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Makers. Analisi sociologica di un
fenomeno emergente
Di Francesca Santangelo

1
Indice
1. Chi sono i makers …………………………………………………….………. 3
2. Dal personal computer al personal fabricator: cos’è un FabLab ….................. 5
2.1. The Fab Charter ………………………….…………………...………….. 8
3. La dimensione globale del fenomeno ………………………..………....…... 10
4. Un fenomeno recente: i FabLab in Italia ……………….…………………... 13
4.1.

FabLab Torino ….…………………………………………….…..…. 13

4.2.

FabLab Firenze ……………………………………........................... 18

4.3.

Frankeinstein Garage e l’elettronica della sciura Maria ………….... 23

4.4.

FabLab Palermo …………………………………………………….. 26

4.5.

Un profilo comune con prospettive eterogenee …………….………. 29

5. La Terza Rivoluzione Industriale …………………………….……….……. 32
6. Da Manchester ad Obama: quali prospettive per i maker ………………..… 37
7. Sfide: limiti e opportunità ………………………………………………...... 43
7.1. Trovare la propria dimensione: una scelta consapevole ………………... 43
7.2. Nuovi modelli di business per un nuovo business ………………..……. 46
7.3. Come finanziarsi: la risposta del crowdfunding ……………………...… 48
8. Verso un futuro artigiano? Un focus sull’Italia ………………………….…. 52
8.1. L’artigiano: il valore di un immaginario ……………………….………. 53
8.2. Dal laboratorio artigiano all’alta tecnologia ………………….……….... 57
8.3. Il Bel Paese fra tradizione e innovazione: un nuovo made in Italy? ….... 62
8.4. Una fabbrica di successo ……………………………...……………….. 66
8.5. Il futuro: artigiano e digitale …………………………………………… 68
8.5.1. Quando il maker si fa impresa ………………………..…...…. 70

2
8.5.2. Differenze e considerazioni …………..……………………… 74
9. Proposte per una formazione artigiana …………………………………….. 77
9.1.

In cerca di nuove competenze ……………………………………... 78

9.2.

Ripartire dalle scuole: approccio creativo e digitalizzazione …….... 81
9.2.1. Ripensare un modello d’apprendimento ……………………... 81
9.2.2. Digitalizzazione e istruzione dal basso .................................... 84

9.3.

La stampa 3D: una nuova frontiera dell’insegnamento …………... 86

9.4.

Del perché la Terza Rivoluzione Industriale è un affar di Stato….. 92

10. Considerazioni conclusive ………………………………………….……... 96
Bibliografia ……………………………………………………......….. 100
Sitografia ………………………………………………….………..… 102

3
1. Chi sono i makers?
“La trasformazione più grande non riguarda il modo in cui le cose vengono fatte, ma
chi le fa”1.
Con questa frase Chris Anderson, giornalista ed ex direttore di “Wired Usa”,
definisce la nuova rivoluzione digitale in atto.
Risulta infatti appropriato, in questa sede, sottolineare l’elemento specifico che, al di
là del dato tecnologico, rende il tema di cui ci accingiamo a discutere fortemente
innovativo, ovvero lo slittamento da una produzione possibile esclusivamente
attraverso economie di scala e grandi fabbriche, ad una gestibile autonomamente dal
singolo individuo.
Un esito che costituirebbe una sorta di riappropriazione degli strumenti di produzione
da parte del singolo cittadino, e che dunque l’autore sopracitato non esita a definire
“la nuova rivoluzione industriale”, mentre The Economist parlerà nello specifico
della “Terza Rivoluzione Industriale”.
Si tratta di un Movimento prevalentemente socio-economico e culturale, di cui si è
soliti segnare l’inizio con il lancio della rivista Make nel 2005.
Anderson parla di un Movimento caratterizzato da tre elementi precipui e
trasformativi: si tratta di persone che utilizzano strumenti digitali desktop per creare
prototipi e prodotti, muovendosi in un orizzonte culturale che prevede la
condivisione dei progetti per mezzo di community online e la possibilità, in ultimo,
d’inviare i progetti ai service di produzione commerciale per fabbricarli in maggior
quantità, riducendo per questa via il percorso dall’idea all’imprenditorialità e facendo
sì che la distinzione fra imprenditore e appassionato sia ridotta ad un’opzione del
software2.
Si tratta dunque di una manifattura che permette di creare a qualsiasi scala, non più
soltanto su scala industriale, e che anzi guarda con particolare interesse a
customizzazione e produzione in piccoli lotti.
Interessante la definizione adottata da Jason Kootke, blogger e web designer, che
parla in proposito di “small batch” - lotto minimo - espressione in genere riferita al
bourbon, che implica quella cura artigianale che caratterizza tutte quelle imprese che
1
2

Chris Anderson, Makers. Il ritorno dei produttori, Rizzoli, 2013, p. 22.
Cfr. ibidem, p. 26.

4
mirano a mettere l’accento sulla qualità dei prodotti piuttosto che sulla dimensione di
mercato.
Per Stefano Micelli, docente presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia di Economia
e Gestione delle Imprese, i cosiddetti makers sarebbero dei creativi caratterizzati da
uno stile di vita più aperto alla diversità ed in ultima analisi coloro che lavorano con
le proprie mani e che fanno le cose.3
L’origine del termine risale ad un romanzo, Makers, scritto da Cory Doctorow nel
2009, in cui, in una delle frasi più profetiche, si afferma: “Il futuro non sarà delle
General Motors, delle General Electric, delle General Mills, ma di nuove aziende
chiamate Local Motors, Local Electric, Local Mills” 4 , ovvero, secondo Riccardo
Luna, giornalista e primo direttore dell’edizione italiana di “Wired”, di startup che
uniscono la cultura digitale con la produzione di oggetti reali, in una parola, di
startup di makers.
Parimenti rilevante, soprattutto per la storica realtà italiana, ed in special modo
distrettuale, il fenomeno rappresentato dai veri e propri artigiani digitali, i crafters,
ovvero coloro che si servono di alcuni strumenti digitali, come laser e stampanti 3D,
per creare i propri oggetti, tanto che per Luna si può agevolmente parlare di un
“grande ritorno del fatto a mano”, basato sul tentativo di fare emergere una nuova
economia dal basso: passare dai negozi alle reti, dai consumatori alle comunità di
interessi, dai prodotti alle storie5.

Nel lavoro che segue ci si concentrerà su quali siano gli utensili principali di lavoro
dei suddetti makers, sul seguito ed i potenziali di un simile movimento, focalizzando
l’indagine in particolare sull’Italia, basandoci anche su interviste svolte sul territorio,
e sulle tipologie di prodotti che sono e che potrebbero potenzialmente essere
avvantaggiate da tale modo di produzione.
Ci si soffermerà inoltre sulle possibilità offerte dal fenomeno in chiave nazionale,
considerata la propensione artigianale e distrettuale di gran parte delle attività locali e
sui volti al momento presenti nel nostro Paese che rispondono propriamente al ruolo
di maker o crafter, sia in ambito educativo e sperimentale, per quanto riguarda
specialmente il fenomeno dei FabLab,

sia in ambito più strettamente

3

Cfr. Stefano Micelli, Futuro artigiano, i Grilli Marsilio, 2011, p. 16.
Riccardo Luna, Cambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori, Editori Laterza, 2013, p. 38.
5 Ibidem, p. 46.
4

5
imprenditoriale, osservando come quella di maker nel nostro Paese sia spesso una
figura che incrocia molteplici percorsi e profili.
Tuttavia, ed è questo l’elemento che permette al fenomeno oggetto del nostro studio
di presentarsi come radicalmente rivoluzionario per l’attuale assetto sociale, “we are
born makers. We don’t just live, but we make. We create things”, come afferma Dale
Dougherty, editore e pubblicista della rivista Make, nonché inventore della termine
“web 2.0”6; come si vedrà, dunque, il fenomeno si presenta in forma fluida, e non
esiste, in senso stretto, un profilo che racchiuda in sé tutte le caratteristiche che
determinano l’essere maker in quanto tale.
Sulla stessa linea di pensiero, Chris Anderson riflette: “Se amate cucinare, siete dei
makers in cucina e il forno è il vostro banco di lavoro. Se amate le piante, siete
makers in giardino. Lavoro ai ferri, decoupage, ricamo: siamo tutti makers”7.
Nel corso della presente trattazione si farà riferimento ad esperienze professionali e
concetti afferenti a campi e discipline apparentemente molto diversi fra loro, dando
luogo ad una raccolta di casi e studi eterogenea, ma il cui collante e filo conduttore
risulta essere l’idea stessa di creatività e la dimensione del fare nelle loro molteplici
interazioni con l’ambiente lavorativo. Scrive infatti lo studioso ungherese Mihaly
Csikszentmihalyi: “La creatività è un processo durante il quale un ambito simbolico
della cultura è modificato. Nuove canzoni, nuove idee, nuove macchine sono ciò di
cui è fatta la creatività”8.
Si tenterà dunque d’indagare quali conseguenze sociali, politiche ed economiche si
possano determinare quando nuove idee, nuove macchine e forse anche nuovi
mestieri, creano nuova conoscenza e rinnovate comunità del fare.
2. Dal personal computer al personal fabricator: cos’è un FabLab
Nel suo libro dedicato all’argomento - Fab. Dal personal computer al personal
fabricator - Neil Gershenfeld, docente del Massachusetts Institute of Technology e
Direttore del relativo “Center for Bits and Atoms”, nonché ideatore del primo
FabLab, propone un interessante accostamento fra il passaggio dal mainframe
computer (il predecessore dell’odierno computer, il cui utilizzo era essenzialmente

6
7
8

http://www.ted.com/talks/lang/it/dale_dougherty_we_are_makers.html
Chris Anderson, op. cit., p. 15.
Cito da David Gauntlett, La società dei Makers, 2013, i Grilli Marsilio, p. 30.

6
limitato ad università, grandi aziende e centri di ricerca) al personal computer e al
momento in cui le potenzialità delle macchine utensili per la fabbricazione
diventeranno usufruibili dal singolo attraverso il personal fabricator.
Gershenfeld, da sempre interessato alla dimensione interdisciplinare di informatica e
fisica, ritiene però che questa volta “le implicazioni saranno probabilmente ancora
più grandi, poiché ciò che viene personalizzato è il nostro mondo fisico di atomi,
piuttosto che il digitale mondo di bit dei computer”9.
Questa consapevolezza, proviene all’autore dall’entusiasmo raccolto fra studenti - e
non – nell’inaugurare nel 1998 il suo corso tenuto al MIT ed intitolato How to make
(almost) anything, corso di introduzione all’utilizzo degli strumenti di fabbricazione
digitale, che avrebbe dovuto rivolgersi ad un ristretto gruppo di studenti degli ultimi
anni. “Immaginate la nostra sorpresa allora - racconta il docente - quando circa un
centinaio di studenti si sono presentati. Erano tanto artisti e architetti quanto
ingegneri”; aggiungendo poi che la seconda sorpresa era che quegli studenti non si
trovavano lì per le proprie ricerche o per motivi accademici, ma semplicemente
poiché volevano costruire oggetti che avevano sempre desiderato, ma che non
esistevano (non ancora, almeno), e che dunque “la loro motivazione era il puro
piacere personale di creare ed utilizzare le proprie invenzioni”10.
Un elemento oltremodo interessante ed innovativo risiede nello stesso processo di
apprendimento sperimentato: quest’ultimo era condotto dalla domanda di
conoscenza, piuttosto che dalla sua offerta, “una volta acquisita una nuova capacità,
gli studenti erano colti da un interesse quasi evangelico di mostrare agli altri come
usarla; quando avevano bisogno di nuove competenze per i loro progetti, le
imparavano direttamente dai propri compagni, dopodiché passavano tali conoscenze
ad altri ancora”11.
L’autore parla in proposito di un modello educativo just in time, contrapposto al
tradizionale just in case, ovvero un processo che implica una sorta di “insegnamento
a richiesta”, piuttosto che occuparsi di portare a compimento “un programma
precedentemente pianificato che si spera includa qualcosa che poi tornerà utile”12.
In evidenza dunque quel caratteristico modo di lavorare nel settore della
progettazione e fabbricazione digitale, che si può riscontrare attraverso le interviste
Neil Gershenfeld, Fab. Dal personal computer al personal fabricator”, Codice, 2005, p. 5.
Ibidem, pp. 7-8.
11 Ibidem, p. 9.
12 Ibidem.
9

10

7
ad alcuni FabLab presenti sul territorio italiano al termine di questo paragrafo,
caratterizzato dal metodo del knowledge sharing, un sistema volto al miglioramento
dell’efficienza di un’organizzazione attraverso la condivisione e la valorizzazione del
capitale intellettuale.
Si riscontra ugualmente una simile tensione nelle reti di makers, basate
essenzialmente su community online, il cui obiettivo è condividere esperienze e
conoscenze, innestandosi su modalità aperte di creazione di informazione, poiché
“nelle comunità di innovazione aperta, i partecipanti si autoselezionano; ad attirarli
sono progetti interessanti e gente ingegnosa, e quando il lavoro viene svolto
pubblicamente, hanno la possibilità di trovarlo”13.
Nasce così l’idea di Gershenfeld di creare dei FabLab, per esplorare le implicazioni e
gli sviluppi della fabbricazione digitale nel mondo.
Si tratta di laboratori per la fabbricazione, o semplicemente di laboratori “favolosi”, a
seconda di come lo si voglia interpretare, come afferma l’autore (“fab” in inglese è la
forma abbreviata di “fabulous”), costituiti da un insieme di macchine e strumenti
organizzati da procedure e software sviluppati per costruire.
È importante sottolineare che non si tratterebbe di un’organizzazione statica, poiché
l’intenzione è quella di rimpiazzare parti del FabLab con parti costruite al suo
interno, finché il laboratorio stesso non giunga ad autoriprodursi14.
In seguito, nel 2002, il “Center of Bits and Atoms” approva l’ampliamento del
progetto iniziato con il corso presso il MIT, inaugurando un laboratorio grazie ad uno
stanziamento di fondi da parte della “National Science Foundation”.
Nasce così, con un investimento di cinquantamila mila dollari di attrezzature e
ventimila mila di materiali, il primo FabLab della storia, presso il “South End
Technology Center” di Boston, successivamente spostatosi in India, Costa Rica,
Norvegia e Ghana.
Il secondo Fablab nasce infatti a Sekondi-Takoradi, in Ghana e nel giro di qualche
anno il fenomeno è riscontrabile in diverse parti del mondo: oggi esistono 261
FabLab propriamente detti, ovvero laboratori per la fabbricazione digitale che hanno
sottoscritto le linee-guida espresse nel manifesto del “Center for Bits and Atoms”, di
cui si riporta l’originale FabLab Charter in basso.

13
14

Chris Anderson, op. cit., p. 180.
Cfr. Neil Gershenfeld, op. cit., p. 14.

8
2.1 The Fab Charter

What is a fab lab ?

Fab labs are a global network of local labs, enabling invention by providing access
to tools for digital fabrication

What's in a fab lab ?

Fab labs share an evolving inventory of core capabilities to make (almost) anything,
allowing people and projects to be shared

What does the fab lab network provide ?

Operational, educational, technical, financial, and logistical assistance beyond
what's available within one lab

Who can use a fab lab ?

Fab labs are available as a community resource, offering open access for
individuals as well as scheduled access for programs

What are your responsibilities ?

safety: not hurting people or machines
operations: assisting with cleaning, maintaining, and improving the lab
knowledge: contributing to documentation and instruction

Who owns fab lab inventions ?

Designs and processes developed in fab labs can be protected and sold however an
inventor chooses, but should remain available for individuals to use and learn from
9
How can businesses use a fab lab ?

Commercial activities can be prototyped and incubated in a fab lab, but they must
not conflict with other uses, they should grow beyond rather than within the lab,
and they are expected to benefit the inventors, labs, and networks that contribute to
their success

draft: October 20, 2012

Si può dunque parlare, per quanto riguarda la costituzione di un FabLab, di quattro
elementi essenziali:
1. Democratizzazione dell’accesso alle tecnologie presenti all’interno di un FabLab; a
questo scopo il laboratorio deve garantire a chiunque si dimostri interessato, la
possibilità di usufruire di open day gratuiti.
2. Sottoscrizione della FabLab Charter, di cui si deve trovare copia sia all’interno
della struttura sia sul relativo sito Web.
3. Condivisione, all’interno della rete dei FabLab delle pratiche di utilizzo delle
macchine e dei processi produttivi, scelta che concerne in primo luogo software e
hardware open source.
4. Più in generale, condivisione costante e globale di saperi, processi, design, prototipi
all’interno della rete dei partecipanti ad ogni FabLab esistente15.
Si ricorda, fra l’altro, che alcuni FabLab partecipano a FabAcademy, un corso a
distanza tenuto da Gershenfeld, che ne è infatti il direttore, della durata di cinque
mesi. Infine, è importante sottolineare che un FabLab è in genere anche un
Makerspace, ovvero uno spazio in cui potersi riunire per imparare, aiutandosi a
vicenda, e per sviluppare delle idee che poi possono incentivare la creazione di
nuovi prodotti e piccole aziende. Un caso esemplare è NYC Resistor, il Makerspace
di New York, che ha dato vita all’azienda Makerbot, fondata nel 2009 da Bre Pettis,
Zac Smith ed il loro team di ingegneri informatici in un ex birrificio, e volta alla
produzione di stampanti 3D a basso costo (circa mille dollari) e open-source, grazie
15

http://www.makerfairerome.eu/2013/05/16/cose-un-fablab/

10
anche, nel 2011, a finanziamenti da parte di società di venture-capital per un
ammontare di oltre dieci milioni di dollari16. Ricordiamo, per completezza, che
l’intero pacchetto azionario di Makerbot Industries sarà nel 2013 acquistato da
Stratasys, che, insieme a 3D Systems, è ad oggi uno dei giganti del settore.
Anderson, non a caso, definirà i FabLab un genere speciale di makerspace, in
genere focalizzati sulla prototipazione su piccola scala17.
3. La dimensione globale del fenomeno
Tenendo presente la dimensione globale del fenomeno, è possibile presentare alcuni
esempi dell’utilizzo di simili tecnologie nelle suddette aree: in India occidentale,
nel villaggio di Pabal, il laboratorio è stato utilizzato per sviluppare dispositivi per
monitorare la sicurezza del latte e l’efficienza delle macchine agricole, in Ghana
sono state create macchine alimentate dalla luce solare.
Al TED (Technology Entertainment Design) del 2006, conferenza annuale di
Monterey, Neil Gershenfeld racconta la storia di Valentina Kofi, una bambina
ghanese di otto anni che insistette per rimanere nel FabLab fino a tarda notte, per
costruire un circuito a strati multipli, “imparando a mettere i componenti ed a
programmarlo. Non sapeva bene cosa stava facendo o perché, ma sapeva che
doveva farlo. C’era qualcosa di elettrico nell’aria. Ancora una volta è stato solo per
la gioia di farlo”18.
Si tratta, per l’autore, di spostare l’accento dal “digital divide” fra Paesi sviluppati e
Paesi in via di sviluppo all’ancor più rilevante divario nell’accesso agli strumenti
per la fabbricazione, ovvero di sostituire al trasferimento di tecnologia
dell’informazione in senso stretto alle masse, la condivisione di strumenti per lo
sviluppo di tecnologia dell’informazione19. Egli osserva, infatti, che i computer da
tavolo (desktop computer) sono poco utili laddove spesso non ci sono tavoli, ed è
dunque preferibile apportare i mezzi di cui sopra, al fine di “sviluppare e produrre
soluzioni tecnologiche locali a problemi locali”, poiché “invece che costruire

16

http://www.chefuturo.it
Cfr. Chris Anderson, op. cit., pp. 56-57.
18 http://www.ted.com/talks/neil_gershenfeld_on_fab_labs.html
19 Cfr. Neil Gershenfeld, op. cit., p. 15-16.
17

11
bombe migliori, la tecnologia emergente può aiutare a costruire comunità
migliori”20.
In un passaggio essenziale ad avviso di chi scrive, Gershenfeld osserva come sinora
gli strumenti di fabbricazione digitale siano stati utilizzati per lo più all’interno di
industrie per ottenere prototipi di prodotti, in modo da coglierne gli errori prima che
questi diventino molto più onerosi da correggere, ovvero in fase di produzione.
Tuttavia lo scopo precipuo di tali strumenti sembra esser volto alla fabbricazione
personale, immaginando un mercato composto da una sola persona, ed in cui
dunque il prototipo è il prodotto stesso, in un mondo in cui il più grande ostacolo
nel realizzare ciò risiede nella mancanza di consapevolezza che questo sia
possibile21.
È importante a questo punto fornire qualche esempio concreto di ciò a cui l’autore
si riferisce quando parla di un mercato formato da una sola persona, ovvero
illustrare alcuni dei prodotti fabbricati dai partecipanti del corso volto a insegnare
Come fare (quasi) qualsiasi cosa.
Il primo prodotto è stato pensato e realizzato da un’artista, Kelly Dobson,
concentrata sulla sua personale necessità di urlare in momenti non appropriati,
come ad esempio in pubblico, ragion per cui ha ideato lo ScreamBody di Kelly, un
contenitore da indossare in cui è possibile urlare senza lasciar trapelare all’esterno
alcunché, salvo poi poter riprodurne il contenuto, quando se ne ha la possibilità. Il
tutto è stato ottenuto progettando un circuito per salvare le urla, inserendolo in una
scheda di circuito, sviluppando sensori che permettessero di interagire con
l’oggetto. Che il prodotto in sé possa poi suscitare il riso, l’ammirazione, o - perché
no - il desiderio di averne uno, poco importa: Kelly ha progettato il prodotto per un
solo consumatore finale, se stessa.
Detto altrimenti, non lo ha fatto per riempire una nicchia di mercato, o per
rispondere alla domanda di qualche utente, ma solo perché ne desiderava uno,
basandosi sulla considerazione che i prodotti presenti sui mercati di massa
difficilmente soddisfano fino in fondo i bisogni individuali, resi fra l’altro sempre
più complessi dalla società dei consumi; d’altro canto “un vero dispositivo
personale di informatica è per definizione personalmente progettato”22.

20

Ibidem, p. 16.
Cfr. ibidem, p. 19.
22 Ibidem, p. 23.
21

12
Un altro progetto interessante è quello di una professoressa del Dipartimento di
Architettura di Boston, Meejin Yoon, che, negativamente impressionata dai modi in
cui la tecnologia si introduce nel nostro spazio personale, voleva invece trovare un
modo che lo protegesse.
Nasce così il Defensible Dress, un vestito le cui frange sono fili rigidi controllati da
sensori di prossimità: quando qualcuno si avvicina ad una distanza stabilita dalla
persona che lo indossa, i fili metallici spuntano fuori a circoscriverne lo spazio
personale, ispirandosi al comportamento del porcospino o del pesce palla23. In un
mondo teso a moltiplicare i generi e l’intensità della comunicazione e
dell’interazione interpersonale, nessuno sul mercato aveva immaginato che
qualcuno desiderasse difendersene: forse il vestito conserva un valore simbolico e
provocatorio, forse l’autrice lo indosserà davvero, quel che conta è che niente di
simile era stato sinora realizzato, lasciando inevitabilmente l’utente/consumatrice
Meejin insoddisfatta, e adesso c’è.
Illustriamo infine, il progetto di una biologa, Shelly Levy-Tzedek, che ha ideato
una sveglia per chi ha difficoltà a svegliarsi, che non permette di essere spenta
facilmente con un bottone o rinviando l’allarme, ma con cui è necessario “lottare”,
nel senso letterale del termine, afferrandone le protuberanze nell’ordine in cui si
illuminano, processo già difficoltoso da svegli. Risulta estremamente interessante
sottolineare come Shelly sia arrivata a mettere a punto il suo prodotto: ha tenuto
una registrazione tecnica su una pagina web, che permetteva di far emergere ciò che
funzionava e ciò che andava modificato, facendo emergere le opinioni degli
studenti ed i loro suggerimenti24.
Si può notare dunque, anche attraverso quest’esempio, l’onnipresenza di logiche
collaborative e bottom-up nella creazione di conoscenza e valore aggiunto, per un
prodotto che possa definirsi realmente innovativo e personalizzato.

