molto cadenti, per uno che aveva in fondo solo quarant'anni): ormai, da come cambiava la luce nel suo sguardo, capivo quando ci parlava di un artista che amava in modo particolare, e la trovavo una cosa bellissima. Gli altri professori, invece, erano talmente severi che non lasciavano trasparire emozioni, ed era anche per questo che Ulay, oltre alla mia insegnante di violino, era quello che sembrava più “vivo”. Sì, un po' come il professore del nostro amato film “L'attimo fuggente”, di quelli che ti farebbero appassionare persino a un foglio di carta bianco, tanto sanno
  • 25. incantarti con le parole! Giacometti, l'artista che stavamo affrontando nella lezione odierna, doveva piacergli moltissimo, a giudicare dalla luminosità dei suoi occhi. Quando la lezione terminò e chiusi i libri, conservai per un po' dentro di me quella sensazione di nostalgia e di consapevolezza di aver imparato ancora qualcosa di meraviglioso. Pensai che se Ulay fosse stato il mio insegnante di violino avrei amato la musica dieci volte più di quanto la amassi già (ed era una cosa quasi impossibile, visto che il violino era la mia vita)! Le ragazze cominciarono ad abbandonare l'aula, le Ninfee in ordine e le Perdute nella loro maniera caotica. Io feci segno a Keira di non aspettarmi e lei, capendo al volo le mie intenzioni, mi strizzò l'occhio e poi si allineò con le altre ragazze del gruppo, diffondendo la notizia nell'orecchio di ciascuna. Raccolsi i miei libri e lasciai la mia postazione, scendendo le scalette dell'auditorium per raggiungere Ulay. Lui non si accorse di me. Lo osservai togliere il tappo della penna con la bocca, tenendolo ancora in bilico tra le labbra, mentre scriveva qualcosa su un blocco. Lo trovai sensuale e quasi non osavo interrompere la sua scrittura, ma ormai gli ero davanti. - Professor Ulay! Lui sollevò il mento e guardò nella mia direzione. Si tolse lentamente il tappo della penna dalla bocca, forse vergognandosi di essersi fatto vedere così. - Signorina Hunter. Mi dica. Cercai di evocare alla mente il quadro blu di Nanskij, per farmi coraggio, ma venni distratta dal pensiero delle labbra di Ulay e di quel tappo che aveva appena abbandonato ma che conservava ancora l'impronta della sua bocca. - Volevo chiederle se può consigliarmi un testo di approfondimento su Giacometti – cercai di controllarmi anche se mi veniva da balbettare, emozionata com'ero. - Certo che sì. Sono contento che abbia suscitato il suo interesse – disse, tenendo i suoi occhi fermi nei miei. L'idea che stesse solo fingendo sicurezza mi dette il coraggio di osare. - Se posso permettermi, professor Ulay, tutte le sue lezioni suscitano il mio interesse. – Lo avevo detto davvero, e persino senza balbettare. Ulay abbassò lo sguardo. Non mi sbagliavo, allora, sulla sua timidezza! - Ne sono lusingato – disse, senza più guardarmi negli occhi, ma sorridendo. Mi batteva forte il cuore. - Posso chiederle cosa l'ha attratta così tanto di Giacometti da volere un testo di approfondimento? – Aveva rialzato lo sguardo ora, e adesso ero io che mi
  • 26. sentivo intimidita. - Quando ci ha parlato delle sue sculture... che diventavano sempre più piccole tra le sue mani e che lo spaventavano... Be', ho capito che doveva essere un artista molto fragile. - E la fragilità la colpisce? - Be', sì. Mi spaventa e mi colpisce nello stesso tempo. Ulay aggrottò le sopracciglia, come se per un momento non riuscisse più a capire chi fossi o cosa gli stessi dicendo. Poi riabbassò lo sguardo e sorrise al legno della scrivania. - Amo moltissimo Giacometti. Mi venne un tuffo al cuore, quando lo disse: non mi sbagliavo sulla luce nei suoi occhi, quando parlava di un artista che amava! - C'è un testo molto bello che posso prestarle – riprese, – ma non ce l'ho con me, adesso. Posso portarglielo la prossima volta, se ha pazienza. Altrimenti posso darle il titolo per procurarselo in altro modo. - Non ho fretta, professore. - Allora tra un paio di giorni sarà suo. Lo ringraziai. Lui assentì con la testa e poi mi rivolse un ultimo sorriso, a sguardo basso, prima di rimettere il tappo alla penna, raccogliere le sue cose e lasciare la scrivania. Io rimasi lì, imbambolata, a guardarlo andare via. Quando aveva già voltato le spalle e io stavo ormai per lasciare l'auditorium, Ulay si girò appena verso di me, dandomi il profilo: - Sono molto colpito. È un grande orgoglio, per un insegnante, che un allievo voglia approfondire la lezione. A stento trattenni l'emozione. Volevo dirgli qualcos'altro ma Ulay non si aspettava risposta e così lasciò l'aula, quasi in fretta. Timido lo era senza dubbio. Eppure era riuscito a esprimere la sua contentezza. Non avevo barato, intuendo che Giacometti appassionasse anche lui; l'artista svizzero mi aveva affascinata davvero e avrei letto ogni riga del testo che Ulay mi avrebbe prestato. Avrei accarezzato ogni pagina di quel libro, sapendo che il suo sguardo si era posato su quelle parole, che le sue dita lo avevano sfogliato, con la delicatezza che si usa per toccare le cose preziose. Ero così felice e orgogliosa di me! Ora avevamo qualcosa, anche se era una piccola cosa, che ci legava. Stavo ancora rallegrandomi per la mia iniziativa quando, fuori dall'auditorium, trovai Keira e Nora che mi aspettavano. Ero certa che volessero delle anticipazioni su com'era andata con Ulay, ma poi notai che
  • 27. non sorridevano e, anzi, avevano delle facce strane. - Andiamo a pranzo, raga? – domandai, fingendo di ignorare la loro espressione. - Constance ci ha detto che prima della lezione hai risposto al saluto del Ghepardo Bianco. È vero? Oh, cavolo. - Come corrono, le notizie! – provai a sdrammatizzare. - Si può sapere perché diavolo rispondi a quella pazza? La sai la regola, no? – Keira sembrava quasi volermi sputare addosso, tanto il suo sguardo era pieno di disprezzo. - La conosci, la regola! – ribadì Nora. - Be', state a sentire, forse è ora di piantarla con questa cavolata – sbottai. – Anzi, sarebbe meglio che cominciaste a salutare anche voi. - Dico, sei impazzita? – Keira mi si avvicinò a pochi centimetri dalla faccia. - Cos'è, vuoi fare la rivoluzione? – La sostenne Nora. – Fai ridere i polli, Off. - Non vi conviene litigare con me – giocai d'astuzia – perché rischiereste di non sapere più niente. E sapete a cosa mi riferisco! Funzionò. Keira abbandonò l'espressione astiosa e si allontanò dalla mia faccia, e Nora si ammutolì. - Andiamo a pranzo, va'. Ci avviammo tutte e tre verso la sala mensa. Dentro di me non la smettevo di ridere, anche se poi quel divertimento svanì al pensiero che forse ero stata sin troppo ottimista a promettere alle ragazze qualche novità: e se il canale di comunicazione che avevo appena aperto con Ulay si fosse chiuso?
