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CONVEGNO:LA RABBIA E LA CURA
“PER-DONARE” LA NOSTRA RABBIA- RIABILITARE LE
EMOZIONI SCOMODE TRASFORMANDO IN LECITO L’ILLECITO
CHIAVARI, 31 OTTOBRE 2014
A cura di Mario De Maglie
Psicologo, Psicoterapeuta, Coordinatore Centro di Ascolto Uomini
Maltrattanti, Blogger de “Il Fatto Quotidiano”
www.mariodemaglie.it
madek5@hotmail.com
http://www.ilfattoquotidiano.it/blog/mdemaglie/
Senza contatto non c’è comunicazione
Rabbia:
dal latino ràbies che si connette ad una radice
a cui fa capo anche il sanscrito rabh-ate- agire
violentemente, infuriare.
L’emozione della rabbia appare legata
etimologicamente al concetto di violenza.
Violenza:
Si rifà a violento che ha origine dal latino
violèntus composto da vis significante: forza,
vigore, prepotenza e da ulèntus, terminazione
indicante un eccesso.
Violenza è quindi utilizzo eccessivo della forza.
DEDUCIAMO ETIMOLOGICAMENTE CHE
QUANDO SIAMO ARRABBIATI TENDIAMO
AD UN UTILIZZO ECCESSIVO DELLA FORZA.
La rabbia e la forza hanno valenza realmente
negativa?
Siamo portati a dare una valenza positiva o negativa a
tutto quel che fanno gli altri senza prendere mai in
considerazione i bisogni intimi che si celano dietro le
azioni , facciamo altrettanto con noi.
Siamo nati e cresciuti in una società che, giudicandoci
per prima, ci ha reso, a sua volta, giudici di noi stessi e
degli altri.
Abbiamo appreso il giudizio a scapito della
comprensione. Quel che temiamo a volte non è l’altro,
ma quel che nell’altro può venire rappresentato di noi.
Se giudico è perché mi ritengo implicitamente diverso
dal (s)oggetto che giudico
Esempio di emozioni che consideriamo
positive: gioia, meraviglia, felicità,amore.
Esempio di emozioni che consideriamo
negative: odio, rabbia, disperazione, tristezza.
Dare una valenza alle emozioni significa riconoscerne
l’utilità di alcune, ma disconoscerne quella di altre fino
ad arrivare a negare emozioni che proviamo perché
pensiamo che non siano buone e che ci qualifichino, noi
per primi, come non buoni.
QUESTO NON SERVE, qualsiasi sia il mio vissuto
emotivo devo dar lui riconoscimento e legittimità. Non
ho il diritto certamente di fare qualsiasi cosa in base al
mio stato emotivo, ma ho il diritto di poterlo esprimere
senza pensare di essere cattivo o sbagliato.
Questo non significa che non ci siano emozioni
piacevoli da provare e altre decisamente meno
piacevoli, ma non devono essere messe su una scala
valoriale.
Non riconoscere il proprio stato emotivo
significa essere portati a:
Bassa autostima;
Nevrosi;
Paura del giudizio;
Propensione a giudicare a propria volta;
Comportarsi in modo non aderente al proprio
sentire e quindi entrare in dissonanza,
confusione ed esprimersi con rabbia.
Marshall Rosenberg, psicologo americano ideatore
della Comunicazione Non Violenta (CNV), opera
una importante distinzione nel come possiamo
utilizzare la forza:
Uso protettivo: In situazioni di pericolo, per evitare
un infortunio o una ingiustizia. Spintonare e far
cadere un bambino è un atto violento, ma
spintonarlo e farlo cadere perché non finisca sotto
un’automobile in corsa non possiamo considerarlo
certo tale.
Uso punitivo: in situazioni in cui invece a guidarci
nell’atto di forza è la volontà che le persone
soffrano, per le loro presunte cattive azioni.
