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A spasso per
i fatti nostri
Pier Luigi del Viscovo
Articoli pubblicati su il Giornale
con una prefazione di Giuseppe De Rita
Mamma, papà e Novella,
che ancora mancano.
5
SOMMARIO
PREFAZIONE	9
INTRODUZIONE	13
SOCIETÀ	17
FIAT. ZITTITUTTI, PARLA SOLO LA CGIL	 18
Protezione e assistenza non garantiscono il lavoro.	
I GRECI VOTANO MALE, LA COLPA È ANCHE LORO	 20
OLTRE LA NOVITÀ, ALLA RICERCA DEL “CLASSICO”	
INTRAMONTABILE	22
DIMENSIONI VERSUS EQUILIBRIO	 24
I FANNULLONI? LI CREA LO STATO INEFFICIENTE	 26
GLI IMMIGRATI SCELGANO: LA NOSTRA CIVILTÀ O LA LORO	 28
COSÌ L’ITALIA HA PERSO UNA GENERAZIONE	 29
La generazione persa per colpa di Stato, scuola e famiglia.
Per i nati negli anni ’80 il futuro è a rischio: colpa di scuole poco selettive,
lauree inutili e scarsa disponibilità al sacrificio	
IL “CONCORSONE” DEI PROFESSORI? DA BOCCIARE...	 32
Scuola, concorsone bocciato sul web. Candidati contro il nuovo esame:
carenze e sospetti di irregolarità. Pioggia di critiche sui social.
6
A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
LE BELLEZZE ITALIANE? PER LE NOSTRE LEGGI
SONO SOLO ECOMOSTRI	 34
Quanti ecomostri (a rigor di legge) tra le nostre bellezze.
Se applicassimo alla lettera le norme sulla tutela ambientale demoliremmo il meglio.	
REDDITO DI CITTADINANZA, FABBRICA DI DISOCCUPATI	 36
DOCENTI AL BIVIO E QUEI SACRIFICI DECISI DA UN PC	 39
DUE FOTO PER CAPIRE CHE L’IRAN ERA PIÙ AVANTI 50 ANNI FA	 41
NONVIVIAMOPERLAVORARE?MASENZALAVORONONSIVIVE	 43
L’ipocrisia dell’ex presidente dell’Uruguay.	
IL MITO FASTIDIOSO DEL POVERO BUONO	 46
L’UNICA ARMA CONTRO LE BALLE È L’ISTRUZIONE	 49
AVANCES VIETATE. CI ESTINGUEREMO PER FEMMINISMO	 40
POLITICA	53
UN SINDACATO MOSTRO CHE PRENDE SOLO IL POTERE	 54
LA GUERRA SI PAGA CARA: CON LA BORSA (O LA VITA)	 56
Un conflitto costa troppo e nessuno si oppone ai Paesi che aiutano l’Isis.
Ma anche senz’armi si deve reagire.	
TRE MOTIVI (DI CIVILTÀ) PER NON SCEGLIERE IL PD	 59
LA BARBARIE DELLO SCIOPERO CHE DANNEGGIA SOLO I CITTADINI	61
7
CAMBIARE FACCE NON CAMBIERÀ IL SISTEMA-PAESE	 63
Inutile cambiare le persone se non miglioriamo il sistema. Continuare a proporre facce
nuove non è la soluzione. La priorità è rendere più salubre l’ambiente politico.	
DUE MILIONI DI BRITANNICI CHIEDONO GIÀ DI RIVOTARE	 66
Londra abbia il coraggio di tornare indietro.	
LA LEZIONE DEI 5 STELLE: UNO VALE UNO MA C’È ANCHE
CHI VALE MENO DI ZERO	 69
M5S è impreparato.Troppi dilettanti. Uno non vale l’altro.	
TUTTI FUGGONO DAL «SOGNO» DI FIDEL	 71
Ha animato ideologie e illusioni che però si sono scontrate contro
il muro della storia. Sbriciolandosi.	
LA POLITICA OSTAGGIO DELLA PIAZZA ROSSA	 74
CHIAMIAMO ITERRORISTI CON IL LORO NOME: CRETINI	 76
Saranno anche bravi a usare strumenti e altro, ma in quanto a percezione
della realtà sono veramente scemi.	