4. Un fenomeno recente: i FabLab in Italia

La presenza di veri e propri laboratori volti alla fabbricazione digitale nel nostro
Paese, ha conosciuto ritmi piuttosto lenti considerato, come anticipato, che il primo
FabLab nel mondo apre nel 2002 a Boston.
23
24

Cfr. ibidem, pp. 23-24.
Ibidem, pp. 24-26.

13
Tuttavia, sembra che negli ultimi anni si possa parlare di un vero e proprio boom,
visto il numero di località coinvolte nell’inaugurazione di FabLab, o comunque di
strutture ad essi affini: Torino, Novara, Milano, Firenze, Reggio Emilia, Roma,
Cava dei Tirreni, Napoli, Bologna, Trento, Genova, Pisa, Modena e Palermo.
Infatti, il fenomeno ha iniziato a diffondersi a macchia d’olio a partire dal 2011,
quando a Torino, in occasione della mostra “Stazione Futuro” che ebbe luogo per il
centocinquantenario dell’Unità d’Italia, si mostrava al pubblico un’installazione
contenente una stampante 3D ed una tagliatrice laser.
Nasce così nel capoluogo piemontese qualche mese dopo, nel 2012, “Officine
Arduino”, il primo FabLab italiano di cui si parlerà nei paragrafi che seguono, ove
ci si soffermerà in particolare su alcune esperienze italiane che si è avuta
l’occasione di osservare da vicino, interloquendo con i relativi protagonisti.

4.1. FabLab Torino

Per quanto riguarda il FabLab di Torino, è opportuno precisare alcuni aspetti prima
di presentare il testo dell’intervista effettuata ad uno dei suoi soci.
Come si è già ricordato, il FabLab di Torino è stato il primo FabLab a sorgere sul
territorio italiano, col nome di “Officine Arduino”, in quanto ospitato al loro
interno, grazie al contributo di Massimo Banzi, creatore nel 2005 del noto
processore Arduino, nome nato dalla caffetteria di Ivrea - “Antica Caffetteria
Arduino” - dove si trovava a parlare con i suoi tre soci.
Arduino è “una piattaforma basata su un hardware molto semplice e su un software
altrettanto semplice e flessibile che consente di prototipare rapidamente con
l’elettronica” 25 , ovvero un innovativo dispositivo open source, che costa appena
venti euro e che è alla base del funzionamento della stampante 3D, la cui
componente rivoluzionaria risiede anche nel facile utilizzo e dunque nell’essere alla
portata di chiunque, poiché “non ci vuole il permesso di nessuno per rendere le cose
eccezionali”26.

Quando e su quali basi è nato Fablab a Torino ?

25
26

Riccardo Luna, op.cit., p. 35.
http://www.ted.com/talks/lang/it/massimo_banzi_how_arduino_is_open_sourcing_imagination.html

14
Fablab è nato l’anno scorso (2012), ha 150 soci, ed è il proseguimento di un
progetto ideato da Arduino e dal Comitato delle Officine Grandi Riparazioni del
Centocinquantenario che fecero l’Esperienza Italia inserendovi anche Fablab Italia;
dopo i ragazzi che avevano iniziato a portare avanti il progetto Fablab in
collaborazione con Arduino decisero di creare Fablab Torino, e continuare quello
che si era iniziato all’Esperienza Italia, perché si era visto che c’era un seguito.
Fablab ha partecipato a più di una mostra, in cui porta in genere stampanti 3D ed
oggetti fatti con la laser.

In genere che partecipanti sono presenti ai workshop ? Quanto e come può
essere sostenibile una struttura come quella di un Fablab ? Come funziona il
sistema dei “crediti” per l’utilizzo dei macchinari ?

Qualsiasi, anche perché sono estremamente vari, ci sono due categorie di
workshop: “di base”, sono gratuiti e durano un giorno, sulla stampa, sulla laser,
sulla fresa, e quelli “avanzati”, durano in genere tre o quattro giorni, e questi hanno
un costo in crediti, in base al livello di difficoltà del workshop ed al numero di
giornate.
I crediti sono la “moneta interna” al Fablab, acquistabile su Internet, è un sistema
costruito in modo da poter guadagnare dei crediti, ad esempio chi viene a fare le
pulizie, ogni lunedì, guadagna 30 crediti se da solo e 15 se sono in due, sono
definiti in base al livello di difficoltà del workshop.
Tutti i macchinari hanno un costo orario in crediti, la stampa 3D costa 15 crediti la
prima ora 10 la seconda dalla terza in poi 5, la fresa idem (un credito = un euro).
La laser, la più utilizzata e anche quella che consuma di più, costa un credito al
minuto. Per permettere a chiunque di venire a sviluppare i propri progetti si è
pensato questo sistema.
Chi fa i workshop fa versare a chi partecipa una quantità di crediti e l’associazione
ne accredita la metà a chi tiene il workshop, che a sua volta possono utilizzarlo per
l’uso delle macchine.
Naturalmente i soci pagano una tessera per associarsi, il cui costo varia a seconda
della durata (esiste anche una tessera “one shot” che vale una decina di giorni, per
permettere di seguire un workshop, una tessera “base”, una “pro”, che ti permette di
utilizzare un magazzino per lasciare i progetti).
15
Per quanto riguarda in particolare la stampa tridimensionale, questa offre il
vantaggio opposto delle economie di scala: il costo unitario non aumenta nel
modificare una singola componente o nel fabbricare lotti piccolissimi, ma non
diminuisce

aumentando

i

volumi

di

produzione,

favorendo

quindi

personalizzazione e customizzazione.
Quali produzioni andrebbero dunque favorite da una simile tecnologia ?

Le macchine 3D in genere sono per la prototipazione, non per la produzione in sé,
servono per i prototipi, o tutt’al più per piccole serie, non tanto per stampare
realmente in serie.
Si tratta di una tecnica digitale, è possibile comunque senza costi di trasporto,
spedirlo a grandi distanze e se si vuole lo si stampa, è ecosostenibile, se così si può
dire.
Si ha un investimento iniziale, ma poi rimangono costi essenzialmente legati al
mantenimento delle macchine.
Non ci sono comunque in Italia molti casi di questo tipo, a parte coloro che
vendono le stampanti 3D, perché tante di quelle macchine hanno componenti che
sono state stampate con altre stampanti.

Si può parlare di un nuovo artigianato ? Prevale la funzione formativa o una
sorta di incentivo ad una nuova imprenditoria ?

Indubbiamente sì, chi fa piccole produzioni può rivolgersi più facilmente ad un
posto come questo, piuttosto che andare da una ditta vecchio stile, l’artigiano di una
volta è sostituito da colui che disegna al pc, per poi stamparlo con molta precisione
in 3D.
Per la mia esperienza comunque, il grosso delle persone che viene quì, sono
studenti che fanno prototipi.

22 giugno 2013

16
Figura 1. Il muro delle icone dei maker presso il FabLab di Torino con incisione laser su legno.

Risulta interessante il sistema dei crediti utilizzato da questo Maker Space,
trattandosi sostanzialmente della moneta interna del FabLab, mediante cui è
possibile utilizzare le macchine presenti, che si coglie l’occasione per illustrare, nel
seguente modo:

LASER CUT WL1290, 1 Credito al minuto di taglio (il tempo varia in base al
materiale ed al file). Il laser ha un’area di taglio da 1200x900mm e può tagliare ed
incidere materiali plastici, legnami, tessuti e pelli.
LASER CUT Eureka, 1 Credito al minuto di taglio. Il laser ha un’area di taglio da
600x450mm e può tagliare ed incidere materiali plastici, legnami, tessuti e pelli.

FRESA CNC Roland mdx-40, 15 Crediti per la prima ora di stampa, 10 Crediti
per la seconda, 5 Crediti dalla terza ora in poi (il tempo dipende da dimensione,
livello di dettaglio e durezza del materiale: un oggetto grande, dettagliato e fresato
in un materiale duro richiederà molto tempo).
 L’area di lavoro è pari a
305x305x105mm e si puo lavorare con un’ampia gamma di materiali quali ABS,
cere, resine, legno chimico, acrilici, PVC, POM e legno.

17
Figura 2. Wall-E: uno dei personaggi raffigurati sul muro delle icone dei makers.

3D PRINTER Ultimaker, 15 Crediti per la prima ora di stampa, 10 Crediti per la
seconda, 5 Crediti dalla terza ora in poi. L’area di lavoro è pari a 200x200x200mm
e si può stampare con PLA, ABS e NYLON.

3D PRINTER RepRap Prusa I3 Prusa , 15 Crediti per la prima ora di stampa, 10
Crediti per la seconda, 5 Crediti dalla terza ora in poi. L’area di lavoro è pari a
200x200x200mm e si può stampare con PLA, ABS e NYLON.

PLOTTER DA TAGLIO Roland GX-24, 15 Crediti per la prima ora di stampa,
10 Crediti per la seconda, 5 Crediti dalla terza ora in poi (il tempo dipende da

18
dimensione, livello di dettaglio e materiale)27.

Figura 3. Galleria delle icone dei Makers. Fonte: http://fablabtorino.org

4.2. Fablab Firenze

Riportiamo di seguito l’intervista effettuata a Mattia Sullini, coordinatore della
modellizzazione all’interno del FabLab, e primo architetto che nel 2000 apre un
coworking a Firenze e dopo due anni è uno dei fondatori del Maker Space della
città. Il brano riportato è stato raccolto in occasione della Mostra Internazionale
dell’Artigianato svoltasi a Firenze tra il 20 ed il 28 aprile 2013.
Learn. Make. Share. Tre parole d’ordine con cui presentate la vostra attività
ed i principi che la ispirano; che risvolti assume in particolare il dato della
condivisione all’interno del panorama di riferimento di FabLab Firenze ?

La condivisione è presente al 100%, la sfida per Fablab Firenze è proprio quella,
per la struttura del FabLab sarebbe prevista al livello di prodotto con una
standardizzazione delle dinamiche che fanno giungere al prodotto; per gli strumenti
di lavoro è meglio parlare di “multiproprietà” degli oggetti.

27

http://fablabtorino.org/?page_id=83

19
Il lavoro che stiamo cercando di fare è stressare il lato di utilità sociale
dell’associazione, puntare sulla dinamica giocosa, libera, non finalizzata, basandoci
sull’orizzontalità dei gruppi, l’accessibilità dei corsi, con un modello che preveda
un’economia poco impegnativa, con soci “flessibili”, ad es. workshop sul laser
come quelli di oggi, fatti dagli associati a titolo praticamente gratuito.

FabLab Firenze nasce a Luglio 2012; su quali basi ? Nasce per rispondere ad
una domanda locale o piuttosto per crearla, con lo scopo di indirizzarla verso
un settore poco noto sul territorio ?
A Firenze FabLab è un’ “anomalia”, normalmente nascono su gruppi relativamente
ristretti o su progetti precisi, noi siamo partiti in 23, ciascuno con attività già
avviate ed aspettative diverse rispetto al Fablab.
Partendo dal coworking stavo cercando di mettere insieme un gruppo con un
esperto di lasercutting, uno di stampanti 3D, un modellista, un designer, etc., per
cui ho pensato di riunirci riservando ognuno il 5-10-15% del proprio tempomacchina per fare dei lavori tutti insieme, di gruppo, come community.
Ancora non abbiamo una sede, attualmente è il mio coworking.
Vogliamo fare le cose in maniera progressiva, siamo un gruppo, stiamo trovando il
nostro baricentro, e stiamo cercando di capire quali aspettative coltivare e quali
abbandonare, etc. Si lavora insieme ed ognuno per sé, tenendo conto degli altri.

Che tipo di partecipanti seguono generalmente i workshop di FabLab Firenze?
Al FabLab c’è di tutto, artigiani, grafici, elettronici, designers, architetti…

Come può cambiare il lavoro in senso stretto, ovvero il rapporto con gli
strumenti del mestiere, con i clienti, i legami fra appartenenti alla stessa
categoria professionale, lo scambio di idee e buone pratiche ? È presente la
dimensione imprenditoriale ?
L’imprenditorialità è incuriosita dai FabLab, guarda ai Fablab, ma ancora non sa
cosa fanno, s’intravede un’utilità rispetto alla filiera produttiva, probabilmente, a
mio avviso, è un’aspettativa mal riposta, perché portare la ricerca di prodotto

20
finalizzata alla produzione all’interno di un FabLab innesca e immette nel circuito
logiche di ottimizzazione ed economia che un FabLab non può sostenere, e
richiama anche la necessità di competenze che un FabLab in genere non possiede,
anche se dipende molto da come è strutturato.

Figura 4. Laser cutter di FabLab Firenze, al workshop del Laboratorio in occasione della
mostra.

Poste queste difficoltà “strutturali” lo scopo ultimo dei FabLab dovrebbe
essere anche quello di creare chi entri nel meccanismo in modo da capirne e
sfruttarne le potenzialità ?

Esatto. Ma non si tratta di creare prodotti, più che altro di trovare persone in grado
di creare prodotti, è una cosa molto diversa. L’azienda può guardare ai FabLab
come luoghi in cui “pescare” persone formate a processi creativi, semiindustrializzati, in maniera che la mente sia formata a cogliere la complessità del

21
processo, crea artigiani, laddove l’artigiano è colui che domina sia l’aspetto
creativo sia quello operativo.
Un esempio è la cover di questo iPhone, che fino a ieri si rompeva, ma si è pensato
di utilizzare un legno più flessibile; sembra una cosa irrilevante ma è per rendere
l’idea della sperimentazione.

Figura 5. Lampade create con il laser cutting durante il workshop di Firenze.

Indubbiamente l’idea tradizionale di fabbrica sta cambiando. Come vi
posizionate rispetto all’utilizzo delle cosiddette tecnologie di “prototipizzazione
rapida” ?

Sono mezzi cruciali, non tanto al livello tecnologico, far rete, saper lavorare
insieme, capire che competizione e collaborazione non sono modelli antitetici ma
possono coesistere, può esserci una competizione sana, sapendo, per proprietà
transitiva, che quello che immetti nella rete ad un certo punto ti ritornerà.

22
Figura 6. Lampada ultimata.

I mezzi a disposizione fanno sì che il singolo produttore/utente possa decidere
se posizionarsi limitatamente al “locale” o produrre su scala “globale”; in base
a quanto da voi osservato, si può parlare in senso lato di un riappropriarsi
degli strumenti di produzione da parte di lavoratori ed artigiani ?
È possibile che la rivoluzione tecnologica sfoci in rivoluzione socio-culturale ?

Questi anni di social network pesante ci hanno abituato ad una comunicazione con
la gente sempre più diretta, vitale, immediata, quelle che erano estrapolazioni
statistiche diventano sempre più discrete, è stato tutto molto materiale; adesso ci
accorgiamo che c’è un ritorno sul fisico, coworking, fablab, un’economia della
collaborazione che è reale, basata sulla disintermediarizzazione, sulla credibilità,
sui concetti di prosumer, di code lunghe, di discretizzazione: possiamo essere più
individui, ma individui collaborativi.

23
Tutta quella retorica di villaggio globale era probabilmente molto precoce, adesso è
un villaggio globale, siamo di fronte a relazioni ricche e che producono qualcosa di
concreto.

25 aprile 2013
4.3. Frankeinsten Garage e l’elettronica della sciura Maria

Quella di Milano è una struttura assimilabile a quella di un FabLab, nata da una
preesitente associazione.
Oltre a creare oggetti, si occupa della loro riparazione e del loro miglioramento,
come afferma il loro “slogan” Your things, reborn.
Offre svariati workshop, da quelli mirati alla conoscenza di Arduino ai workshop
cosiddetti della sciura Maria, volti a chi intende avvicinarsi al mondo
dell’elettronica ed ai suoi concetti-base.28
Si riporta l’intervista effettuata ad Andrea Maietta, uno dei suoi fondatori.
Da quanto tempo esiste la vostra “associazione” e perché avete deciso di aprire
un Fablab ?
Da un paio d’anni, dopo che Alessandro (che poi si è trasferito in Inghilterra) aveva
visto una trasmissione in cui si parlava di tecnologie digitali per la prototipazione.
Paolo ed io ci siamo subito appassionati all’idea, perché ci avrebbe permesso di
avere uno spazio nostro in cui fare quello che ci piace, di incontrare e aiutare
persone con la nostra stessa passione e soprattutto di imparare da loro.

Chi ne fa parte, ovvero, più precisamente, da che percorsi professionali e
formativi

provenite,

su

quali

“risorse

umane”

contate

?

Al momento siamo Paolo ed io, al livello “istituzionale” abbiamo entrambi un
background di tipo tecnico e ci occupiamo di software, a livello più personale
siamo appassionati di molte altre cose: il physical computing, l’interazione uomo-

28

http://www.frankensteingarage.it

24
macchina, l’elettronica, l’intelligenza artificiale, sociologia, economia e molte altre
cose tra cui l’alpinismo e il rugby.

Disponete di risorse materiali (stampanti 3D, frese, etc.) di cui usufruiscono
coloro cui offrite corsi di formazione ? A che titolo lo fate ?

Come stampante 3D usiamo la Sharebot, con la quale stiamo pensando di offrire un
servizio di stampa. Stiamo terminando di costruirci una fresa fatta in casa per
offrire lo stesso tipo di servizio a basso costo. Per la formazione sull’elettronica, sui
microcontrollori e sulla programmazione, che è al momento la nostra attività
principale, forniamo di volta in volta il materiale necessario.

Il fatto che vi limitiate a fare formazione è una scelta mirata (svolgete attività
professionali parallele, non vi interessa andare sul mercato per motivi
ideologici, etc.) o è una scelta “obbligata” (dovuta per esempio alla situazione
transitoria in cui vi trovate, all’impossibilità di investire in questa attività,
etc.)?
Entrambi abbiamo un lavoro “vero”, quindi possiamo dedicare solo una certa
quantità di tempo a queste attività. Per questo motivo stiamo cercando qualcosa di
scalabile, ad esempio stiamo terminando un libro su e per i maker che presenteremo
alla Maker Faire di Roma ad ottobre.

Una volta aperto il Fablab, su quali basi funzionerebbe (workshops, sistema di
pagamento

in

“crediti”

o

altro,

tesseramento,

etc.)

?

So che dopo due anni suona strano, ma è un po’ presto per dirlo. I FabLab molto
difficilmente sono business sostenibili senza l’aiuto di qualche sponsor o qualche
istituzione, specialmente a Milano e specialmente se non puoi dedicartici full time.
Non escludiamo soluzioni alternative, come ad esempio un laboratorio mobile.
Indubbiamente l’idea tradizionale di fabbrica sta cambiando, come vi
posizionate rispetto all’utilizzo delle cosiddette tecnologie di “prototipazione

25
rapida”?

Siamo favorevoli, pensiamo che possano risolvere una serie di problemi. Ne
parliamo nella prima parte del nostro libro.

Si può parlare di un nuovo artigianato ? Prevale la funzione formativa o una
sorta

di

incentivo

ad

una

nuova

imprenditoria

?

Sicuramente sì, il maker è fondamentalmente un artigiano creativo che usa
strumenti moderni con un amore e una passione antichi. Speriamo che la
formazione che eroghiamo possa portare le persone a intraprendere un loro
percorso imprenditoriale, anzi sappiamo di diverse occasioni in cui questo è
successo e la cosa non può che farci piacere.

I mezzi a disposizione fanno sì che il singolo produttore/utente possa decidere
se posizionarsi limitatamente al “locale” o produrre su scala “globale”; in base
a quanto da voi osservato, si può parlare in senso lato di un riappropriarsi
degli strumenti di produzione da parte di lavoratori e/o artigiani ?

In un certo senso sì, adesso il costo delle macchine non è più quello elevato di
qualche anno fa, da un lato si può rilevare il fenomeno di una sorta di
riappropriazione per quanto riguarda un piccolo lotto, dall’altro anche per la
produzione di massa, potendo contare su un mercato globale.

Si tratta di un settore, in cui probabilmente risulta particolarmente utile ed
interessante “far rete”; esiste questa possibilità sul territorio? Qual è il legame
(se ce n’è uno) che connette la specifica attività di cui vi occupate al vostro
territorio

(città,

regione,

etc.)

?

Siamo fermamente convinti che fare rete, non solo per i maker ma per l’intero
sistema, al giorno d’oggi sia fondamentale. Più di quanto lo sia sempre stato.
Nonostante questo, chi ha provato a mettere insieme realtà diverse per offrire un
servizio migliore ci ha sempre raccontato che sembra che molte persone abbiano
difficoltà a entrare in questo ordine di idee, forse perché ritengono il mercato
26
ancora troppo di nicchia o troppo piccolo per tutti quanti. Nel nostro piccolo
cerchiamo di partecipare alle varie conferenze di settore, spesso presentando dei
talk, per incontrare persone con le nostre stesse passioni, oppure collaboriamo per
la realizzazione di hackaton incentrati sul mondo fisico. E ci divertiamo come dei
matti!

22 agosto 2013

4.4. FabLab Palermo
Si è ritenuto opportuno presentare l’intervista sottoposta a Michele Pizzuto,
architetto e vice-fondatore di un FabLab appena nato, quello di Palermo, per
differenti ragioni.
In primo luogo, per completezza e correttezza, essendosi finora focalizzati su realtà
circoscritte all’area centro-settentrionale dell’Italia.
Inoltre, si ritiene importante esporre il caso di uno degli ultimi FabLab ad aver
aperto in Italia, che può dunque contare sulla collaborazione e l’esempio di valide
esperienze pregresse al livello nazionale.
Infine, interessa indagare il valore e la risonanza che può avere una simile struttura
in un contesto economico caratterizzato da una marcata debolezza per quanto
concerne attività innovative e ad alta tecnologia (5 sistemi locali del lavoro leader
nel settore dell’alta tecnologia al Sud, contro 16 nel Nord-Ovest, 11 al centro e 10
nel Nord-Est)29.
Come nasce l’idea di aprire un FabLab a Palermo ?

Nasce quando decido di aprire, con mia sorella, Spazio Trentasei ArchiArte,
sostanzialmente un’associazione culturale. Un amico poi, capendo che avevamo
sfiorato le dinamiche di un makerspace, ha avuto modo di spiegarci in cosa consiste
il movimento dei makers, quindi a giugno di quest’anno abbiamo aperto il FabLab,
che è legato ad uno studio di architettura e ad un’associazione culturale, ma è
sostanzialmente operativo da settembre.
Carlo Trigilia e Francesco Ramella, Imprese e territori dell’alta tecnologia in Italia, Il Mulino,
Rapporto di Artimino 2008, p. 46.
29

27
Vi appoggiate finanziariamente a qualcuno o siete indipendenti ? Una volta a
regime su che basi funzionerà il FabLab dal punto di vista economico ?

Abbiamo sottoscritto la FabLab Charter e depositato lo Statuto, siamo totalmente
autofinanziati, la struttura si appoggia ad uno studio di architettura preesistente, gli
spazi quindi li avevamo già.
Funzionerà come tutti i Fablab, con un tesseramento. Proporremo un tesseramento
annuale di 30 euro, per cui i tesserati avranno uno sconto del 10% su tutti i servizi,
del 25% se si tratta di studenti.

Di che macchine disponete/disporrete e che tipo di corsi pensate di offrire ? Il
target cui vi rivolgete è quello degli studenti o un altro, ad esempio
imprenditoriale/artigianale ?

Disponiamo di una Makerbot, in fase di promozione presso il FabLab, che ha
un’area di stampa 30x15x15, quindi il target è quello della protipazione, a
disposizione della classe artigiana e studentesca.
Anche se sicuramente il target privilegiato è quello degli studenti, a partire dal liceo
artistico, l’Accademia di Belle Arti, Architettura, etc., per quanto riguarda gli
artigiani non c’è ancora un corso adeguato, poiché li troviamo in linea di massima
abbastanza distanti da queste tecnologie.
Tuttavia col tempo, integrando le macchine e le frese che sono in arrivo, si pensa ad
una collaborazione con artigiani tradizionali, ma aperti all’utilizzo della tecnologia,
in particolare con dei contatti nel settore dell’ebanisteria e della sartoria.
La vera corsistica, che includerà fra l’altro un corso di robotica per bambini ed uno
su Arduino, partirà dopo la Maker Faire di Roma, cui parteciperemo per continuare
a farci conoscere, portando anche dei piccoli progetti, fra cui uno spider robot, fatto
da un laureando di Ingegneria Informatica di Catania.

Quanto conta, per quanto riguarda quanto finora avete potuto osservare, la
logica del far rete e della condivisione di conoscenza ?

