1. Milano, 29 giugno 2009
“Manager e Crisi: un punto di vista interno alle aziende”
Abstract:
Sulla base di un’indagine qualitativa delle opinioni di alcuni dirigenti, quadri ed impiegati di elevata
professionalità, tuttora occupati, si cerca, dopo un anno di crisi economica, di delineare un quadro
delle percezioni/ aspettative del personale dipendente con responsabilità gestionali.
Data la natura qualitativa dell’indagine svolta, l’intento è quello di favorire ulteriori dibattiti/ analisi
su alcuni trend e su alcuni possibili esiti della crisi (in termini di nuovi valori, atteggiamenti,
consapevolezze).
Esiti favorevoli, si spera, ad un profondo rinnovamento del paese, ovvero in grado di rimettere un
benessere sostenibile ed il lavoro al centro dell’agenda politico-sociale.
Introduzione
“Dirigenti, Quadri e Crisi”: un tema non da poco, anche se il mio contributo “si limita” al punto di
vista interno alle aziende. Soprattutto considerando che la crisi in atto si aggiunge all’operare di
tendenze che, già da qualche anno e certamente per il nostro paese, stanno mutando in modo
sostanziale il lavoro (professioni, attività, organizzazione, carriere….), il mondo del lavoro
(contratti, mercati, legislazione, valori….) e quello che gli gravita attorno (dal fisco alla previdenza,
servizi alla persona ed alla famiglia, vita di relazione più o meno allargata, stili di vita, valori della
convivenza civile, ….), cioè quasi tutto.
Mutamenti, o tendenze al mutamento, che forse neppure sono stati completamente compresi. In
alcuni casi, sembra e lo dico senza ironia, neppure percepiti.
Non sono uno studioso del mondo del lavoro. Tuttavia, come molti colleghi (manager, middle
manager, in genere responsabili della gestione di gruppi più o meno piccoli di collaboratori, siano
essi dirigenti, quadri o impiegati con elevata professionalità) anche io sto cercando di capire cosa
succede, dove potrebbe portarci, quali opportunità si prospettano. E quali rischi: pensare positivo è
sempre una virtù, ma non una servitù.
Per questa ragione, da un lato ho accettato la sfida che mi ha posto la richiesta ANL di un
contributo. D’altro canto, il modo con cui mi sento di rispondere alla sfida non può che essere
quello di mettere sul tavolo più stimoli alla discussione che conclusioni e risposte.
Il metodo
Due parole sul metodo, assolutamente qualitativo.
Intanto il gruppo indagato appartiene alla popolazione fortunata dei manager che ha ancora un
lavoro.
Anche i manager, a vari livelli, stanno pagando la loro parte di oneri occupazionali imposti dalla
crisi. Basti qui citare, a titolo d’esempio, le cifre fornite dall’associazione sindacale dei dirigenti del
settore industriale (Federmanager), secondo cui, fra l’ultimo trimestre del 2008 ed il primo del
2009, sono stati persi circa 5000 posti di lavoro. Un fenomeno per cui non ci si aspettano
rallentamenti, almeno per tutto il 2009.
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2. Torniamo a chi un lavoro lo ha ancora. Per descrivere come vivono la situazione, fondamentalmente
ho utilizzato gli spunti provenienti da una raccolta d’opinioni di alcuni colleghi (15), in varie
aziende (7), in netta prevalenza del settore industriale.
Gli strumenti di raccolta utilizzati sono stati interviste dirette o sollecitazioni di discussioni in alcuni
social network a carattere professionale.
Quando ho utilizzato le interviste dirette, ho toccato sistematicamente quattro punti, lasciando poi
spazio per eventuali osservazioni libere.
I quattro punti sistematicamente indagati vertevano sulla percezione di un eventuale impatto della
crisi, per la vita lavorativa dell’intervistato, su:
o il contenuto del proprio ruolo aziendale,
o le prospettive personali di crescita, o comunque sviluppo, a breve e medio termine,
o il potere di acquisto della propria retribuzione (compresa eventuale quota variabile legata ai
risultati di prestazione),
o maggiore attenzione, dell’organizzazione in cui è inserito, a mettere in condizione i propri
collaboratori di individuare e perseguire le eventuali opportunità, evidenziatesi con la crisi.
Infine, lì dove ho trovato riscontri, dal mio punto di vista, inattesi o contro intuitivi, quando sono
stato capace ho cercato di trovare conferme di parte terza, se non possibili spiegazioni. Nella
speranza di arricchire un possibile ulteriore approfondimento.