Non necessariamente siamo consapevoli di
fare del male all’altro o che l’altro faccia del
male a noi (basti pensare ai meccanismi di
minimizzazioni presenti negli autori e nelle
vittime di violenza anche dopo episodi molto
cruenti, immaginarsi per episodi “lievi”), ma il
comportamento utilizzato può comunque
ledere i sentimenti dell’altra persona o i nostri.
Siamo tutti a rischio di subire e agire
comportamenti maltrattanti, solo una
sensibilizzazione in tal senso che aumenti in
noi la consapevolezza della responsabilità e
degli effetti delle nostre azioni può aiutarci ad
agire in modo non violento.
La forza ha uno stretto legame con il potere.
Chi è forte ha potere e chi ha potere acquisisce
una forza.
L’utilizzo della forza e del potere sono
inevitabili, a volte siamo consapevoli di
esercitarli, altre volte ci illudiamo di non farlo,
ma si gioca a fare gli equilibristi.
Le dinamiche relazionali ci portano a
confrontarci non solo con la nostra forza ed il
nostro potere, ma anche con quelli dell’altro in
un terreno dove può nascere un confronto od
uno scontro il cui obiettivo è arrivare ad un
compromesso, se non altro provvisorio.
In ogni relazione affettiva possiamo pensare ci sia
un tacito accordo sull’utilizzo del potere, se i
rapporti di forza/potere cambiano essa diventa
instabile. Quando le donne mettono in discussione
il potere maschile è spesso in quel momento che
avviene la violenza e proprio quando la donna
prende consapevolezza del proprio potere che è
disposta a porre fine alla relazione e quindi al
maltrattamento. L’ uomo, avendo utilizzato una
forza senza un reale potere, ma basata sulla paura,
entra in crisi e non capisce cosa stia succedendo. Il
potere che si basa sulla paura è instabile e deleterio
per entrambe le parti, non è un potere effettivo.
Nelle relazioni di aiuto c’è una persona che ha
bisogno ed una persona che si ritiene in grado
di dare una risposta a quel bisogno. Non
sembrerebbe un rapporto paritario in termini
di potere, ma lo scopo dovrebbe essere ridurre
questa asimmetria. Ovviamente molto cambia
a seconda dei bisogni di chi si trova a chiedere
un aiuto, ma l’obiettivo è un esercizio del
potere che costituisca empowerment e risorsa
per l’altro e mai costrizione.
Il potere va esercitato innanzitutto su sé stessi.
Il potere personale inteso come la forza
interiore che ci rende capaci di
autoregolazione e di fiducia nel nostro essere
ci permette di non sentire alcun bisogno
di avere un “potere su” qualcuno.
Il bisogno di potere è poi intimamente legato
al bisogno di aver ragione.
Il voler avere necessariamente ragione è una
gabbia nella quale amiamo passare gran parte
del nostro tempo. Una volta un uomo in
consulenza mi disse che aveva cominciato a
relazionarsi meglio con la propria compagna
quando si era fatto questa semplice domanda:
“ Ma io preferisco stare bene o aver
ragione?” La risposta che si diede fu che
preferiva stare bene. Da allora riportò un
cambiamento significativo nella relazione con
la partner.
L’avere o meno ragione viene vissuto come un
giudizio universale sul nostro valore e ciò non
fa altro che farci fossilizzare sulle stesse
posizioni. In determinati contesti far valere il
proprio punto di vista è indubbiamente
rilevante, ma la tendenza è quella di farlo
sempre e comunque prevalere e, peggio
ancora, nei casi più gravi, di imporlo anche con
l’utilizzo della forza in virtù dell’assioma
fanciullesco creato ad hoc: “non potevo fare
altrimenti, avevo ragione”, lasciapassare per
ogni tipo di comportamento.
Quando parlo con gli uomini nella mia veste di
terapeuta, ma anche con le donne mi
meraviglio sempre di quanto sia importante
avere l’ultima parola nelle relazioni, ma anche
io, per primo, nelle mie relazioni, avverto
questa tendenza e solo, come sempre,
l’esserne consapevole mi porta alla ricerca di
un equilibrio che renda più funzionale la
comunicazione.