28
È fondamentale, per aprire e far parte di un FabLab bisogna avere un certo modo di
pensare.
Abbiamo avuto modo di parlare con vari “protagonisti” del movimento in Italia,
come il FabLab di Firenze, ed ovunque abbiamo riscontrato disponibilità e
spiegazioni esaustive.
Abbiamo anche utilizzato community online, in cui abbiamo trovato appoggio ed
informazioni.
Sarebbe bene che in ogni città ci fosse un FabLab, in quest’ambito è importante far
rete, non farsi concorrenza.

Quanto conta aver aperto una struttura come un FabLab a Palermo ? È
possibile che, accompagnato a buone politiche, il progetto faccia da volano per
l’innovazione del territorio siciliano ?

Indubbiamente sì, da più di un anno mi ritrovo a dire in giro che se tu utilizzi la
filosofia che tutto ciò che è considerato crisi in Sicilia può invece essere
un’opportunità, nonostante la diffidenza di molti, ti rendi conto che c’è un humus
interessante, dei contesti virtuosi, delle potenzialità inesplorate.
Una struttura come un FabLab, paradossalmente, può essere maggiormente
trasformativa ed innovativa qui, dove il terreno è “vergine”, rispetto ad esempio a
Torino, o Milano, dove simili fenomeni hanno già riscontro favorevole, anche
semplicemente in termini di visibilità.

20 settembre 2013

4.5. Un profilo comune con prospettive eterogenee
Come si può agevolmente rilevare, la struttura dei FabLab s’inserisce in una
prospettiva prevalentemente educativa e strumentale, non perseguendo alcun fine di
massimizzazione del profitto, laddove effettivamente la concezione di profitto non
risulta minimamente esser presa in considerazione.
Una netta linea di demarcazione, quasi “fiera”, separa questo modello
“collaborativo

ed

orizzontale”

dal

modello

imprenditoriale

perseguito

dall’individuo che mira a stare a pieno titolo sul mercato.
29
Emerge una linea di pensiero aperta e flessibile, orientata alla condivisione di
conoscenze, ma che presuppone un impegno parziale ed amatoriale da parte dei
soggetti coinvolti: come Sullini dichiara nel corso dell’intervista concessa, si tratta
di dedicare una piccola percentuale del proprio tempo-macchina per fare dei lavori
di gruppo come un FabLab, una community.
D’altro canto Maietta ricorda che lui e Aliverti conducono parallelamente un lavoro
“vero”, e ciò spiega forse la ragione per la quale spesso simili strutture non si
occupino di un business plan o di rientrare in determinati parametri ed obiettivi,
essendo lo scopo delle associazioni da loro inaugurate di tipo radicalmente
differente.
Naturalmente un’opzione è quella di rifarsi a modelli di business alternativi, come
mostra l’esempio di Frankenstein Garage, che afferma di inspirarsi alla Lean
Sturtup di Eric Ries e al modello Canvas di Alexander Osterwalder, di cui
parleremo più avanti.
Resta salvo naturalmente il palpabile entusiasmo e l’atteggiamento aperto e
collaborativo verso la conoscenza diffusa ed il far rete, caratteristico di ogni
organizzazione con cui ci si è confrontati.
D’altronde il fatto che i membri abbiano un impiego al di fuori del contesto del
FabLab - anche se spesso ad esso affine - permette di creare dinamiche ed occasioni
di apprendimento interessanti, quali i workshop tenuti a titolo praticamente gratuito
anche in occasione della fiera dell’artigianato di Firenze cui abbiamo partecipato,
dato che l’Associazione persegue fini di promozione della Fabbricazione Digitale,
del Design condiviso, dell’Hardware e del Software Libero, dello Sviluppo
Sostenibile, a vantaggio degli associati (Statuto del FabLab di Firenze).
Modello interessante e sostenibile che, come abbiamo visto, si sta diffondendo a
macchia d’olio nel mondo, creando conoscenza ed educando ad un sistema di
knowledge sharing, ma che è lontano, per scelta, dalla dimensione d’impresa e di
mercato.
Si tratta semmai di un potenziale bacino cui l’impresa può guardare per assunzioni
che perseguano determinati target e valori.
Anche il neonato FabLab di Palermo, presenta una struttura divulgativa, che mira
ad essere autosostenibile, autofinanziandosi, e i cui quattro soci fondatori hanno
tutti un lavoro a tempo pieno.

30
Fatte salve le riserve dovute ad una struttura appena aperta, che non ha dunque
avuto ancora modo di mettere in pratica i propositi e le idee che si auspica di
portare avanti nel tempo, sembra di rilievo, soprattutto per l’analisi che condurremo
nel seguito, il progetto che prevede la collaborazione con quella fetta di artigiani
tradizionali, non restii all’idea di aprirsi all’utilizzo delle nuove tecnologie. Pizzuto
parla infatti di una collaborazione con artigiani ebanisti e sarti, in modo da poter
metter loro a disposizione gli strumenti digitali di cui sarà dotato il FabLab per
realizzare i propri prodotti.
Questa sorta di contaminazione fra tecnologia in generale, e digitale in particolare,
e dimensione artigianale sarà approfondita nei paragrafi che seguono, nella
convinzione che in un Paese costellato da piccole imprese e attività imperniate
sull’artigianato e sul saper fare, questa sia una deriva particolarmente ricca di
prospettive promettenti.
Elemento fondamentale è la struttura aperta, da diversi punti di vista: in senso
stretto, infatti, un FabLab è disponibile per chiunque si manifesti interessato alle
tecnologie e alle dinamiche che in esso hanno luogo, tanto da offrire spesso corsi di
differente taglio, a seconda della preparazione dei partecipanti, che possono dunque
essere anche principianti, o semplici curiosi, in base al principio postulato nella
FabLab Charter per il quale i FabLab devono funzionare come una “risorsa della
comunità”.
In senso ampio, appartiene alla comunità anche tutto ciò che si produce al loro
interno, essendo il frutto di un percorso che non è mai al 100% individuale, ma che
è nato a partire da strumenti di lavoro condivisi, e conoscenze e processi spesso
sorti dal confronto con altri, e che si suppone che possa essere reimmesso
all’interno del circuito dell’open access, in un ciclo di feedback positivo.
A conferma di ciò, nella FabLab Charter si legge che “Disegni e processi sviluppati
in un FabLab possono essere protetti e venduti in qualsiasi modo un inventore
decida, ma dovrebbero rimanere disponibili affinché i singoli possano usufruirne ed
imparare da essi”, e che inoltre “le attività commerciali possono essere prototipate
ed incubate in un FabLab, ma non devono confliggere con altri usi, dovrebbero
svilupparsi al di fuori piuttosto che all’interno del laboratorio, e ci si aspetta che
apportino benefici ad inventori, laboratori e reti che hanno contribuito al loro
successo”.
Altro elemento importante, legato al concetto che pensa il FabLab come una risorsa
31
della comunità, è quello di immaginare questa struttura come un mezzo per
apportare benefici di vario tipo, in aree particolarmente deboli dal punto di vista
socio-economico, argomento trattato specialmente nell’intervista al FabLab di
Palermo.
Sebbene possa apparire quantomeno utopistico parlare di un FabLab come di un
volano per l’innovazione e l’adeguamento tecnologico di un territorio, questo tipo
di struttura si trova in una posizione privilegiata, intersecando, come si è già
sottolineato in altri punti, diversi settori della società, dal supporto alle istituzioni
scolastiche ed universitarie, al farsi essa stessa erogatrice di servizi di formazione,
dal supporto ad artigiani aperti e volenterosi o a liberi professionisti, al farsi bacino
per potenziali assunzioni da parte di aziende, che cerchino, come ricorda nel corso
dell’intervista Sullini, “persone formate a processi creativi e semi-industrializzati”.
Di conseguenza, si può affermare che almeno tre ambiti possono trovarsi a
confluire nella struttura di un FabLab: la sfera dell’istruzione in senso stretto, il
dominio dei corsi di formazione, il settore della piccola e media impresa.
Resta dunque da attendersi che i risvolti dati dalla presenza di un FabLab in un
territorio, siano differenti tra loro, essendo ricalcati sulla dimensione locale e
dunque sulle domande e risorse che le sono annesse.
Tuttavia sembra immaginabile il rivelarsi di una struttura davvero trasformativa,
tanto da auspicarsi, come afferma Pizzuto, che un FabLab sia presente in ogni città,
specialmente laddove il terreno si presenta ancora “vergine”, e pertanto bisognoso
di simili strutture di raccordo.

5. La Terza Rivoluzione Industriale

Sembra opportuno, a questo punto, operare una digressione per indagare quali
possano essere considerati le origini e gli antenati del Movimento dei Makers, e
dunque anche degli odierni FabLab, al fine di poterne immaginare sviluppi e
politiche di accompagnamento.
Come si è accennato, si tratta di un fenomeno che un quotidiano con
l’autorevolezza di The Economist, non ha esitato a definire la “Terza Rivoluzione
Industriale”; partiremo da questo punto per riprendere il parallelo fatto da Chris
Anderson in Makers fra Prima, Seconda e cosiddetta Terza Rivoluzione Industriale,

32
cercando di capire cosa trasforma un’innovazione in una rivoluzione e cosa
distingue un simile cambiamento da una rivoluzione industriale.
È importante dunque precisare che l’espressione “rivoluzione industriale” fu
coniata da un diplomatico francese, Louis-Guillaume Otto, nel 1799, e resa poi nota
dallo storico dell’economia inglese Arnold Toynbee. Con essa si fa comunque
riferimento ad “un insieme di tecnologie che hanno enormemente aumentato la
produttività delle persone, cambiando tutto: dalla durata alla qualità della vita, dai
luoghi dove le persone vivono alla dimensione della popolazione”30. Anderson fa
coincidere l’avvio della Prima Rivoluzione Industriale con l’invenzione della
spinning jenny nel 1766 da parte di James Hargreaves, un tessitore del Lancashire,
una contea situata nel Nord-ovest dell’Inghilterra. Si trattava di “un dispositivo
azionato a pedale che consentiva a un singolo operatore di filare otto fili
contemporaneamente”31.
La spinning jenny, insieme ai successivi telai industriali e al motore a vapore,
lanciò infatti un’autentica rivoluzione industriale, sebbene l’invenzione della
macchina per filare risalisse agli Egizi ed alla Cina dell’anno Mille. Gli storici sono
concordi nel sostenere che ciò che rese realmente innovative le tre invenzioni
sopracitate, facendone scaturire una rivoluzione, fu un insieme di circostanze:

1. Per la prima volta, a differenza di seta, lana e canapa, si utilizzava il cotone, un
bene indifferenziato che poteva essere acquistato da chiunque, e ottenibile in modo
particolarmente agevole per l’Impero inglese per mezzo delle colonie in Egitto,
India ed Americhe.
2. Il meccanismo della spinning jenny, inoltre, in origine funzionante mediante
energia umana, era scalabile, si prestava cioè ad essere messo in moto da forze
motrici di maggior portata (acqua e vapore)32.
3. Era un meccanismo che arrivava con tempismo e nel luogo adatto, poiché intorno al
1700 l’Inghilterra era attraversata da “una serie di leggi sui brevetti e di politiche
che diedero agli artigiani la motivazione non solo per inventare, ma anche per
condividere le loro creazioni”33.

30

Chris Anderson, op. cit., p. 47.
Ibidem, p. 41.
32
Ibidem, p. 42.
33
Ibidem.
31

33
Altra invenzione che contribuì all’avvio della Rivoluzione Industriale, è il motore a
vapore, ideato nel 1776 da James Watt, che permise di meccanizzare ulteriormente
gli strumenti agricoli e di vendere i prodotti locali in tutto il mondo.
Anderson propone inoltre di distaccarsi, per quanto possibile, dall’immagine
codificata da William Blake delle fabbriche definite come “buie officine
demoniache”, osservando come l’industrializzazione produsse in realtà, attraverso
la fase intermedia costituita dalle cottage industries su base familiare, un forte
aumento della popolazione, del reddito pro-capite - tra il 1800 e il 2000, indicizzato
con l’inflazione, quest’ultimo è decuplicato - ed un notevole miglioramento nella
salute34 . Infatti, con il trasferimento di massa negli edifici urbani in mattoni, la
presenza di indumenti di cotone e saponi a basso costo, l’aumento del reddito da
lavoro, migliorarono sensibilmente l’igiene, la frequenza nelle malattie e la qualità
della vita, ovvero, a dire dell’autore, “qualsiasi effetto negativo derivante dal
lavorare nelle fabbriche venne più che compensato dagli effetti positivi del vivere
intorno a esse”35. L’avanzare delle tecnologie agricole permise di nutrire un numero
crescente di persone, impiegandone molte di meno nei campi, e rendendole dunque
disponibili per altre occupazioni: gran parte si riversarono nelle fabbriche,
aumentando la produzione di beni e incrementando in tal modo, come mai prima di
allora, il volume dei commerci. Quindi, i Paesi iniziarono a limitarsi a produrre ciò
che ottenevano con più facilità e a minor costo - e su cui detenevano dunque un
vantaggio competitivo - limitandosi ad importare il resto, e per questa via
aumentando ulteriormente la produttività. Ciò contribuì ad alimentare quel vortice
di cambiamenti, di cui si è detto sopra, che travolse la vita quotidiana delle persone,
ragion per cui si può, coerentemente con la definizione esposta all’inizio del
paragrafo, parlare di una Rivoluzione Industriale.

34
35

Cfr. ibidem, p. 45.
Ibidem.

34
Figura 7. Cottage industry. Fonte: http://kids.britannica.com

Per Seconda Rivoluzione Industriale, invece, s’intende quella fase che si estende
dal 1850 circa alla fine della Prima Guerra Mondiale, e che vede sorgere una serie
di innovazioni e cambiamenti: nel 1855 furono perforati i primi pozzi petroliferi
negli Stati Uniti, nel 1871 Antonio Meucci dimostrò il funzionamento del
“telettrofono”, nel 1878 Thomas Edison mise a punto la prima lampadina elettrica,
nel 1886 Daimler e Benz costruirono i primi motori a scoppio, nel 1895 i fratelli
Lumière il primo apparecchio cinematografico.
Nel campo della produzione, certamente rilevante fu l’introduzione da parte della
“Ford Motor Company” di Chicago, intorno al 1913, della catena di montaggio, che
si è soliti indicare come quella “linea di lavorazione industriale semovente che
sposta il materiale in fabbricazione alle successive stazioni di lavoro, dove operai
poco o non qualificati montano le parti componenti”36. Inoltre “la scomposizione
delle mansioni operaie in operazioni semplici doveva consentire la sostituzione di
manodopera qualificata con manodopera generica, la predeterminazione dei tempi
di lavorazione, la forte crescita della produttività”37, dando così avvio, in un breve
lasso di tempo, all’era dei consumi standardizzati e di massa.
36
37

http://www.pbmstoria.it/dizionari/storia_mod/c/c109.htm
Ibidem.

35
Figura 8. Catena di montaggio. Fonte: http://jdayhistory.weebly.com

Per molti, la Terza Rivoluzione Industriale inizia intorno agli anni Ottanta del
secolo scorso con la diffusione del personal computer, prosegue con i successi di
Internet e della telefonia mobile, fino alle crescenti innovazioni nel campo
dell’Information Technology, inducendo a parlare di questo periodo come dell’Era
dell’Informazione, poiché le comunicazioni e il computing sarebbero “forze
moltiplicatrici che fanno per i servizi ciò che l’automazione ha fatto per la
manifattura”38.
Per Jeremy Rifkin, economista ed autore nel 2011 di un testo intitolato non a caso
La Terza Rivoluzione Industriale, quest’ultima si raggiungerà collegando alcuni
importanti pilastri, fra cui l’utilizzo di energie rinnovabili è certamente uno dei più
rilevanti, che faranno in modo che l’attuale distribuzione energetica si basi sul
modello di Internet, distribuito e collaborativo, piuttosto che sull’attuale modello
centralizzato, permettendo così agli utenti di produrre energia “verde” direttamente
da casa39.
Per Neil Gershenfeld, la Rivoluzione Digitale rappresenterebbe una storia
incompleta, poiché, almeno sino a qualche anno fa, ha riguardato essenzialmente i
computer, che limitano l’informazione ad una superficie bidimensionale, e non le

38
39

Chris Anderson, op.cit., p.49.
http://download.repubblica.it/pdf/2007/terza_rivoluzione_industriale.pdf

36
persone dietro ai loro schermi: queste infatti, vivono in mondi tridimensionali, per
cui diventa necessario abbattere la barriera fra l’informazione digitale ed il mondo
fisico40.
Per Chris Anderson, in linea con questo pensiero, né l’invenzione del calcolo
digitale, né la connessione dei computer attraverso Internet possono essere in sé
riconosciute come rivoluzioni industriali. Infatti, nella misura in cui si tratta di
eventi trasformativi per la nostra cultura, riconosce a esse lo statuto di una
rivoluzione, non potendo però annettervi l’attributo di industriale, poiché si sta solo
di recente assistendo a quest’ultima. L’autore, difatti, non ha dubbi nell’identificare
la Terza Rivoluzione Industriale con “la combinazione della manifattura digitale e
di quella personale: l’industrializzazione del Movimento dei Makers”41, ovvero con
una trasformazione che ha effetti di democratizzazione ed ampliamento nella
produzione di beni materiali analoghi a quelli dei due mutamenti precedenti. Si
tratterebbe inoltre di una Rivoluzione i cui effetti non si sono limitati alla mole di
prodotti disponibili sul mercato, ma che ha allargato anche le maglie della classe
dei potenziali imprenditori. In definitiva, si può affermare che nonostante il
ricorrente parlare di weightless economy e in generale di un’economia dei bit che si
sovrappone sempre più ad una ingombrante economia degli atomi, viviamo ancora,
di fatto, in case, uffici, scuole e strade composte da atomi, per cui “qualsiasi cosa
possa trasformare il processo di produzione di beni fisici ha un potere enorme in
termini di influenza sull’economia globale. Si tratta della realizzazione di una vera
rivoluzione”42.

40

Cfr. Neil Gershenfeld, Quando le cose iniziano a pensare, Garzanti, 1999.
Chris Anderson, op.cit., p. 50.
42
Ibidem, p. 51.
41

37
Figura 9. Illustrazione di Brett Ryder. Fonte: http://fareimpresa.liquida.it

6. Da Manchester ad Obama: quali prospettive per i makers

Prima di dedicarsi alla situazione italiana, e dunque al sostrato distrettuale ed
artigianale su cui probabilmente la portata del Movimento andrà ad incidere in
misura maggiore, si ritiene opportuno, approfondendo quali politiche ed iniziative
potrebbero assecondare e metter meglio a frutto le conseguenze del fenomeno sul
territorio, presentare due casi, ovvero due modelli di comportamento da parte di due
differenti Paesi limitatamente al fenomeno dei makerspace.
Il primo caso prende le mosse dall’eredità lasciata nell’area su cui sorge la città di
Manchester dalla Prima Rivoluzione Industriale. La città infatti, alla fine
dell’Ottocento, era definita “Cottonopolis”, e si serviva di fiumi, torrenti e nascenti
ferrovie per rifornirsi di balle di cotone grezzo e poi esportarne i prodotti finiti. “A
metà dell’Ottocento Manchester era al suo apogeo […]. Era un lampo sul futuro: afferma Anderson - supply chain globale, vantaggio competitivo e automazione
rendevano una città fino ad allora sconosciuta il centro del commercio tessile
globale” 43 . Ciò rese la fabbrica di Manchester altamente competitiva, tanto da
diventare un modello per le altre, finché non iniziò a vendere, oltre ai tessuti, le
macchine che li avevano realizzati: a quel punto perse tale competitività ed iniziò il
43

Ibidem, p. 52.

38
lungo declino della città, durato per oltre un secolo e cui non erano mai seguite
riforme tali da invertirne il senso di marcia44. L’elemento che aiutò Manchester ad
uscire da una situazione di stallo durata oltre un secolo, fu un tragico evento: il 15
giugno 1996 esplose nel centro della città la più devastante bomba mai congegnata
in Gran Bretagna dall’IRA. L’avvenimento rappresentò una sorta di punto di svolta,
in quanto “dopo anni di declino e di strategie di conversione fallite, la ricostruzione
divenne un catalizzatore”45.
Oggi si tenta infatti di ripensare la città come hub digitale, ovvero in vista di una
serie di spazi dove abitare, lavorare, imparare, progettare e costruire, il tutto
accompagnato da aree ricche di negozi ed attraenti scenografie architettoniche.
Resta confinato ed apparentemente separato dalla rinascita della città, un quartiere
post-industriale, New Islington, dove si possono trovare dei fabbricati assimilabili a
vere e proprie rovine, che, essendo classificate come edifici storici, non si possono
abbattere, ma le spese per la ricostruzione dei quali, essendo la richiesta della
classificazione il mantenimento delle facciate originali, ne minano la fattibilità46. È
all’interno di quest’area dove il tempo sembra essersi fermato, che si erge un
edificio modermo, chiamato Chips, verosimilmente perché l’architetto avrebbe
collocato in pila delle patatine per studiarne la forma, pensato per essere uno di
quegli spazi moderni facenti parte di una hub: i piani superiori sarebbero stati ideati
per un condominio, quelli inferiori per ristoranti e negozi, e quelli nel mezzo per
uffici ed attività lavorative. Tuttavia lo scoppio della bolla immobiliare ha bloccato
simili progetti, ragion per cui i proprietari hanno deciso di offrirlo all’associazione
locale di industriali come sede per un laboratorio che si proietti nel futuro della
fabbricazione di beni: oggi è il primo FabLab sorto nel Regno Unito47.

44

Cfr. ibidem, pp. 53-54.
Ibidem, p. 54.
46
Cfr. ibidem, p. 55.
47
Cfr. ibidem, p. 56.
45

39
Figura 10. Chips di Manchester. Fonte: http://www.e-architect.co.uk

Benché la gran parte dei progetti sia realizzata da studenti e non sia ancora nata
alcuna startup, il direttore del laboratorio, Haydn Insley, interpreta il fenomeno in
termini di liberazione della creatività, affermando che a prevalere infine è la
progettazione, non la realizzazione in sé; insomma ciò che conta, con le parole di
Anderson, è che “sul Mersey le macchine hanno ripreso a girare”48. Un elemento
chiave però, e che fa la differenza rispetto al precedente sviluppo sulle rive del
Mersey, è che adesso l’innovazione ed i suoi strumenti sono alla portata di tutti: in
modo simile alla democratizzazione dei mezzi di produzione su Internet, quali ad
esempio il software o la musica, che “ha reso possibile creare un impero dalla
stanza di una residenza per studenti o un disco in una camera da letto, così i nuovi
strumenti democratici della manifattura digitale saranno le spinning jenny di
domani”49.
Si tratta dunque di pensare le possibilità offerte dai nuovi strumenti di produzione
digitale come uno stimolo ed un’opportunità per la creazione di un saper fare
diffuso, collaborativo e creativo, da cui poi nasceranno innovazione e crescita.
Inoltre, siamo senza dubbio di fronte al noto concetto di Glocal, ovvero di un
fenomeno che “opera per la tutela e la valorizzazione di identità, tradizioni e realtà
locali, pur all’interno dell’orizzonte della globalizzazione” 50 . Si tratta di una
48

Ibidem, p. 57.
Ibidem, p. 63.
50
http://www.grandidizionari.it
49

40
corrente profondamente connessa alla dimensione locale dello sviluppo, e che,
lungi da derive di stampo localistico, intende valorizzarne le risorse, a cominciare
da capitale umano e sociale. Un tema, questo, su cui sembra aver ben riflettuto
anche il Presidente degli Stati Uniti d’America, nella misura in cui, all’interno di
un’iniziativa chiamata “We can’t wait”, egli ha annunciato nell’agosto 2012 un
piano da un miliardo di dollari stanziati allo scopo di aprire altri quindici istituti nel
Paese destinati all’innovazione manifatturiera, che possano fungere da hub locali
per le eccellenze manifatturiere. Ad avviso di Barack Obama, non è infatti più
possibile procrastinare, mentre tiene ad aggiungere che il momento adeguato per
puntare su innovazione e produzione locale, per fare in modo che il futuro della
manifattura non si trovi in Cina o in India, è adesso51.

Figura 11. Galleria espositiva di oggetti ottenuti con le tecnologie della manifattura
additiva, presso il NAMII. Photo by NCDMM. Fonte: www.namii.org.