Ruolo in azienda
Relativamente al ruolo in azienda, la crisi non sembra aver cambiato la situazione personale in
modo pesante e peculiare. Al più c’è l’impressione che le difficoltà economiche abbiano accelerato
l’attuazione di alcuni progetti con rilevante impatto sul proprio ruolo (ove previsti nella strategia di
lungo termine prima della crisi e quando le disponibilità finanziarie proprie o altrui ancora lo
permettono). Si tratta di progetti come delocalizzazioni, outsourcing, vendita di parti del portafoglio
di prodotti/ servizi ecc... Ma anche aumento dello span of control dei manager (strutture più piatte),
con conseguente riduzione delle posizioni di middle management e spinta alla creazione di carriere
più tecniche che gestionali. Anziché riorganizzazioni per rispondere a precedenti cambiamenti dei
mercati di sbocco con conseguenti cambiamenti di ruolo o del suo contenuto, ed altro ancora.
Invece, sono stati imputati alla crisi (non solo per i manager ma anche per i contributori individuali)
effetti come l’incremento del carico di lavoro e l’adattamento temporaneo dei ruoli alle esigenze di
business del momento (a causa delle riduzioni, anche solo temporanee, di forza lavoro, del minor
utilizzo di contratti flessibili, del ritardo, anche in presenza di riorganizzazioni, del rinforzo degli
organici altrimenti previsto).
Opportunità di sviluppo
Viceversa, è viva e diffusa la percezione di un impatto negativo sulle opportunità di crescita e
sviluppo a breve e medio termine (due anni). Diversi fattori sembrano in gioco.
Innanzi tutto si sono ridotte le opportunità interne alle organizzazioni (meno job rotation e
promozioni).
Il fenomeno è percepito meno negativamente nelle grandi organizzazioni multinazionali. A patto,
però, di essere disponibili ad una mobilità internazionale. Infatti, parte di quei progetti che abbiamo
visto nel punto precedente (delocalizzazioni ad esempio) rendono disponibili, anche in questo
momento, alcuni mercati del lavoro in crescita: europa dell’est, India, Cina ad esempio.
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3. Il congelamento della mobilità interna (verticale ed orizzontale) sembra essere accompagnato anche
da un generale rallentamento anche mercato esterno. Questa tendenza mi è stata confermata da
alcuni operatori dell’intermediazione (almeno per quanto riguarda contratti di somministrazione, e
contratti permanent). Del resto, in quasi tutte le aziende del mio campione, anche i contratti a
progetto hanno avuto una drastica riduzione: già alla fine del 2008 e proprio come prima reazione,
anche solo prudenziale, alla crisi (“a salvaguardia dei contratti a tempo indeterminato”).
Infine, è andata aumentando la sensazione di precarietà (insicurezza del mantenimento del posto di
lavoro) a causa dell’incertezza del contesto economico. Questa insicurezza, per manager di più
elevata seniority, si accompagna ad una crescente inquietudine per la sensazione, in caso di perdita
del lavoro attuale, che si incontrerebbero “insormontabili difficoltà” a rientrare in un mercato del
lavoro non-flessibile. Fino a due anni fa, almeno per quello che mi consta, questa era una
preoccupazione abbastanza comune per gli over-50 espulsi dai luoghi di lavoro, a causa dei processi
di ristrutturazione. Oggi la preoccupazione coinvolge almeno anche gli over-40/45. I razionali che
sono addotti sono di triplice natura.
I processi di espulsione, passati ed in corso, fanno aumentare la concorrenza.
La crescita che ci sarà non sarà in grado, in tempi ragionevoli (due o tre anni), e taluni pensano
“forse mai”, di riassorbire anche solo con rapporti flessibili la maggioranza degli espulsi.
Inoltre, i settori in crescita dopo la crisi potrebbero essere, nelle percezioni che ho raccolto da
almeno la metà degli intervistati, da “abbastanza” a “molto” diversi da quelli di provenienza. Per di
più, al momento non sono affatto chiare le tendenze di eventuali processi di trasformazione del
nostro tessuto economico (“anzi, anche in questo caso tutte le scelte sembrano congelate sulle
posizioni di ieri”).
Sarei comunque prudente nel fare generalizzazioni eccessive in merito alla incidenza di questa
inquietudine.
Intanto immagino, anche sulla base di alcuni colloqui, che possa avere un’incidenza ben differente
in funzione dell’area professionale, del settore e della collocazione geografica.
Inoltre, non pochi dei commenti liberi ricevuti, sia durante le interviste sia dalle interazioni sui
social network, evidenziano con forza un’aspettativa dopo-crisi per una maggiore valorizzazione
delle competenze dei singoli collaboratori e della capacità di portare effettivi risultati.
Ci si aspetta una sorta di resa dei conti a vantaggio dei “più capaci”, rispetto a coloro che sono
riusciti a “vivere di rendita”, per varie ragioni. Non ultima quella che “i margini potevano coprire
tutta una serie di inefficienze del resto ben note”. Un sistema post-crisi meno esuberante, nelle
aspettative della stragrande maggioranza dovrebbe essere anche più virtuoso, e quindi più
meritocratico.
