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LA DIPENDENZA NEGATA:
              IL RUOLO DELLE EMOZIONI NELLA RELAZIONE MADRE-BAMBINO

                                              Angelo R. Pennella (*)




Vorrei avviare il mio intervento raccontandovi due piccole situazioni che utilizzerò come spunti per
sviluppare una riflessione sul tema della dipendenza.
Iniziamo con la prima.
La vicenda a cui faccio riferimento si è consumata, in un tardo pomeriggio invernale, in uno dei
tanti supermercati di Roma ed ha avuto come protagonisti una giovane madre ed il figlio, un
bambino di sette/otto anni. Quando li vidi, la signora era accanto al suo carrello pieno di alimenti
intenta ad osservare i prodotti esposti su uno scaffale. Il figlio le gironzolava intorno. Dopo qualche
istante, il bambino, forse annoiato dal protrarsi della fermata, iniziò a sfiorare con le dita alcune
delle confezioni in mostra. La madre, impegnata a valutare etichette e prezzi dei prodotti lo lasciò
fare. A questo punto, il bambino iniziò a prendere alcune confezioni e a spostarle di posto, attività
che divenne sempre più frenetica e rumorosa fino a quando un’intera fila di scatole cadde a terra.
Caso volle che proprio in quel momento passasse accanto a loro una commessa. A quel punto la
madre abbandonò i prodotti che stava valutando, si chinò a raccogliere le confezioni fatte cadere dal
figlio e, mentre le rimetteva in ordine, disse con tono tranquillo e affettuoso: “smettila di fare
disordine altrimenti la signorina si arrabbia e ti caccia via”.
Come vi dicevo, si tratta di un piccolo episodio che vorrei tuttavia guardare con il medesimo spirito
con cui Edgar Morin, filosofo francese a cui si devono opere come “Scienza con coscienza” (1982),
rispose ad un commensale che gli chiese cosa riusciva a vedere in un semplice calice di vino rosso.
In quella occasione, Morin rispose: «vedo le particelle dell’atomo, vedo i nuclei dell’elio, vedo la
vigna che ha prodotto quest’uva e poi il Mediterraneo, l’origine della vita e molto altro ancora».
Ebbene, credo che anche a noi sia possibile vedere o almeno intravedere in quello che vi ho
raccontato qualcosa di più che una banale scenetta di vita quotidiana.
In questo senso, forse la prima cosa che possiamo notare è il fatto che la madre abbia attribuito
all’altro – nella fattispecie alla commessa – le emozioni di irritazione e fastidio: è l’altro, non lei,
che potrebbe arrabbiarsi di ciò che fa il figlio ed arrabbiarsi a tal punto da cacciarlo dal super-
mercato. È come se quelle emozioni, che ci sembrerebbero peraltro comprensibili visti gli oneri


(*)
  Psicologo, psicoterapeuta, docente di Psicoterapia presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute,
Facoltà di Psicologia 1, Università di Roma “La Sapienza”.

                                                                                                                   1
materiali ed emotivi che implica l’essere madre, non avessero diritto d’essere all’interno della sua
relazione con il figlio.
Ecco dunque configurarsi una situazione in cui, da una parte, c’è una madre accogliente e
comprensiva, pronta ad accollarsi l’ulteriore fatica fisica di riordinare gli oggetti fatti cadere dal
figlio, dall’altra, la commessa del supermercato, una donna indifferente ed estranea, pronta ad
irritarsi e ad aggredire il bambino per quell’atto che immette disordine nell’ordine degli adulti.
La scissione mi sembra piuttosto evidente.
Potremmo però vedere anche dell’altro in questa vicenda. La frase della madre delega di fatto la
funzione normativa alla commessa: in effetti è questa ultima ad essere chiamata ad esplicitare la
regola violata dal bambino – il famoso “questo non si fa” – e ad attivare una possibile punizione.
La delega di cui sto parlando è però piuttosto pericolosa perché rischia di mostrare la disattenzione,
forse anche l’incapacità, della madre a gestire i comportamenti disturbanti del figlio, veicolando
così l’idea che la madre stessa dipenda in qualche modo dall’altro, dai suoi giudizi e dalle sue
decisioni.
Ma per quale motivo questa madre non ha richiamato all’ordine il suo bambino?
Certo, potrebbe averlo fatto perché sapeva che il figlio era stanco ed annoiato, ma se era questa la
ragione, allora perché ventilargli una minaccia così terribile ed esagerata rispetto all’atto quale la
“cacciata” dal supermercato?