Lo scopo perseguito, infatti, è quello di dare nuova linfa alla manifattura americana,
poiché per dar vita ad un’economia costruita per durare, l’America ha bisogno di
produrre più di quanto il resto del mondo desideri acquistare. Altro obiettivo è
incoraggiare le imprese a investire negli Stati Uniti, il tutto attraverso un’iniziativa
che consisterà nel costruire un network fra le strutture aperte e che ha inizio con
51

Cfr. http://www.whitehouse.gov

41
l’inaugurazione di un istituto preposto all’innovazione nel settore manifatturiero,
nato a Youngstown, in Ohio, da una partnership di tipo pubblico-privato: il
“National Additive Manufacturing Innovation Institute” (NAMII)52.
L’iniziativa, oltre ad essere certamente degna di nota, coinvolge il nostro Paese più
di quanto ci si possa attendere, poiché ingloba un progetto che ha fatto sì che nel
gennaio del 2013 sorgesse a Pistoia, nella Biblioteca di San Giorgio, “YouLab”,
spazio finanziato dall’Ambasciata americana, “tanto che il taglio del nastro è
avvenuto subito dopo che l’ambasciatore David Thorne ha soffiato in un fischietto
appena prodotto da una stampante 3D fatta a Firenze, la Kentstrapper” 53, racconta
in un articolo il giornalista Riccardo Luna.
“YouLab”, pertanto, è un American Corner, ovvero fa parte di una serie di spazi,
distribuiti nel mondo, al cui interno l’Ambasciata statunitense, collaborando con
partner locali, promuove la conoscenza della cultura, della società e della storia
americana. Tuttavia, si tratta di un American Corner, però, sui generis, in quanto è
il primo al mondo a caratterizzarsi come un Digital Innovation Center 54 . Il
laboratorio, infatti, offre agli iscritti alla Biblioteca San Giorgio la possibilità di
usufruire degli strumenti digitali presenti e di prendere parte a conferenze e
laboratori inerenti alle tecnologie informatiche e alla creazione digitale, disponendo
di “computer, tablets, macchine fotografiche, telecamere, corredati da software e
altri complementi, testi sulle licenze digitali e sui Creative Commons, stampante
laser e anche una stampante 3D per la creazione di oggetti a partire da progetti
digitali”55. L’obiettivo è anche quello di condividere progetti e risultati in una rete
di apprendimento sociale, volta ad incrementare il coinvolgimento della comunità
locale e le collaborazioni fra quest’ultima e gli Stati Uniti56.
Sembra, dunque, che sul territorio italiano siano presenti alcune interessanti risorse
e prospettive, che forse il mondo politico nazionale fatica a mettere a fuoco, ma che
non sono per questo meno ricche di potenzialità ed elementi innovativi.
Certamente, la cosa non rappresenta un problema, nell’ottica di una dimensione
collaborativa ed orizzontale, per la quale ciò che conta è che infine si giunga, al
livello di singoli contributi nazionali, ad aggregare su base globale - o forse
52

Cfr. ibidem.
http://ricerca.repubblica.it
54
Cfr. http://www.sangiorgio.comune.pistoia.it
55
Ibidem.
56
Cfr. ibidem.
53

42
sarebbe meglio dire glocale - un dato avanzamento tecnologico e determinate
sperimentazioni nell’ottica di una manifattura sempre più digitalizzata e al servizio
dei bisogni individuali e collettivi.
Tuttavia, in ottica nazionale, sembra auspicabile, considerate non solo la ricchezza
e la storia della produzione manifatturiera, ma anche la crisi economica che
attualmente attraversa il Paese, prendere spunto da entrambe le esperienze
sopracitate. Da un lato, infatti, il caso di Manchester offre al nostro Paese l’esempio
di come sia possibile partire da un territorio in declino e particolarmente disagiato,
per gettare le basi di una ricostruzione non soltanto simbolica ma che, come tutti i
processi di rinnovamento particolarmente riusciti, prenda le mosse dal basso,
essendo pensata per supportare e accompagnare il percorso di crescita di studenti,
giovani e futuri ed odierni imprenditori. Dall’altro, il ritorno al made in USA che
possa contare su imprese innovative, da parte della politica statunitense, rappresenta
forse una duplice consapevolezza che non può che far riflettere in chiave nazionale.
In primo luogo, benché i dati parlino di un’economia smaterializzata che ha sempre
più il sopravvento sull’economia reale, l’iniziativa dimostra che la ricchezza e la
stabilità di un Paese si costruiscono attraverso il lavoro e il capitale umano che in
esso si riflette, insegnamento che forse l’America ha introiettato a sue spese; in
secondo luogo, si tratta di recuperare quel vantaggio competitivo nella manifattura
che Stati Uniti ed Europa sembrano aver definitivamente perduto nei confronti delle
cosiddette economie emergenti, caratterizzate da produzioni standardizzate a basso
costo.
Il tutto sembra richiamare l’idea di un ritorno a una produzione - Made in Usa,
Made in Italy, Made in Europe - che punti invece a criteri qualitativi ed ambientali:
concetto forse familiare e confacente al contesto nazionale, cui non starebbe altro
che cogliere la sfida. Si tratterebbe, come alcuni osservatori affermano da qualche
tempo, di puntare sulla tradizione artigianale e di piccola e media impresa che
caratterizza il Paese, per lanciare prodotti che non mirino tanto a far concorrenza
alla produzione di medio-bassa qualità ottenibile su altri mercati a minor costo, ma
che puntino a una qualità medio-alta, sfruttando anche, ove occorra, le potenzialità
offerte dalla nuova manifattura digitale. Un tema, questo, sul quale ci si soffermerà
più avanti.

43
7. Sfide: limiti e opportunità

Prima di occuparsi del carattere propriamente imprenditoriale del fenomeno in
Italia, e soprattutto dei suoi possibili sviluppi, sembra indispensabile tentare di
tracciarne brevemente un profilo dei limiti e, insieme, delle potenzialità.
Si tratterà, in definitiva, il tema della dimensione d’impresa più adeguata alle
caratteristiche produttive proprie degli strumenti della fabbricazione digitale, e
dunque della tipologia di beni che si adattano meglio alla porzione di mercato
ricavabile da un simile business. Si noterà così come le modalità produttive
pongano dei limiti intrinseci al sistema, che possono però agevolmente trasformarsi
in opportunità, se ci si focalizza su una nicchia di mercato ben definita.
Si proveranno ad immaginare, in seguito, possibili modelli innovativi di business,
facendo principalmente riferimento a startup e ad imprese che vogliano utilizzare
gli strumenti offerti dalla “Terza Rivoluzione Industriale” per ottenerne un’attività
economica sostenibile. Essere una startup innovativa, e in special modo utilizzare
degli strumenti i cui effetti sul mercato non sono ancora stati pienamente testati,
può certamente rappresentare un limite e un rischio, se non si fa riferimento a nuovi
modelli che ne supportino l’impatto e ne evitino il fallimento.
Infine, si parlerà anche dei nuovi metodi di finanziamento possibili per l’attività
imprenditoriale, che ben si sposano con le dinamiche che contraddistinguono il
fenomeno dei makers, e in generale della nuova imprenditoria. Si tratta del
crowdfunding, e in specie del sito Kickstarter, sistema di cui descriveremo
dinamiche e successi, in un’ottica che, sebbene non ne riconosca ciecamente le
prerogative, scorgendovi anche dei rischi, tende ad attribuire maggior peso alle
opportunità inesplorate che questo apre.

7.1. Trovare la propria dimensione: una scelta consapevole

Un primo aspetto da trattare è quello della dimensione del business, ovvero della
scala adeguata per la produzione, e del genere di beni da produrre per intercettare e
occupare stabilmente la propria nicchia nel mercato globale.
Per Anderson, si è di fronte alla scelta - quasi forzata per altro - di produzione
seguente: focalizzarsi su prodotti che non traggano necessariamente beneficio dalle
economie di scala, ma che puntino sulla personalizzazione e sulla complessità del
44
manufatto. Mentre per i piccoli lotti e per i prodotti considerati di nicchia, dunque,
il sistema digitale conserva certamente un vantaggio competitivo, per i grandi lotti
sembra ancora difficile realizzare i costi competitivi ottenibili con il sistema
analogico57. Le economie di scala, infatti, permettono di ridurre il costo unitario di
un prodotto con il crescere del volume di produzione e del suo impianto, e dunque
si adattano bene alla gran parte dei prodotti standardizzati di massa poiché si tratta
di beni fungibili, cioè di prodotti perfettamente interscambiabili con altri
appartenenti alla stessa categoria. Viceversa, se all’interno di tali economie
s’introduce anche una singola variazione per alcuni pezzi della produzione, il costo
di tale deviazione dalla produzione in serie standard diventa difficilmente
sostenibile.
Risulta dunque di agevole comprensione, a questo punto, comprendere perché
possa essere utile, per determinati prodotti, servirsi di strumenti quali la stampa
tridimensionale:

quest’ultima, infatti,

favorisce l’individualizzazione e la

customizzazione del prodotto, in quanto in questo caso “non c’è nessuna
penalizzazione finanziaria nel modificare una singola unità o nel fabbricare lotti
piccolissimi”58. A questo proposito, Chris Anderson propone un’interessante analisi
sulle possibilità offerte da un simile modo di produzione, aperto e rispondente ai
bisogni personali. L’autore parte dunque dall’analizzare come Internet, in generale,
abbia rivoluzionato non tanto la produzione, quanto la distribuzione dei beni fisici.
Con ciò, egli fa riferimento al fatto che con il modello delle produzioni di massa del
XX secolo, esistevano dei limiti ben definiti per ciò che fosse umanamente
acquistabile:

1. il bene doveva essere sufficientemente popolare da giustificarne la
fabbricazione;
2. doveva parimenti essere sufficientemente popolare da giustificarne la tenuta in
assortimento da parte dei rivenditori;
3. doveva essere così popolare da poter essere facilmente reperibile per il
consumatore59.

57

Cfr. Chris Anderson, op.cit, pp. 108-109.
Ibidem, pp. 107-108.
59
Cfr. ibidem, p. 79.
58

45
Propone in seguito l’esempio di Amazon, per dimostrare come il web abbia
sollevato in parte i venditori dal secondo e dal terzo vincolo, ed in generale per far
riflettere sul fatto che Internet ha fatto emergere una catena lunga di prodotti fisici
- l’Internet delle cose - in grado di competere con la coda lunga dei prodotti
digitali. Anche per quanto riguarda il primo limite, il web ha fatto sì che si
fabbricassero più prodotti di nicchia, potendo questi ultimi contare su una
domanda di mercato virtualmente globale60. Dunque, il passaggio a strumenti di
fabbricazione digitale, come la stampante 3D, costituirebbe per l’autore il passo
naturalmente

successivo

nella

personalizzazione

dei

prodotti

e

nella

riappropriazione della forza del singolo in mercati sempre più massificati e
spersonalizzati (e spersonalizzanti). Così come la Rete “ha fatto emergere una
coda lunga di domanda per i prodotti di nicchia; oggi gli strumenti democratizzati
di produzione stanno facendo emergere anche una coda lunga di offerta”61.
D’altro canto, già nel 1984, Michael Piore e Charles Sabel, due professori del MIT,
predissero una simile transizione nel noto testo Le due vie allo sviluppo industriale,
in cui sostenevano che la prima via industriale tra persone e produzione, ovvero il
modello della produzione di massa che aveva caratterizzato il XX secolo, non era
inevitabile e soprattutto non costituiva la fine dell’innovazione nella manifattura,
ma era al contrario pensabile l’emergere di una specializzazione maggiormente
flessibile62. In sintesi, tutti gli elementi che con la produzione tradizionale hanno un
costo elevato, con la fabbricazione digitale divengono a costo zero: varietà,
complessità e flessibilità, cioè la possibilità di modificare un prodotto dopo l’avvio
della produzione, divengono opzioni gratuite63.
Sembra essere fondamentale, dunque, al livello d’impresa, porsi delle domande e
saper operare scelte consapevoli concernenti il prodotto e i suoi potenziali fruitori,
che mirino in una certa misura a darsi dei limiti e a circoscrivere gli obiettivi che ci
si pone, al fine di trasformare i vincoli in vantaggi competitivi.

60

Cfr. ibidem, p. 80.
Ibidem, p. 82.
62
Cfr. ibidem, p. 85.
63
Cfr. ibidem, p. 109.
61

46
7.2. Nuovi modelli di business per un nuovo business

Per quanto riguarda i possibili modelli cui ispirarsi, per le imprese di maker del
futuro un sicuro punto di riferimento è il metodo della “Lean Startup”, introdotto
nel 2008 da Eric Ries.
Ries è un imprenditore della Silicon Valley che, basandosi sulla sua esperienza
personale d’impresa, propone un modello che si fonda su una struttura leggera che
mira ad evitare gli sprechi e i quasi sistematici fallimenti di tante startup. Uno dei
principi chiave, infatti, è quello dell’apprendimento consolidato, ovvero il fare
continui esperimenti, nello svolgimento dell’attività d’impresa, per verificare che si
stia andando nella direzione di un business sostenibile

64

. Altro principio

determinante è quello di Creazione, Misurazione e Apprendimento, per il quale una
startup sarebbe costituita da tre attività fondamentali: “trasformare idee in prodotti,
misurare le reazioni della clientela e capire se svoltare o perseverare” 65. Si tratta, in
generale, di un metodo che prevede di verificare l’effettivo interesse dei potenziali
utenti presentando una demo del prodotto, così da evitare di metterlo in produzione
qualora non dovesse ottenere l’interesse sperato: è un iter che ben si sposa con
nuove tecniche di finanziamento per le imprese, quali il crowdfunding attraverso
siti come Kickstarter, di cui si parlerà in seguito.
Ciò presuppone la modifica di eventuali funzionalità del prodotto sulla base dei
feedback ricevuti dalla clientela, discostandosi, ove appropriato, anche da quanto
indicato nel business plan 66 . Dei principi, dunque, che possono trovare vasta
applicazione in un ambiente che si muove attraverso processi d’apprendimento
orizzontali e collaborativi.
Per quanto riguarda i business model, come suggerito da Frankenstein Garage, un
grande catalizzatore d’attenzione è certamente il business model Canvas, uno
strumento strategico che sfrutta la logica del visual thinking, e che è stato presentato
da Alexander Osterwalder nel libro scritto con Yves Pigneur, Business Model
Generation67. Lo scopo è quello di rappresentare il modo in cui un’azienda crea,
distribuisce e cattura valore, per mezzo di un linguaggio universale comprensibile
per tutti, utilizzando un framework al cui interno si muovono i nove elementi
64

Cfr. Eric Ries, The lean startup, Crown Business 2011, p. XVII.
Ibidem.
66
Cfr. www.digitalmarketinglab.it
67
Alexander Osterwalder-Yves Pigneur, Business Model Generation, John Wiley & Sons Inc., 2010.
65

47
costitutivi di un’azienda, al fine di dar vita a nuovi business o rafforzarne di
esistenti68. Il modello di Canvas è dunque composto dai seguenti nove blocchi:
1. Segmenti di clientela, ovvero i differenti gruppi cui l’impresa si rivolge;
2. Valore offerto, ciò che l’impresa offre al cliente,
3. Canali di distribuzione e vendita, modalità attraverso cui l’impresa raggiunge la
propria clientela;
4. Relazioni con i clienti, cioè differenti modalità relazionali, che vanno
dall’assistenza personale alla co-creazione di contenuti e alle community online;
5. Flussi di ricavi, che possono ad esempio essere determinati da prezzi fissi
indicati su un listino, o da una gestione dei prezzi dinamica;
6. Risorse chiave, gli elementi essenziali al buon funzionamento del modello;
7. Attività chiave, quali la progettazione, la distribuzione o il problem solving;
8. Partnership chiave, che mirino ad ottimizzare il modello;
9. Struttura dei costi: una bassa struttura dei costi, ad esempio, può essere più o
meno importante69.
Si tratta di un modello di business innovativo ed “aperto” alla collaborazione ed
alla condivisione di idee in un gruppo di lavoro, pertanto particolarmente utile
laddove non ci siano esperienze di business prestabilite da utilizzare come modelli come nel caso di un’impresa che si avvalga della fabbricazione digitale - e sia
dunque utile partire da uno schema di base e di facile lettura che metta in evidenza
la direzione verso la quale si intende procedere. Anche in questo caso, dunque,
l’assenza di un modello di riferimento che si adatti perfettamente ad una realtà
ancora in via di definizione, finisce per trasformarsi in un’opportunità, nella
fattispecie fornendo la libertà, a chi si avvicini alla dimensione d’impresa
impiegando strumenti digitali, di appropriarsi del modello che più si confà al
progetto di business, fermi restando alcuni principi di massima, quali la chiarezza
del modello e la sua creazione a partire dall’esperienza fattuale e dal confronto e dal
dialogo fra i lavoratori stessi.

68
69

Cfr. www.businessmodelcanvas.it
Cfr. ibidem.

48
Figura 12. I nove blocchi del business model Canvas.
Fonte: www.businessmodelgeneration.com

7.3. Come finanziarsi: la risposta del crowdfunding

Per quanto concerne il finanziamento del business in senso stretto, merita infine
qualche

accenno

il

fenomeno

di

crescente

importanza

costituito

dal

“crowdfunding”, esemplificato da siti quali Kickstarter, mediante il quale i
potenziali clienti del prodotto proposto contribuiscono con il denaro sufficiente per
la sua realizzazione.
Il crowdfunding è una pratica resa nota al livello globale da Barack Obama, che la
utilizzò finanziando in tal modo parte della sua campagna elettorale del 2008; il
concetto è, infatti, quello di utilizzare una piattaforma web per chiedere a potenziali
investitori di finanziare un progetto in cui credono: un film, un prodotto
tecnologico, il programma e la figura di un personaggio politico. In linea di
massima, esistono due tipi generali di crowdfunding, ognuno dei quali presenta due
sottotipi:

1. il primo, detto donation crowdfunding, è assimilabile a una donazione, che può
avvenire secondo due modalità: il rewards crowdfunding, che prevede una

49
ricompensa per i finanziatori del progetto, e il charity crowdfunding, che non
prevede alcuna ricompensa e che è quello che può essere utilizzato in modo più
appropriato da organizzazioni o enti senza scopo di lucro, o da un partito politico70;
2. l’investment crowdfunding, che può ripartirsi come segue: si ha il lending
crowdfunding quando un insieme di persone presta denaro ad un individuo o ad
un’impresa con la reciproca intesa che il prestito verrà restituito insieme agli
interessi maturati, mentre si parla di equity crowdfunding, quando l’oggetto dello
scambio consiste nel capitale azionario di una società71, in cambio del quale gli
investitori finanzieranno un’idea di un imprenditore.
La forma di finanziamento su cui si focalizzerà l’attenzione in questa sede, è quella
del primo tipo, e nella fattispecie il rewards crowdfunding, che è il principio su cui
si basano i principali siti a ciò dedicati, come Kickstarter ed Eppela.
Su Kickstarter, infatti, è possibile leggere la descrizione e guardare la demo di un
numero molto elevato di progetti, cui poi, qualora si ritenga valido il prodotto e si
desideri acquistarlo, si può decidere di contribuire con una cifra che copra un valore
predeterminato dall’ideatore, allo scopo di aggiudicarsi il prodotto, una volta
realizzato, ad un prezzo inferiore a quello di vendita72. Il sito chiede al proponente
di fissare una somma minima da raccogliere e se entro un determinato periodo dalla
pubblicazione, in genere di quattro settimane, il progetto riceve una cifra di uguale
o maggior ammontare, il prodotto ottiene il finanziamento sufficiente per la messa
in produzione, i primi clienti ed utili consigli da questi ultimi mediante la modalità
aperta di intervento attraverso la community online. Infatti, secondo Anderson il
sito risolve agli imprenditori tre rilevanti problemi:

1. anticipa i ricavi nel momento in cui sono maggiormente necessari, ovvero
quando è necessario dedicarsi ad attività quali lo sviluppo di prodotto e l’acquisto
delle componenti;
2. trasforma la clientela in una community, poiché, in cambio della fiducia
concessa, l’ideatore s’impegna ad aggiornare gli utenti sui progressi fatti,
prendendo spunto anche da commenti e suggerimenti nei forum di discussione;

70

Cfr. http://www.crowdfundinsider.com
Ibidem.
72
Cfr. Chris Anderson, op.cit., p. 205.
71

50
3. fornisce una ricerca di mercato, in quanto un progetto che non raggiunge il target
dei finanziamenti, è verosimilmente un prodotto che avrebbe condotto al fallimento
una volta approdato sul mercato73.

Vi è ovviamente la possibilità che non si tratti di un campione statisticamente
significativo, tuttavia sembra che quest’ipotesi non trovi un vistoso riscontro nella
realtà dei fatti.
In definitiva, si tratta anche di un modo per far sì che chi desidera realmente un
prodotto abbia la certezza di ottenerlo, ad un costo ridotto, al solo “prezzo” di un
pagamento anticipato e di una consegna posticipata, rimuovendo per questa via
“una delle più grandi barriere all’innovazione promossa dalle piccole imprese: il
capitale d’investimento iniziale”74. Si assisterebbe inoltre secondo Anderson, alla
“forma definitiva di capitale sociale”, poiché si tratta spesso di un passaparola che
fa circolare e giungere la notizia di un progetto attraverso i canali più vari, e che
permette di ottenere l’attenzione dei soggetti maggiormente ricettivi attraverso la
conoscenza latente dei loro desideri da parte della loro cerchia di conoscenti; in
breve “la vera magia è costituita dai gradi di separazione messi in
comunicazione”75, permettendo al progetto di creare la propria domanda.
D’altro canto, il genere di progetti presentati sul sito è altamente eterogeneo,
spaziando dall’arte, alla tecnologia, al cibo: è interessante notare che la quota
maggiore di progetti finanziati si ritrova nel settore della musica (28,6%) e della
filmografia (27,1%). Infatti, dal 28 aprile del 2009, data in cui è stato lanciato il
sito, all’aprile del 2012, cinquantamila progetti sono stati finanziati su Kickstarter,
più di ventiseimila dei quali hanno avuto successo.

73

Cfr. ibidem, p. 206.
Ibidem, p. 207.
75
Ibidem.
74

51
Figura 13. Categorie di progetti finanziati su Kickstarter. Fonte: www.kickstarter.com

Quando abbiamo chiesto a Stefano Micelli in quale momento, a suo avviso,
avvenga il passaggio dalla dimensione pedagogica e culturale del knowledge
sharing, o più semplicemente del bricolage e dell’hobbismo, a quella
imprenditoriale e di mercato, egli ha risolutamente affermato: “Secondo me, è il
momento in cui un ‘maker’ presenta il suo prodotto su Kickstarter. Chi vede che il
prodotto va, si butta, una volta c’erano le fiere per questo, ma con Kickstarter
funziona ancora meglio”. Esiste senz’altro il rischio che qualche acuto osservatore
possa copiare le idee più valide, ma, come Micelli ci risponde, la probabilità che ciò
accada non offusca minimamente gli indiscutibili vantaggi che il mezzo in sé offre.
È importante ricordare che dal 27 luglio 2013 è entrato ufficialmente in vigore il
regolamento della Consob per il crowdfunding, che riconosce anche alle startup
italiane la possibilità di raccogliere capitali mediante portali online: si dimostra in
questo caso capacità d’iniziativa e lungimiranza nel riconoscere il valore che
l’innovazione riveste nell’equilibrio economico complessivo, trattandosi, nel nostro
caso, del primo Paese europeo ad aver approvato un pacchetto di regole per

52
disciplinare il fenomeno76.
In Makers, Chris Anderson giunge a proporre un interessante parallelismo: come la
democratizzazione degli strumenti di produzione ha creato una nuova categoria di
produttori, così i nuovi strumenti di raccolta dei capitali avrebbero dato vita ad una
nuova categoria di investitori, che investirebbero quindi nell’“idea di un prodotto”:
il crowdfunding rappresenterebbe dunque una sorta di “venture capital per il
Movimento dei Makers” 77 , che estende la categoria dei finanziatori all’intera
popolazione.