  • 28. 6. Tramonto Quando il professor Ulay mi chiamò alla fine della lezione successiva per consegnarmi il libro su Giacometti, quasi trasalii. Mi chiamò a gran voce, mentre le ragazze si stavano preparando a uscire dall'aula, e io – che pensavo che saremmo rimasti soli come l'altra volta – ci rimasi non poco male. Mi consegnò il libro dicendomi solo che potevo restituirglielo con calma perché non aveva fretta di rientrarne in possesso. Io raccolsi dalle sue mani il volume, lo ringraziai e poi mi avviai verso l'uscita, mentre le mie amiche mi ronzavano intorno, lanciandomi qualche provocazione. Credo che nessuna di loro, e in particolare Keira, credesse davvero che il mio interesse verso Ulay fosse sincero. Per loro era incredibile che quell'uomo potesse attirarmi. Io, invece, ero molto più preoccupata che lui potesse non essere attratto da me. Quando più tardi, nei giorni successivi, restavo in camera a leggere il libro su Giacometti, pensavo a tutto fuorché a ciò su cui stavo posando gli occhi. Il mio sguardo scorreva in modo meccanico sulle parole e sulle immagini, e io invece mi arrovellavo su come far capire a Ulay che mi piaceva. Necessitavo di un consiglio, ma non avevo intenzione di chiederlo a Keira o alle altre ragazze del gruppo, per carità. Avrebbero riso del mio essere così imbranata, mi avrebbero dato il tormento. No, io avevo bisogno del consiglio di una persona sensibile e seria. Appena formulai questo pensiero, mi balenò in mente lei: Nanskij. Sorrisi, sentendomi subito preda dell'emozione. Ero certa che Nanskij mi avrebbe capita, dandomi il consiglio che cercavo. Chiusi il libro, lo sistemai con cura nel cassetto della scrivania e poi mi fiondai fuori dalla stanza. Cercai Nanskij nella sua camera, ma Johanna mi informò, un po' infastidita, che era andata a correre sul prato intorno al maneggio. Era l'ora del tramonto. Il cielo brillava di un rosa aranciato da una parte, mentre voltando un po' la testa ci si poteva immergere in un timido blu. Soffiava un vento che profumava di erba. Mi abbottonai il cardigan che indossavo sul vestito (dopo le lezioni toglievo sempre la divisa) e mi incamminai verso il maneggio, decisa ad aspettare Nanskij.
  • 29. La vidi spuntare dopo qualche minuto dall'angolo dello steccato. Correva fortissimo, con gli auricolari nelle orecchie. Le feci un cenno con la mano ma lei, tutta presa dalla sua corsa, non si accorse di me. Sorrisi. Poco male, l'avrei attesa. Dopotutto si stava così bene lì, con gli occhi persi in tutto quel verde, spento dal tramonto del sole, e con lo skyline di New Heakon all'orizzonte. Potevo anche fingere che non fosse così, eppure l'idea che di lì a poco avrei parlato da sola con Nanskij, e poi per chiederle un consiglio sentimentale, mi emozionava. Mi sentivo dell'agitazione addosso, come tante formiche che mi camminassero sulla pancia. Che idea sciocca, quella di paragonare l'ansia alle formiche, eppure era proprio così che mi sentivo. Nanskij mi aveva sempre affascinata, per quella sua aria da persona libera, che se ne frega del giudizio altrui, ma anche per la sua fisicità così diversa da noi ragazze. Solo negli ultimi tempi, però, avevo sentito il desiderio di conoscerla meglio, anzi, più che un desiderio era quasi una necessità. Il suo talento mi attirava, il suo rapporto con Johanna mi turbava, il suo sorriso mi rassicurava e allo stesso tempo mi metteva sulle spine. Perché avevo sentito l'urgenza di chiedere a lei un consiglio del genere? Eppure, ormai ero lì e... - Off! – mi chiamò lei, arrivando nella mia direzione trafelata dalla corsa. Io la salutai, mentre lei si tamponava la fronte con un asciugamano e mi veniva incontro, con la maglietta così madida di sudore che le aderiva al corpo. Sul suo petto c'era appena un accenno di seno. - Stavi aspettando me? – mi chiese, ansimando un po' e sistemandosi l'asciugamano intorno al collo. Era la fatica della corsa o la luce del tramonto a rendere tanto rosa la pelle del suo viso? - Sì! Perché, ti sembra strano? - Strano... però bello – mi sorrise. – Che è successo? Mi ronzava ancora in testa quello “strano però bello”, ma riuscii a risponderle con nonchalance: - Non è che deve per forza essere successo qualcosa. Ormai siamo amiche, no? Nanskij rimase spiazzata dalle mie parole perché aggrottò le sopracciglia e storse la bocca, come se le avessi appena detto chissà che. - No? – continuai io, senza distogliere lo sguardo dal suo, così stranito. Lei, di scatto, mi posò una mano sulla fronte, come per sentire se avessi la febbre. Non so perché, ma quel suo gesto così fulmineo mi fece sobbalzare. - Niente febbre, meno male – e rise, non prima di avermi scompigliato i capelli.
  • 30. - Cos'è, un vizio? – dissi un po' stizzita, dato che per me i capelli erano quasi sacri, e non era la prima volta che Nanskij me li scompigliasse con una manata. – Guarda che sono suscettibile sui capelli, eh. Toccami tutto, ma non i capelli. Lo dissi senza pensarci, lo giuro, ma poi riflettei un attimo sulla frase che avevo detto e in qualche modo mi sembrò una provocazione sessuale. Lei, però, continuava a ridere vedendo che mi sistemavo i capelli con le dita, come meglio potevo. - Devo farmi la doccia – annunciò Nanskij, facendo segno di avviarci verso l'istituto. - Aspetta... Ero venuta a chiederti un consiglio – osai. - Certo, ormai siamo amiche – disse ironica, facendomi il verso per quello che avevo detto prima. - Dai! È una cosa seria. Nanskij mi guardò con un misto di incredulità e divertimento, come si guarderebbe un bambino che ti zittisca in modo brusco perché vuole continuare a seguire l'andamento della Borsa in tv. Poi, però, il suo sguardo cambiò, forse perché cambiò anche il mio: mi ero fatta terribilmente seria. - Mettiamoci a sedere, allora – mi invitò, quasi buttandosi sul prato. Io avevo un vestito pulito e non volevo sporcarmelo d'erba. Esitai. - Muoviti, ne avrai trecento di vestiti! – e ridendo mi tirò giù, afferrandomi dai polsi. Senza grazia, rovinai sul prato e mi sentii una principessina imbecille. Quando mi fui sistemata, cercai di ritrovare la giusta calma per cominciare il mio discorso, ma ero emozionata. Osservai Nanskij, con i suoi arti lunghissimi e i capelli incollati al viso. - Ti decidi o no? - Sì. Sì... È che c'è uno. - Uno che? - Un uomo. - Aaah – Nanskij si lasciò andare a una specie di verso di noia. - È una cosa d'amore? – chiese con voce schifata. - Quale amore?! No! Diciamo... di attrazione. - Di sesso? Mi guardò dritto in faccia. - Eh. Sì. Diciamo così. - Sesso con un uomo?