LO “IUS SOLI” ELETTORALE L’ULTIMA CARTA DEL PD	 79
Spesa pubblica sprecona, P.A. che non pensa al cittadino, un debito pubblico
enorme, ma il Pd pensa allo ius soli.	
ILCOLONIALISMOPOLITICO?ORACISEMBRAILMALEMINORE	 81
L’ULTIMA FOLLIA GRILLINA:TRASPORTI LUMACA CON LA
«MOBILITÀ DOLCE»	 83
Nel loro programma esaltano la lentezza degli spostamenti: colpo mortale al turismo.	
IL FASCISMO E IL PAESE ALLO SPECCHIO	 86
8
A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
ECONOMIA	89
TROPPE VESSAZIONI CI VUOLE UN’ALTRA MARCIA DEI 40MILA	 90
Marcia dei 40.000 contro la distruzione del lavoro.	
FIAT È QUOTATA, FA QUEL CHE VUOLE	 92
Fiat è quotata in Borsa: per farle cambiare idea basterebbe scalarla.
Il governo non faccia ancora il pompiere, ma il suo lavoro: migliori
le condizioni del mercato e apra a nuove attività.	
MODELLI E FABBRICHE: PERTORINO SCELTE OBBLIGATE	 94
QUEL DOPPIOPESISMO SULLE REGOLE DELL’ECONOMIA	 97
FCA E UNA VERITÀ DURA DA DIGERIRE	 99
CONTA SOLO LA PRODUZIONE NON L’ITALIANITÀ	 101
DelViscovo «L’allarme dei sindacati? Dicano cosa hanno fatto
per lo sviluppo delle imprese di questo Paese».	
LOW COST, LA PERVERSA UTOPIA CHE CI RENDETUTTI PIÙ POVERI	104
Il web diffonde il suo commercio facendo leva pure sul prezzo.
Ma è un virus che danneggia l’economia.	
POVERTÀ DIMEZZATA IN 20 ANNI. È MERITO DELLA GLOBALIZZAZIONE	107
Il capitalismo è un sistema imperfetto ma ha benefici.
Gli Stati più ricchi devono però fare ancora molto.	
PERCHÉ IL MODELLO RYANAIR È FURBETTO E QUASI FALLITO	 109
RINGRAZIAMENTI	117
9
PREFAZIONE
Non siamo tanti, fra quelli che svolgono un lavoro professionale
o un impegno imprenditoriale, a concederci la difficile libertà di
scrivere per la stampa quotidiana, cioè per un genere di comuni-
cazione squisitamente di massa (mentre noi viviamo in circuiti e
su problemi molto stretti) ed essenzialmente dipendente dalla cro-
naca, dagli eventi di cronaca che si succedono giorno dopo giorno
(mentre noi lavoriamo su problemi e processi di media e lunga
durata). Scrivendo ogni tanto un articolo, ci mettiamo nelle con-
dizioni di oggettiva incoerenza; eppure lo facciamo.
Perché lo facciamo? In un recente colloquio del Viscovo ed io ci
siamo dati due risposte: la prima è che lo facciamo perché rite-
niamo di potere fa rifluire sulla stampa quotidiana le nostre idee,
le nostre riflessioni, le nostre proposte, cioè il nostro patrimonio
conoscitivo; la seconda risposta, più banale e meno ambiziosa, è
che lo facciamo perché ogni tanto ci piace uscire dal recinto in cui
siamo collocati, e darci la libertà di andare a spasso (a “flanellare”)
per strade e vicoli per noi inusuali, la cui realtà ci distrae o ci incu-
riosisce. Ne traiamo un po’ di igiene mentale ma anche stimoli che
mai e poi mai il recinto professionale ci potrebbe garantire.