Lasciamo in sospeso queste domande e passiamo alla seconda vicenda.
In questo caso abbiamo una madre trentenne che chiese un aiuto psicologico a fronte della sua forte
preoccupazione di nuocere al figlio: temeva di poterlo aggredire con oggetti d’uso quotidiano come
una scopa, un ferro da stiro, un coltello da cucina. Viveva questa angoscia in modo particolarmente
intenso quando si trovava a casa da sola con lui e specie nei momenti in cui si sentiva stanca ed
oppressa dagli impegni familiari e domestici (il marito sembrava non darle alcun aiuto da questo
punto di vista)1. Nello strenuo tentativo di difendere il suo bambino, questa donna iniziò a
nascondere in armadi e cassetti ogni potenziale strumento di offesa. Il suo sforzo risultò ovviamente
inutile: tanto più occultava gli oggetti, tanto più le venivano in mente nuove idee sul modo con cui
gli oggetti si sarebbero potuti trasformare in un’arma.
A prima vista, le due situazioni possono sembrare molto diverse: nel primo caso abbiamo una
madre che risponde con comprensione ed affetto alla birichinata del figlio, nel secondo abbiamo
invece una madre angosciata perché teme che gli oggetti possano trasformarsi in potenziali
strumenti di offesa. La questione, tuttavia, è che in entrambe la rabbia, l’aggressività, la violenza è



1
    Questo caso è discusso in modo più approfondito in: Grasso. M., Cordella B., Pennella A.R. (2003).

                                                                                                         2
individuata e riconosciuta solo all’esterno di sé, nell’oggetto, poco importa, a questo punto, che si
tratti di una commessa o di un ferro da stiro.
Mi sembra piuttosto agevole riconoscere in entrambe le situazioni la presenza di meccanismi
difensivi quali la negazione e la proiezione ma anche lo spostamento, operazione mentale con cui si
ha la possibilità di risolvere un conflitto emotivo indirizzando l’emozione vissuta nei confronti di un
oggetto verso un oggetto diverso, cosa che ci consente di evitare l’angoscia che si vivrebbe nel caso
in cui fosse mantenuta la direzione originaria (McWilliams, 1974; Lingiardi, Madeddu, 1994).
Ecco quindi che, al di là delle loro apparenti differenze, entrambe le madri sembrano non essere in
grado di riconoscere in se stesse il fastidio, l’irritazione, ma anche l’aggressività che le richieste dei
figli sollecitano in loro, cosa che le spinge a collocarle sull’altro: la commessa o il ferro da stiro si
trasformano così in oggetti pericolosi in grado di esprimere ed agire l’aggressione.
Con una scissione che in alcuni casi può essere anche piuttosto rigida, si posizionano quindi, da un
lato, le emozioni positive (l’amore, la protezione, ecc.), dall’altro quelle negative (il fastidio, la
rabbia, ecc.) e non le si integrano in una rappresentazione complessa di se stessi e dell’altro. Per
dirla in altri termini, queste madri evidenziano l’insostenibilità dell’ambivalenza: la compresenza –
nelle relazioni con i figli – di sentimenti, tendenze ed atteggiamenti di segno opposto risulta cioè
talmente intollerabile da attivare meccanismi difensivi tesi a salvaguardare un’autoimmagine
positiva di sé e della propria funzione genitoriale attraverso l’espulsione di tutto ciò che può
metterla in discussione.
A questo proposito, anche al fine di evitare qualsiasi ambiguità, desidero sottolineare che
l’ambivalenza in sé non è indice di anormalità, al contrario, può essere considerata come l’esito di
un processo evolutivo che ci dona la capacità di integrare aspetti diversi e contrastanti dell’oggetto
in un’unica rappresentazione.
L’importanza di tale acquisizione è evidente nel bambino quando inizia a riconoscere la madre
come una persona intera e non come una mera appendice della propria persona. In questa fase,
infatti, parallelamente a questa «mutata percezione dell’oggetto, c’è un cambiamento fondamentale
nell’Io, perché, come la madre diventa un oggetto intero, così l’Io del bambino diventa un Io intero,
ed è sempre meno scisso nelle sue componenti buone e cattive. L’integrazione, sia dell’Io che
dell’oggetto, procede [quindi] simultaneamente» (Segal, 1964-1973).
Riprendendo il filo del discorso, possiamo quindi pensare che in entrambe le situazioni le madri non
esprimono stanchezza, irritazione e rabbia nei confronti dei figli perché tali emozioni appaiono loro
inaccettabili: così facendo non aiutano però se stesse e perdono il contatto con la propria
complessità e con quella dei loro stessi figli.