  • 31. Trasalii. Mi venne in mente lei che guardava il seno nudo di Johanna. - Eh sì! Ti ho detto che c'è un uomo! - Tu l'hai capito che non sono la persona giusta a cui chiedere certe cose? – e rise. Giocherellai nervosamente con i lacci delle mie Converse, tanto per distogliere lo sguardo da lei. Cavolo, una reazione del genere non me l'aspettavo. Adesso mi vergognavo a chiederle ciò che pensavo di chiederle, perché mi rendevo conto che... ecco... da un certo punto di vista non poteva comprendermi del tutto. - Che fai, non rispondi? – mi chiese Nanskij, con dolcezza, sollevandomi il mento con una mano in modo che riportassi lo sguardo su di lei. Guardai le macchie che coprivano una parte del suo viso: nella luce del tramonto sembravano quasi dorate e le davano l'aspetto di una creatura non terrena. - Sì, lo so. Ho capito cosa vuoi dire. Nanskij assentì con lo sguardo. Sembrava sollevata che io avessi capito, senza dubbi, che gli uomini non le interessavano e che quindi lei era la persona meno adatta a darmi consigli su come comportarsi con loro. - Neanche vuoi sapere chi è che mi piace? – tentai l'ultima carta. - E va bene, Off. Dimmi tutto. Ti prometto che ti darò questo consiglio, anche se non ci capisco niente. Bene! Mentre io esultavo, dentro di me, Nanskij si frizionava di nuovo i capelli con l'asciugamano, senza smettere di guardarmi, in attesa della mia “rivelazione”. - Allora... Non ridere: è il professor Ulay. Mi batté forte il cuore, appena pronunciai quel nome. Nanskij si arrestò per un istante. - Perché dovrei ridere? Ulay farebbe innamorare persino me, se non fosse un uomo. Sorrisi a trentadue denti, fiera della mia scelta che invece le Ninfee tanto disprezzavano. - Io non sono innamorata, però. Mi piace tantissimo e... - Vuoi fare sesso con lui. E magari ti immagini che mentre ti apre le cosce ti fa anche una bella lezione extra su Malevic o su Duchamp. - Che dici?! Meno male che il tramonto già falsava i colori sulle nostre facce, altrimenti Nanskij si sarebbe accorta che ero arrossita. - Ti prendo in giro, sciocca. Allora, da me cosa vuoi sapere? Come sedurlo? –
  • 32. Nanskij sorrise, poi si passò una mano tra i capelli inumiditi di sudore. - Non lo so, dammi un consiglio! L'unica cosa che sono stata capace di fare è stata chiedergli un libro in prestito, vedi un po' tu come sono messa... Nanskij sembrò riflettere per un attimo, poi, con naturalezza, mi disse: - Allora la chiave deve essere quel libro. Scrivi un biglietto e lo infili tra le pagine, ma in modo che sporga un po', altrimenti non lo vedrà mai. Sgranai gli occhi: cavolo, sì che era un'idea! Così non dovevo neanche dirglielo a voce! - Che scrivo? – chiesi, con il candore di una bambina (scema!). Nanskij mi fulminò con lo sguardo, poi ridendo si avventò su di me e mi atterrò, facendomi ritrovare con la schiena sull'erba. Scoppiai a ridere, cercando di respingerla mentre lei mi bloccava sul prato. Pensavo ai miei poveri capelli, appena lavati, ma mi stavo divertendo. Nanskij mi lasciò libera, poi si alzò in piedi, aiutando anche me a sollevarmi. - Scrivigli qualcosa di semplice, niente cose esplicite. - Ma ti pare che gli scrivo “professore, voglio venire a letto con lei?” – risi. - Tanto lo capisce lo stesso, brutta viziosa che non sei altro. Fammi andare a lavare, dai, che puzzo da sei metri. Si avviò a passo veloce verso l'istituto, mentre io la seguivo a poca distanza, felice per il consiglio ricevuto ma soprattutto per qualcosa che ancora ero ben lontana dal comprendere. - Lo sai che lo guardo spesso, il tuo quadro? – le confessai, mentre il sole era ormai scomparso dalla vista. - Sul serio? – rispose lei, senza rallentare il suo passo spedito. Le dissi che era così, che quel quadro mi trasmetteva una grande forza e neppure io sapevo spiegarmi perché. Spiai la sua espressione. Sorrideva, e la cosa mi rese fiera di averglielo detto. Quando rientrammo nell'istituto, io e Nanskij ci separammo in silenzio, senza salutarci. Solo con un sorriso.
  • 33. 7. Violino e vestiti azzurri La lezione di musica con la signora Jelinek era terminata da mezz'ora, le altre ragazze erano andate via, ma io ancora non mi decidevo a lasciare l'aula. Quando si trattava di suonare il violino quasi non riuscivo a sentire la stanchezza ed era solo la fame, a un certo punto, a segnalarmi che era ora di posare lo strumento e recarmi in sala mensa. Ero nel bel mezzo dell'esecuzione di un pezzo quando percepii la presenza di qualcuno che entrava dalla porta socchiusa e si fermava. Dalla mia posizione non potevo vedere chi fosse, anche perché avrei dovuto voltare la testa. Decisi allora di continuare a suonare, anche se concentrarmi sulla musica risultò più difficile, perché per tutto il tempo mi domandai chi potesse essere il curioso di turno. Cercai di astrarmi e di lasciarmi prendere di nuovo dalla musica e per fortuna ci riuscii. Portai a conclusione il pezzo, poi mi voltai. Nanskij era lì, immobile e sottile quasi come una scultura di Giacometti. Quando i nostri sguardi si incrociarono, lei mi applaudì fortissimo. - Che meraviglia! – ripeteva – Sei straordinaria! Sentivo che la mia faccia passava attraverso tutti i colori dell'arcobaleno, eppure riuscii a mantenere un po' di calma apparente. - Non esageriamo, ho ancora molto da imparare. Lei mi venne incontro, mentre io sistemavo il violino e l'archetto nella custodia. - Davvero, Off. Ci è mancato poco che mi mettessi a piangere. - Vedi? – mi voltai a guardarla. – Devo ancora studiare molto prima di farti piangere. Lei mi sorrise. Aveva i capelli più ordinati del solito, e portava una camicia alla coreana, ovviamente bianca, e jeans bianchi strappati all'altezza delle ginocchia e spruzzati di vernice blu. Si era disegnata due strisce colorate sotto un occhio, come un capo indiano. Eccentrica come sempre. Pensavo che un giorno sarebbe diventata famosa, dentro di me ne ero convinta. E forse su Wikipedia avrebbero scritto, nella sezione curiosità, che si vestiva sempre di bianco. - Sai cosa mi piacerebbe, Off? - Cosa? - Mi piacerebbe lavorare insieme a te. Non lo so, improvvisare. Tu suoni e io
  • 34. dipingo. - Sarebbe bello – le risposi, ma senza guardarla. Pensai che dovevo esserle piaciuta davvero tanto, se mi chiedeva di fare una cosa simile. Fingevo di non essere turbata dalla sua richiesta, ma dentro di me mi sentivo in fibrillazione. Vederla al lavoro su uno dei suoi quadri doveva essere straordinario, un vero privilegio. - Ehi, mi concedi un po' della tua attenzione? – scherzò lei, ma con una punta di risentimento nella voce. - Sì, eccomi – la guardai. - Allora, che ne pensi? - Sì, te l'ho già detto. Mi sentivo assalire da una strana sensazione mentre la guardavo di fronte a me, con quel suo viso così particolare e colorato e quei capelli che un po' la nascondevano. La sua altezza contribuiva a incutermi un certo senso di inferiorità, che però cercavo di non dare a vedere. - Sei strana, Off. È perché lui non ti ha ancora risposto, vero? Si riferiva a Ulay, naturalmente. Gli avevo restituito il libro al termine di una lezione, dicendogli semplicemente che lo avevo trovato illuminante. - Non mi ha risposto, infatti. Ma non sono strana, per niente! - Allora poi ci accordiamo per quella cosa, okay? - Quale cosa? - Creare insieme, no? Lo vedi che sei strana? – Mi scompigliò i capelli di brutto. Ci provava gusto, c'era poco da fare. - Sei stronza, allora! – sbottai, sistemandomeli subito. - Devi vestirti di azzurro, Off. Esalterebbe il rosso dei capelli – disse, avviandosi verso l'uscita dell'aula. - Vaffanculo – e continuai a lisciarmi i capelli con le dita. - Arrivederci, Miss Ninfea. Vestiti azzurri, mi raccomando. Risi tra me e me e raccolsi le mie cose. Ripassai nella mente i capi azzurri che avevo nell'armadio.