8. Verso un futuro artigiano?
In questo capitolo, s’indagherà quanto il fenomeno dei makers abbia trovato
riscontro al livello di impresa nel contesto del nostro Paese, cercando di
comprendere di quali potenzialità quest’ultimo disponga, e da quali radici
provengano.
In prima battuta, si tenterà di fornire un profilo della figura dell’artigiano, nel senso
ampio e tradizionale del termine, che permetta di introdurre alla presentazione del
fenomeno in Italia e dei risvolti presentati dallo stesso e che potrebbero travolgere il
settore, nell’ottica di una sua commistione con la dimensione tecnologica e digitale.
Si presenteranno a tale scopo esempi di lavoratori appartenenti al mondo
dell’artigianato, che costituiscono dei casi d’eccellenza in termini d’innovazione nel
loro campo, e che pertanto, seguendo la definizione estensiva di Anderson proposta
in sede d’introduzione, appartengono alla categoria di “makers”.
Si approfondirà il tema delle imprese che utilizzano strumenti di fabbricazione
digitale e che sfruttano elementi innovativi nella progettazione del prodotto, e si
cercherà di comprendere quali conseguenze sociali comporti questa “esplosione” di
creatività in un Paese che ha ottenuto dall’inventiva e dalla cultura del “fatto a
mano” innumerevoli riconoscimenti, ed in cui determinate dinamiche di produzione
collaborative e caratterizzate da una cura “artigianale”, non costituiscono di certo
una novità.

76
77

Cfr. http://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza
Chris Anderson, op.cit., p. 213.

53
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Campus lacamilla - Makers - Analisi sociologica di un fenomeno emergente