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Se infatti non si è in grado di confrontarsi in modo efficace con la propria ambivalenza emotiva e si
tenta di risolverla con l’uso di rigidi meccanismi difensivi, essa può diventare così intensa da
ingenerare situazioni drammatiche, basti pensare alle molte vicende sentimentali dal tragico epilogo
che vedono come protagonisti adolescenti e giovani adulti. In queste occasioni, essi appaiono
sconvolti dalla forza della propria ambivalenza rispetto all’oggetto: amore ed odio assumono una
tale virulenza da non poter essere elaborati ed integrati. Per molti di questi adolescenti, infatti, «il
vero problema non è riuscire a tollerare la bellezza, la bontà e la generosità, ma le nefandezze che
vengono commesse nella contrattazione amorosa […] la loro difficoltà è governare la rabbia e la
delusione per gli attacchi che inesorabilmente l’oggetto d’amore porta al suo devoto adoratore»
(Pietropolli Charmet, 2001). In qualche modo, non sono stati abituati a confrontarsi con i limiti, le
condizioni, le frustrazioni che chi ci vuole bene inevitabilmente – a volte anche opportunamente –
ci infligge.
Come disse Ovidio (Amores, III, 11, 35), «odierò, se mi sarà possibile; altrimenti amerò mio
malgrado.»
Ma per quale motivo si dovrebbe vivere una tale difficoltà a riconoscere e canalizzare le proprie
emozioni negative rispetto ai figli?
La domanda è indubbiamente ardua e non ho alcuna velleità di proporre una risposta esaustiva, mi
limiterò a citare uno dei fattori che credo possano aiutare a comprendere queste situazioni: la
dipendenza.
Anche in questo caso è necessario però un chiarimento: il fatto che nella nostra cultura la
dipendenza sia divenuta una sorta di cliché spesso connotato, come ha osservato Gabbard (1992), in
termini negativi, non significa che essa lo sia realmente. Se da un lato può essere infatti patologica
la situazione di quelle persone che sviluppano, a causa di una scarsa fiducia in se stesse, un bisogno
spasmodico di appoggiarsi agli altri per essere aiutate, guidate e sostenute anche nelle decisioni
della vita quotidiana, dall’altro è però illusorio pensare di poter giungere ad una assoluta
indipendenza dall’oggetto. Al di là infatti della ovvia dipendenza materiale che ci lega alla nostra
comunità, da tempo è evidente (Kohut, 1986) che ciascuno di noi ha un costante bisogno di
apprezzamento, stima, considerazione, amore da parte dell’altro perché questo è il nutrimento
narcisistico che ci consente di sostenerci e di regolare la nostra autostima.
La dipendenza è dunque una condizione fondamentale della nostra vita e non può essere negata in
modo onnipotentistico.
La questione è che la dipendenza attiva emozioni complesse e potenti, basti pensare al fatto che essa
ci pone nelle mani dell’altro, ci rende vulnerabili e può mettere in discussione ogni nostra certezza.



                                                                                                      4
Vivere la dipendenza significa infatti confrontarsi con la propria capacità di “reggere” le richieste
dell’altro, di sostenerlo, di offrirgli, per dirla con Winnicott (1965), un holding sufficientemente
adeguato, ma significa anche mettere alla prova la propria capacità di porre dei limiti, di definire e
salvaguardare i confini della nostra e dell’altrui identità. Riconoscere l’altro senza confondersi con
lui, sostenerlo senza viverlo solo come un peso, dare importanza alle sue richieste senza negare le
proprie implica un lavorio cognitivo ed emozionale oneroso che si fonda proprio sulla sostanziale
ambivalenza della relazione.
Ecco quindi spiegata la difficoltà a confrontarsi e vivere la dipendenza.
In questa prospettiva appaiono perfettamente comprensibili gli sforzi agiti per cancellarla, tentativi
che a volte assumono un carattere estremo giungendo all’annullamento, anche fisico, dell’altro o di
se stessi. In fondo, la madre che aveva paura degli oggetti stava cancellando una parte di sé – e non
mi riferisco solo alle proprie emozioni negative – pur di non vivere le implicazioni della
dipendenza.
Una modalità di negare la dipendenza certamente meno estrema e traumatica, ma non per questo
meno discutibile, è quella di imporre all’altro l’autonomia: l’altro deve essere indipendente.