  • 35. 8. Luce e buio Una domenica mattina Nanskij e io ci ritrovammo nel laboratorio artistico, di buon'ora. Mi aveva dato appuntamento all'alba; non credevo che sarei mai riuscita a svegliarmi tanto presto, invece il pensiero di quell'incontro mi aveva messo addosso una specie di agitazione, tanto che mi ero destata già nel cuore della notte. Ero ancora un po' intontita, mentre lei sembrava già carica, e anche molto affamata, dato che aveva trafugato dei cupcake dal buffet della colazione e li aveva depositati su un tavolinetto disseminato di tubetti di colori. - Guarda che bella luce – la invitai ad affacciarsi dalla finestra, ma Nanskij si era già infilata il camice e stava preparando i materiali per la sua opera. La osservai, sorridendole senza che lei mi guardasse, perché mi intenerì il suo essere così innamorata delle sue cose. Era delicata quando toccava i tubetti di tempere e i materiali di cui si serviva, tanto quanto era brusca e mascolina quando si trattava di maneggiare cibo, libri o altro. Forse accorgendosi del mio sguardo fisso su di lei, Nanskij sollevò la testa da ciò che stava facendo. - Suona. Era un ordine troppo gradito perché io potessi ribellarmi. In fondo ero lì apposta, per suonare tutto quello che volevo mentre lei creava alla sua maniera. La gioia improvvisa mi svegliò dal mio intorpidimento e così cominciai a suonare. Dentro di me indovinavo perché Nanskij avesse scelto un orario così mattiniero: voleva che il laboratorio fosse, per qualche ora, tutto per noi, lo scenario perfetto per la combinazione delle nostre arti e la reciproca ispirazione. Suonavo, mentre la osservavo rapita nel suo lavoro. Operava tutta concentrata, con l'espressione seria e quel camice che le dava la parvenza di un medico. I capelli arruffati, le mani impiastricciate di colori. Sembrava alienata da tutto il resto; poi, però, i sorrisi che mi rivolgeva di tanto in tanto mi comunicavano che sì, stava ascoltando la mia musica, e le piaceva. Per me erano come piccoli momenti di felicità, gocce di pioggia residue che cadono da un filo teso.
  • 36. Stavo ancora suonando quando Nanskij posò tutto e si allontanò dal suo quadro per prendere i cupcake che aveva posato sul tavolinetto. Ecco che le sue mani non conoscevano più la delicatezza, e tornavano a essere sbrigative, quasi rudi, su quei dolcetti. Venne verso di me, staccando un morso dal cupcake. Io allontanai l'archetto dal violino. - Non smettere – mi invitò, tenendo i suoi occhi fissi dentro ai miei. Stavo per rimettermi a suonare quando lei avvicinò il cupcake alle mie labbra, come se volesse imboccarmi e come se fosse la cosa più naturale del mondo offrirmi dalle sue mani sporche di colori quel dolce che aveva morso. Io schiusi le labbra e lei avvicinò il cupcake alla mia bocca. Qualcosa, in quel gesto, mi turbò. Distolsi subito lo sguardo da lei e riattaccai a suonare, masticando e cercando di scacciare quella sensazione. Credevo che Nanskij si mettesse di nuovo al lavoro, invece si sedette sullo sgabello e rimase ad ascoltarmi. - Ma sì, prendiamoci una pausa – inventai, un po' perché ero imbarazzata da tutta quell'attenzione, un po' perché pensai che forse voleva fare quattro chiacchiere. Deposi lo strumento. - Cos'è che ami di più, della musica? Rimasi un po' spiazzata dalla sua domanda e ci riflettei su un momento. - Quando suono è come se... come se fossi la Ofelia che vorrei sempre essere. - E com'è che vorresti essere? Nanskij sembrava divertita, o forse intenerita, da ciò che avevo risposto. Anche quella era una domanda difficile. - Vorrei essere sicura di sapere chi sono. - Non lo sai, chi sei? I suoi occhi mi puntavano. - Non sempre, però la musica mi dà un'identità. Non so come dire. È una cavolata? - Per niente. È una cosa molto profonda. Non me l'aspettavo mica, una risposta del genere! – rise. - Bella considerazione, hai di me! - Dai, lo sai che scherzo. Chi ama la musica non può non essere profondo. - Ti sei salvata per un pelo – scherzai. Mi avvicinai al tavolinetto per prendere un cupcake. Era come se volessi anticiparla, per evitare di ripetere la scena di poco prima, anche se non avevo
  • 37. capito cos'era di preciso a procurarmi quel timore. - Ti sei mai innamorata, Off? Per poco non mi andava di traverso il boccone, ma finsi noncuranza. - Forse. - Che razza di risposta è “forse”? - Che non ne sono sicura. Perché, ti sembra strano? Nanskij si alzò di scatto dallo sgabello e venne verso di me. Mi bloccò il braccio a mezz'aria e rubò il pezzo di cupcake che stavo portando alla bocca. Masticò il boccone, dopo avermi lasciato libero il polso, mentre io ero di nuovo in preda a quella strana confusione. - Amore e forse non possono nemmeno stare nella stessa frase. Se ami lo sai, lo sai di sicuro. Buoni questi dolci, eh? Si succhiò le dita sporche di crema e anche quel gesto così stupido mi sembrò, fatto lei, qualcosa che avrei preferito non vedere. - Perché tu, scusa, quante volte ti sei innamorata? – cercai di darmi un tono. - Una volta sola – la sua voce si era fatta grave. - Come è finita? Nanskij andò lentamente verso la finestra, la aprì e si sporse, sollevando il viso per lasciarsi baciare dal sole. Io morivo dalla curiosità e insistei: - Chi era? - Una mia compagna di scuola. Si chiamava Loreena. Avevamo quindici anni, più o meno. Mi aveva incuriosita subito, perché portava occhiali da presbite e quegli occhi azzurri sembravano giganteschi. Era molto timida, non parlava con nessuno. Durante la ricreazione, invece che uscire nel cortile della scuola come me e gli altri, si metteva a disegnare. - Era un'artista come te. - Sì, ed era bravissima. Cominciai a fermarmi anche io in classe nelle pause. Le parlai della mia passione per il disegno e lei ne fu molto felice. Piano piano iniziammo a disegnare insieme. Era bellissimo. - Ti innamorasti subito di lei? - Sì. Ogni giorno aspettavo con ansia la ricreazione per poter disegnare con lei e mentre disegnavamo parlavamo, ci conoscevamo... Ero l'unica con cui Loreena parlasse, e questo mi rendeva felice. Raggiunsi Nanskij alla finestra e mi affacciai con lei. - Un giorno avevamo un compito in classe di algebra. Io me la cavavo molto bene, mentre per lei era un incubo. Io lo sapevo, perciò le passai un foglietto... Alla fine dell'espressione, proprio sotto il risultato... scrissi “ti
  • 38. amo”. - Bello – commentai, e Nanskij mi guardò e sorrise. - Lei non disse nulla, neanche durante la pausa, tanto che mi venne quasi il dubbio che non l'avesse letto... anche se era impossibile. Poi, però, un pomeriggio mi invitò a casa sua, per fare un po' di algebra insieme. Studiavamo l'una di fianco all'altra, quasi attaccate. Mi batteva forte il cuore, a starle così vicino. Ci vedemmo altre volte, sempre a casa sua. Un giorno prese la matita e scrisse “anch'io” sul mio libro di algebra. - Bello... – ripetei. - E allora ebbi il coraggio di baciarla. Fu un bacio molto dolce. - E poi? - Andavo a casa sua tutti i pomeriggi. Neanche li aprivamo più, i libri di algebra. - Tutto il tempo a baciarvi? – domandai di getto, poi me ne vergognai un po'. - Che scema! – Nanskij rise e mi sospinse lievemente, toccandomi sulla fronte. Risi anche io. – Disegnavamo e ci baciavamo. Pensai a come dovevano essere i baci di Nanskij ma scacciai subito quel pensiero dalla mia mente. - La cosa andò avanti per settimane, finché un pomeriggio suo padre entrò in camera senza bussare e ci sorprese. - Cavolo... Come nei film! - Si arrabbiò molto e mi cacciò di casa. Credo che l'idea di me e di sua figlia non l'avesse mai nemmeno sfiorato. - Che retrogrado! Se fossi stata un ragazzo non ti avrebbe sgridata, vero? - Be', penso che lo avrebbe fatto comunque. Ma credo che per lui sia stato uno choc vedere il nostro bacio, perché era l'ultima cosa che si aspettava. - Poi che successe? - Visto che non potevamo più vederci a casa sua... e che a casa mia era impossibile... - Perché impossibile? Nanskij si rabbuiò. - Questa è un'altra storia. Le chiesi scusa. Non avevo idea che quella domanda potesse suscitarle tanto imbarazzo. La mia mente divenne un turbinio di domande, ma sapevo che non avrebbero avuto risposta, tanto valeva rassegnarmi. - Comunque... Io e Loreena ormai potevamo vederci solo a scuola. Durante la pausa dalle lezioni ci nascondevamo in bagno e lì... Per me era il paradiso.