Le pagine che seguono dimostrano chiaramente questo orienta-
mento. Vero è che alcuni degli articoli di del Viscovo sembrano
discrete esternazioni di convincimenti anche delicati nati nel suo
lavoro professionale. Basta rileggersi l’articolo sulla mobilità che
deve essere “non dolce” (darebbe un colpo mortale al turismo) ma
solo “rapida e capillare”; e più ancora i quattro-cinque articoli de-
dicati alla FCA, alla sua strategia, ai suoi prodotti, alle sue decisioni
di localizzazione, alla sua prudenza negli investimenti (magari in
polemica con “un alfiere del lusso made in Italy” che chiedeva più
coraggio nel prospettare nuovi prodotti); tutto a conferma che noi
scriviamo sui quotidiani “anche” per rendere pubbliche e discuti-
bili le nostre convinzioni ed opzioni professionali.
Ma la maggior parte degli articoli qui ripubblicati è figlia dell’an-
10
A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
dare a spasso, del flanellare, nella realtà quotidiana; e per coglierne
aspetti che di solito non arrivano sui nostri tavoli di lavoro. E si
ritrova quindi in essi la curiosità giornalistica di:
- vedere e capire i grandi problemi di sistema: la globalizzazione, la
povertà, il ruolo del capitalismo industriale nel ridurle, le disegua-
glianze sociali e la loro drammatica complessità, la guerra e le sue
ambiguità (“l’idea che la si possa combattere nei talk-show e nei
colloqui europei è davvero singolare);
- vedere e capire i grandi processi politici che oggi agitano la realtà
europea (Brexit, la crisi della Grecia, l’evoluzione del Welfare State,
le ambigue istanze alla “sovranità nazionale”, ecc.);
- vedere e capire le tante pieghe dei problemi che angustiano il
nostro vivere collettivo: la generazione attuale di giovani, “persa”
in parte per propria colpa ma ancor più per colpa delle famiglie,
del sistema formativo, dello Stato (“che drena metà della ricchezza
che si produce e ne spreca una buona parte”); il grande flusso de-
gli immigrati, non adeguatamente regolato; la troppa fiducia nella
“piazza” come campo di rivendicazione; il peso crescente delle fake
news e il loro fronteggiamento con forti impegni culturali e for-
mativi; la crisi del sindacato e il rischio che la rappresentanza di
interessi specifici possa danneggiare i cittadini;
- ed infine vedere e capire, con coraggio civile, le vicende della
nostra disastrata dialettica politica: si veda l’articolo sui “tre motivi
per non votare PD”; e quello sul meccanismo “uno vale uno”, che
rischia di portare il M5S a diventare una “armata Brancaleone” o
un più agreste “pollaio”.
La passeggiata nella società ha, come si vede, dato a del Viscovo
una buona raccolta di stimoli e di provocazioni; e sono convinto
che ne trarrà vantaggio anche la consistenza socioeconomica del
suo lavoro professionale. Andare ogni tanto a spasso fa bene, per-
ché quando si ritorna nel proprio recinto, manteniamo una certa
attenzione al proprio “altrove” ed alla complessità, quasi alla estra-
neità di tanti comportamenti individuali e collettivi.
Una tale conclusione può essere accusata di quell’egoismo intel-
lettuale che tende a incorporare tutto nella propria testa e che è
11
tipico di chi fa lavoro intellettuale. Personalmente ammetto di col-
tivare tale egoismo, ma sono convinto che altrettanto non si possa
dire per del Viscovo, visto che gli articoli che seguono dimostrano
una grande tensione civile ad informare ed orientare una opinione
pubblica condizionata più dagli eventi che dai processi reali; più
dalla cronaca spicciola che dall’approfondimento delle tante varia-
bili del reale; più dalle chiacchiere di retroscena che dal confronto
sui temi centrali dell’attuale sviluppo.