Naturalmente non mi sto riferendo alle strategie che promuovono in modo “fisiologico”
l’indipendenza, ma a quelle che in apparenza si propongono di farlo ma che in realtà sono utilizzate
per negare la dipendenza. Si assiste così a madri – ma anche a padri – che rinviano ai figli scelte
sempre più significative: cosa mangiare, come vestirsi, quando e con chi uscire, se dormire o
rimanere svegli, se andare al cinema o no e così via.
Prima che si scatenino le vostre obiezioni vi inviterei a non lasciarvi ingannare dalla seduttività di
questi atteggiamenti. In effetti, un genitore che coinvolge il figlio sulle decisioni della vita
quotidiana sembrerebbe altamente desiderabile: ma chiedereste ad un bambino di tre anni cosa vuol
mangiare a cena? O ad una bambina di otto anni di scegliere con chi uscire? È ovvio quindi che si
tratta di questioni che si devono contestualizzare, ma è questo il problema a cui mi riferivo. Pur di
non vivere le tensioni emotive connesse all’ambivalenza della relazione, si nega la dipendenza, si
attribuisce così forzosamente all’altro autonomia e libertà, sottraendogli però in questo modo ogni
possibilità di vivere i propri bisogni di dipendenza e di sviluppare gradualmente – anche grazie a
confronti e conflitti con il genitore – la propria indipendenza: lo si lascia cioè solo.
Un inciso: avrete notato che mi sto sforzando di non indicare il soggetto della dipendenza. Sebbene
possa apparire scontato – per alcuni aspetti anche autoevidente – attribuire il ruolo dipendente al
figlio, in realtà è anche il genitore ad essere dipendente: in altre parole, è la relazione ad essere
connotata sulla dipendenza (anche se questo non significa naturalmente che non vi siano diversità di
ruoli e funzioni).


                                                                                                    5
Ma questo mi consente di concludere con un ampliamento del focus.
Come diceva infatti Winnicott, nel momento in cui riusciamo a confrontarci con l’idea della
dipendenza siamo anche in grado di affrontare il ruolo svolto dalla realtà esterna.
Le situazioni di cui ho parlato non si sviluppano infatti in un vuoto sociale: la madre del
supermercato così come la paziente vivono in un contesto familiare e sociale che incide in modo
consistente sulle dinamiche emozionali a cui ho fatto cenno. Vi ricorderete che la prima era da sola
al supermercato con il figlio e con il suo carico di spesa mentre la seconda era particolarmente
preoccupata quando era da sola con il figlio e con le sue incombenze familiari: in entrambi i casi c’è
quindi un’assenza.
Senza dilungarmi, mi sembra chiaro che così come nella relazione con i figli si può tentare di
risolvere la complessità emozionale della dipendenza negandola, imponendo in qualche modo una
autonomia che condanna però alla solitudine, anche la società conferisce a queste madri una
indipendenza che nega i loro bisogni e le lascia di fatto sole.
Si viene così a creare una catena di negazioni reciproche ammantante dall’apparenza della libertà e
della autonomia.
Illuminanti, in questo senso, le parole di Winnicott (1965, p 57): «si deve notare che le madri
spontaneamente capaci di fornire un’assistenza abbastanza buona possono essere messe nelle
condizioni di far meglio se esse stesse sono assistite in un modo che riconosca la natura essenziale
del loro compito. Le madri che sono capaci di offrire un’assistenza sufficientemente buona non
possono essere rese abbastanza efficienti con delle semplici istruzioni.» (Winnicott, 1965, p. 57) ma
aggiungo io, con una rete di relazioni in cui è possibile vivere e confrontarsi concretamente con la
dipendenza e con le emozioni che essa ci suscita.




                                                                                                    6
BIBLIOGRAFIA
GABBARD G. (1992), Psichiatria psicodinamica, Cortina, Milano.
GRASSO. M., CORDELLA B., PENNELLA A.R. (2003), Metodologia dell’intervento in psicologia
  clinica, Carocci, Roma.
KOHUT H. (1986), La cura psicoanalitica, Boringhieri, Torino.
LINGIARDI V., MADEDDU F. (1994), I meccanismi di difesa, Cortina, Milano.
MCWILLIAMS N. (1974), La diagnosi psicoanalitica, trad. it. Astrolabio, Roma, 1999;
MORIN E. (1982), Scienza con coscienza, trad. it. Franco Angeli, Milano, 1984.
PIETROPOLLI CHARMET G. (2001), La violenza contro l’oggetto d’amore, in Adolescenza e
   psicoanalisi, Anno I, 1.