E’ normale provare nelle relazioni di aiuto
sentimenti quali: noia, rabbia, frustrazione,
invece di accettarli e metabolizzarli ci
sentiamo in colpa, li nascondiamo a noi stessi
e agli altri per non essere oggetto di biasimo,
pensiamo che il non provare questi sentimenti
sia direttamente collegato alla nostra capacità
di essere dei buoni professionisti finché
qualcosa non scricchiola o irrompe chiedendo
attenzione.
Favola de “La Cura”
La “Cura”, mentre stava attraversando un fiume,
scorse del fango cretoso; pensierosa ne raccolse
un po’ e cominciò a dargli forma. Mentre è intenta
a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove.
La “Cura” lo prega di infondere spirito a ciò che
essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma
quando la “cura” pretese di imporre il suo nome a
ciò che aveva fatto, Giove glielo impedì e volle che
fosse imposto il proprio. Mentre Giove e la “Cura”
disputavano sul nome, intervenne anche la Terra,
reclamando che a ciò che era stato fatto fosse
imposto il proprio nome, perché aveva dato ad
esso una parte del proprio corpo”
… “I disputanti elessero Saturno a giudice.
Il quale comunicò ai contendenti la
seguente giusta decisione: “Tu, Giove,
che hai dato lo spirito, al momento della
morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che
hai dato il corpo, al momento della morte
riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura
che per prima diede forma a questo
essere, fin che esso viva lo possieda la
Cura. Per quanto concerne la
controversia sul nome, si chiami homo
poiché è fatto di humus (Terra)”.
(M. Heidegger, 1976, Essere e Tempo,
L’uomo è costituito da potenzialità. Carl
Rogers parla della tendenza attualizzante dell’
essere umano come la fondamentale tendenza
a cercare di esprimere le proprie potenzialità e
la propria tensione alla vita nella direzione di
una loro piena realizzazione in armonia con gli
altri esseri umani. Rogers afferma la fiducia
nell’uomo e nella sua tendenza attualizzante.
Nell’ambito delle disabilità questo non è meno
vero, qualunque sia il livello di
compromissione ha delle potenzialità, la
possibilità di essere quel che può essere, nel
suo essere unico partendo proprio dal deficit
che la caratterizza.
La relazione con l’altro per il disabile è
strumento di elezione per l’affermazione delle
proprie potenzialità.
Esperire, sperimentarsi, sentirsi protetto
tramite l’altro.
La cura autentica implica la possibilità di
trattare e pensare la persona disabile come
un soggetto che “può” essere ciò che può.
A partire dalla propria condizione, può, a
modo suo, pensare a sé, sentire e
comunicare i propri bisogni, desiderare,
scegliere.
Implica riconoscerlo come parte attiva nella
relazione e nell’esperienza quotidiana.
”L’aver cura può in un certo modo
sollevare gli altri dalla cura,
sostituendosi loro nel prendersi cura,
intromettendosi al loro posto…
Gli altri risultano allora espulsi dal loro
posto, retrocessi, per ricevere, a cose
fatte e da altri, già pronto e
disponibile, ciò di cui essi si prendevano
cura, risultandone del tutto sgravati…
Gli altri possono essere trasformati in
dipendenti e in dominati, anche se il
predominio è tacito e dissimulato”
(Heidegger M., 1976, Essere e Tempo, trad. it. Longanesi, Milano, p. 157)
Di fronte ad un soggetto bisognoso di aiuto è
facile sostituirsi ad essa nei bisogni e nelle
scelte, se si ha una percezione/visione
deficitaria della stessa. Limitiamo o
blocchiamo così la possibilità che il soggetto
bisognoso possa esperire da sé anche in quello
in cui è in grado di esperire.
CURA è PROTEZIONE, non sostituzione. La
protezione non deve limitare l’autonomia, ma
agevolarla.