Alcune proposte (è interessante la convergenza di più pareri), vertevano addirittura su di una
struttura della retribuzione tripartita. Un elemento base da contratto collettivo, un elemento legato
alle competenze possedute e riconosciute come necessarie dall’azienda in cui si opera in quel
momento, una parte legate ai risultati di periodo. Almeno secondo il campione da me sondato, le
competenze sono viste come un punto di forza, su cui il collaboratore sa che deve investire in ogni
caso, e di cui desidera negoziare il valore con le aziende in cui di volta in volta opera (un altro
elemento di flessibilità fra l’altro, magari favorito da una negoziazione di secondo livello).
Al di là della fattibilità pratica e delle conseguenze, a cui non ho avuto il tempo di pensare in
dettaglio, trovo stimolante ad esempio il tipo di impatto che potrebbe avere sulla qualità di tutto il
sistema di formazione del nostro paese.
Potere di acquisto
Rispetto a questo parametro di valutazione, le percezioni che ho raccolto mostrano la maggiore
variabilità. Direi comunque che le opinioni si differenziano molto in funzione dell’incidenza della
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4. retribuzione variabile sul totale della retribuzione ed in funzione dell’andamento dei risultati
aziendali in questo ultimo anno (da luglio 2008 ad oggi).
Forzando un pò la sintesi che emerge dai colloqui fatti, potrei dire che segnala una “perdita
rilevante” del proprio potere d’acquisto, pur considerando il rallentamento del tasso d’inflazione,
chi ha una quota variabile su fisso superiore al 10% e si trova in aziende che hanno visto, a causa
della crisi, un rilevante peggioramento del fatturato e di altri indicatori economici chiave (ad
esempio quelli legati a cash flow o margini di prodotto/ mercato). Ad esempio aziende B2B che
forniscono in prevalenza beni d’investimento. Semplificando ancora, si sente particolarmente
colpito il dirigente della grande azienda, o della filiale della multinazionale, del B2B capital
intensive.
Un’immagine del tutto opposta è emersa dalle interviste di middle manager con bassa o nulla quota
di retribuzione variabile, per di più se l’azienda ancora non ha risentito pesantemente della crisi (es.:
bassa quota di esportazioni, mercato di consumo di taluni beni o servizi, il che sembra ragionevole
se è vero che il peggioramento della performance nel settore dei beni d’investimento è circa 7 volte
quello del settore dei consumi). In questo caso la dichiarazione più diffusa è stata quella di avere la
sensazione di trarre un beneficio almeno momentaneo: la retribuzione è tutto sommato “rigida”
rispetto alla contingenza economica generale, il tasso d’inflazione ha rallentato.
Questa variabilità nelle risposte mi ha momentaneamente spiazzato. Ma considerando anche le più
recenti dichiarazioni su un tema similare del Ministro per la PA, Renato Brunetta (potere d’acquisto
negli ultimi 12 mesi di lavoratori dipendenti, ancora occupati, e pensionati), penso sarebbe un tema
da approfondire quantitativamente. E’ ovvia la rilevanza sociale (e politica) che avrebbe l’eventuale
stabilità (se non miglioramento) del potere di acquisto di una massa di forse più di 20 milioni di
cittadini.
Reale ricerca delle opportunità offerte dalla crisi?
Rispetto alla propensione delle organizzazioni ad aiutare i propri collaboratori ad individuare e
sfruttare eventuali opportunità offerte dalla crisi, i commenti non sono stati in genere positivi.
L’impressione diffusa è che l’azienda si affanni a cercare con più impegno (talvolta “affanno”) nei
territori già noti. Solo in un caso mi è stato raccontato di un progetto per lo sfruttamento di un
mercato di sbocco completamente nuovo, adattando il portafoglio prodotti e servizi alla offerta di
nuove soluzioni al cliente. Soluzioni che aiuterebbero questi nuovi clienti a ridurre le loro Opex: un
beneficio che dovrebbe risultare particolarmente gradito in questo momento.
Anche in questo caso, tuttavia, sarei molto prudente a generalizzare, date le caratteristiche di grande
frammentazione, e quindi differenziazione, anche negli stili manageriali/ imprenditoriali, del nostro
tessuto economico.
Commenti liberi
Oltre al commento già citato, di un’elevata aspettativa di un mercato del lavoro post crisi che premi
in maniera inequivocabile competenze e capacità di portare risultati concreti, i commenti più
frequenti in sintesi sono stati:
o E’ il momento delle scelte importanti, perché non ci sono risorse per tutti ed i settori più in
crescita dopo la crisi non rispecchieranno “per niente” o “molto poco” la situazione ex ante.