  • 1. Makers. Analisi sociologica di un fenomeno emergente Di Francesca Santangelo 1
  • 2. Indice 1. Chi sono i makers …………………………………………………….………. 3 2. Dal personal computer al personal fabricator: cos’è un FabLab ….................. 5 2.1. The Fab Charter ………………………….…………………...………….. 8 3. La dimensione globale del fenomeno ………………………..………....…... 10 4. Un fenomeno recente: i FabLab in Italia ……………….…………………... 13 4.1. FabLab Torino ….…………………………………………….…..…. 13 4.2. FabLab Firenze ……………………………………........................... 18 4.3. Frankeinstein Garage e l’elettronica della sciura Maria ………….... 23 4.4. FabLab Palermo …………………………………………………….. 26 4.5. Un profilo comune con prospettive eterogenee …………….………. 29 5. La Terza Rivoluzione Industriale …………………………….……….……. 32 6. Da Manchester ad Obama: quali prospettive per i maker ………………..… 37 7. Sfide: limiti e opportunità ………………………………………………...... 43 7.1. Trovare la propria dimensione: una scelta consapevole ………………... 43 7.2. Nuovi modelli di business per un nuovo business ………………..……. 46 7.3. Come finanziarsi: la risposta del crowdfunding ……………………...… 48 8. Verso un futuro artigiano? Un focus sull’Italia ………………………….…. 52 8.1. L’artigiano: il valore di un immaginario ……………………….………. 53 8.2. Dal laboratorio artigiano all’alta tecnologia ………………….……….... 57 8.3. Il Bel Paese fra tradizione e innovazione: un nuovo made in Italy? ….... 62 8.4. Una fabbrica di successo ……………………………...……………….. 66 8.5. Il futuro: artigiano e digitale …………………………………………… 68 8.5.1. Quando il maker si fa impresa ………………………..…...…. 70 2
  • 3. 8.5.2. Differenze e considerazioni …………..……………………… 74 9. Proposte per una formazione artigiana …………………………………….. 77 9.1. In cerca di nuove competenze ……………………………………... 78 9.2. Ripartire dalle scuole: approccio creativo e digitalizzazione …….... 81 9.2.1. Ripensare un modello d’apprendimento ……………………... 81 9.2.2. Digitalizzazione e istruzione dal basso .................................... 84 9.3. La stampa 3D: una nuova frontiera dell’insegnamento …………... 86 9.4. Del perché la Terza Rivoluzione Industriale è un affar di Stato….. 92 10. Considerazioni conclusive ………………………………………….……... 96 Bibliografia ……………………………………………………......….. 100 Sitografia ………………………………………………….………..… 102 3
  • 4. 1. Chi sono i makers? “La trasformazione più grande non riguarda il modo in cui le cose vengono fatte, ma chi le fa”1. Con questa frase Chris Anderson, giornalista ed ex direttore di “Wired Usa”, definisce la nuova rivoluzione digitale in atto. Risulta infatti appropriato, in questa sede, sottolineare l’elemento specifico che, al di là del dato tecnologico, rende il tema di cui ci accingiamo a discutere fortemente innovativo, ovvero lo slittamento da una produzione possibile esclusivamente attraverso economie di scala e grandi fabbriche, ad una gestibile autonomamente dal singolo individuo. Un esito che costituirebbe una sorta di riappropriazione degli strumenti di produzione da parte del singolo cittadino, e che dunque l’autore sopracitato non esita a definire “la nuova rivoluzione industriale”, mentre The Economist parlerà nello specifico della “Terza Rivoluzione Industriale”. Si tratta di un Movimento prevalentemente socio-economico e culturale, di cui si è soliti segnare l’inizio con il lancio della rivista Make nel 2005. Anderson parla di un Movimento caratterizzato da tre elementi precipui e trasformativi: si tratta di persone che utilizzano strumenti digitali desktop per creare prototipi e prodotti, muovendosi in un orizzonte culturale che prevede la condivisione dei progetti per mezzo di community online e la possibilità, in ultimo, d’inviare i progetti ai service di produzione commerciale per fabbricarli in maggior quantità, riducendo per questa via il percorso dall’idea all’imprenditorialità e facendo sì che la distinzione fra imprenditore e appassionato sia ridotta ad un’opzione del software2. Si tratta dunque di una manifattura che permette di creare a qualsiasi scala, non più soltanto su scala industriale, e che anzi guarda con particolare interesse a customizzazione e produzione in piccoli lotti. Interessante la definizione adottata da Jason Kootke, blogger e web designer, che parla in proposito di “small batch” - lotto minimo - espressione in genere riferita al bourbon, che implica quella cura artigianale che caratterizza tutte quelle imprese che 1 2 Chris Anderson, Makers. Il ritorno dei produttori, Rizzoli, 2013, p. 22. Cfr. ibidem, p. 26. 4
  • 5. mirano a mettere l’accento sulla qualità dei prodotti piuttosto che sulla dimensione di mercato. Per Stefano Micelli, docente presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia di Economia e Gestione delle Imprese, i cosiddetti makers sarebbero dei creativi caratterizzati da uno stile di vita più aperto alla diversità ed in ultima analisi coloro che lavorano con le proprie mani e che fanno le cose.3 L’origine del termine risale ad un romanzo, Makers, scritto da Cory Doctorow nel 2009, in cui, in una delle frasi più profetiche, si afferma: “Il futuro non sarà delle General Motors, delle General Electric, delle General Mills, ma di nuove aziende chiamate Local Motors, Local Electric, Local Mills” 4 , ovvero, secondo Riccardo Luna, giornalista e primo direttore dell’edizione italiana di “Wired”, di startup che uniscono la cultura digitale con la produzione di oggetti reali, in una parola, di startup di makers. Parimenti rilevante, soprattutto per la storica realtà italiana, ed in special modo distrettuale, il fenomeno rappresentato dai veri e propri artigiani digitali, i crafters, ovvero coloro che si servono di alcuni strumenti digitali, come laser e stampanti 3D, per creare i propri oggetti, tanto che per Luna si può agevolmente parlare di un “grande ritorno del fatto a mano”, basato sul tentativo di fare emergere una nuova economia dal basso: passare dai negozi alle reti, dai consumatori alle comunità di interessi, dai prodotti alle storie5. Nel lavoro che segue ci si concentrerà su quali siano gli utensili principali di lavoro dei suddetti makers, sul seguito ed i potenziali di un simile movimento, focalizzando l’indagine in particolare sull’Italia, basandoci anche su interviste svolte sul territorio, e sulle tipologie di prodotti che sono e che potrebbero potenzialmente essere avvantaggiate da tale modo di produzione. Ci si soffermerà inoltre sulle possibilità offerte dal fenomeno in chiave nazionale, considerata la propensione artigianale e distrettuale di gran parte delle attività locali e sui volti al momento presenti nel nostro Paese che rispondono propriamente al ruolo di maker o crafter, sia in ambito educativo e sperimentale, per quanto riguarda specialmente il fenomeno dei FabLab, sia in ambito più strettamente 3 Cfr. Stefano Micelli, Futuro artigiano, i Grilli Marsilio, 2011, p. 16. Riccardo Luna, Cambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori, Editori Laterza, 2013, p. 38. 5 Ibidem, p. 46. 4 5
  • 6. imprenditoriale, osservando come quella di maker nel nostro Paese sia spesso una figura che incrocia molteplici percorsi e profili. Tuttavia, ed è questo l’elemento che permette al fenomeno oggetto del nostro studio di presentarsi come radicalmente rivoluzionario per l’attuale assetto sociale, “we are born makers. We don’t just live, but we make. We create things”, come afferma Dale Dougherty, editore e pubblicista della rivista Make, nonché inventore della termine “web 2.0”6; come si vedrà, dunque, il fenomeno si presenta in forma fluida, e non esiste, in senso stretto, un profilo che racchiuda in sé tutte le caratteristiche che determinano l’essere maker in quanto tale. Sulla stessa linea di pensiero, Chris Anderson riflette: “Se amate cucinare, siete dei makers in cucina e il forno è il vostro banco di lavoro. Se amate le piante, siete makers in giardino. Lavoro ai ferri, decoupage, ricamo: siamo tutti makers”7. Nel corso della presente trattazione si farà riferimento ad esperienze professionali e concetti afferenti a campi e discipline apparentemente molto diversi fra loro, dando luogo ad una raccolta di casi e studi eterogenea, ma il cui collante e filo conduttore risulta essere l’idea stessa di creatività e la dimensione del fare nelle loro molteplici interazioni con l’ambiente lavorativo. Scrive infatti lo studioso ungherese Mihaly Csikszentmihalyi: “La creatività è un processo durante il quale un ambito simbolico della cultura è modificato. Nuove canzoni, nuove idee, nuove macchine sono ciò di cui è fatta la creatività”8. Si tenterà dunque d’indagare quali conseguenze sociali, politiche ed economiche si possano determinare quando nuove idee, nuove macchine e forse anche nuovi mestieri, creano nuova conoscenza e rinnovate comunità del fare. 2. Dal personal computer al personal fabricator: cos’è un FabLab Nel suo libro dedicato all’argomento - Fab. Dal personal computer al personal fabricator - Neil Gershenfeld, docente del Massachusetts Institute of Technology e Direttore del relativo “Center for Bits and Atoms”, nonché ideatore del primo FabLab, propone un interessante accostamento fra il passaggio dal mainframe computer (il predecessore dell’odierno computer, il cui utilizzo era essenzialmente 6 7 8 http://www.ted.com/talks/lang/it/dale_dougherty_we_are_makers.html Chris Anderson, op. cit., p. 15. Cito da David Gauntlett, La società dei Makers, 2013, i Grilli Marsilio, p. 30. 6
  • 7. limitato ad università, grandi aziende e centri di ricerca) al personal computer e al momento in cui le potenzialità delle macchine utensili per la fabbricazione diventeranno usufruibili dal singolo attraverso il personal fabricator. Gershenfeld, da sempre interessato alla dimensione interdisciplinare di informatica e fisica, ritiene però che questa volta “le implicazioni saranno probabilmente ancora più grandi, poiché ciò che viene personalizzato è il nostro mondo fisico di atomi, piuttosto che il digitale mondo di bit dei computer”9. Questa consapevolezza, proviene all’autore dall’entusiasmo raccolto fra studenti - e non – nell’inaugurare nel 1998 il suo corso tenuto al MIT ed intitolato How to make (almost) anything, corso di introduzione all’utilizzo degli strumenti di fabbricazione digitale, che avrebbe dovuto rivolgersi ad un ristretto gruppo di studenti degli ultimi anni. “Immaginate la nostra sorpresa allora - racconta il docente - quando circa un centinaio di studenti si sono presentati. Erano tanto artisti e architetti quanto ingegneri”; aggiungendo poi che la seconda sorpresa era che quegli studenti non si trovavano lì per le proprie ricerche o per motivi accademici, ma semplicemente poiché volevano costruire oggetti che avevano sempre desiderato, ma che non esistevano (non ancora, almeno), e che dunque “la loro motivazione era il puro piacere personale di creare ed utilizzare le proprie invenzioni”10. Un elemento oltremodo interessante ed innovativo risiede nello stesso processo di apprendimento sperimentato: quest’ultimo era condotto dalla domanda di conoscenza, piuttosto che dalla sua offerta, “una volta acquisita una nuova capacità, gli studenti erano colti da un interesse quasi evangelico di mostrare agli altri come usarla; quando avevano bisogno di nuove competenze per i loro progetti, le imparavano direttamente dai propri compagni, dopodiché passavano tali conoscenze ad altri ancora”11. L’autore parla in proposito di un modello educativo just in time, contrapposto al tradizionale just in case, ovvero un processo che implica una sorta di “insegnamento a richiesta”, piuttosto che occuparsi di portare a compimento “un programma precedentemente pianificato che si spera includa qualcosa che poi tornerà utile”12. In evidenza dunque quel caratteristico modo di lavorare nel settore della progettazione e fabbricazione digitale, che si può riscontrare attraverso le interviste Neil Gershenfeld, Fab. Dal personal computer al personal fabricator”, Codice, 2005, p. 5. Ibidem, pp. 7-8. 11 Ibidem, p. 9. 12 Ibidem. 9 10 7
  • 8. ad alcuni FabLab presenti sul territorio italiano al termine di questo paragrafo, caratterizzato dal metodo del knowledge sharing, un sistema volto al miglioramento dell’efficienza di un’organizzazione attraverso la condivisione e la valorizzazione del capitale intellettuale. Si riscontra ugualmente una simile tensione nelle reti di makers, basate essenzialmente su community online, il cui obiettivo è condividere esperienze e conoscenze, innestandosi su modalità aperte di creazione di informazione, poiché “nelle comunità di innovazione aperta, i partecipanti si autoselezionano; ad attirarli sono progetti interessanti e gente ingegnosa, e quando il lavoro viene svolto pubblicamente, hanno la possibilità di trovarlo”13. Nasce così l’idea di Gershenfeld di creare dei FabLab, per esplorare le implicazioni e gli sviluppi della fabbricazione digitale nel mondo. Si tratta di laboratori per la fabbricazione, o semplicemente di laboratori “favolosi”, a seconda di come lo si voglia interpretare, come afferma l’autore (“fab” in inglese è la forma abbreviata di “fabulous”), costituiti da un insieme di macchine e strumenti organizzati da procedure e software sviluppati per costruire. È importante sottolineare che non si tratterebbe di un’organizzazione statica, poiché l’intenzione è quella di rimpiazzare parti del FabLab con parti costruite al suo interno, finché il laboratorio stesso non giunga ad autoriprodursi14. In seguito, nel 2002, il “Center of Bits and Atoms” approva l’ampliamento del progetto iniziato con il corso presso il MIT, inaugurando un laboratorio grazie ad uno stanziamento di fondi da parte della “National Science Foundation”. Nasce così, con un investimento di cinquantamila mila dollari di attrezzature e ventimila mila di materiali, il primo FabLab della storia, presso il “South End Technology Center” di Boston, successivamente spostatosi in India, Costa Rica, Norvegia e Ghana. Il secondo Fablab nasce infatti a Sekondi-Takoradi, in Ghana e nel giro di qualche anno il fenomeno è riscontrabile in diverse parti del mondo: oggi esistono 261 FabLab propriamente detti, ovvero laboratori per la fabbricazione digitale che hanno sottoscritto le linee-guida espresse nel manifesto del “Center for Bits and Atoms”, di cui si riporta l’originale FabLab Charter in basso. 13 14 Chris Anderson, op. cit., p. 180. Cfr. Neil Gershenfeld, op. cit., p. 14. 8
  • 9. 2.1 The Fab Charter What is a fab lab ? Fab labs are a global network of local labs, enabling invention by providing access to tools for digital fabrication What's in a fab lab ? Fab labs share an evolving inventory of core capabilities to make (almost) anything, allowing people and projects to be shared What does the fab lab network provide ? Operational, educational, technical, financial, and logistical assistance beyond what's available within one lab Who can use a fab lab ? Fab labs are available as a community resource, offering open access for individuals as well as scheduled access for programs What are your responsibilities ? safety: not hurting people or machines operations: assisting with cleaning, maintaining, and improving the lab knowledge: contributing to documentation and instruction Who owns fab lab inventions ? Designs and processes developed in fab labs can be protected and sold however an inventor chooses, but should remain available for individuals to use and learn from 9
  • 10. How can businesses use a fab lab ? Commercial activities can be prototyped and incubated in a fab lab, but they must not conflict with other uses, they should grow beyond rather than within the lab, and they are expected to benefit the inventors, labs, and networks that contribute to their success draft: October 20, 2012 Si può dunque parlare, per quanto riguarda la costituzione di un FabLab, di quattro elementi essenziali: 1. Democratizzazione dell’accesso alle tecnologie presenti all’interno di un FabLab; a questo scopo il laboratorio deve garantire a chiunque si dimostri interessato, la possibilità di usufruire di open day gratuiti. 2. Sottoscrizione della FabLab Charter, di cui si deve trovare copia sia all’interno della struttura sia sul relativo sito Web. 3. Condivisione, all’interno della rete dei FabLab delle pratiche di utilizzo delle macchine e dei processi produttivi, scelta che concerne in primo luogo software e hardware open source. 4. Più in generale, condivisione costante e globale di saperi, processi, design, prototipi all’interno della rete dei partecipanti ad ogni FabLab esistente15. Si ricorda, fra l’altro, che alcuni FabLab partecipano a FabAcademy, un corso a distanza tenuto da Gershenfeld, che ne è infatti il direttore, della durata di cinque mesi. Infine, è importante sottolineare che un FabLab è in genere anche un Makerspace, ovvero uno spazio in cui potersi riunire per imparare, aiutandosi a vicenda, e per sviluppare delle idee che poi possono incentivare la creazione di nuovi prodotti e piccole aziende. Un caso esemplare è NYC Resistor, il Makerspace di New York, che ha dato vita all’azienda Makerbot, fondata nel 2009 da Bre Pettis, Zac Smith ed il loro team di ingegneri informatici in un ex birrificio, e volta alla produzione di stampanti 3D a basso costo (circa mille dollari) e open-source, grazie 15 http://www.makerfairerome.eu/2013/05/16/cose-un-fablab/ 10
  • 11. anche, nel 2011, a finanziamenti da parte di società di venture-capital per un ammontare di oltre dieci milioni di dollari16. Ricordiamo, per completezza, che l’intero pacchetto azionario di Makerbot Industries sarà nel 2013 acquistato da Stratasys, che, insieme a 3D Systems, è ad oggi uno dei giganti del settore. Anderson, non a caso, definirà i FabLab un genere speciale di makerspace, in genere focalizzati sulla prototipazione su piccola scala17. 3. La dimensione globale del fenomeno Tenendo presente la dimensione globale del fenomeno, è possibile presentare alcuni esempi dell’utilizzo di simili tecnologie nelle suddette aree: in India occidentale, nel villaggio di Pabal, il laboratorio è stato utilizzato per sviluppare dispositivi per monitorare la sicurezza del latte e l’efficienza delle macchine agricole, in Ghana sono state create macchine alimentate dalla luce solare. Al TED (Technology Entertainment Design) del 2006, conferenza annuale di Monterey, Neil Gershenfeld racconta la storia di Valentina Kofi, una bambina ghanese di otto anni che insistette per rimanere nel FabLab fino a tarda notte, per costruire un circuito a strati multipli, “imparando a mettere i componenti ed a programmarlo. Non sapeva bene cosa stava facendo o perché, ma sapeva che doveva farlo. C’era qualcosa di elettrico nell’aria. Ancora una volta è stato solo per la gioia di farlo”18. Si tratta, per l’autore, di spostare l’accento dal “digital divide” fra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo all’ancor più rilevante divario nell’accesso agli strumenti per la fabbricazione, ovvero di sostituire al trasferimento di tecnologia dell’informazione in senso stretto alle masse, la condivisione di strumenti per lo sviluppo di tecnologia dell’informazione19. Egli osserva, infatti, che i computer da tavolo (desktop computer) sono poco utili laddove spesso non ci sono tavoli, ed è dunque preferibile apportare i mezzi di cui sopra, al fine di “sviluppare e produrre soluzioni tecnologiche locali a problemi locali”, poiché “invece che costruire 16 http://www.chefuturo.it Cfr. Chris Anderson, op. cit., pp. 56-57. 18 http://www.ted.com/talks/neil_gershenfeld_on_fab_labs.html 19 Cfr. Neil Gershenfeld, op. cit., p. 15-16. 17 11
  • 12. bombe migliori, la tecnologia emergente può aiutare a costruire comunità migliori”20. In un passaggio essenziale ad avviso di chi scrive, Gershenfeld osserva come sinora gli strumenti di fabbricazione digitale siano stati utilizzati per lo più all’interno di industrie per ottenere prototipi di prodotti, in modo da coglierne gli errori prima che questi diventino molto più onerosi da correggere, ovvero in fase di produzione. Tuttavia lo scopo precipuo di tali strumenti sembra esser volto alla fabbricazione personale, immaginando un mercato composto da una sola persona, ed in cui dunque il prototipo è il prodotto stesso, in un mondo in cui il più grande ostacolo nel realizzare ciò risiede nella mancanza di consapevolezza che questo sia possibile21. È importante a questo punto fornire qualche esempio concreto di ciò a cui l’autore si riferisce quando parla di un mercato formato da una sola persona, ovvero illustrare alcuni dei prodotti fabbricati dai partecipanti del corso volto a insegnare Come fare (quasi) qualsiasi cosa. Il primo prodotto è stato pensato e realizzato da un’artista, Kelly Dobson, concentrata sulla sua personale necessità di urlare in momenti non appropriati, come ad esempio in pubblico, ragion per cui ha ideato lo ScreamBody di Kelly, un contenitore da indossare in cui è possibile urlare senza lasciar trapelare all’esterno alcunché, salvo poi poter riprodurne il contenuto, quando se ne ha la possibilità. Il tutto è stato ottenuto progettando un circuito per salvare le urla, inserendolo in una scheda di circuito, sviluppando sensori che permettessero di interagire con l’oggetto. Che il prodotto in sé possa poi suscitare il riso, l’ammirazione, o - perché no - il desiderio di averne uno, poco importa: Kelly ha progettato il prodotto per un solo consumatore finale, se stessa. Detto altrimenti, non lo ha fatto per riempire una nicchia di mercato, o per rispondere alla domanda di qualche utente, ma solo perché ne desiderava uno, basandosi sulla considerazione che i prodotti presenti sui mercati di massa difficilmente soddisfano fino in fondo i bisogni individuali, resi fra l’altro sempre più complessi dalla società dei consumi; d’altro canto “un vero dispositivo personale di informatica è per definizione personalmente progettato”22. 20 Ibidem, p. 16. Cfr. ibidem, p. 19. 22 Ibidem, p. 23. 21 12
  • 13. Un altro progetto interessante è quello di una professoressa del Dipartimento di Architettura di Boston, Meejin Yoon, che, negativamente impressionata dai modi in cui la tecnologia si introduce nel nostro spazio personale, voleva invece trovare un modo che lo protegesse. Nasce così il Defensible Dress, un vestito le cui frange sono fili rigidi controllati da sensori di prossimità: quando qualcuno si avvicina ad una distanza stabilita dalla persona che lo indossa, i fili metallici spuntano fuori a circoscriverne lo spazio personale, ispirandosi al comportamento del porcospino o del pesce palla23. In un mondo teso a moltiplicare i generi e l’intensità della comunicazione e dell’interazione interpersonale, nessuno sul mercato aveva immaginato che qualcuno desiderasse difendersene: forse il vestito conserva un valore simbolico e provocatorio, forse l’autrice lo indosserà davvero, quel che conta è che niente di simile era stato sinora realizzato, lasciando inevitabilmente l’utente/consumatrice Meejin insoddisfatta, e adesso c’è. Illustriamo infine, il progetto di una biologa, Shelly Levy-Tzedek, che ha ideato una sveglia per chi ha difficoltà a svegliarsi, che non permette di essere spenta facilmente con un bottone o rinviando l’allarme, ma con cui è necessario “lottare”, nel senso letterale del termine, afferrandone le protuberanze nell’ordine in cui si illuminano, processo già difficoltoso da svegli. Risulta estremamente interessante sottolineare come Shelly sia arrivata a mettere a punto il suo prodotto: ha tenuto una registrazione tecnica su una pagina web, che permetteva di far emergere ciò che funzionava e ciò che andava modificato, facendo emergere le opinioni degli studenti ed i loro suggerimenti24. Si può notare dunque, anche attraverso quest’esempio, l’onnipresenza di logiche collaborative e bottom-up nella creazione di conoscenza e valore aggiunto, per un prodotto che possa definirsi realmente innovativo e personalizzato. 4. Un fenomeno recente: i FabLab in Italia La presenza di veri e propri laboratori volti alla fabbricazione digitale nel nostro Paese, ha conosciuto ritmi piuttosto lenti considerato, come anticipato, che il primo FabLab nel mondo apre nel 2002 a Boston. 23 24 Cfr. ibidem, pp. 23-24. Ibidem, pp. 24-26. 13
  • 14. Tuttavia, sembra che negli ultimi anni si possa parlare di un vero e proprio boom, visto il numero di località coinvolte nell’inaugurazione di FabLab, o comunque di strutture ad essi affini: Torino, Novara, Milano, Firenze, Reggio Emilia, Roma, Cava dei Tirreni, Napoli, Bologna, Trento, Genova, Pisa, Modena e Palermo. Infatti, il fenomeno ha iniziato a diffondersi a macchia d’olio a partire dal 2011, quando a Torino, in occasione della mostra “Stazione Futuro” che ebbe luogo per il centocinquantenario dell’Unità d’Italia, si mostrava al pubblico un’installazione contenente una stampante 3D ed una tagliatrice laser. Nasce così nel capoluogo piemontese qualche mese dopo, nel 2012, “Officine Arduino”, il primo FabLab italiano di cui si parlerà nei paragrafi che seguono, ove ci si soffermerà in particolare su alcune esperienze italiane che si è avuta l’occasione di osservare da vicino, interloquendo con i relativi protagonisti. 4.1. FabLab Torino Per quanto riguarda il FabLab di Torino, è opportuno precisare alcuni aspetti prima di presentare il testo dell’intervista effettuata ad uno dei suoi soci. Come si è già ricordato, il FabLab di Torino è stato il primo FabLab a sorgere sul territorio italiano, col nome di “Officine Arduino”, in quanto ospitato al loro interno, grazie al contributo di Massimo Banzi, creatore nel 2005 del noto processore Arduino, nome nato dalla caffetteria di Ivrea - “Antica Caffetteria Arduino” - dove si trovava a parlare con i suoi tre soci. Arduino è “una piattaforma basata su un hardware molto semplice e su un software altrettanto semplice e flessibile che consente di prototipare rapidamente con l’elettronica” 25 , ovvero un innovativo dispositivo open source, che costa appena venti euro e che è alla base del funzionamento della stampante 3D, la cui componente rivoluzionaria risiede anche nel facile utilizzo e dunque nell’essere alla portata di chiunque, poiché “non ci vuole il permesso di nessuno per rendere le cose eccezionali”26. Quando e su quali basi è nato Fablab a Torino ? 25 26 Riccardo Luna, op.cit., p. 35. http://www.ted.com/talks/lang/it/massimo_banzi_how_arduino_is_open_sourcing_imagination.html 14
  • 15. Fablab è nato l’anno scorso (2012), ha 150 soci, ed è il proseguimento di un progetto ideato da Arduino e dal Comitato delle Officine Grandi Riparazioni del Centocinquantenario che fecero l’Esperienza Italia inserendovi anche Fablab Italia; dopo i ragazzi che avevano iniziato a portare avanti il progetto Fablab in collaborazione con Arduino decisero di creare Fablab Torino, e continuare quello che si era iniziato all’Esperienza Italia, perché si era visto che c’era un seguito. Fablab ha partecipato a più di una mostra, in cui porta in genere stampanti 3D ed oggetti fatti con la laser. In genere che partecipanti sono presenti ai workshop ? Quanto e come può essere sostenibile una struttura come quella di un Fablab ? Come funziona il sistema dei “crediti” per l’utilizzo dei macchinari ? Qualsiasi, anche perché sono estremamente vari, ci sono due categorie di workshop: “di base”, sono gratuiti e durano un giorno, sulla stampa, sulla laser, sulla fresa, e quelli “avanzati”, durano in genere tre o quattro giorni, e questi hanno un costo in crediti, in base al livello di difficoltà del workshop ed al numero di giornate. I crediti sono la “moneta interna” al Fablab, acquistabile su Internet, è un sistema costruito in modo da poter guadagnare dei crediti, ad esempio chi viene a fare le pulizie, ogni lunedì, guadagna 30 crediti se da solo e 15 se sono in due, sono definiti in base al livello di difficoltà del workshop. Tutti i macchinari hanno un costo orario in crediti, la stampa 3D costa 15 crediti la prima ora 10 la seconda dalla terza in poi 5, la fresa idem (un credito = un euro). La laser, la più utilizzata e anche quella che consuma di più, costa un credito al minuto. Per permettere a chiunque di venire a sviluppare i propri progetti si è pensato questo sistema. Chi fa i workshop fa versare a chi partecipa una quantità di crediti e l’associazione ne accredita la metà a chi tiene il workshop, che a sua volta possono utilizzarlo per l’uso delle macchine. Naturalmente i soci pagano una tessera per associarsi, il cui costo varia a seconda della durata (esiste anche una tessera “one shot” che vale una decina di giorni, per permettere di seguire un workshop, una tessera “base”, una “pro”, che ti permette di utilizzare un magazzino per lasciare i progetti). 15
  • 16. Per quanto riguarda in particolare la stampa tridimensionale, questa offre il vantaggio opposto delle economie di scala: il costo unitario non aumenta nel modificare una singola componente o nel fabbricare lotti piccolissimi, ma non diminuisce aumentando i volumi di produzione, favorendo quindi personalizzazione e customizzazione. Quali produzioni andrebbero dunque favorite da una simile tecnologia ? Le macchine 3D in genere sono per la prototipazione, non per la produzione in sé, servono per i prototipi, o tutt’al più per piccole serie, non tanto per stampare realmente in serie. Si tratta di una tecnica digitale, è possibile comunque senza costi di trasporto, spedirlo a grandi distanze e se si vuole lo si stampa, è ecosostenibile, se così si può dire. Si ha un investimento iniziale, ma poi rimangono costi essenzialmente legati al mantenimento delle macchine. Non ci sono comunque in Italia molti casi di questo tipo, a parte coloro che vendono le stampanti 3D, perché tante di quelle macchine hanno componenti che sono state stampate con altre stampanti. Si può parlare di un nuovo artigianato ? Prevale la funzione formativa o una sorta di incentivo ad una nuova imprenditoria ? Indubbiamente sì, chi fa piccole produzioni può rivolgersi più facilmente ad un posto come questo, piuttosto che andare da una ditta vecchio stile, l’artigiano di una volta è sostituito da colui che disegna al pc, per poi stamparlo con molta precisione in 3D. Per la mia esperienza comunque, il grosso delle persone che viene quì, sono studenti che fanno prototipi. 22 giugno 2013 16
  • 17. Figura 1. Il muro delle icone dei maker presso il FabLab di Torino con incisione laser su legno. Risulta interessante il sistema dei crediti utilizzato da questo Maker Space, trattandosi sostanzialmente della moneta interna del FabLab, mediante cui è possibile utilizzare le macchine presenti, che si coglie l’occasione per illustrare, nel seguente modo: LASER CUT WL1290, 1 Credito al minuto di taglio (il tempo varia in base al materiale ed al file). Il laser ha un’area di taglio da 1200x900mm e può tagliare ed incidere materiali plastici, legnami, tessuti e pelli. LASER CUT Eureka, 1 Credito al minuto di taglio. Il laser ha un’area di taglio da 600x450mm e può tagliare ed incidere materiali plastici, legnami, tessuti e pelli. FRESA CNC Roland mdx-40, 15 Crediti per la prima ora di stampa, 10 Crediti per la seconda, 5 Crediti dalla terza ora in poi (il tempo dipende da dimensione, livello di dettaglio e durezza del materiale: un oggetto grande, dettagliato e fresato in un materiale duro richiederà molto tempo).
 L’area di lavoro è pari a 305x305x105mm e si puo lavorare con un’ampia gamma di materiali quali ABS, cere, resine, legno chimico, acrilici, PVC, POM e legno. 17
  • 18. Figura 2. Wall-E: uno dei personaggi raffigurati sul muro delle icone dei makers. 3D PRINTER Ultimaker, 15 Crediti per la prima ora di stampa, 10 Crediti per la seconda, 5 Crediti dalla terza ora in poi. L’area di lavoro è pari a 200x200x200mm e si può stampare con PLA, ABS e NYLON. 3D PRINTER RepRap Prusa I3 Prusa , 15 Crediti per la prima ora di stampa, 10 Crediti per la seconda, 5 Crediti dalla terza ora in poi. L’area di lavoro è pari a 200x200x200mm e si può stampare con PLA, ABS e NYLON. PLOTTER DA TAGLIO Roland GX-24, 15 Crediti per la prima ora di stampa, 10 Crediti per la seconda, 5 Crediti dalla terza ora in poi (il tempo dipende da 18