SEGAL H. (1964-1973), Introduzione all’opera di Melania Klein, trad. it. Martinelli, Firenze, 1975,
   p. 107.
WINNICOTT D.W. (1962), La dipendenza nell’assistenza all’infante e al bambino e nella situazione
  analitica, in D.W. Winnicott (1970), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma.




                                                                                                 7

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La Dipendenza Negata

  • 1. LA DIPENDENZA NEGATA: IL RUOLO DELLE EMOZIONI NELLA RELAZIONE MADRE-BAMBINO Angelo R. Pennella (*) Vorrei avviare il mio intervento raccontandovi due piccole situazioni che utilizzerò come spunti per sviluppare una riflessione sul tema della dipendenza. Iniziamo con la prima. La vicenda a cui faccio riferimento si è consumata, in un tardo pomeriggio invernale, in uno dei tanti supermercati di Roma ed ha avuto come protagonisti una giovane madre ed il figlio, un bambino di sette/otto anni. Quando li vidi, la signora era accanto al suo carrello pieno di alimenti intenta ad osservare i prodotti esposti su uno scaffale. Il figlio le gironzolava intorno. Dopo qualche istante, il bambino, forse annoiato dal protrarsi della fermata, iniziò a sfiorare con le dita alcune delle confezioni in mostra. La madre, impegnata a valutare etichette e prezzi dei prodotti lo lasciò fare. A questo punto, il bambino iniziò a prendere alcune confezioni e a spostarle di posto, attività che divenne sempre più frenetica e rumorosa fino a quando un’intera fila di scatole cadde a terra. Caso volle che proprio in quel momento passasse accanto a loro una commessa. A quel punto la madre abbandonò i prodotti che stava valutando, si chinò a raccogliere le confezioni fatte cadere dal figlio e, mentre le rimetteva in ordine, disse con tono tranquillo e affettuoso: “smettila di fare disordine altrimenti la signorina si arrabbia e ti caccia via”. Come vi dicevo, si tratta di un piccolo episodio che vorrei tuttavia guardare con il medesimo spirito con cui Edgar Morin, filosofo francese a cui si devono opere come “Scienza con coscienza” (1982), rispose ad un commensale che gli chiese cosa riusciva a vedere in un semplice calice di vino rosso. In quella occasione, Morin rispose: «vedo le particelle dell’atomo, vedo i nuclei dell’elio, vedo la vigna che ha prodotto quest’uva e poi il Mediterraneo, l’origine della vita e molto altro ancora». Ebbene, credo che anche a noi sia possibile vedere o almeno intravedere in quello che vi ho raccontato qualcosa di più che una banale scenetta di vita quotidiana. In questo senso, forse la prima cosa che possiamo notare è il fatto che la madre abbia attribuito all’altro – nella fattispecie alla commessa – le emozioni di irritazione e fastidio: è l’altro, non lei, che potrebbe arrabbiarsi di ciò che fa il figlio ed arrabbiarsi a tal punto da cacciarlo dal super- mercato. È come se quelle emozioni, che ci sembrerebbero peraltro comprensibili visti gli oneri (*) Psicologo, psicoterapeuta, docente di Psicoterapia presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute, Facoltà di Psicologia 1, Università di Roma “La Sapienza”. 1
  • 2. materiali ed emotivi che implica l’essere madre, non avessero diritto d’essere all’interno della sua relazione con il figlio. Ecco dunque configurarsi una situazione in cui, da una parte, c’è una madre accogliente e comprensiva, pronta ad accollarsi l’ulteriore fatica fisica di riordinare gli oggetti fatti cadere dal figlio, dall’altra, la commessa del supermercato, una donna indifferente ed estranea, pronta ad irritarsi e ad aggredire il bambino per quell’atto che immette disordine nell’ordine degli adulti. La scissione mi sembra piuttosto evidente. Potremmo però vedere anche dell’altro in questa vicenda. La frase della madre delega di fatto la funzione normativa alla commessa: in effetti è questa ultima ad essere chiamata ad esplicitare la regola violata dal bambino – il famoso “questo non si fa” – e ad attivare una possibile punizione. La delega di cui sto parlando è però piuttosto pericolosa perché rischia di mostrare la disattenzione, forse anche l’incapacità, della madre a gestire i comportamenti disturbanti del figlio, veicolando così l’idea che la madre stessa dipenda in qualche modo dall’altro, dai suoi giudizi e dalle sue decisioni. Ma per quale motivo questa madre non ha richiamato all’ordine il suo bambino? Certo, potrebbe