  • 39. Io pensavo ancora alla gaffe di prima e non avevo più il coraggio di commentare o di incitare il suo racconto. Mi limitai a sorriderle. - Andò avanti per un po'. Poi, un giorno, dal bagno sentimmo delle ragazze parlare di noi, mentre si lavavano le mani... Avevano capito che tra noi c'era qualcosa e dissero cose molto pesanti... Io cercai di proteggere Loreena, le tappai le orecchie perché non ascoltasse altro... Lei però fu distrutta nel sentire quelle cattiverie. E quella fu la fine della nostra storia. Non mi rivolse più la parola e un mese dopo cambiò scuola. L'espressione di Nanskij mi rese noto tutto il dolore che doveva aver provato. - Sei stata molto male per questo, vero? Nanskij non rispose, ma mi rivolse un sorriso amaro e poi si allontanò dalla finestra. - Riprendo a lavorare, finché c'è questa bella luce.
  • 40. 9. Convocazione - Se il valore di un'opera – argomentò Keira – è troppo legato al suo messaggio oppure, che ne so, alla tecnica innovativa... non mi convince. Per me un'opera dovrebbe essere bella a prescindere da tutto, dovrebbe trasmetterti quel senso di bellezza, di... - Guarda che la bellezza è un concetto che l'arte ha superato da un sacco di tempo! – intervenne Jane, subito sostenuta dalle altre ragazze. Era da poco finita una lezione e io e il mio solito gruppetto ci eravamo fermate a chiacchierare. A dire il vero, però, non stavo seguendo granché la conversazione. Oltre le spalle di Keira, a una certa distanza da noi, Nanskij e Johanna stavano ridendo insieme di qualcosa. Johanna, nella foga del suo divertimento, si appoggiava a Nanskij, le dava pacche sulle braccia. Nanskij, molto più contenuta e niente affatto sguaiata, rideva anche lei e ogni tanto le mormorava qualcosa nell'orecchio. Johanna scoppiava un'altra volta e giù con le risate e le pacche. - Cos'è sto casino? – si girò Keira, quando la risata starnazzante di Johanna risuonò fino alle sue orecchie. - Ecco perché io non potrei mai mischiarmi con quella gente... – sentenziò Adele. Insultare Nanskij no, proprio no. - Ah, perché invece quel troglodita di Justin Holloway è degno di te – mi lasciai andare, avvelenata. Le ragazze mi guardarono stupite. Lo sguardo di Adele era pieno di odio. - Cosa c'entra Justin, adesso? E abbassa la voce, cretina! - Nanskij è una grande artista e se vedessi i suoi quadri non ti permetteresti mai di riferirti così a lei. - E Justin, allora? Anche le sue canzoni sono arte! - Per favore, quella non è musica... - Senti, Off, e tu quando li avresti visti i quadri del Ghepardo, scusa? – intervenne Keira, accigliata. - Li ho visti, e allora? Hai qualcosa in contrario? Ormai ero una furia. Spesso non riuscivo a frenarmi, nel dire ciò che pensavo, ma la verità dietro tutta quella veemenza era che le risate e la complicità tra Nanskij e Johanna mi avevano quasi... non lo so... ingelosito.
  • 41. - Sì, che avrei qualcosa in contrario. Se tu cominci a frequentare le Perdute allora... Stavo proprio aspettando il seguito di quella frase, ma Keira dovette interrompersi perché il signor Kallende, uno degli operatori dell'istituto, si stava avvicinando. - Signorina Hunter – mi chiamò Kallende – il professor Ulay la desidera in Sala Docenti, le vuole parlare. Mi sentii avvampare. Le ragazze rimasero anche loro un po' sorprese e si ammutolirono. - Lo raggiungo subito, grazie signor Kallende. Quando l'operatore si allontanò, Keira e le altre mi guardarono estasiate e incuriosite. Si erano dimenticate in un colpo solo della nostra discussione e già si ingolosivano per la situazione. Loro non sapevano nulla del biglietto che avevo lasciato a Ulay, naturalmente, ma il fatto che lui mi mandasse a chiamare era già una grande novità. - Allora stai facendo progressi... Dai, vai! – mi incitò Keira, curiosa da pazzi. Le ragazze mi spinsero, proprio fisicamente, ad andare subito in Sala Docenti. Io mi pentii per l'ennesima volta della promessa fatta alle ragazze quel famoso venerdì, ma poi cercai di concentrarmi su quello che stava succedendo: Ulay doveva aver letto il biglietto, per forza, e adesso... Adesso c'erano infinite possibilità. Inutile dire che non avevo più un goccio di saliva in gola. Percorsi velocemente il corridoio, coperto da una moquette verde e oro, mentre cercavo furtivamente di controllare lo stato della mia faccia nello specchietto che mi portavo sempre dietro. Quella mattina mi ero truccata un po' di fretta, perché avevo preferito dormire un quarto d'ora in più, e non mi piacevo granché. Oddio, non che ci fossero giorni in cui mi piacessi del tutto, figuriamoci! Ma per la legge di Murphy è sempre quando non sei al massimo che ti capita l'incontro che aspettavi. Mi sistemai i capelli con le dita, anche se almeno loro erano okay, e mi preparai a bussare alla porta della Sala Docenti. - Avanti! – sentii la voce di Ulay dall'interno e mi decisi a entrare. - Buongiorno, professore – lo salutai, cercando di sembrare sicura di me, e invece dentro ero un tamburello impazzito. Richiusi la porta alle mie spalle. Ulay era in piedi davanti alla vetrata, contornata di tende bordeaux, che si
  • 42. affacciava su quelli che io chiamavo i giardini di Versailles. C'era un sole meraviglioso, quella mattina, ma Ulay era in controluce e non riuscivo a vedere il suo viso, da quella distanza. - Immagino che conosca il motivo per cui l'ho mandata a chiamare. Ulay lasciò la sua postazione davanti alla vetrata e andò a occupare una delle sedie intorno al tavolo ovale, invitandomi con un cenno a fare lo stesso. Mi sedetti su una sedia di fronte a lui. Finalmente potei guardarlo bene in viso. Portava gli occhiali da vista, di un modello vintage, e gli stavano molto bene. Lo trovai più attraente che mai. Cercai di concentrarmi su quegli occhiali per calmare la mia ansia. - Sì, conosco il motivo – risposi, e la voce mi si incrinò un poco. Ulay era serissimo. Persino i suoi occhi azzurro piombo, che però non mi guardavano, sembravano essersi scuriti. Ebbi così paura che fosse arrabbiato e che stesse per dirmi qualcosa di brutto che, di getto, dissi: - Professore, se si è sentito offeso io le chiedo scusa. Non volevo essere così sfrontata, non avrei dovuto... Spero che questo non cambi niente. Mi sentii sollevata, ma al contempo mi sembrò di aver detto addio per sempre alla possibilità di averlo. Ulay sollevò gli occhi su di me. Quello sguardo mi invase e io mi sentii smarrita, piccolissima. Lui aggrottò le sopracciglia. - Temo di non capire, signorina Hunter. Di cosa sta parlando? Sbiancai. Mio dio, ma perché non avevo aspettato ad aprire la mia dannatissima bocca? Non aveva letto il biglietto! E adesso, come ne uscivo? - Professore... - Mi dica, perché dovrei essere offeso? Mi fissava. Dov'era finita la sua timidezza? Doveva essere davvero ansioso di sapere a che mi riferissi. Non potevo sottrarmi. Con un crampo allucinante allo stomaco, mi decisi a parlare. Fai la donna, Off, non hai più quindici anni! - Professore, io le avevo lasciato un biglietto all'interno del libro che mi ha prestato. Speravo che lei lo trovasse, lo avevo fatto sporgere un po' dalle pagine e... Non riuscii più a reggere il suo sguardo interrogativo e così abbassai gli occhi. - E cosa c'era scritto di così offensivo? No. Non potevo dirglielo a voce. Il mio potere di non riuscire a tenere la boccaccia a freno spariva del tutto quando c'era di mezzo una cosa come quella... un interesse.