In base alla mia esperienza di educatore con
soggetti disabili le emozioni viaggiano su tre
diversi livelli:
La fatica del lavoro in sè;
Emozioni suscitate dalla disabilità;
Emozioni suscitate dalla propria capacità di
stare con quel tipo di disabilità.
L’ operatore non dovrebbe mai essere lasciato
solo con queste emozioni, ma dovrebbe
lavorare sempre in una rete che gli consenta di
esprimerle senza difficoltà e senza provare
vergogna ed imbarazzo.
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Bertolt Brecht

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Per donare la nostra rabbia

  • 1. CONVEGNO:LA RABBIA E LA CURA “PER-DONARE” LA NOSTRA RABBIA- RIABILITARE LE EMOZIONI SCOMODE TRASFORMANDO IN LECITO L’ILLECITO CHIAVARI, 31 OTTOBRE 2014 A cura di Mario De Maglie Psicologo, Psicoterapeuta, Coordinatore Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti, Blogger de “Il Fatto Quotidiano” www.mariodemaglie.it madek5@hotmail.com http://www.ilfattoquotidiano.it/blog/mdemaglie/
  • 2. Senza contatto non c’è comunicazione
  • 3. Rabbia: dal latino ràbies che si connette ad una radice a cui fa capo anche il sanscrito rabh-ate- agire violentemente, infuriare. L’emozione della rabbia appare legata etimologicamente al concetto di violenza.
  • 4. Violenza: Si rifà a violento che ha origine dal latino violèntus composto da vis significante: forza, vigore, prepotenza e da ulèntus, terminazione indicante un eccesso. Violenza è quindi utilizzo eccessivo della forza.
  • 5. DEDUCIAMO ETIMOLOGICAMENTE CHE QUANDO SIAMO ARRABBIATI TENDIAMO AD UN UTILIZZO ECCESSIVO DELLA FORZA. La rabbia e la forza hanno valenza realmente negativa?
  • 6. Siamo portati a dare una valenza positiva o negativa a tutto quel che fanno gli altri senza prendere mai in considerazione i bisogni intimi che si celano dietro le azioni , facciamo altrettanto con noi. Siamo nati e cresciuti in una società che, giudicandoci per prima, ci ha reso, a sua volta, giudici di noi stessi e degli altri. Abbiamo appreso il giudizio a scapito della comprensione. Quel che temiamo a volte non è l’altro, ma quel che nell’altro può venire rappresentato di noi. Se giudico è perché mi ritengo implicitamente diverso dal (s)oggetto che giudico
  • 7. Esempio di emozioni che consideriamo positive: gioia, meraviglia, felicità,amore. Esempio di emozioni che consideriamo negative: odio, rabbia, disperazione, tristezza.
  • 8. Dare una valenza alle emozioni significa riconoscerne l’utilità di alcune, ma disconoscerne quella di altre fino ad arrivare a negare emozioni che proviamo perché pensiamo che non siano buone e che ci qualifichino, noi per primi, come non buoni. QUESTO NON SERVE, qualsiasi sia il mio vissuto emotivo devo dar lui riconoscimento e legittimità. Non ho il diritto certamente di fare qualsiasi cosa in base al mio stato emotivo, ma ho il diritto di poterlo esprimere senza pensare di essere cattivo o sbagliato. Questo non significa che non ci siano emozioni piacevoli da provare e altre decisamente meno piacevoli, ma non devono essere messe su una scala valoriale.
  • 9. Non riconoscere il proprio stato emotivo significa essere portati a: Bassa autostima; Nevrosi; Paura del giudizio; Propensione a giudicare a propria volta; Comportarsi in modo non aderente al proprio sentire e quindi entrare in dissonanza, confusione ed esprimersi con rabbia.
  • 10. Marshall Rosenberg, psicologo americano ideatore della Comunicazione Non Violenta (CNV), opera una importante distinzione nel come possiamo utilizzare la forza: Uso protettivo: In situazioni di pericolo, per evitare un infortunio o una ingiustizia. Spintonare e far cadere un bambino è un atto violento, ma spintonarlo e farlo cadere perché non finisca sotto un’automobile in corsa non possiamo considerarlo certo tale. Uso punitivo: in situazioni in cui invece a guidarci nell’atto di forza è la volontà che le persone soffrano, per le loro presunte cattive azioni.