averlo fatto perché sapeva che il figlio era stanco ed annoiato, ma se era questa la ragione, allora perché ventilargli una minaccia così terribile ed esagerata rispetto all’atto quale la “cacciata” dal supermercato? Lasciamo in sospeso queste domande e passiamo alla seconda vicenda. In questo caso abbiamo una madre trentenne che chiese un aiuto psicologico a fronte della sua forte preoccupazione di nuocere al figlio: temeva di poterlo aggredire con oggetti d’uso quotidiano come una scopa, un ferro da stiro, un coltello da cucina. Viveva questa angoscia in modo particolarmente intenso quando si trovava a casa da sola con lui e specie nei momenti in cui si sentiva stanca ed oppressa dagli impegni familiari e domestici (il marito sembrava non darle alcun aiuto da questo punto di vista)1. Nello strenuo tentativo di difendere il suo bambino, questa donna iniziò a nascondere in armadi e cassetti ogni potenziale strumento di offesa. Il suo sforzo risultò ovviamente inutile: tanto più occultava gli oggetti, tanto più le venivano in mente nuove idee sul modo con cui gli oggetti si sarebbero potuti trasformare in un’arma. A prima vista, le due situazioni possono sembrare molto diverse: nel primo caso abbiamo una madre che risponde con comprensione ed affetto alla birichinata del figlio, nel secondo abbiamo invece una madre angosciata perché teme che gli oggetti possano trasformarsi in potenziali strumenti di offesa. La questione, tuttavia, è che in entrambe la rabbia, l’aggressività, la violenza è 1 Questo caso è discusso in modo più approfondito in: Grasso. M., Cordella B., Pennella A.R. (2003). 2
  • 3. individuata e riconosciuta solo all’esterno di sé, nell’oggetto, poco importa, a questo punto, che si tratti di una commessa o di un ferro da stiro. Mi sembra piuttosto agevole riconoscere in entrambe le situazioni la presenza di meccanismi difensivi quali la negazione e la proiezione ma anche lo spostamento, operazione mentale con cui si ha la possibilità di risolvere un conflitto emotivo indirizzando l’emozione vissuta nei confronti di un oggetto verso un oggetto diverso, cosa che ci consente di evitare l’angoscia che si vivrebbe nel caso in cui fosse mantenuta la direzione originaria (McWilliams, 1974; Lingiardi, Madeddu, 1994). Ecco quindi che, al di là delle loro apparenti differenze, entrambe le madri sembrano non essere in grado di riconoscere in se stesse il fastidio, l’irritazione, ma anche l’aggressività che le richieste dei figli sollecitano in loro, cosa che le spinge a collocarle sull’altro: la commessa o il ferro da stiro si trasformano così in oggetti pericolosi in grado di esprimere ed agire l’aggressione. Con una scissione che in alcuni casi può essere anche piuttosto rigida, si posizionano quindi, da un lato, le emozioni positive (l’amore, la protezione, ecc.), dall’altro quelle negative (il fastidio, la rabbia, ecc.) e non le si integrano in una rappresentazione complessa di se stessi e dell’altro. Per dirla in altri termini, queste madri evidenziano l’insostenibilità dell’ambivalenza: la compresenza – nelle relazioni con i figli – di sentimenti, tendenze ed atteggiamenti di segno opposto risulta cioè talmente intollerabile da attivare meccanismi difensivi tesi a salvaguardare un’autoimmagine positiva di sé e della propria funzione genitoriale attraverso l’espulsione di tutto ciò che può metterla in discussione. A questo proposito, anche al fine di evitare qualsiasi ambiguità, desidero sottolineare che l’ambivalenza in sé non è indice di anormalità, al contrario, può essere considerata come l’esito di un processo evolutivo che ci dona la capacità di integrare aspetti diversi e contrastanti dell’oggetto in un’unica rappresentazione. L’importanza di tale acquisizione è evidente nel bambino quando inizia a riconoscere la madre come una persona intera e non come una mera appendice della propria persona. In questa fase, infatti, parallelamente a questa «mutata percezione dell’oggetto, c’è un cambiamento fondamentale nell’Io, perché, come la madre diventa un oggetto intero, così l’Io del bambino diventa un Io intero, ed è sempre meno scisso nelle sue componenti buone e cattive. L’integrazione, sia dell’Io che dell’oggetto, procede [quindi] simultaneamente» (Segal, 1964-1973). Riprendendo il filo del discorso, possiamo quindi pensare che in entrambe le situazioni le madri non esprimono stanchezza, irritazione e rabbia nei confronti dei figli perché tali emozioni appaiono loro inaccettabili: così facendo non aiutano però se stesse e perdono il contatto con la propria complessità e con quella dei loro stessi figli. 3