  • 43. - Preferirei che lo leggesse, professore. Ero sicura che avesse portato il libro a casa e che quindi avrei avuto un po' di respiro, ma la legge di Murphy oggi era più vera che mai, per me. Ulay si alzò dalla sedia e si avviò verso l'armadietto dove gli insegnanti conservavano i registri e gli effetti personali. Mi sentii sprofondare. Guardai Ulay aprire l'anta di legno anticato con la sua chiave, estrarne il libro e controllare lo spessore delle pagine per trovare il biglietto sporgente. Basta, non volevo più guardare. La Sala Docenti piombò nel silenzio più totale. In quel silenzio Ulay stava leggendo il mio biglietto. Professor Ulay, mi perdoni se utilizzo questo sciocco espediente, ma non riuscirei a dirle a voce quello che sto per scriverle. Provo un forte interesse verso di lei. Sono inopportuna, lo so, ma se ho deciso di rischiare è perché vorrei avere l'occasione di conoscerla, di poterle parlare al di fuori delle lezioni. Non mi lasci senza una risposta. Basterà un sì o un no, in qualunque momento, senza aggiungere altro. Io capirò. Ofelia Quei pochi secondi mi sembrarono infiniti. Per l'ansia mi conficcai le unghie nei palmi delle mani, stringendo forte i pugni. Tirai un grosso sospiro quando sentii Ulay chiudere il libro, riporlo e poi richiudere l'anta con la chiave. Trovai il coraggio di sollevare gli occhi su di lui. Aveva lo sguardo basso e si era un po' rallentato nei movimenti. Raggiunse il tavolo e riprese il posto sulla sedia. - Ofelia, ascolta. Mi aveva chiamato con il mio nome di battesimo e mi aveva dato del tu! Scoppiavo dall'ansia. Ci guardammo in viso, e non avrei saputo dire chi di noi due fosse in maggiore difficoltà. - Credo che il tuo vero interesse sia la materia che insegno. È la storia dell'arte a essere tanto affascinante da riflettere il suo fascino su chi la insegna. È naturale che sia così. Forse sono un bravo insegnante e questo... questo mi lusinga moltissimo – abbassò lo sguardo. – Però credimi, Ofelia, non è certo quest'uomo l'oggetto del tuo interesse. Fu perché aveva ancora lo sguardo basso che riuscii a dirgli:
  • 44. - Professore, con tutto il rispetto... Credo di saper distinguere tra l'interesse per l'arte e l'interesse per la persona. Ulay rialzò lo sguardo, ma io continuai. - Ho diciannove anni e mezzo... quasi venti. Credo di essere abbastanza matura. Mi batteva il cuore, mentre lo dicevo. Ulay sorrise, di un sorriso così dolce che quasi mi sentii offesa: pensai che fosse come quei sorrisi che si fanno ai bambini. - Tu pensi che sia una questione di età, Ofelia? La sua osservazione mi fece risentire, e questo mi aiutò a trovare un po' di coraggio: - Ma se lei credesse nel mio interesse... cambierebbe qualcosa? Lo avevo messo in difficoltà, adesso. Mio dio, lo avevo messo in difficoltà! E allora... allora forse un po' gli piacevo! - Ofelia. Disse solo così. Disse il mio nome e poi si alzò dalla sedia. Fu lì che cominciai a nutrire in me la speranza di non essergli indifferente. Dovevo fargli capire che il mio interesse era reale, ma dove avrei trovato il coraggio? Ero ancora frastornata da quella rivelazione quando Ulay parlò di nuovo. - Perdonami se ti ho dato del tu. Appena uscirai da questa stanza tornerà tutto com'era. Mi alzai dalla sedia anche io, con un leggero stridio del legno sul pavimento. - Il motivo per cui ti ho fatto chiamare, comunque, è che tuo padre mi ha chiesto una consulenza. Vuole acquistare delle opere. Mi ha comunicato le date in cui è disponibile. - Non ne sapevo niente. - In ogni caso, mi ha detto di riferire la data e il luogo dell'appuntamento a te. - Va bene, mi dica. - Allora, si chiama Galleria DeBlanco. Questo è il biglietto da visita – me lo porse. – Naturalmente tuo padre può stare tranquillo, la Galleria apre solo per noi, così evitiamo i curiosi. L'appuntamento è per giovedì alle quattordici. Non dimenticare di riferirglielo. - No, certo. Ulay e io ci guardammo negli occhi per un istante, poi ci salutammo con un cenno del capo. Uscii dalla Sala Docenti stringendo il biglietto da visita della galleria d'arte. Dovevo assolutamente essere lì anch'io, giovedì. Era la mia unica occasione di vedere Ulay al di fuori delle lezioni e fargli capire ciò che
  • 46. 10. Ritorno in città Tenni quel segreto per me, anche con Nanskij a cui avevo chiesto consiglio: dovevo fingere, persino un po' con me stessa, che Ulay non avesse mai letto quel biglietto, perché comunque era servito a ben poco. Adesso dovevo fare sul serio. Naturalmente le Ninfee del gruppo del venerdì sera volevano qualche anticipazione, ma io fui irremovibile. L'unico intralcio al mio piano era il fatto che i permessi di tornare a casa erano limitati (anche in questo consisteva la rigidità e il metodo educativo imposto nell'Accademia Reale Femminile di New Heakon). Io, però, dovevo assolutamente essere in città, giovedì, e così parlai con la Direttrice chiedendo un permesso speciale. La Direttrice, dopo varie insistenze, mi accordò il permesso, ma fu perentoria nel dirmi che poteva concedermelo solo una tantum. Mi bastava. Così giovedì tornai nel superattico dei miei genitori, nella zona più esclusiva della metropoli. Nel Collegio la vita era così diversa da quella a cui noi Ninfee eravamo abituate! Tutto era condiviso, c'era benessere ma senza lo sfarzo a cui, sin dalla nascita, ero stata abituata. Le comodità mi piacevano, sarebbe sciocco negarlo, ma da qualche tempo sentivo di essere più felice nel Collegio. I miei erano sempre stati permissivi nei miei riguardi, ma da quando avevo cominciato l'Accademia avevo scoperto di aver bisogno di un po' di rigidità, di regole, non perché fossi una ragazza “sbandata”, ma perché sapevo che era la cosa giusta per me. Nonostante questo, però, amavo i miei genitori ed ero contenta di rivederli dopo due mesi. Giustificai il mio rientro con il fatto che mi stavo appassionando molto alla storia dell'arte contemporanea e che, visto che mio padre avrebbe acquistato pezzi di altissimo valore, volevo sentirmi partecipe anche io. - Ti sta proprio male questa barba, papà – gli dissi in macchina, mentre Maxwell, il nostro autista, ci conduceva alla Galleria DeBlanco. Mio padre rise. Per esigenze di copione aveva dovuto farsi crescere un barbone foltissimo e gli avevano anche applicato delle extension ai capelli, rossi come i miei. Sembrava una specie di diavolo (però bellissimo).