Ed a questo credo si debba aggiungere qualcosa di più sottile, vor-
rei dire valoriale, in quanto del Viscovo mette infatti in ogni artico-
lo una dose più o meno esplicita di richiami alla serietà degli atteg-
giamenti e dei comportamenti: ragionare e far ragionare in modo
equilibrato, senza sbavature di accentuazioni enfatiche; ragionare
e far ragionare in termini di rigore intellettuale ed umano – senza
alcuno spazio per “approcci amatoriali”; ragionare e far ragionare
ricercando sempre la “dimensione giusta” (dei polsi per gli orologi
come dei conti di un eventuale reddito di cittadinanza); ragionare
e far ragionare sul necessario parallelo sviluppo del desiderio di pa-
droneggiare la realtà circostante e del rispetto degli altrui bisogni e
pareri; ragionare e far ragionare come “persone per bene che parla-
no a persone per bene” (ambizioso ma necessario obiettivo); ragio-
nare e far ragionare non in termini di astratto rispetto del “merito”,
ma dei concreti processi di selezione, gestione, valorizzazione del
personale; ragionare nell’intima convinzione della centralità anche
sociale della responsabilità di ogni singola persona. In fondo mi
piace sintetizzare il valore della presenza giornalistica di del Visco-
vo nell’ultima frase di un suo articolo di tre anni fa: “meritocrazia,
responsabilità, idee e coraggio”. È un messaggio, mi sembra di po-
ter affermare, che non viene tanto dalla sua e nostra seria profes-
sionalità, ma dal suo andare a spasso nelle tante realtà del sociale.
A conferma, diremmo sorridendo noi due, che “flanellare fa bene”.
Giuseppe De Rita
Presidente
Fondazione Censis
13
INTRODUZIONE
Curvare la realtà. Deviare dalla linea reale dei fatti, seguendo
un’idea e fingendo che essa sia la realtà. Quando la vita pre-
senta uno spigolo, nella forma di cose e comportamenti che
male si incastrano con la visione che uno ha di sé e degli altri,
la curvatura addolcisce lo spigolo. Ma tanti non si acconten-
tano solo della dolcezza, pretendono che la sporgenza sia ap-
piattita, quando non addirittura resa concava. La realtà viene
profondamente curvata. Fino alle inversioni a U.
È una pratica tanto diffusa in quanto connaturata all’animo
umano. Ma cosa spinge donne e uomini lontano dalla realtà,
verso una visione di essa, più o meno adattata, modellata? Sia-
mo portati in genere a guardarla come una nostra debolezza,
qualcosa da estirpare, nel nome del bene supremo, la verità.
Tuttavia, abbiamo bisogno di questa facoltà di schermarci da
alcuni aspetti della realtà. Per rendere la vita stessa più sop-
portabile.
Siamo immersi in una vita che somiglia a un pendolo tra il co-
dice e la sua trasgressione. Può non piacerci, ma è così. Siamo
così. Siamo questo. E il giudizio si applica a quella zona grigia,
positivo quando tende al bianco o negativo se eccede verso il
nero. Pas trop de zèle.
Ma questa oscillazione continua non riguarda solo il singo-
lo, ma anche la società, nella misura in cui abbiamo bisogno
di condividere l’appartenenza a determinati gruppi, siano la
famiglia, un ambiente di lavoro, una squadra sportiva o un
movimento socio-politico. Per farlo, dobbiamo a volte tra-
sformarli in qualcosa di meno stridente, dobbiamo addolcirne
qualche spigolo. Vogliamo diminuire l’enfasi su certe miserie
e accentuare i lati positivi. Facciamo queste scelte guidati dalla
bussola dei valori che abbiamo adottato e a cui cerchiamo di
far corrispondere noi stessi e i nostri gruppi di appartenenza.
14
A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
L’ambiente che ci circonda, dentro cui viviamo fisicamente e
spiritualmente, è formato di donne e uomini, che lo rendono
ovviamente a loro somiglianza. A nostra somiglianza e dunque
per definizione imperfetto, denso di sbavature e di allonta-
namenti dal codice di condotta. Codice che serve appunto a
indicare la rotta a persone diversamente erranti, inclini alla
facilità e all’amor proprio e a tutti quegli istinti che vogliamo
invece mitigare e governare con l’autorità che ciascuno eserci-
ta su sé stesso.
Ma una volta che decidiamo di appartenere a un contesto,
che sia una famiglia o un’associazione o semplicemente un
movimento di opinione, sentiamo il bisogno di preservarne
la compiutezza dell’impianto, o almeno di non scardinarlo.