  • 4. Se infatti non si è in grado di confrontarsi in modo efficace con la propria ambivalenza emotiva e si tenta di risolverla con l’uso di rigidi meccanismi difensivi, essa può diventare così intensa da ingenerare situazioni drammatiche, basti pensare alle molte vicende sentimentali dal tragico epilogo che vedono come protagonisti adolescenti e giovani adulti. In queste occasioni, essi appaiono sconvolti dalla forza della propria ambivalenza rispetto all’oggetto: amore ed odio assumono una tale virulenza da non poter essere elaborati ed integrati. Per molti di questi adolescenti, infatti, «il vero problema non è riuscire a tollerare la bellezza, la bontà e la generosità, ma le nefandezze che vengono commesse nella contrattazione amorosa […] la loro difficoltà è governare la rabbia e la delusione per gli attacchi che inesorabilmente l’oggetto d’amore porta al suo devoto adoratore» (Pietropolli Charmet, 2001). In qualche modo, non sono stati abituati a confrontarsi con i limiti, le condizioni, le frustrazioni che chi ci vuole bene inevitabilmente – a volte anche opportunamente – ci infligge. Come disse Ovidio (Amores, III, 11, 35), «odierò, se mi sarà possibile; altrimenti amerò mio malgrado.» Ma per quale motivo si dovrebbe vivere una tale difficoltà a riconoscere e canalizzare le proprie emozioni negative rispetto ai figli? La domanda è indubbiamente ardua e non ho alcuna velleità di proporre una risposta esaustiva, mi limiterò a citare uno dei fattori che credo possano aiutare a comprendere queste situazioni: la dipendenza. Anche in questo caso è necessario però un chiarimento: il fatto che nella nostra cultura la dipendenza sia divenuta una sorta di cliché spesso connotato, come ha osservato Gabbard (1992), in termini negativi, non significa che essa lo sia realmente. Se da un lato può essere infatti patologica la situazione di quelle persone che sviluppano, a causa di una scarsa fiducia in se stesse, un bisogno spasmodico di appoggiarsi agli altri per essere aiutate, guidate e sostenute anche nelle decisioni della vita quotidiana, dall’altro è però illusorio pensare di poter giungere ad una assoluta indipendenza dall’oggetto. Al di là infatti della ovvia dipendenza materiale che ci lega alla nostra comunità, da tempo è evidente (Kohut, 1986) che ciascuno di noi ha un costante bisogno di apprezzamento, stima, considerazione, amore da parte dell’altro perché questo è il nutrimento narcisistico che ci consente di sostenerci e di regolare la nostra autostima. La dipendenza è dunque una condizione fondamentale della nostra vita e non può essere negata in modo onnipotentistico. La questione è che la dipendenza attiva emozioni complesse e potenti, basti pensare al fatto che essa ci pone nelle mani dell’altro, ci rende vulnerabili e può mettere in discussione ogni nostra certezza. 4
  • 5. Vivere la dipendenza significa infatti confrontarsi con la propria capacità di “reggere” le richieste dell’altro, di sostenerlo, di offrirgli, per dirla con Winnicott (1965), un holding sufficientemente adeguato, ma significa anche mettere alla prova la propria capacità di porre dei limiti, di definire e salvaguardare i confini della nostra e dell’altrui identità. Riconoscere l’altro senza confondersi con lui, sostenerlo senza viverlo solo come un peso, dare importanza alle sue richieste senza negare le proprie implica un lavorio cognitivo ed emozionale oneroso che si fonda proprio sulla sostanziale ambivalenza della relazione. Ecco quindi spiegata la difficoltà a confrontarsi e vivere la dipendenza. In questa prospettiva appaiono perfettamente comprensibili gli sforzi agiti per cancellarla, tentativi che a volte assumono un carattere estremo giungendo all’annullamento, anche fisico, dell’altro o di se stessi. In fondo, la madre che aveva paura degli oggetti stava cancellando una parte di sé – e non mi riferisco solo alle proprie emozioni negative – pur di non vivere le implicazioni della dipendenza. Una modalità di negare la dipendenza certamente meno estrema e traumatica, ma non per questo meno discutibile, è quella di imporre all’altro l’autonomia: l’altro deve essere indipendente. Naturalmente non mi sto riferendo alle strategie che promuovono in modo “fisiologico” l’indipendenza, ma a quelle che in apparenza si propongono di farlo ma che in realtà sono utilizzate per negare la dipendenza. Si assiste così a madri – ma anche a padri – che rinviano ai figli scelte sempre più significative: cosa mangiare, come vestirsi, quando e con chi uscire, se dormire o rimanere svegli, se andare al cinema o no e così via. Prima che si scatenino le vostre obiezioni vi inviterei a non lasciarvi ingannare dalla seduttività di questi atteggiamenti. In effetti, un genitore che coinvolge il figlio sulle decisioni della vita quotidiana sembrerebbe altamente desiderabile: ma chiedereste ad un bambino di tre anni cosa vuol mangiare a cena? O ad una bambina di otto anni di scegliere con chi uscire? È ovvio quindi che si tratta di questioni che si devono contestualizzare, ma è questo il problema a cui mi riferivo. Pur di non vivere le tensioni emotive connesse all’ambivalenza della relazione, si nega la dipendenza, si attribuisce così forzosamente all’altro autonomia e libertà, sottraendogli però in questo modo ogni possibilità di vivere i propri bisogni di dipendenza e di sviluppare gradualmente – anche grazie a confronti e conflitti con il genitore – la propria indipendenza: lo si lascia cioè solo. Un inciso: avrete notato che mi sto sforzando di non indicare il soggetto della dipendenza. Sebbene possa apparire scontato – per alcuni aspetti anche autoevidente – attribuire il ruolo dipendente al figlio, in realtà è anche il genitore ad essere dipendente: in altre parole, è la relazione ad essere connotata sulla dipendenza (anche se questo non significa naturalmente che non vi siano diversità di ruoli e funzioni). 5
  • 6. Ma questo mi consente di concludere con un ampliamento del focus. Come diceva infatti Winnicott, nel momento in cui riusciamo a confrontarci con l’idea della dipendenza siamo anche in grado di affrontare il ruolo svolto dalla realtà esterna. Le situazioni di cui ho parlato non si sviluppano infatti in un vuoto sociale: la madre del supermercato così come la paziente vivono in un contesto familiare e sociale che incide in modo consistente sulle dinamiche emozionali a cui ho fatto cenno. Vi ricorderete che la prima era da sola al supermercato con il figlio e con il suo carico di spesa mentre la seconda era particolarmente preoccupata quando era da sola con il figlio e con le sue incombenze familiari: in entrambi i casi c’è quindi un’assenza. Senza dilungarmi, mi sembra chiaro che così come nella relazione con i figli si può tentare di risolvere la complessità emozionale della dipendenza negandola, imponendo in qualche modo una autonomia che condanna però alla solitudine, anche la società conferisce a queste madri una indipendenza che nega i loro bisogni e le lascia di fatto sole. Si viene così a creare una catena di negazioni reciproche ammantante dall’apparenza della libertà e della autonomia. Illuminanti, in questo senso, le parole di Winnicott (1965, p 57): «si deve notare che le madri spontaneamente capaci di fornire un’assistenza abbastanza buona possono essere messe nelle condizioni di far meglio se esse stesse sono assistite in un modo che riconosca la natura essenziale del loro compito. Le madri che sono capaci di offrire un’assistenza sufficientemente buona non possono essere rese abbastanza efficienti con delle semplici istruzioni.» (Winnicott, 1965, p. 57) ma aggiungo io, con una rete di relazioni in cui è possibile vivere e confrontarsi concretamente con la dipendenza e con le emozioni che essa ci suscita. 6
  • 7. BIBLIOGRAFIA GABBARD G. (1992), Psichiatria psicodinamica, Cortina, Milano. GRASSO. M., CORDELLA B., PENNELLA A.R. (2003), Metodologia dell’intervento in psicologia clinica, Carocci, Roma. KOHUT H. (1986), La cura psicoanalitica, Boringhieri, Torino. LINGIARDI V., MADEDDU F. (1994), I meccanismi di difesa, Cortina, Milano. MCWILLIAMS N. (1974), La diagnosi psicoanalitica, trad. it. Astrolabio, Roma, 1999; MORIN E. (1982), Scienza con coscienza, trad. it. Franco Angeli, Milano, 1984. PIETROPOLLI CHARMET G. (2001), La violenza contro l’oggetto d’amore, in Adolescenza e psicoanalisi, Anno I, 1. SEGAL H. (1964-1973), Introduzione all’opera di Melania Klein, trad. it. Martinelli, Firenze, 1975, p. 107. WINNICOTT D.W. (1962), La dipendenza nell’assistenza all’infante e al bambino e nella situazione analitica, in D.W. Winnicott (1970), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma. 7