  • 19. dimensione, livello di dettaglio e materiale)27. Figura 3. Galleria delle icone dei Makers. Fonte: http://fablabtorino.org 4.2. Fablab Firenze Riportiamo di seguito l’intervista effettuata a Mattia Sullini, coordinatore della modellizzazione all’interno del FabLab, e primo architetto che nel 2000 apre un coworking a Firenze e dopo due anni è uno dei fondatori del Maker Space della città. Il brano riportato è stato raccolto in occasione della Mostra Internazionale dell’Artigianato svoltasi a Firenze tra il 20 ed il 28 aprile 2013. Learn. Make. Share. Tre parole d’ordine con cui presentate la vostra attività ed i principi che la ispirano; che risvolti assume in particolare il dato della condivisione all’interno del panorama di riferimento di FabLab Firenze ? La condivisione è presente al 100%, la sfida per Fablab Firenze è proprio quella, per la struttura del FabLab sarebbe prevista al livello di prodotto con una standardizzazione delle dinamiche che fanno giungere al prodotto; per gli strumenti di lavoro è meglio parlare di “multiproprietà” degli oggetti. 27 http://fablabtorino.org/?page_id=83 19
  • 20. Il lavoro che stiamo cercando di fare è stressare il lato di utilità sociale dell’associazione, puntare sulla dinamica giocosa, libera, non finalizzata, basandoci sull’orizzontalità dei gruppi, l’accessibilità dei corsi, con un modello che preveda un’economia poco impegnativa, con soci “flessibili”, ad es. workshop sul laser come quelli di oggi, fatti dagli associati a titolo praticamente gratuito. FabLab Firenze nasce a Luglio 2012; su quali basi ? Nasce per rispondere ad una domanda locale o piuttosto per crearla, con lo scopo di indirizzarla verso un settore poco noto sul territorio ? A Firenze FabLab è un’ “anomalia”, normalmente nascono su gruppi relativamente ristretti o su progetti precisi, noi siamo partiti in 23, ciascuno con attività già avviate ed aspettative diverse rispetto al Fablab. Partendo dal coworking stavo cercando di mettere insieme un gruppo con un esperto di lasercutting, uno di stampanti 3D, un modellista, un designer, etc., per cui ho pensato di riunirci riservando ognuno il 5-10-15% del proprio tempomacchina per fare dei lavori tutti insieme, di gruppo, come community. Ancora non abbiamo una sede, attualmente è il mio coworking. Vogliamo fare le cose in maniera progressiva, siamo un gruppo, stiamo trovando il nostro baricentro, e stiamo cercando di capire quali aspettative coltivare e quali abbandonare, etc. Si lavora insieme ed ognuno per sé, tenendo conto degli altri. Che tipo di partecipanti seguono generalmente i workshop di FabLab Firenze? Al FabLab c’è di tutto, artigiani, grafici, elettronici, designers, architetti… Come può cambiare il lavoro in senso stretto, ovvero il rapporto con gli strumenti del mestiere, con i clienti, i legami fra appartenenti alla stessa categoria professionale, lo scambio di idee e buone pratiche ? È presente la dimensione imprenditoriale ? L’imprenditorialità è incuriosita dai FabLab, guarda ai Fablab, ma ancora non sa cosa fanno, s’intravede un’utilità rispetto alla filiera produttiva, probabilmente, a mio avviso, è un’aspettativa mal riposta, perché portare la ricerca di prodotto 20
  • 21. finalizzata alla produzione all’interno di un FabLab innesca e immette nel circuito logiche di ottimizzazione ed economia che un FabLab non può sostenere, e richiama anche la necessità di competenze che un FabLab in genere non possiede, anche se dipende molto da come è strutturato. Figura 4. Laser cutter di FabLab Firenze, al workshop del Laboratorio in occasione della mostra. Poste queste difficoltà “strutturali” lo scopo ultimo dei FabLab dovrebbe essere anche quello di creare chi entri nel meccanismo in modo da capirne e sfruttarne le potenzialità ? Esatto. Ma non si tratta di creare prodotti, più che altro di trovare persone in grado di creare prodotti, è una cosa molto diversa. L’azienda può guardare ai FabLab come luoghi in cui “pescare” persone formate a processi creativi, semiindustrializzati, in maniera che la mente sia formata a cogliere la complessità del 21
  • 22. processo, crea artigiani, laddove l’artigiano è colui che domina sia l’aspetto creativo sia quello operativo. Un esempio è la cover di questo iPhone, che fino a ieri si rompeva, ma si è pensato di utilizzare un legno più flessibile; sembra una cosa irrilevante ma è per rendere l’idea della sperimentazione. Figura 5. Lampade create con il laser cutting durante il workshop di Firenze. Indubbiamente l’idea tradizionale di fabbrica sta cambiando. Come vi posizionate rispetto all’utilizzo delle cosiddette tecnologie di “prototipizzazione rapida” ? Sono mezzi cruciali, non tanto al livello tecnologico, far rete, saper lavorare insieme, capire che competizione e collaborazione non sono modelli antitetici ma possono coesistere, può esserci una competizione sana, sapendo, per proprietà transitiva, che quello che immetti nella rete ad un certo punto ti ritornerà. 22
  • 23. Figura 6. Lampada ultimata. I mezzi a disposizione fanno sì che il singolo produttore/utente possa decidere se posizionarsi limitatamente al “locale” o produrre su scala “globale”; in base a quanto da voi osservato, si può parlare in senso lato di un riappropriarsi degli strumenti di produzione da parte di lavoratori ed artigiani ? È possibile che la rivoluzione tecnologica sfoci in rivoluzione socio-culturale ? Questi anni di social network pesante ci hanno abituato ad una comunicazione con la gente sempre più diretta, vitale, immediata, quelle che erano estrapolazioni statistiche diventano sempre più discrete, è stato tutto molto materiale; adesso ci accorgiamo che c’è un ritorno sul fisico, coworking, fablab, un’economia della collaborazione che è reale, basata sulla disintermediarizzazione, sulla credibilità, sui concetti di prosumer, di code lunghe, di discretizzazione: possiamo essere più individui, ma individui collaborativi. 23
  • 24. Tutta quella retorica di villaggio globale era probabilmente molto precoce, adesso è un villaggio globale, siamo di fronte a relazioni ricche e che producono qualcosa di concreto. 25 aprile 2013 4.3. Frankeinsten Garage e l’elettronica della sciura Maria Quella di Milano è una struttura assimilabile a quella di un FabLab, nata da una preesitente associazione. Oltre a creare oggetti, si occupa della loro riparazione e del loro miglioramento, come afferma il loro “slogan” Your things, reborn. Offre svariati workshop, da quelli mirati alla conoscenza di Arduino ai workshop cosiddetti della sciura Maria, volti a chi intende avvicinarsi al mondo dell’elettronica ed ai suoi concetti-base.28 Si riporta l’intervista effettuata ad Andrea Maietta, uno dei suoi fondatori. Da quanto tempo esiste la vostra “associazione” e perché avete deciso di aprire un Fablab ? Da un paio d’anni, dopo che Alessandro (che poi si è trasferito in Inghilterra) aveva visto una trasmissione in cui si parlava di tecnologie digitali per la prototipazione. Paolo ed io ci siamo subito appassionati all’idea, perché ci avrebbe permesso di avere uno spazio nostro in cui fare quello che ci piace, di incontrare e aiutare persone con la nostra stessa passione e soprattutto di imparare da loro. Chi ne fa parte, ovvero, più precisamente, da che percorsi professionali e formativi provenite, su quali “risorse umane” contate ? Al momento siamo Paolo ed io, al livello “istituzionale” abbiamo entrambi un background di tipo tecnico e ci occupiamo di software, a livello più personale siamo appassionati di molte altre cose: il physical computing, l’interazione uomo- 28 http://www.frankensteingarage.it 24
  • 25. macchina, l’elettronica, l’intelligenza artificiale, sociologia, economia e molte altre cose tra cui l’alpinismo e il rugby. Disponete di risorse materiali (stampanti 3D, frese, etc.) di cui usufruiscono coloro cui offrite corsi di formazione ? A che titolo lo fate ? Come stampante 3D usiamo la Sharebot, con la quale stiamo pensando di offrire un servizio di stampa. Stiamo terminando di costruirci una fresa fatta in casa per offrire lo stesso tipo di servizio a basso costo. Per la formazione sull’elettronica, sui microcontrollori e sulla programmazione, che è al momento la nostra attività principale, forniamo di volta in volta il materiale necessario. Il fatto che vi limitiate a fare formazione è una scelta mirata (svolgete attività professionali parallele, non vi interessa andare sul mercato per motivi ideologici, etc.) o è una scelta “obbligata” (dovuta per esempio alla situazione transitoria in cui vi trovate, all’impossibilità di investire in questa attività, etc.)? Entrambi abbiamo un lavoro “vero”, quindi possiamo dedicare solo una certa quantità di tempo a queste attività. Per questo motivo stiamo cercando qualcosa di scalabile, ad esempio stiamo terminando un libro su e per i maker che presenteremo alla Maker Faire di Roma ad ottobre. Una volta aperto il Fablab, su quali basi funzionerebbe (workshops, sistema di pagamento in “crediti” o altro, tesseramento, etc.) ? So che dopo due anni suona strano, ma è un po’ presto per dirlo. I FabLab molto difficilmente sono business sostenibili senza l’aiuto di qualche sponsor o qualche istituzione, specialmente a Milano e specialmente se non puoi dedicartici full time. Non escludiamo soluzioni alternative, come ad esempio un laboratorio mobile. Indubbiamente l’idea tradizionale di fabbrica sta cambiando, come vi posizionate rispetto all’utilizzo delle cosiddette tecnologie di “prototipazione 25
  • 26. rapida”? Siamo favorevoli, pensiamo che possano risolvere una serie di problemi. Ne parliamo nella prima parte del nostro libro. Si può parlare di un nuovo artigianato ? Prevale la funzione formativa o una sorta di incentivo ad una nuova imprenditoria ? Sicuramente sì, il maker è fondamentalmente un artigiano creativo che usa strumenti moderni con un amore e una passione antichi. Speriamo che la formazione che eroghiamo possa portare le persone a intraprendere un loro percorso imprenditoriale, anzi sappiamo di diverse occasioni in cui questo è successo e la cosa non può che farci piacere. I mezzi a disposizione fanno sì che il singolo produttore/utente possa decidere se posizionarsi limitatamente al “locale” o produrre su scala “globale”; in base a quanto da voi osservato, si può parlare in senso lato di un riappropriarsi degli strumenti di produzione da parte di lavoratori e/o artigiani ? In un certo senso sì, adesso il costo delle macchine non è più quello elevato di qualche anno fa, da un lato si può rilevare il fenomeno di una sorta di riappropriazione per quanto riguarda un piccolo lotto, dall’altro anche per la produzione di massa, potendo contare su un mercato globale. Si tratta di un settore, in cui probabilmente risulta particolarmente utile ed interessante “far rete”; esiste questa possibilità sul territorio? Qual è il legame (se ce n’è uno) che connette la specifica attività di cui vi occupate al vostro territorio (città, regione, etc.) ? Siamo fermamente convinti che fare rete, non solo per i maker ma per l’intero sistema, al giorno d’oggi sia fondamentale. Più di quanto lo sia sempre stato. Nonostante questo, chi ha provato a mettere insieme realtà diverse per offrire un servizio migliore ci ha sempre raccontato che sembra che molte persone abbiano difficoltà a entrare in questo ordine di idee, forse perché ritengono il mercato 26
  • 27. ancora troppo di nicchia o troppo piccolo per tutti quanti. Nel nostro piccolo cerchiamo di partecipare alle varie conferenze di settore, spesso presentando dei talk, per incontrare persone con le nostre stesse passioni, oppure collaboriamo per la realizzazione di hackaton incentrati sul mondo fisico. E ci divertiamo come dei matti! 22 agosto 2013 4.4. FabLab Palermo Si è ritenuto opportuno presentare l’intervista sottoposta a Michele Pizzuto, architetto e vice-fondatore di un FabLab appena nato, quello di Palermo, per differenti ragioni. In primo luogo, per completezza e correttezza, essendosi finora focalizzati su realtà circoscritte all’area centro-settentrionale dell’Italia. Inoltre, si ritiene importante esporre il caso di uno degli ultimi FabLab ad aver aperto in Italia, che può dunque contare sulla collaborazione e l’esempio di valide esperienze pregresse al livello nazionale. Infine, interessa indagare il valore e la risonanza che può avere una simile struttura in un contesto economico caratterizzato da una marcata debolezza per quanto concerne attività innovative e ad alta tecnologia (5 sistemi locali del lavoro leader nel settore dell’alta tecnologia al Sud, contro 16 nel Nord-Ovest, 11 al centro e 10 nel Nord-Est)29. Come nasce l’idea di aprire un FabLab a Palermo ? Nasce quando decido di aprire, con mia sorella, Spazio Trentasei ArchiArte, sostanzialmente un’associazione culturale. Un amico poi, capendo che avevamo sfiorato le dinamiche di un makerspace, ha avuto modo di spiegarci in cosa consiste il movimento dei makers, quindi a giugno di quest’anno abbiamo aperto il FabLab, che è legato ad uno studio di architettura e ad un’associazione culturale, ma è sostanzialmente operativo da settembre. Carlo Trigilia e Francesco Ramella, Imprese e territori dell’alta tecnologia in Italia, Il Mulino, Rapporto di Artimino 2008, p. 46. 29 27
  • 28. Vi appoggiate finanziariamente a qualcuno o siete indipendenti ? Una volta a regime su che basi funzionerà il FabLab dal punto di vista economico ? Abbiamo sottoscritto la FabLab Charter e depositato lo Statuto, siamo totalmente autofinanziati, la struttura si appoggia ad uno studio di architettura preesistente, gli spazi quindi li avevamo già. Funzionerà come tutti i Fablab, con un tesseramento. Proporremo un tesseramento annuale di 30 euro, per cui i tesserati avranno uno sconto del 10% su tutti i servizi, del 25% se si tratta di studenti. Di che macchine disponete/disporrete e che tipo di corsi pensate di offrire ? Il target cui vi rivolgete è quello degli studenti o un altro, ad esempio imprenditoriale/artigianale ? Disponiamo di una Makerbot, in fase di promozione presso il FabLab, che ha un’area di stampa 30x15x15, quindi il target è quello della protipazione, a disposizione della classe artigiana e studentesca. Anche se sicuramente il target privilegiato è quello degli studenti, a partire dal liceo artistico, l’Accademia di Belle Arti, Architettura, etc., per quanto riguarda gli artigiani non c’è ancora un corso adeguato, poiché li troviamo in linea di massima abbastanza distanti da queste tecnologie. Tuttavia col tempo, integrando le macchine e le frese che sono in arrivo, si pensa ad una collaborazione con artigiani tradizionali, ma aperti all’utilizzo della tecnologia, in particolare con dei contatti nel settore dell’ebanisteria e della sartoria. La vera corsistica, che includerà fra l’altro un corso di robotica per bambini ed uno su Arduino, partirà dopo la Maker Faire di Roma, cui parteciperemo per continuare a farci conoscere, portando anche dei piccoli progetti, fra cui uno spider robot, fatto da un laureando di Ingegneria Informatica di Catania. Quanto conta, per quanto riguarda quanto finora avete potuto osservare, la logica del far rete e della condivisione di conoscenza ? 28
  • 29. È fondamentale, per aprire e far parte di un FabLab bisogna avere un certo modo di pensare. Abbiamo avuto modo di parlare con vari “protagonisti” del movimento in Italia, come il FabLab di Firenze, ed ovunque abbiamo riscontrato disponibilità e spiegazioni esaustive. Abbiamo anche utilizzato community online, in cui abbiamo trovato appoggio ed informazioni. Sarebbe bene che in ogni città ci fosse un FabLab, in quest’ambito è importante far rete, non farsi concorrenza. Quanto conta aver aperto una struttura come un FabLab a Palermo ? È possibile che, accompagnato a buone politiche, il progetto faccia da volano per l’innovazione del territorio siciliano ? Indubbiamente sì, da più di un anno mi ritrovo a dire in giro che se tu utilizzi la filosofia che tutto ciò che è considerato crisi in Sicilia può invece essere un’opportunità, nonostante la diffidenza di molti, ti rendi conto che c’è un humus interessante, dei contesti virtuosi, delle potenzialità inesplorate. Una struttura come un FabLab, paradossalmente, può essere maggiormente trasformativa ed innovativa qui, dove il terreno è “vergine”, rispetto ad esempio a Torino, o Milano, dove simili fenomeni hanno già riscontro favorevole, anche semplicemente in termini di visibilità. 20 settembre 2013 4.5. Un profilo comune con prospettive eterogenee Come si può agevolmente rilevare, la struttura dei FabLab s’inserisce in una prospettiva prevalentemente educativa e strumentale, non perseguendo alcun fine di massimizzazione del profitto, laddove effettivamente la concezione di profitto non risulta minimamente esser presa in considerazione. Una netta linea di demarcazione, quasi “fiera”, separa questo modello “collaborativo ed orizzontale” dal modello imprenditoriale perseguito dall’individuo che mira a stare a pieno titolo sul mercato. 29
  • 30. Emerge una linea di pensiero aperta e flessibile, orientata alla condivisione di conoscenze, ma che presuppone un impegno parziale ed amatoriale da parte dei soggetti coinvolti: come Sullini dichiara nel corso dell’intervista concessa, si tratta di dedicare una piccola percentuale del proprio tempo-macchina per fare dei lavori di gruppo come un FabLab, una community. D’altro canto Maietta ricorda che lui e Aliverti conducono parallelamente un lavoro “vero”, e ciò spiega forse la ragione per la quale spesso simili strutture non si occupino di un business plan o di rientrare in determinati parametri ed obiettivi, essendo lo scopo delle associazioni da loro inaugurate di tipo radicalmente differente. Naturalmente un’opzione è quella di rifarsi a modelli di business alternativi, come mostra l’esempio di Frankenstein Garage, che afferma di inspirarsi alla Lean Sturtup di Eric Ries e al modello Canvas di Alexander Osterwalder, di cui parleremo più avanti. Resta salvo naturalmente il palpabile entusiasmo e l’atteggiamento aperto e collaborativo verso la conoscenza diffusa ed il far rete, caratteristico di ogni organizzazione con cui ci si è confrontati. D’altronde il fatto che i membri abbiano un impiego al di fuori del contesto del FabLab - anche se spesso ad esso affine - permette di creare dinamiche ed occasioni di apprendimento interessanti, quali i workshop tenuti a titolo praticamente gratuito anche in occasione della fiera dell’artigianato di Firenze cui abbiamo partecipato, dato che l’Associazione persegue fini di promozione della Fabbricazione Digitale, del Design condiviso, dell’Hardware e del Software Libero, dello Sviluppo Sostenibile, a vantaggio degli associati (Statuto del FabLab di Firenze). Modello interessante e sostenibile che, come abbiamo visto, si sta diffondendo a macchia d’olio nel mondo, creando conoscenza ed educando ad un sistema di knowledge sharing, ma che è lontano, per scelta, dalla dimensione d’impresa e di mercato. Si tratta semmai di un potenziale bacino cui l’impresa può guardare per assunzioni che perseguano determinati target e valori. Anche il neonato FabLab di Palermo, presenta una struttura divulgativa, che mira ad essere autosostenibile, autofinanziandosi, e i cui quattro soci fondatori hanno tutti un lavoro a tempo pieno. 30
  • 31. Fatte salve le riserve dovute ad una struttura appena aperta, che non ha dunque avuto ancora modo di mettere in pratica i propositi e le idee che si auspica di portare avanti nel tempo, sembra di rilievo, soprattutto per l’analisi che condurremo nel seguito, il progetto che prevede la collaborazione con quella fetta di artigiani tradizionali, non restii all’idea di aprirsi all’utilizzo delle nuove tecnologie. Pizzuto parla infatti di una collaborazione con artigiani ebanisti e sarti, in modo da poter metter loro a disposizione gli strumenti digitali di cui sarà dotato il FabLab per realizzare i propri prodotti. Questa sorta di contaminazione fra tecnologia in generale, e digitale in particolare, e dimensione artigianale sarà approfondita nei paragrafi che seguono, nella convinzione che in un Paese costellato da piccole imprese e attività imperniate sull’artigianato e sul saper fare, questa sia una deriva particolarmente ricca di prospettive promettenti. Elemento fondamentale è la struttura aperta, da diversi punti di vista: in senso stretto, infatti, un FabLab è disponibile per chiunque si manifesti interessato alle tecnologie e alle dinamiche che in esso hanno luogo, tanto da offrire spesso corsi di differente taglio, a seconda della preparazione dei partecipanti, che possono dunque essere anche principianti, o semplici curiosi, in base al principio postulato nella FabLab Charter per il quale i FabLab devono funzionare come una “risorsa della comunità”. In senso ampio, appartiene alla comunità anche tutto ciò che si produce al loro interno, essendo il frutto di un percorso che non è mai al 100% individuale, ma che è nato a partire da strumenti di lavoro condivisi, e conoscenze e processi spesso sorti dal confronto con altri, e che si suppone che possa essere reimmesso all’interno del circuito dell’open access, in un ciclo di feedback positivo. A conferma di ciò, nella FabLab Charter si legge che “Disegni e processi sviluppati in un FabLab possono essere protetti e venduti in qualsiasi modo un inventore decida, ma dovrebbero rimanere disponibili affinché i singoli possano usufruirne ed imparare da essi”, e che inoltre “le attività commerciali possono essere prototipate ed incubate in un FabLab, ma non devono confliggere con altri usi, dovrebbero svilupparsi al di fuori piuttosto che all’interno del laboratorio, e ci si aspetta che apportino benefici ad inventori, laboratori e reti che hanno contribuito al loro successo”. Altro elemento importante, legato al concetto che pensa il FabLab come una risorsa 31
  • 32. della comunità, è quello di immaginare questa struttura come un mezzo per apportare benefici di vario tipo, in aree particolarmente deboli dal punto di vista socio-economico, argomento trattato specialmente nell’intervista al FabLab di Palermo. Sebbene possa apparire quantomeno utopistico parlare di un FabLab come di un volano per l’innovazione e l’adeguamento tecnologico di un territorio, questo tipo di struttura si trova in una posizione privilegiata, intersecando, come si è già sottolineato in altri punti, diversi settori della società, dal supporto alle istituzioni scolastiche ed universitarie, al farsi essa stessa erogatrice di servizi di formazione, dal supporto ad artigiani aperti e volenterosi o a liberi professionisti, al farsi bacino per potenziali assunzioni da parte di aziende, che cerchino, come ricorda nel corso dell’intervista Sullini, “persone formate a processi creativi e semi-industrializzati”. Di conseguenza, si può affermare che almeno tre ambiti possono trovarsi a confluire nella struttura di un FabLab: la sfera dell’istruzione in senso stretto, il dominio dei corsi di formazione, il settore della piccola e media impresa. Resta dunque da attendersi che i risvolti dati dalla presenza di un FabLab in un territorio, siano differenti tra loro, essendo ricalcati sulla dimensione locale e dunque sulle domande e risorse che le sono annesse. Tuttavia sembra immaginabile il rivelarsi di una struttura davvero trasformativa, tanto da auspicarsi, come afferma Pizzuto, che un FabLab sia presente in ogni città, specialmente laddove il terreno si presenta ancora “vergine”, e pertanto bisognoso di simili strutture di raccordo. 5. La Terza Rivoluzione Industriale Sembra opportuno, a questo punto, operare una digressione per indagare quali possano essere considerati le origini e gli antenati del Movimento dei Makers, e dunque anche degli odierni FabLab, al fine di poterne immaginare sviluppi e politiche di accompagnamento. Come si è accennato, si tratta di un fenomeno che un quotidiano con l’autorevolezza di The Economist, non ha esitato a definire la “Terza Rivoluzione Industriale”; partiremo da questo punto per riprendere il parallelo fatto da Chris Anderson in Makers fra Prima, Seconda e cosiddetta Terza Rivoluzione Industriale, 32
  • 33. cercando di capire cosa trasforma un’innovazione in una rivoluzione e cosa distingue un simile cambiamento da una rivoluzione industriale. È importante dunque precisare che l’espressione “rivoluzione industriale” fu coniata da un diplomatico francese, Louis-Guillaume Otto, nel 1799, e resa poi nota dallo storico dell’economia inglese Arnold Toynbee. Con essa si fa comunque riferimento ad “un insieme di tecnologie che hanno enormemente aumentato la produttività delle persone, cambiando tutto: dalla durata alla qualità della vita, dai luoghi dove le persone vivono alla dimensione della popolazione”30. Anderson fa coincidere l’avvio della Prima Rivoluzione Industriale con l’invenzione della spinning jenny nel 1766 da parte di James Hargreaves, un tessitore del Lancashire, una contea situata nel Nord-ovest dell’Inghilterra. Si trattava di “un dispositivo azionato a pedale che consentiva a un singolo operatore di filare otto fili contemporaneamente”31. La spinning jenny, insieme ai successivi telai industriali e al motore a vapore, lanciò infatti un’autentica rivoluzione industriale, sebbene l’invenzione della macchina per filare risalisse agli Egizi ed alla Cina dell’anno Mille. Gli storici sono concordi nel sostenere che ciò che rese realmente innovative le tre invenzioni sopracitate, facendone scaturire una rivoluzione, fu un insieme di circostanze: 1. Per la prima volta, a differenza di seta, lana e canapa, si utilizzava il cotone, un bene indifferenziato che poteva essere acquistato da chiunque, e ottenibile in modo particolarmente agevole per l’Impero inglese per mezzo delle colonie in Egitto, India ed Americhe. 2. Il meccanismo della spinning jenny, inoltre, in origine funzionante mediante energia umana, era scalabile, si prestava cioè ad essere messo in moto da forze motrici di maggior portata (acqua e vapore)32. 3. Era un meccanismo che arrivava con tempismo e nel luogo adatto, poiché intorno al 1700 l’Inghilterra era attraversata da “una serie di leggi sui brevetti e di politiche che diedero agli artigiani la motivazione non solo per inventare, ma anche per condividere le loro creazioni”33. 30 Chris Anderson, op. cit., p. 47. Ibidem, p. 41. 32 Ibidem, p. 42. 33 Ibidem. 31 33
  • 34. Altra invenzione che contribuì all’avvio della Rivoluzione Industriale, è il motore a vapore, ideato nel 1776 da James Watt, che permise di meccanizzare ulteriormente gli strumenti agricoli e di vendere i prodotti locali in tutto il mondo. Anderson propone inoltre di distaccarsi, per quanto possibile, dall’immagine codificata da William Blake delle fabbriche definite come “buie officine demoniache”, osservando come l’industrializzazione produsse in realtà, attraverso la fase intermedia costituita dalle cottage industries su base familiare, un forte aumento della popolazione, del reddito pro-capite - tra il 1800 e il 2000, indicizzato con l’inflazione, quest’ultimo è decuplicato - ed un notevole miglioramento nella salute34 . Infatti, con il trasferimento di massa negli edifici urbani in mattoni, la presenza di indumenti di cotone e saponi a basso costo, l’aumento del reddito da lavoro, migliorarono sensibilmente l’igiene, la frequenza nelle malattie e la qualità della vita, ovvero, a dire dell’autore, “qualsiasi effetto negativo derivante dal lavorare nelle fabbriche venne più che compensato dagli effetti positivi del vivere intorno a esse”35. L’avanzare delle tecnologie agricole permise di nutrire un numero crescente di persone, impiegandone molte di meno nei campi, e rendendole dunque disponibili per altre occupazioni: gran parte si riversarono nelle fabbriche, aumentando la produzione di beni e incrementando in tal modo, come mai prima di allora, il volume dei commerci. Quindi, i Paesi iniziarono a limitarsi a produrre ciò che ottenevano con più facilità e a minor costo - e su cui detenevano dunque un vantaggio competitivo - limitandosi ad importare il resto, e per questa via aumentando ulteriormente la produttività. Ciò contribuì ad alimentare quel vortice di cambiamenti, di cui si è detto sopra, che travolse la vita quotidiana delle persone, ragion per cui si può, coerentemente con la definizione esposta all’inizio del paragrafo, parlare di una Rivoluzione Industriale. 34 35 Cfr. ibidem, p. 45. Ibidem. 34
  • 35. Figura 7. Cottage industry. Fonte: http://kids.britannica.com Per Seconda Rivoluzione Industriale, invece, s’intende quella fase che si estende dal 1850 circa alla fine della Prima Guerra Mondiale, e che vede sorgere una serie di innovazioni e cambiamenti: nel 1855 furono perforati i primi pozzi petroliferi negli Stati Uniti, nel 1871 Antonio Meucci dimostrò il funzionamento del “telettrofono”, nel 1878 Thomas Edison mise a punto la prima lampadina elettrica, nel 1886 Daimler e Benz costruirono i primi motori a scoppio, nel 1895 i fratelli Lumière il primo apparecchio cinematografico. Nel campo della produzione, certamente rilevante fu l’introduzione da parte della “Ford Motor Company” di Chicago, intorno al 1913, della catena di montaggio, che si è soliti indicare come quella “linea di lavorazione industriale semovente che sposta il materiale in fabbricazione alle successive stazioni di lavoro, dove operai poco o non qualificati montano le parti componenti”36. Inoltre “la scomposizione delle mansioni operaie in operazioni semplici doveva consentire la sostituzione di manodopera qualificata con manodopera generica, la predeterminazione dei tempi di lavorazione, la forte crescita della produttività”37, dando così avvio, in un breve lasso di tempo, all’era dei consumi standardizzati e di massa. 36 37 http://www.pbmstoria.it/dizionari/storia_mod/c/c109.htm Ibidem. 35
  • 36. Figura 8. Catena di montaggio. Fonte: http://jdayhistory.weebly.com Per molti, la Terza Rivoluzione Industriale inizia intorno agli anni Ottanta del secolo scorso con la diffusione del personal computer, prosegue con i successi di Internet e della telefonia mobile, fino alle crescenti innovazioni nel campo dell’Information Technology, inducendo a parlare di questo periodo come dell’Era dell’Informazione, poiché le comunicazioni e il computing sarebbero “forze moltiplicatrici che fanno per i servizi ciò che l’automazione ha fatto per la manifattura”38. Per Jeremy Rifkin, economista ed autore nel 2011 di un testo intitolato non a caso La Terza Rivoluzione Industriale, quest’ultima si raggiungerà collegando alcuni importanti pilastri, fra cui l’utilizzo di energie rinnovabili è certamente uno dei più rilevanti, che faranno in modo che l’attuale distribuzione energetica si basi sul modello di Internet, distribuito e collaborativo, piuttosto che sull’attuale modello centralizzato, permettendo così agli utenti di produrre energia “verde” direttamente da casa39. Per Neil Gershenfeld, la Rivoluzione Digitale rappresenterebbe una storia incompleta, poiché, almeno sino a qualche anno fa, ha riguardato essenzialmente i computer, che limitano l’informazione ad una superficie bidimensionale, e non le 38 39 Chris Anderson, op.cit., p.49. http://download.repubblica.it/pdf/2007/terza_rivoluzione_industriale.pdf 36
  • 37. persone dietro ai loro schermi: queste infatti, vivono in mondi tridimensionali, per cui diventa necessario abbattere la barriera fra l’informazione digitale ed il mondo fisico40. Per Chris Anderson, in linea con questo pensiero, né l’invenzione del calcolo digitale, né la connessione dei computer attraverso Internet possono essere in sé riconosciute come rivoluzioni industriali. Infatti, nella misura in cui si tratta di eventi trasformativi per la nostra cultura, riconosce a esse lo statuto di una rivoluzione, non potendo però annettervi l’attributo di industriale, poiché si sta solo di recente assistendo a quest’ultima. L’autore, difatti, non ha dubbi nell’identificare la Terza Rivoluzione Industriale con “la combinazione della manifattura digitale e di quella personale: l’industrializzazione del Movimento dei Makers”41, ovvero con una trasformazione che ha effetti di democratizzazione ed ampliamento nella produzione di beni materiali analoghi a quelli dei due mutamenti precedenti. Si tratterebbe inoltre di una Rivoluzione i cui effetti non si sono limitati alla mole di prodotti disponibili sul mercato, ma che ha allargato anche le maglie della classe dei potenziali imprenditori. In definitiva, si può affermare che nonostante il ricorrente parlare di weightless economy e in generale di un’economia dei bit che si sovrappone sempre più ad una ingombrante economia degli atomi, viviamo ancora, di fatto, in case, uffici, scuole e strade composte da atomi, per cui “qualsiasi cosa possa trasformare il processo di produzione di beni fisici ha un potere enorme in termini di influenza sull’economia globale. Si tratta della realizzazione di una vera rivoluzione”42. 40 Cfr. Neil Gershenfeld, Quando le cose iniziano a pensare, Garzanti, 1999. Chris Anderson, op.cit., p. 50. 42 Ibidem, p. 51. 41 37