Nel fare ciò, è necessario attutire o soffocare alcune evidenze,
quelle che deviano dal codice che il contesto medesimo ha
scelto per sé. È un’operazione che si prefigge la conservazione
del nostro ambiente elettivo.
Il compito dell’informazione è di portare la verità all’atten-
zione del pubblico. Ma, per quanto sopra detto, il seme della
verità non trova tutti i campi pronti ad accoglierlo con favo-
re. Se la verità svela fatti in contrasto con l’idea di noi o del
nostro ambiente, si apre una valutazione: rigettare quel seme
ovvero accoglierlo comunque, magari opportunamente trat-
tato e addolcito. Questa seconda opzione è la più ricorrente.
Tanto da aver dato luogo all’informazione di parte, per quello
che possa significare. Non tutti hanno bisogno però della stes-
sa edulcorazione. C’è chi vuole proprio una melassa, ossia la
trasfigurazione della realtà, e chi all’opposto preferisce il caffè
amaro. Ma il grosso un cucchiaino lo gradisce, in certi casi
anche due. Cosa fa la differenza? Cosa rende la persona capace
di accettare le devianze, le debolezze, senza compromettere
l’intero impianto? La conoscenza, il sapere, che dà la fiducia
di poter stare anche in un ambiente meno che perfetto. La
convinzione che il bianco sia una destinazione, sebbene non
raggiungibile perché estranea alla natura umana.
15
Dal canto suo, l’informazione si aggiusta di conseguenza, sce-
gliendo di dare ciò che piace piuttosto che ciò che è. Tradendo
la sua missione? A rigor di logica sì. Ma nel paese del perdono
e del purgatorio può bastare sapere che c’è chi addolcisce per
la controparte, in modo da bilanciare.
Con tutta la comprensione possibile e senza alcun intento giu-
dicante, gli articoli raccolti in questo volume puntano a svelare
quei lati dei fatti che tendenzialmente vengono tenuti nascosti
o negati, perché stonano nella sinfonia della rappresentazio-
ne. Non si tratta di verità sconosciute, anzi. Frequentemente
basta un semplice accenno a motivazioni e comportamenti e
fatti. Perché sono cose soltanto accantonate, rimosse. Note
stonate, che pure fanno parte dello spartito della vita, anche se
in punto di etica (e di estetica, a volte) non dovrebbero. Ma la
suonata della vita, ahimè, è più vasta delle sue aree di indagine
filosofica. Ci sarò riuscito? Dimmelo tu.
17
SOCIETÀ
18
A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
FIAT. ZITTI TUTTI, PARLA SOLO LA CGIL
Protezione e assistenza non garantiscono il lavoro.
I politici sono intervenuti sull’intervista rilasciata da Mar-
chionne a Fabio Fazio, con due addebiti principali: la Fiat ha
un debito verso il Paese per gli aiuti ricevuti in passato e do-
vrebbe fare auto grandi su cui si guadagna di più, così da poter
competere anche con costi maggiori dovuti al “sistema Paese”.
Primo. Gli aiuti in passato miravano a forzare scelte contro il
mercato ma in favore di occupazione e localizzazione in aree
depresse. Se quei politici non hanno già ottenuto tutto il cor-
rispettivo di quegli aiuti, da cittadino me la prendo con loro.
Comunque, quella partita è chiusa. Ma certe politiche indu-
striali di retroguardia non hanno favorito né il Paese né la
Fiat, arrivata a inizio secolo sull’orlo del fallimento (di fronte
al quale lo Stato ha alzato le mani, salvo ritornare alla carica
appena ha sentito odore di soldi). Protezione e assistenza non
hanno mai garantito il lavoro, la competizione sì. E questo
non è capitalismo, è storia umana.