  • 11. Non necessariamente siamo consapevoli di fare del male all’altro o che l’altro faccia del male a noi (basti pensare ai meccanismi di minimizzazioni presenti negli autori e nelle vittime di violenza anche dopo episodi molto cruenti, immaginarsi per episodi “lievi”), ma il comportamento utilizzato può comunque ledere i sentimenti dell’altra persona o i nostri.
  • 12. Siamo tutti a rischio di subire e agire comportamenti maltrattanti, solo una sensibilizzazione in tal senso che aumenti in noi la consapevolezza della responsabilità e degli effetti delle nostre azioni può aiutarci ad agire in modo non violento.
  • 13. La forza ha uno stretto legame con il potere. Chi è forte ha potere e chi ha potere acquisisce una forza. L’utilizzo della forza e del potere sono inevitabili, a volte siamo consapevoli di esercitarli, altre volte ci illudiamo di non farlo, ma si gioca a fare gli equilibristi. Le dinamiche relazionali ci portano a confrontarci non solo con la nostra forza ed il nostro potere, ma anche con quelli dell’altro in un terreno dove può nascere un confronto od uno scontro il cui obiettivo è arrivare ad un compromesso, se non altro provvisorio.
  • 14. In ogni relazione affettiva possiamo pensare ci sia un tacito accordo sull’utilizzo del potere, se i rapporti di forza/potere cambiano essa diventa instabile. Quando le donne mettono in discussione il potere maschile è spesso in quel momento che avviene la violenza e proprio quando la donna prende consapevolezza del proprio potere che è disposta a porre fine alla relazione e quindi al maltrattamento. L’ uomo, avendo utilizzato una forza senza un reale potere, ma basata sulla paura, entra in crisi e non capisce cosa stia succedendo. Il potere che si basa sulla paura è instabile e deleterio per entrambe le parti, non è un potere effettivo.
  • 15. Nelle relazioni di aiuto c’è una persona che ha bisogno ed una persona che si ritiene in grado di dare una risposta a quel bisogno. Non sembrerebbe un rapporto paritario in termini di potere, ma lo scopo dovrebbe essere ridurre questa asimmetria. Ovviamente molto cambia a seconda dei bisogni di chi si trova a chiedere un aiuto, ma l’obiettivo è un esercizio del potere che costituisca empowerment e risorsa per l’altro e mai costrizione.
  • 16. Il potere va esercitato innanzitutto su sé stessi. Il potere personale inteso come la forza interiore che ci rende capaci di autoregolazione e di fiducia nel nostro essere ci permette di non sentire alcun bisogno di avere un “potere su” qualcuno.
  • 17. Il bisogno di potere è poi intimamente legato al bisogno di aver ragione. Il voler avere necessariamente ragione è una gabbia nella quale amiamo passare gran parte del nostro tempo. Una volta un uomo in consulenza mi disse che aveva cominciato a relazionarsi meglio con la propria compagna quando si era fatto questa semplice domanda: “ Ma io preferisco stare bene o aver ragione?” La risposta che si diede fu che preferiva stare bene. Da allora riportò un cambiamento significativo nella relazione con la partner.
  • 18. L’avere o meno ragione viene vissuto come un giudizio universale sul nostro valore e ciò non fa altro che farci fossilizzare sulle stesse posizioni. In determinati contesti far valere il proprio punto di vista è indubbiamente rilevante, ma la tendenza è quella di farlo sempre e comunque prevalere e, peggio ancora, nei casi più gravi, di imporlo anche con l’utilizzo della forza in virtù dell’assioma fanciullesco creato ad hoc: “non potevo fare altrimenti, avevo ragione”, lasciapassare per ogni tipo di comportamento.