  • 47. - Ne vale la pena, amore. Vedrai che il film ti piacerà – assicurò mio padre, sporgendosi per strofinarmi il barbone sulla faccia. Ridemmo insieme, poi gli arrivò una telefonata del suo agente e parlò con lui per il resto del tragitto. Era sempre così, con i miei genitori. Se non erano sul set erano al telefono, c'era poco da fare. Mia madre, per l'appunto, in questo momento era sul set della serie tv. I vetri scuri dell'auto impedivano ai curiosi di sbirciare chi fosse all'interno, ma erano pochi quelli che non guardavano la macchina, intuendo che dovesse essere per forza quella di una celebrità. Un tempo la cosa mi divertiva, ma ultimamente gli sguardi di quelle persone, che sembravano incantarsi per quella che in fondo era solo un'auto, mi stringevano il cuore. I miei genitori, devo dirlo, facevano donazioni a non finire, e senza sbandierarlo alla stampa; ma nonostante questo certe volte avvertivo il disagio dell'essere tanto ricchi in un mondo di persone che lottavano per andare avanti. Cercai di non pensare che stavamo andando a spendere un patrimonio in pezzi d'arte, e mi concentrai sul mio unico obiettivo: Ulay. Maxwell parcheggiò davanti alla Galleria. Inevitabilmente un gruppetto di persone si fermarono intorno all'auto, curiosi di vedere chi ne sarebbe uscito. Mio padre, tranquillo, scese dall'auto. Impossibile non riconoscerlo: i suoi capelli rosso fuoco, anche se erano lunghi, gridavano il nome Tom Hunter, per non parlare del suo viso così particolare. Si sentì qualche urletto, tutti i presenti cominciarono a scattare foto con gli smartphone, come al solito. Scesi dall'auto anch'io, guardando in basso. Io non ero famosa, per fortuna, ma i miei capelli rossi parlavano chiaro e così fotografarono anche me. Mio padre salutò con la mano i presenti, che risposero con altre urla, poi entrò nella Galleria. Inutile dire che l'accoglienza fu squisita. Un team di persone elegantissime ci fecero accomodare per offrirci dello champagne. Il professor Ulay era già seduto e, appena ci vide, si alzò per venirci incontro. Era elegantissimo anche lui, come mai l'avevo visto, e mi si strinse il cuore quando mi guardò negli occhi: aveva l'aria di essere sorpreso dalla mia presenza, ma non disse nulla al riguardo. Dai discorsi tra mio padre e Ulay capii che si erano parlati al telefono varie volte. Dopo la sosta champagne, il giro in Galleria cominciò. Io ammiravo quelle opere d'arte e ascoltavo rapita le spiegazioni di Ulay e degli altri membri del team della Galleria. Quando parlava Ulay ero tutt'orecchi e mi sembrava che anche mio padre ne fosse rapito. Di denaro, ovviamente, non si
  • 48. parlò se non di sfuggita. Il giro durò quasi tre ore e mio padre si innamorò delle stesse opere che Ulay diceva di trovare straordinarie. Dopo altri fiumi di champagne, mio padre e il team della Galleria sbrigarono la questione economica. Avremmo ricevuto gli acquisti entro la fine del mese e mio padre era davvero su di giri. Sorrisi, pensando che Ulay avrebbe ricevuto un ricco assegno per la consulenza offerta: se l'era più che meritato. - Sarei felice di ospitarti stasera a cena, Laurent – disse mio padre al professor Ulay. Gioivo mentre Ulay ringraziava e accettava l'invito. Ci salutò, dandoci appuntamento alla sera. Per un istante Ulay e io ci guardammo negli occhi e fui scossa da un brivido di gioia. Quella sera mi resi conto che forse Ulay si era pentito di aver accettato la cena a casa nostra. Credeva forse di essere l'unico ospite, ma mio padre amava circondarsi di gente e come al solito aveva invitato una trentina di amici. E non amici qualunque, ovviamente. Erano attori e registi famosi con i loro partner, oltre ai due migliori amici di mio padre (che non facevano parte del jet set) e al suo immancabile agente. Seguii con lo sguardo Ulay per tutta la cena. Aveva parlato solo quando era stato interrogato ed era facile intuire quanto si sentisse a disagio. Amai quella situazione, perché sapevo di essere l'unica a poterlo “salvare”. Cullai quell'idea per tutta la cena, soprattutto nei frangenti – brevissimi – in cui i nostri occhi si incontravano per caso. Per caso, sì, ma anche perché io lo cercavo di continuo e lui, di tanto in tanto, mi ricambiava. Quando la cena fu terminata, gli invitati si trasferirono in sala per il caffè e gli alcolici. Le risate, confuse alla musica, risuonavano per tutta la casa. Ulay se ne stava in un angolo della sala, con le mani intrecciate dietro la schiena, perso nella contemplazione di un Klimt che mio padre aveva regalato a mia madre per il suo quarantesimo compleanno. Era il momento, dovevo andare da lui. Mi detti una rapida occhiata di controllo allo specchio. Il vestito, con dei piccoli papaveri ricamati su un fondo bianco, mi stava piuttosto bene: lo avevo scelto pensando a lui, perché era semplice ed ero certa che a lui sarebbe piaciuto. - Professor Ulay – lo chiamai, per avvertirlo della mia presenza alle sue spalle. Lui si voltò e nel vedermi sorrise. Ricambiai il suo sorriso. - Siamo Laurent e Ofelia, finché siamo qui – disse.