  • 38. Figura 9. Illustrazione di Brett Ryder. Fonte: http://fareimpresa.liquida.it 6. Da Manchester ad Obama: quali prospettive per i makers Prima di dedicarsi alla situazione italiana, e dunque al sostrato distrettuale ed artigianale su cui probabilmente la portata del Movimento andrà ad incidere in misura maggiore, si ritiene opportuno, approfondendo quali politiche ed iniziative potrebbero assecondare e metter meglio a frutto le conseguenze del fenomeno sul territorio, presentare due casi, ovvero due modelli di comportamento da parte di due differenti Paesi limitatamente al fenomeno dei makerspace. Il primo caso prende le mosse dall’eredità lasciata nell’area su cui sorge la città di Manchester dalla Prima Rivoluzione Industriale. La città infatti, alla fine dell’Ottocento, era definita “Cottonopolis”, e si serviva di fiumi, torrenti e nascenti ferrovie per rifornirsi di balle di cotone grezzo e poi esportarne i prodotti finiti. “A metà dell’Ottocento Manchester era al suo apogeo […]. Era un lampo sul futuro: afferma Anderson - supply chain globale, vantaggio competitivo e automazione rendevano una città fino ad allora sconosciuta il centro del commercio tessile globale” 43 . Ciò rese la fabbrica di Manchester altamente competitiva, tanto da diventare un modello per le altre, finché non iniziò a vendere, oltre ai tessuti, le macchine che li avevano realizzati: a quel punto perse tale competitività ed iniziò il 43 Ibidem, p. 52. 38
  • 39. lungo declino della città, durato per oltre un secolo e cui non erano mai seguite riforme tali da invertirne il senso di marcia44. L’elemento che aiutò Manchester ad uscire da una situazione di stallo durata oltre un secolo, fu un tragico evento: il 15 giugno 1996 esplose nel centro della città la più devastante bomba mai congegnata in Gran Bretagna dall’IRA. L’avvenimento rappresentò una sorta di punto di svolta, in quanto “dopo anni di declino e di strategie di conversione fallite, la ricostruzione divenne un catalizzatore”45. Oggi si tenta infatti di ripensare la città come hub digitale, ovvero in vista di una serie di spazi dove abitare, lavorare, imparare, progettare e costruire, il tutto accompagnato da aree ricche di negozi ed attraenti scenografie architettoniche. Resta confinato ed apparentemente separato dalla rinascita della città, un quartiere post-industriale, New Islington, dove si possono trovare dei fabbricati assimilabili a vere e proprie rovine, che, essendo classificate come edifici storici, non si possono abbattere, ma le spese per la ricostruzione dei quali, essendo la richiesta della classificazione il mantenimento delle facciate originali, ne minano la fattibilità46. È all’interno di quest’area dove il tempo sembra essersi fermato, che si erge un edificio modermo, chiamato Chips, verosimilmente perché l’architetto avrebbe collocato in pila delle patatine per studiarne la forma, pensato per essere uno di quegli spazi moderni facenti parte di una hub: i piani superiori sarebbero stati ideati per un condominio, quelli inferiori per ristoranti e negozi, e quelli nel mezzo per uffici ed attività lavorative. Tuttavia lo scoppio della bolla immobiliare ha bloccato simili progetti, ragion per cui i proprietari hanno deciso di offrirlo all’associazione locale di industriali come sede per un laboratorio che si proietti nel futuro della fabbricazione di beni: oggi è il primo FabLab sorto nel Regno Unito47. 44 Cfr. ibidem, pp. 53-54. Ibidem, p. 54. 46 Cfr. ibidem, p. 55. 47 Cfr. ibidem, p. 56. 45 39
  • 40. Figura 10. Chips di Manchester. Fonte: http://www.e-architect.co.uk Benché la gran parte dei progetti sia realizzata da studenti e non sia ancora nata alcuna startup, il direttore del laboratorio, Haydn Insley, interpreta il fenomeno in termini di liberazione della creatività, affermando che a prevalere infine è la progettazione, non la realizzazione in sé; insomma ciò che conta, con le parole di Anderson, è che “sul Mersey le macchine hanno ripreso a girare”48. Un elemento chiave però, e che fa la differenza rispetto al precedente sviluppo sulle rive del Mersey, è che adesso l’innovazione ed i suoi strumenti sono alla portata di tutti: in modo simile alla democratizzazione dei mezzi di produzione su Internet, quali ad esempio il software o la musica, che “ha reso possibile creare un impero dalla stanza di una residenza per studenti o un disco in una camera da letto, così i nuovi strumenti democratici della manifattura digitale saranno le spinning jenny di domani”49. Si tratta dunque di pensare le possibilità offerte dai nuovi strumenti di produzione digitale come uno stimolo ed un’opportunità per la creazione di un saper fare diffuso, collaborativo e creativo, da cui poi nasceranno innovazione e crescita. Inoltre, siamo senza dubbio di fronte al noto concetto di Glocal, ovvero di un fenomeno che “opera per la tutela e la valorizzazione di identità, tradizioni e realtà locali, pur all’interno dell’orizzonte della globalizzazione” 50 . Si tratta di una 48 Ibidem, p. 57. Ibidem, p. 63. 50 http://www.grandidizionari.it 49 40
  • 41. corrente profondamente connessa alla dimensione locale dello sviluppo, e che, lungi da derive di stampo localistico, intende valorizzarne le risorse, a cominciare da capitale umano e sociale. Un tema, questo, su cui sembra aver ben riflettuto anche il Presidente degli Stati Uniti d’America, nella misura in cui, all’interno di un’iniziativa chiamata “We can’t wait”, egli ha annunciato nell’agosto 2012 un piano da un miliardo di dollari stanziati allo scopo di aprire altri quindici istituti nel Paese destinati all’innovazione manifatturiera, che possano fungere da hub locali per le eccellenze manifatturiere. Ad avviso di Barack Obama, non è infatti più possibile procrastinare, mentre tiene ad aggiungere che il momento adeguato per puntare su innovazione e produzione locale, per fare in modo che il futuro della manifattura non si trovi in Cina o in India, è adesso51. Figura 11. Galleria espositiva di oggetti ottenuti con le tecnologie della manifattura additiva, presso il NAMII. Photo by NCDMM. Fonte: www.namii.org. Lo scopo perseguito, infatti, è quello di dare nuova linfa alla manifattura americana, poiché per dar vita ad un’economia costruita per durare, l’America ha bisogno di produrre più di quanto il resto del mondo desideri acquistare. Altro obiettivo è incoraggiare le imprese a investire negli Stati Uniti, il tutto attraverso un’iniziativa che consisterà nel costruire un network fra le strutture aperte e che ha inizio con 51 Cfr. http://www.whitehouse.gov 41
  • 42. l’inaugurazione di un istituto preposto all’innovazione nel settore manifatturiero, nato a Youngstown, in Ohio, da una partnership di tipo pubblico-privato: il “National Additive Manufacturing Innovation Institute” (NAMII)52. L’iniziativa, oltre ad essere certamente degna di nota, coinvolge il nostro Paese più di quanto ci si possa attendere, poiché ingloba un progetto che ha fatto sì che nel gennaio del 2013 sorgesse a Pistoia, nella Biblioteca di San Giorgio, “YouLab”, spazio finanziato dall’Ambasciata americana, “tanto che il taglio del nastro è avvenuto subito dopo che l’ambasciatore David Thorne ha soffiato in un fischietto appena prodotto da una stampante 3D fatta a Firenze, la Kentstrapper” 53, racconta in un articolo il giornalista Riccardo Luna. “YouLab”, pertanto, è un American Corner, ovvero fa parte di una serie di spazi, distribuiti nel mondo, al cui interno l’Ambasciata statunitense, collaborando con partner locali, promuove la conoscenza della cultura, della società e della storia americana. Tuttavia, si tratta di un American Corner, però, sui generis, in quanto è il primo al mondo a caratterizzarsi come un Digital Innovation Center 54 . Il laboratorio, infatti, offre agli iscritti alla Biblioteca San Giorgio la possibilità di usufruire degli strumenti digitali presenti e di prendere parte a conferenze e laboratori inerenti alle tecnologie informatiche e alla creazione digitale, disponendo di “computer, tablets, macchine fotografiche, telecamere, corredati da software e altri complementi, testi sulle licenze digitali e sui Creative Commons, stampante laser e anche una stampante 3D per la creazione di oggetti a partire da progetti digitali”55. L’obiettivo è anche quello di condividere progetti e risultati in una rete di apprendimento sociale, volta ad incrementare il coinvolgimento della comunità locale e le collaborazioni fra quest’ultima e gli Stati Uniti56. Sembra, dunque, che sul territorio italiano siano presenti alcune interessanti risorse e prospettive, che forse il mondo politico nazionale fatica a mettere a fuoco, ma che non sono per questo meno ricche di potenzialità ed elementi innovativi. Certamente, la cosa non rappresenta un problema, nell’ottica di una dimensione collaborativa ed orizzontale, per la quale ciò che conta è che infine si giunga, al livello di singoli contributi nazionali, ad aggregare su base globale - o forse 52 Cfr. ibidem. http://ricerca.repubblica.it 54 Cfr. http://www.sangiorgio.comune.pistoia.it 55 Ibidem. 56 Cfr. ibidem. 53 42
  • 43. sarebbe meglio dire glocale - un dato avanzamento tecnologico e determinate sperimentazioni nell’ottica di una manifattura sempre più digitalizzata e al servizio dei bisogni individuali e collettivi. Tuttavia, in ottica nazionale, sembra auspicabile, considerate non solo la ricchezza e la storia della produzione manifatturiera, ma anche la crisi economica che attualmente attraversa il Paese, prendere spunto da entrambe le esperienze sopracitate. Da un lato, infatti, il caso di Manchester offre al nostro Paese l’esempio di come sia possibile partire da un territorio in declino e particolarmente disagiato, per gettare le basi di una ricostruzione non soltanto simbolica ma che, come tutti i processi di rinnovamento particolarmente riusciti, prenda le mosse dal basso, essendo pensata per supportare e accompagnare il percorso di crescita di studenti, giovani e futuri ed odierni imprenditori. Dall’altro, il ritorno al made in USA che possa contare su imprese innovative, da parte della politica statunitense, rappresenta forse una duplice consapevolezza che non può che far riflettere in chiave nazionale. In primo luogo, benché i dati parlino di un’economia smaterializzata che ha sempre più il sopravvento sull’economia reale, l’iniziativa dimostra che la ricchezza e la stabilità di un Paese si costruiscono attraverso il lavoro e il capitale umano che in esso si riflette, insegnamento che forse l’America ha introiettato a sue spese; in secondo luogo, si tratta di recuperare quel vantaggio competitivo nella manifattura che Stati Uniti ed Europa sembrano aver definitivamente perduto nei confronti delle cosiddette economie emergenti, caratterizzate da produzioni standardizzate a basso costo. Il tutto sembra richiamare l’idea di un ritorno a una produzione - Made in Usa, Made in Italy, Made in Europe - che punti invece a criteri qualitativi ed ambientali: concetto forse familiare e confacente al contesto nazionale, cui non starebbe altro che cogliere la sfida. Si tratterebbe, come alcuni osservatori affermano da qualche tempo, di puntare sulla tradizione artigianale e di piccola e media impresa che caratterizza il Paese, per lanciare prodotti che non mirino tanto a far concorrenza alla produzione di medio-bassa qualità ottenibile su altri mercati a minor costo, ma che puntino a una qualità medio-alta, sfruttando anche, ove occorra, le potenzialità offerte dalla nuova manifattura digitale. Un tema, questo, sul quale ci si soffermerà più avanti. 43
  • 44. 7. Sfide: limiti e opportunità Prima di occuparsi del carattere propriamente imprenditoriale del fenomeno in Italia, e soprattutto dei suoi possibili sviluppi, sembra indispensabile tentare di tracciarne brevemente un profilo dei limiti e, insieme, delle potenzialità. Si tratterà, in definitiva, il tema della dimensione d’impresa più adeguata alle caratteristiche produttive proprie degli strumenti della fabbricazione digitale, e dunque della tipologia di beni che si adattano meglio alla porzione di mercato ricavabile da un simile business. Si noterà così come le modalità produttive pongano dei limiti intrinseci al sistema, che possono però agevolmente trasformarsi in opportunità, se ci si focalizza su una nicchia di mercato ben definita. Si proveranno ad immaginare, in seguito, possibili modelli innovativi di business, facendo principalmente riferimento a startup e ad imprese che vogliano utilizzare gli strumenti offerti dalla “Terza Rivoluzione Industriale” per ottenerne un’attività economica sostenibile. Essere una startup innovativa, e in special modo utilizzare degli strumenti i cui effetti sul mercato non sono ancora stati pienamente testati, può certamente rappresentare un limite e un rischio, se non si fa riferimento a nuovi modelli che ne supportino l’impatto e ne evitino il fallimento. Infine, si parlerà anche dei nuovi metodi di finanziamento possibili per l’attività imprenditoriale, che ben si sposano con le dinamiche che contraddistinguono il fenomeno dei makers, e in generale della nuova imprenditoria. Si tratta del crowdfunding, e in specie del sito Kickstarter, sistema di cui descriveremo dinamiche e successi, in un’ottica che, sebbene non ne riconosca ciecamente le prerogative, scorgendovi anche dei rischi, tende ad attribuire maggior peso alle opportunità inesplorate che questo apre. 7.1. Trovare la propria dimensione: una scelta consapevole Un primo aspetto da trattare è quello della dimensione del business, ovvero della scala adeguata per la produzione, e del genere di beni da produrre per intercettare e occupare stabilmente la propria nicchia nel mercato globale. Per Anderson, si è di fronte alla scelta - quasi forzata per altro - di produzione seguente: focalizzarsi su prodotti che non traggano necessariamente beneficio dalle economie di scala, ma che puntino sulla personalizzazione e sulla complessità del 44
  • 45. manufatto. Mentre per i piccoli lotti e per i prodotti considerati di nicchia, dunque, il sistema digitale conserva certamente un vantaggio competitivo, per i grandi lotti sembra ancora difficile realizzare i costi competitivi ottenibili con il sistema analogico57. Le economie di scala, infatti, permettono di ridurre il costo unitario di un prodotto con il crescere del volume di produzione e del suo impianto, e dunque si adattano bene alla gran parte dei prodotti standardizzati di massa poiché si tratta di beni fungibili, cioè di prodotti perfettamente interscambiabili con altri appartenenti alla stessa categoria. Viceversa, se all’interno di tali economie s’introduce anche una singola variazione per alcuni pezzi della produzione, il costo di tale deviazione dalla produzione in serie standard diventa difficilmente sostenibile. Risulta dunque di agevole comprensione, a questo punto, comprendere perché possa essere utile, per determinati prodotti, servirsi di strumenti quali la stampa tridimensionale: quest’ultima, infatti, favorisce l’individualizzazione e la customizzazione del prodotto, in quanto in questo caso “non c’è nessuna penalizzazione finanziaria nel modificare una singola unità o nel fabbricare lotti piccolissimi”58. A questo proposito, Chris Anderson propone un’interessante analisi sulle possibilità offerte da un simile modo di produzione, aperto e rispondente ai bisogni personali. L’autore parte dunque dall’analizzare come Internet, in generale, abbia rivoluzionato non tanto la produzione, quanto la distribuzione dei beni fisici. Con ciò, egli fa riferimento al fatto che con il modello delle produzioni di massa del XX secolo, esistevano dei limiti ben definiti per ciò che fosse umanamente acquistabile: 1. il bene doveva essere sufficientemente popolare da giustificarne la fabbricazione; 2. doveva parimenti essere sufficientemente popolare da giustificarne la tenuta in assortimento da parte dei rivenditori; 3. doveva essere così popolare da poter essere facilmente reperibile per il consumatore59. 57 Cfr. Chris Anderson, op.cit, pp. 108-109. Ibidem, pp. 107-108. 59 Cfr. ibidem, p. 79. 58 45
  • 46. Propone in seguito l’esempio di Amazon, per dimostrare come il web abbia sollevato in parte i venditori dal secondo e dal terzo vincolo, ed in generale per far riflettere sul fatto che Internet ha fatto emergere una catena lunga di prodotti fisici - l’Internet delle cose - in grado di competere con la coda lunga dei prodotti digitali. Anche per quanto riguarda il primo limite, il web ha fatto sì che si fabbricassero più prodotti di nicchia, potendo questi ultimi contare su una domanda di mercato virtualmente globale60. Dunque, il passaggio a strumenti di fabbricazione digitale, come la stampante 3D, costituirebbe per l’autore il passo naturalmente successivo nella personalizzazione dei prodotti e nella riappropriazione della forza del singolo in mercati sempre più massificati e spersonalizzati (e spersonalizzanti). Così come la Rete “ha fatto emergere una coda lunga di domanda per i prodotti di nicchia; oggi gli strumenti democratizzati di produzione stanno facendo emergere anche una coda lunga di offerta”61. D’altro canto, già nel 1984, Michael Piore e Charles Sabel, due professori del MIT, predissero una simile transizione nel noto testo Le due vie allo sviluppo industriale, in cui sostenevano che la prima via industriale tra persone e produzione, ovvero il modello della produzione di massa che aveva caratterizzato il XX secolo, non era inevitabile e soprattutto non costituiva la fine dell’innovazione nella manifattura, ma era al contrario pensabile l’emergere di una specializzazione maggiormente flessibile62. In sintesi, tutti gli elementi che con la produzione tradizionale hanno un costo elevato, con la fabbricazione digitale divengono a costo zero: varietà, complessità e flessibilità, cioè la possibilità di modificare un prodotto dopo l’avvio della produzione, divengono opzioni gratuite63. Sembra essere fondamentale, dunque, al livello d’impresa, porsi delle domande e saper operare scelte consapevoli concernenti il prodotto e i suoi potenziali fruitori, che mirino in una certa misura a darsi dei limiti e a circoscrivere gli obiettivi che ci si pone, al fine di trasformare i vincoli in vantaggi competitivi. 60 Cfr. ibidem, p. 80. Ibidem, p. 82. 62 Cfr. ibidem, p. 85. 63 Cfr. ibidem, p. 109. 61 46
  • 47. 7.2. Nuovi modelli di business per un nuovo business Per quanto riguarda i possibili modelli cui ispirarsi, per le imprese di maker del futuro un sicuro punto di riferimento è il metodo della “Lean Startup”, introdotto nel 2008 da Eric Ries. Ries è un imprenditore della Silicon Valley che, basandosi sulla sua esperienza personale d’impresa, propone un modello che si fonda su una struttura leggera che mira ad evitare gli sprechi e i quasi sistematici fallimenti di tante startup. Uno dei principi chiave, infatti, è quello dell’apprendimento consolidato, ovvero il fare continui esperimenti, nello svolgimento dell’attività d’impresa, per verificare che si stia andando nella direzione di un business sostenibile 64 . Altro principio determinante è quello di Creazione, Misurazione e Apprendimento, per il quale una startup sarebbe costituita da tre attività fondamentali: “trasformare idee in prodotti, misurare le reazioni della clientela e capire se svoltare o perseverare” 65. Si tratta, in generale, di un metodo che prevede di verificare l’effettivo interesse dei potenziali utenti presentando una demo del prodotto, così da evitare di metterlo in produzione qualora non dovesse ottenere l’interesse sperato: è un iter che ben si sposa con nuove tecniche di finanziamento per le imprese, quali il crowdfunding attraverso siti come Kickstarter, di cui si parlerà in seguito. Ciò presuppone la modifica di eventuali funzionalità del prodotto sulla base dei feedback ricevuti dalla clientela, discostandosi, ove appropriato, anche da quanto indicato nel business plan 66 . Dei principi, dunque, che possono trovare vasta applicazione in un ambiente che si muove attraverso processi d’apprendimento orizzontali e collaborativi. Per quanto riguarda i business model, come suggerito da Frankenstein Garage, un grande catalizzatore d’attenzione è certamente il business model Canvas, uno strumento strategico che sfrutta la logica del visual thinking, e che è stato presentato da Alexander Osterwalder nel libro scritto con Yves Pigneur, Business Model Generation67. Lo scopo è quello di rappresentare il modo in cui un’azienda crea, distribuisce e cattura valore, per mezzo di un linguaggio universale comprensibile per tutti, utilizzando un framework al cui interno si muovono i nove elementi 64 Cfr. Eric Ries, The lean startup, Crown Business 2011, p. XVII. Ibidem. 66 Cfr. www.digitalmarketinglab.it 67 Alexander Osterwalder-Yves Pigneur, Business Model Generation, John Wiley & Sons Inc., 2010. 65 47
  • 48. costitutivi di un’azienda, al fine di dar vita a nuovi business o rafforzarne di esistenti68. Il modello di Canvas è dunque composto dai seguenti nove blocchi: 1. Segmenti di clientela, ovvero i differenti gruppi cui l’impresa si rivolge; 2. Valore offerto, ciò che l’impresa offre al cliente, 3. Canali di distribuzione e vendita, modalità attraverso cui l’impresa raggiunge la propria clientela; 4. Relazioni con i clienti, cioè differenti modalità relazionali, che vanno dall’assistenza personale alla co-creazione di contenuti e alle community online; 5. Flussi di ricavi, che possono ad esempio essere determinati da prezzi fissi indicati su un listino, o da una gestione dei prezzi dinamica; 6. Risorse chiave, gli elementi essenziali al buon funzionamento del modello; 7. Attività chiave, quali la progettazione, la distribuzione o il problem solving; 8. Partnership chiave, che mirino ad ottimizzare il modello; 9. Struttura dei costi: una bassa struttura dei costi, ad esempio, può essere più o meno importante69. Si tratta di un modello di business innovativo ed “aperto” alla collaborazione ed alla condivisione di idee in un gruppo di lavoro, pertanto particolarmente utile laddove non ci siano esperienze di business prestabilite da utilizzare come modelli come nel caso di un’impresa che si avvalga della fabbricazione digitale - e sia dunque utile partire da uno schema di base e di facile lettura che metta in evidenza la direzione verso la quale si intende procedere. Anche in questo caso, dunque, l’assenza di un modello di riferimento che si adatti perfettamente ad una realtà ancora in via di definizione, finisce per trasformarsi in un’opportunità, nella fattispecie fornendo la libertà, a chi si avvicini alla dimensione d’impresa impiegando strumenti digitali, di appropriarsi del modello che più si confà al progetto di business, fermi restando alcuni principi di massima, quali la chiarezza del modello e la sua creazione a partire dall’esperienza fattuale e dal confronto e dal dialogo fra i lavoratori stessi. 68 69 Cfr. www.businessmodelcanvas.it Cfr. ibidem. 48
  • 49. Figura 12. I nove blocchi del business model Canvas. Fonte: www.businessmodelgeneration.com 7.3. Come finanziarsi: la risposta del crowdfunding Per quanto concerne il finanziamento del business in senso stretto, merita infine qualche accenno il fenomeno di crescente importanza costituito dal “crowdfunding”, esemplificato da siti quali Kickstarter, mediante il quale i potenziali clienti del prodotto proposto contribuiscono con il denaro sufficiente per la sua realizzazione. Il crowdfunding è una pratica resa nota al livello globale da Barack Obama, che la utilizzò finanziando in tal modo parte della sua campagna elettorale del 2008; il concetto è, infatti, quello di utilizzare una piattaforma web per chiedere a potenziali investitori di finanziare un progetto in cui credono: un film, un prodotto tecnologico, il programma e la figura di un personaggio politico. In linea di massima, esistono due tipi generali di crowdfunding, ognuno dei quali presenta due sottotipi: 1. il primo, detto donation crowdfunding, è assimilabile a una donazione, che può avvenire secondo due modalità: il rewards crowdfunding, che prevede una 49
  • 50. ricompensa per i finanziatori del progetto, e il charity crowdfunding, che non prevede alcuna ricompensa e che è quello che può essere utilizzato in modo più appropriato da organizzazioni o enti senza scopo di lucro, o da un partito politico70; 2. l’investment crowdfunding, che può ripartirsi come segue: si ha il lending crowdfunding quando un insieme di persone presta denaro ad un individuo o ad un’impresa con la reciproca intesa che il prestito verrà restituito insieme agli interessi maturati, mentre si parla di equity crowdfunding, quando l’oggetto dello scambio consiste nel capitale azionario di una società71, in cambio del quale gli investitori finanzieranno un’idea di un imprenditore. La forma di finanziamento su cui si focalizzerà l’attenzione in questa sede, è quella del primo tipo, e nella fattispecie il rewards crowdfunding, che è il principio su cui si basano i principali siti a ciò dedicati, come Kickstarter ed Eppela. Su Kickstarter, infatti, è possibile leggere la descrizione e guardare la demo di un numero molto elevato di progetti, cui poi, qualora si ritenga valido il prodotto e si desideri acquistarlo, si può decidere di contribuire con una cifra che copra un valore predeterminato dall’ideatore, allo scopo di aggiudicarsi il prodotto, una volta realizzato, ad un prezzo inferiore a quello di vendita72. Il sito chiede al proponente di fissare una somma minima da raccogliere e se entro un determinato periodo dalla pubblicazione, in genere di quattro settimane, il progetto riceve una cifra di uguale o maggior ammontare, il prodotto ottiene il finanziamento sufficiente per la messa in produzione, i primi clienti ed utili consigli da questi ultimi mediante la modalità aperta di intervento attraverso la community online. Infatti, secondo Anderson il sito risolve agli imprenditori tre rilevanti problemi: 1. anticipa i ricavi nel momento in cui sono maggiormente necessari, ovvero quando è necessario dedicarsi ad attività quali lo sviluppo di prodotto e l’acquisto delle componenti; 2. trasforma la clientela in una community, poiché, in cambio della fiducia concessa, l’ideatore s’impegna ad aggiornare gli utenti sui progressi fatti, prendendo spunto anche da commenti e suggerimenti nei forum di discussione; 70 Cfr. http://www.crowdfundinsider.com Ibidem. 72 Cfr. Chris Anderson, op.cit., p. 205. 71 50
  • 51. 3. fornisce una ricerca di mercato, in quanto un progetto che non raggiunge il target dei finanziamenti, è verosimilmente un prodotto che avrebbe condotto al fallimento una volta approdato sul mercato73. Vi è ovviamente la possibilità che non si tratti di un campione statisticamente significativo, tuttavia sembra che quest’ipotesi non trovi un vistoso riscontro nella realtà dei fatti. In definitiva, si tratta anche di un modo per far sì che chi desidera realmente un prodotto abbia la certezza di ottenerlo, ad un costo ridotto, al solo “prezzo” di un pagamento anticipato e di una consegna posticipata, rimuovendo per questa via “una delle più grandi barriere all’innovazione promossa dalle piccole imprese: il capitale d’investimento iniziale”74. Si assisterebbe inoltre secondo Anderson, alla “forma definitiva di capitale sociale”, poiché si tratta spesso di un passaparola che fa circolare e giungere la notizia di un progetto attraverso i canali più vari, e che permette di ottenere l’attenzione dei soggetti maggiormente ricettivi attraverso la conoscenza latente dei loro desideri da parte della loro cerchia di conoscenti; in breve “la vera magia è costituita dai gradi di separazione messi in comunicazione”75, permettendo al progetto di creare la propria domanda. D’altro canto, il genere di progetti presentati sul sito è altamente eterogeneo, spaziando dall’arte, alla tecnologia, al cibo: è interessante notare che la quota maggiore di progetti finanziati si ritrova nel settore della musica (28,6%) e della filmografia (27,1%). Infatti, dal 28 aprile del 2009, data in cui è stato lanciato il sito, all’aprile del 2012, cinquantamila progetti sono stati finanziati su Kickstarter, più di ventiseimila dei quali hanno avuto successo. 73 Cfr. ibidem, p. 206. Ibidem, p. 207. 75 Ibidem. 74 51
  • 52. Figura 13. Categorie di progetti finanziati su Kickstarter. Fonte: www.kickstarter.com Quando abbiamo chiesto a Stefano Micelli in quale momento, a suo avviso, avvenga il passaggio dalla dimensione pedagogica e culturale del knowledge sharing, o più semplicemente del bricolage e dell’hobbismo, a quella imprenditoriale e di mercato, egli ha risolutamente affermato: “Secondo me, è il momento in cui un ‘maker’ presenta il suo prodotto su Kickstarter. Chi vede che il prodotto va, si butta, una volta c’erano le fiere per questo, ma con Kickstarter funziona ancora meglio”. Esiste senz’altro il rischio che qualche acuto osservatore possa copiare le idee più valide, ma, come Micelli ci risponde, la probabilità che ciò accada non offusca minimamente gli indiscutibili vantaggi che il mezzo in sé offre. È importante ricordare che dal 27 luglio 2013 è entrato ufficialmente in vigore il regolamento della Consob per il crowdfunding, che riconosce anche alle startup italiane la possibilità di raccogliere capitali mediante portali online: si dimostra in questo caso capacità d’iniziativa e lungimiranza nel riconoscere il valore che l’innovazione riveste nell’equilibrio economico complessivo, trattandosi, nel nostro caso, del primo Paese europeo ad aver approvato un pacchetto di regole per 52
  • 53. disciplinare il fenomeno76. In Makers, Chris Anderson giunge a proporre un interessante parallelismo: come la democratizzazione degli strumenti di produzione ha creato una nuova categoria di produttori, così i nuovi strumenti di raccolta dei capitali avrebbero dato vita ad una nuova categoria di investitori, che investirebbero quindi nell’“idea di un prodotto”: il crowdfunding rappresenterebbe dunque una sorta di “venture capital per il Movimento dei Makers” 77 , che estende la categoria dei finanziatori all’intera popolazione. 8. Verso un futuro artigiano? In questo capitolo, s’indagherà quanto il fenomeno dei makers abbia trovato riscontro al livello di impresa nel contesto del nostro Paese, cercando di comprendere di quali potenzialità quest’ultimo disponga, e da quali radici provengano. In prima battuta, si tenterà di fornire un profilo della figura dell’artigiano, nel senso ampio e tradizionale del termine, che permetta di introdurre alla presentazione del fenomeno in Italia e dei risvolti presentati dallo stesso e che potrebbero travolgere il settore, nell’ottica di una sua commistione con la dimensione tecnologica e digitale. Si presenteranno a tale scopo esempi di lavoratori appartenenti al mondo dell’artigianato, che costituiscono dei casi d’eccellenza in termini d’innovazione nel loro campo, e che pertanto, seguendo la definizione estensiva di Anderson proposta in sede d’introduzione, appartengono alla categoria di “makers”. Si approfondirà il tema delle imprese che utilizzano strumenti di fabbricazione digitale e che sfruttano elementi innovativi nella progettazione del prodotto, e si cercherà di comprendere quali conseguenze sociali comporti questa “esplosione” di creatività in un Paese che ha ottenuto dall’inventiva e dalla cultura del “fatto a mano” innumerevoli riconoscimenti, ed in cui determinate dinamiche di produzione collaborative e caratterizzate da una cura “artigianale”, non costituiscono di certo una novità. 76 77 Cfr. http://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza Chris Anderson, op.cit., p. 213. 53