  • 19. Quando parlo con gli uomini nella mia veste di terapeuta, ma anche con le donne mi meraviglio sempre di quanto sia importante avere l’ultima parola nelle relazioni, ma anche io, per primo, nelle mie relazioni, avverto questa tendenza e solo, come sempre, l’esserne consapevole mi porta alla ricerca di un equilibrio che renda più funzionale la comunicazione.
  • 20. E’ normale provare nelle relazioni di aiuto sentimenti quali: noia, rabbia, frustrazione, invece di accettarli e metabolizzarli ci sentiamo in colpa, li nascondiamo a noi stessi e agli altri per non essere oggetto di biasimo, pensiamo che il non provare questi sentimenti sia direttamente collegato alla nostra capacità di essere dei buoni professionisti finché qualcosa non scricchiola o irrompe chiedendo attenzione.
  • 21. Favola de “La Cura” La “Cura”, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa ne raccolse un po’ e cominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove. La “Cura” lo prega di infondere spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la “cura” pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo impedì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre Giove e la “Cura” disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo”
  • 22. … “I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, al momento della morte riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso viva lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (Terra)”. (M. Heidegger, 1976, Essere e Tempo,
  • 23. L’uomo è costituito da potenzialità. Carl Rogers parla della tendenza attualizzante dell’ essere umano come la fondamentale tendenza a cercare di esprimere le proprie potenzialità e la propria tensione alla vita nella direzione di una loro piena realizzazione in armonia con gli altri esseri umani. Rogers afferma la fiducia nell’uomo e nella sua tendenza attualizzante.
  • 24. Nell’ambito delle disabilità questo non è meno vero, qualunque sia il livello di compromissione ha delle potenzialità, la possibilità di essere quel che può essere, nel suo essere unico partendo proprio dal deficit che la caratterizza. La relazione con l’altro per il disabile è strumento di elezione per l’affermazione delle proprie potenzialità. Esperire, sperimentarsi, sentirsi protetto tramite l’altro.
  • 25. La cura autentica implica la possibilità di trattare e pensare la persona disabile come un soggetto che “può” essere ciò che può. A partire dalla propria condizione, può, a modo suo, pensare a sé, sentire e comunicare i propri bisogni, desiderare, scegliere. Implica riconoscerlo come parte attiva nella relazione e nell’esperienza quotidiana.
  • 26. ”L’aver cura può in un certo modo sollevare gli altri dalla cura, sostituendosi loro nel prendersi cura, intromettendosi al loro posto… Gli altri risultano allora espulsi dal loro posto, retrocessi, per ricevere, a cose fatte e da altri, già pronto e disponibile, ciò di cui essi si prendevano cura, risultandone del tutto sgravati… Gli altri possono essere trasformati in dipendenti e in dominati, anche se il predominio è tacito e dissimulato” (Heidegger M., 1976, Essere e Tempo, trad. it. Longanesi, Milano, p. 157)
  • 27. Di fronte ad un soggetto bisognoso di aiuto è facile sostituirsi ad essa nei bisogni e nelle scelte, se si ha una percezione/visione deficitaria della stessa. Limitiamo o blocchiamo così la possibilità che il soggetto bisognoso possa esperire da sé anche in quello in cui è in grado di esperire.
  • 28. CURA è PROTEZIONE, non sostituzione. La protezione non deve limitare l’autonomia, ma agevolarla.
  • 29. In base alla mia esperienza di educatore con soggetti disabili le emozioni viaggiano su tre diversi livelli: La fatica del lavoro in sè; Emozioni suscitate dalla disabilità; Emozioni suscitate dalla propria capacità di stare con quel tipo di disabilità.
  • 30. L’ operatore non dovrebbe mai essere lasciato solo con queste emozioni, ma dovrebbe lavorare sempre in una rete che gli consenta di esprimerle senza difficoltà e senza provare vergogna ed imbarazzo.
  • 31. “Tutti vedono la violenza del fiume in piena, nessuno vede la violenza degli argini che lo costringono” Bertolt Brecht