  • 49. Suonava così bene, pensai. Laurent e Ofelia. - Spero che non si senta a disagio... Laurent. Lui sorrise, poi rivolse di nuovo lo sguardo al quadro. - L'arte è l'unica cosa che mi mette a mio agio. Intendo sempre, nella vita. È per questo che sono venuto qui, davanti a quest'opera meravigliosa. Ero così abituata alla sicurezza degli uomini, negli ambienti che mi ero trovata a frequentare grazie ai miei genitori, che la fragilità di Ulay mi sembrava incredibile, ma così preziosa! Doveva essere una persona speciale e io dovevo fare di tutto per conoscerlo meglio. - Le andrebbe di uscire un po' in terrazza? – gli proposi. Ulay assentì con un lieve cenno della testa e così io lo precedetti. Premetti un pulsante che apriva la vetrata dell'attico e in un attimo ci lasciammo alle spalle il caos della festa, immergendoci nella notte piena di luci di New Heakon. Neppure io avevo fatto l'abitudine a quello spettacolo magnifico, per cui riuscii a leggere sin troppo bene la meraviglia negli occhi del professor Ulay, anzi... di Laurent. - Sono stata molto fortunata, oggi pomeriggio, ad assistere alle sue spiegazioni alla Galleria – gli dissi, dopo un breve silenzio di contemplazione della città dal parapetto. - Sarai fortunata a poterle guardare ogni giorno. Questo sì. Un alito di vento mi portò i capelli davanti agli occhi. Pensai a Nanskij e a come mi faceva incavolare quando mi scompigliava i capelli. - Però una cosa te la devo dire, Ofelia. Ulay aveva i gomiti poggiati sul parapetto, per godersi la vista della città da quell'altezza. Poi cominciò a parlare e i suoi occhi furono di nuovo su di me; mi sembrò di bere quell'azzurro piombo. - Sono rimasto molto sorpreso nel vederti, oggi. Non credo che tu abbia fatto bene a prenderti questo permesso per essere qui. Lo sai che è contro le regole dell'Accademia. Hai creato un precedente e sarà inevitabile che anche le altre vogliano fare lo stesso. Invece di sentirmi umiliata da quel rimprovero, ne fui appagata. Ulay aveva riconosciuto la gravità del mio gesto, ma questo mi offriva una grande occasione. Mi lasciai guidare dall'onda dell'emozione: - Sa bene perché l'ho fatto. Da come sollevò, d'istinto, le sopracciglia, capii che era rimasto interdetto. Subito dopo, però, sorrise. - Quindi la tua violazione della disciplina è colpa mia.
  • 50. Volli interpretare quel sorriso come la sua ammissione che gli aveva fatto piacere, in fondo, anche se non lo avrebbe mai confessato. Mi morsi le labbra per non ridere. - Sì, assolutamente – risposi. – È colpa sua. Ulay si passò una mano sul viso, perché io non mi accorgessi che si stava trattenendo dal ridere; ma io me n'ero accorta, eccome, e godevo della sua reazione. Dopo qualche istante di silenzio, Ulay disse qualcosa a proposito delle opere su cui aveva indirizzato mio padre. Man mano che parlavamo, notavo che Ulay si faceva sempre più pensieroso, come se fosse troppo stanco per argomentare ancora. Difatti di lì a poco mi comunicò di dover andare via. Eppure, provai a convincerlo, erano appena le ventuno! Lui insistette e proprio mentre ci stavamo accomiatando, uno degli inservienti si affacciò in terrazza e mi chiamò, informandomi che mio padre avrebbe adorato che suonassi qualcosa per i suoi ospiti. Ero certa che Ulay, a questo punto, sarebbe rimasto, e invece mi disse: - Mi rincresce di non poter rimanere ad ascoltarti, ma devo proprio andare. Spero di avere presto l'occasione di sentirti suonare. Per quanto ci rimasi male riuscii a malapena a fargli un cenno di assenso con il capo. Eppure, nel fondo dei suoi occhi, c'era qualcosa che non mi tornava, che mi faceva pensare di non essergli del tutto indifferente. Volevo crederlo, dovevo crederlo! Non potevo sbagliarmi così... Ci scambiammo un altro rapido sguardo, poi il professore mi salutò di nuovo, quasi a mezza voce, e rientrò in casa per salutare i miei genitori e gli ospiti. Io rimasi ancora un altro po' in terrazza, per sbollire l'amara delusione. Quanto mi sarebbe piaciuto potermi esibire per lui! E, non so perché, ma avevo avuto la sensazione che anche a lui avrebbe fatto piacere. Cos'era allora tutta quella fretta di andare via? Rientrai in casa, per raggiungere la camera dove conservavo una piccola collezione di violini, che i miei genitori si ostinavano a rimpinguare, nonostante non ce ne fosse bisogno. Me ne sarebbe bastato uno solo, di violino, ma loro volevano incoraggiarmi in tutti i modi e capitava che me ne regalassero uno nuovo. Scelsi un violino e mi guardai allo specchio: immaginai di guardarmi con gli occhi di Ulay. Perché sentivo di piacergli, almeno un po'? Il vestito bianco con i piccoli papaveri mi calzava a pennello, ma forse – pensai – mi dava un'aria da ragazzina. “Che stupida che sono! Che importanza vuoi che abbia per Ulay un vestito o un'acconciatura?”
  • 51. Uscii dalla mia camera e mi diressi in sala, dove erano raccolti gli ospiti. Mio padre, nel vedermi con il violino in mano, si aprì in un sorriso da star del cinema, come in effetti era, e mi introdusse in pompa magna ai suoi amici, che a dire il vero mi avevano sentita suonare altre volte. E così mi esibii per loro. Non volava una mosca mentre il mio archetto si muoveva sulle corde e la musica si addensava come una nuvola dolce sulle teste di ognuno degli ascoltatori. Durante il pezzo pensai a Nanskij e a Ulay, in modo confuso, immaginando che fossero lì anche loro ad ascoltarmi. Un applauso caloroso mi accolse appena staccai l'archetto. Mia madre si asciugò una lacrima col dorso della mano. Faceva sempre così, si commuoveva come un agnellino quando suonavo, lei che era diventata famosa per il ruolo di una detective dal cuore di ghiaccio. Mio padre venne ad abbracciarmi, e mi mormorò nell'orecchio che ero diventata bravissima e che era orgoglioso di me. Pian piano mi raggiunsero anche gli ospiti, per congratularsi con me. Una collega di set di mia madre mi propose di suonare per il party del suo quarantesimo compleanno, ma dovetti declinare l'offerta perché non potevo chiedere altri permessi alla Direttrice dell'Accademia. Quando l'entusiasmo degli ospiti nei miei confronti tramontò, fui di nuovo libera di aggirarmi per casa. Fu quando passai davanti al quadro di Klimt, che tanto era piaciuto a Ulay, che mi balenò in mente un'idea. Si trattava di un'idea rischiosa, ma ero in uno stato d'animo così strano, oscillante tra la delusione e la voglia di rivalsa, che avevo tutta l'energia per metterla in pratica. Avvisai mia madre che mi ero accordata per uscire con un'amica e andai a cercare Maxwell, il nostro autista. Mio padre, come gesto di estrema cortesia nei confronti di Ulay, aveva incaricato Maxwell di andarlo a prendere a casa sua, per la cena, e poi di riaccompagnarlo quando avrebbe voluto. Maxwell, quindi, sapeva bene dove abitasse Ulay e dovevo ricorrere a lui per mettere in pratica la mia idea. Pregai Maxwell di accompagnarmi a casa del professore, inventando che avesse dimenticato qualcosa. Era una scusa cretinissima, me ne rendevo conto, però non m'importava. Caricato il mio violino, montai sull'auto dai vetri oscurati, tesa come una corda del mio strumento. - Siamo arrivati. È al numero trentacinque. Era una zona poco raffinata di New Heakon, e un po' mi meravigliò che un professore come Ulay, che insegnava in un'Accademia tanto prestigiosa, vivesse lì. Osservai la villetta corrispondente al numero trentacinque.