Non si vedono, però, segnali importanti in merito a queste scelte, al contrario forse di altri
paesi. Il rischio è di rimanere immobili sull’obsoleto ed indietro con le competenze personali
rispetto ai colleghi di altri paesi, fra l’altro in un mercato del lavoro continentale sempre più
aperto.
o Si è raggiunta un grado di consapevolezza differente della struttura del mercato italiano del
lavoro. Prima si puntava troppo sugli intermediari (che comunque hanno sempre avuto una
quota molto marginale del mercato) e non c’era un’adeguata diffusione della cultura del
networking (che anche in passato era il canale comunque più rilevante per trovare lavoro).
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5. Questa nuova consapevolezza di fatti del resto già noti, sta favorendo una cultura della
relazione più “di stampo anglosassone”, almeno fra il personale altamente qualificato.
o Le cause comunemente imputate alla crisi (“rapacità e scarsa trasparenza del management di
talune imprese e del settore finanziario”) hanno comportato un ritorno di immagine
negativo, presso l’opinione pubblica, per tutta la classe manageriale, in particolare per i
dirigenti. Questo fatto è stato percepito come una pesante beffa. Il beneficio degli anni
euforici è andato principalmente ai vertici delle aziende, e lì continua ad andare anche ora,
in forma di premi per le azioni di “contenimento del danno, risanamento e quant’altro”,
azioni che però sono pagate “più sotto”, anche dai dirigenti se con ruolo non “apicale”.
o Anche gli stili di gestione dovrebbero cambiare per divenire più partecipativi. Sia perché è
evidente ai più che nessuno ha ricette infallibili, sia perché la fiducia è un bene prezioso che
nel dopo crisi sarà concesso con più prudenza.
Conclusioni
Per ora la crisi sembra avere colpito duramente ma in modo selettivo (aziende e settori) nel gruppo
dei manager e middle manager italiani (dirigenti, quadri, impiegati di elevata professionalità e con
compiti di gestione di risorse).
Al gruppo di coloro, prevalentemente giovani, che già prima della crisi avevano difficoltà ad entrare
in un mercato del lavoro che permettesse un minimo di pianificazione e di investimento nel futuro
(vita di coppia, casa, ecc.), le percezioni che ho raccolto sembrano aggiungere un ulteriore gruppo.
Si tratta di coloro che avevano puntato gran parte della loro vita lavorativa e privata ad una carriera
tradizionalmente intesa e che ora potrebbero essere costretti ad un drastico ridimensionamento sia
delle loro aspettative di status sia dei loro stili di vita.
Per quanto invece riguarda chi non ha perso il lavoro (e la mia piccola indagine aveva questa
popolazione per oggetto), a mio parere, costoro hanno comunque avviato una serie di riflessioni
critiche:
o Sul proprio status: cosa vuol dire essere oggi dirigenti “non apicali” in Italia (status in
azienda e nel paese)?
o Sul lavoro in se stesso: flessibilità, quale a che prezzo di mercato, con che equilibrio di
vantaggi fra azienda e collaboratore; organizzazione e stili di gestione; etica; mobilità
internazionale; cosa vuol dire “carriera” nel nuovo millennio,….
o Sulle carte che sperano di dover giocare per il proprio futuro (e che se avrà forza e fantasia,
pretenderà di giocare nel negoziare il proprio futuro): competenze sempre aggiornate e
provata efficacia.
o Sul reale funzionamento del mercato del lavoro in Italia e sui comportamenti più efficaci da
adottare in futuro. Prima di tutto il networking, e nell’accezione anglosassone, non in quella
casereccia “della ricerca dell’amico dell’amici”.
o Sull’utilizzo di medio lungo termine del proprio eventuale risparmio.
Da questo quadro, volendo far buon uso del mio ottimismo, mi pare possano emergere due
opportunità offerte da questa crisi:
o l’impulso ad un’ulteriore maturazione di un gruppo dirigente (dirigenti, quadri, impiegati di
elevata professionalità), da sempre forgiatosi nella gestione responsabile dei fattori
economico-produttivi del nostro paese;
o la possibilità di rinnovare una sintesi degli interessi di tutti coloro (piccoli imprenditori,
manager d’impresa, artigiani, professionisti,…) che nell’intraprendere, nell’innovare, nel
creare lavoro per se e per gli altri hanno non solo la loro ragione di sussistenza, ma ancor più
la loro ragione d’esistere (una volta si sarebbe detto “la loro missione”), e la loro
legittimazione come gruppo sociale.
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6. Un impulso ed una sintesi che potrebbero solo essere di beneficio per tutti.
Soprattutto se, pur con tutte le articolazioni del caso, questo blocco sociale di Produttori, di
ricchezza e di lavoro, saprà porsi, nella nuova inevitabile consapevolezza con cui la maggioranza
del paese emergerà dalla crisi, come attore di un profondo rinnovamento sociale.
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