Secondo, fare auto grandi. Se oggi la Fiat è tonica lo deve sì
al coraggio della famiglia di restare nell’auto e a un leader che
culturalmente non è italiano e professionalmente non è un
“car guy”. Ma anche ad alcuni vantaggi competitivi, tra cui
la tecnologia d’avanguardia sui motori e – soprattutto – la
grande capacità di costruire auto piccole ottime, belle e spa-
ziose. Se c’è in Europa un segmento che fatica meno è proprio
quello delle automobili piccole: costano meno, consumano
meno, in città sono comode, fuori città si va sempre meno in
auto, l’auto è un oggetto più personale che familiare, il lusso
può stare anche in 3 metri di macchina. Per fare soldi nell’alto
di gamma servono – oltre a un prodotto adeguato – un brand
19
e una distribuzione globale, a cui Fiat sta lavorando. Questi
sono i fatti. La logica dei politici è invece sintomatica del loro
livello. Non affrontano il problema di “come rendere compe-
titiva una produzione italiana?” (a cominciare dal cuneo fisca-
le, direi), ma ribaltano la questione: “Quali prodotti occul-
terebbero le nostre inefficienze? Per quanto tempo ancora?”
Le critiche sono arrivate da destra e da sinistra, ma Epifani
ha tuonato da vero padrone delle ferriere, chiarendo che in
fondo Marchionne può fare ciò che vuole, tranne parlare. «Se
parla ai cittadini, la vertenza Fiat si risolve più facilmente o
più difficilmente? La ricomposizione di un tavolo con la Fiom
è più facile o più difficile dopo questa esposizione mediatica?
Ci si può limitare ad andare in tv? Si possono trattare così le
organizzazioni sindacali?»
Ma quale ricomposizione? Quale tavolo?
È incredibile. 30 anni fa Berlinguer ci ha sbattuto il muso,
sulla volontà delle persone perbene di decidere se lavorare o
scioperare, senza imposizioni. Si chiama democrazia. Adesso ci
risiamo. 3 persone possono scioperare, sì, ma non sabotare gli
impianti per impedire agli altri di lavorare. Ma nessuno può
dirlo, il microfono (lo scettro) è suo. Le fabbriche possono
restare o andare, ma ciò che gli sta a cuore è che la storia
la racconti lui. Lui e nessun altro. Perché chi racconta ha il
potere.
Articolo pubblicato su il Giornale, il 9 novembre 2010
20
A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
I GRECI VOTANO MALE, LA COLPA È ANCHE
LORO
Adesso è politica. Tsipras è in difficoltà con gli elettori. Aveva
promesso di mordere la mano che sta elargendo i soldi per gli
stipendi: 240 miliardi, gli ultimi 7 da incassare adesso, e la
BCE che torna ad accettare i bond ellenici. Ora dovrà azzan-
nare le cause del disastro: corruzione, evasione, contrabban-
do, PA ipertrofica, Stato troppo presente in economia. Non
ci ricorda qualcuno? Ma era, ed è, tutta politica. Tsipras è un
politico. “Abbiamo vinto tutti”, ha detto Padoan – se non è
politica questa… La partita economica era già stata confinata
entro limiti circoscritti quando Obama aveva avvertito che
l’uscita dall’euro, con la conseguente attrazione nell’orbita
russa, non è un’opzione: giocate pure, ma non fate cascare la
palla di sotto.
In politica, la crisi greca è stata presentata come una disputa
tra i buoni, il popolo greco impoverito, e i cattivi, i ricchi eu-
ropei che godono a vederli annaspare. Era la via più semplice.
Dare addosso allo straniero. Meglio se teutonico, inutile fin-
gere di no. All’obiezione che sono i greci ad aver causato il dis-
sesto economico, si replica che sono stati i governi precedenti
di centrodestra (ma prima e a lungo furono di centrosinistra),
non Tsipras e comunque mai il popolo. Ecco, l’idea spacciata
(perché di oppio si tratta) che i meriti siano del popolo e le
colpe dei governi è scorretta e oltraggiosa. La Grecia è una de-
mocrazia a suffragio universale: chi sta al potere è espressione
della maggioranza dei cittadini. Chi ritiene i cittadini in grado
di eleggere, deve anche ritenerli responsabili del dissesto. Vi-
ceversa, chi li solleva dalla responsabilità, afferma di fatto che
popolo e governo sono due entità non così legate. È comodo,
perché poi è un attimo spostare le colpe dal governo, se ‘dei
nostri’, alla troika. Ma è scorretto. Il popolo (tutto, non solo
21
chi ha votato a favore) è responsabile delle scelte politiche dei
governi che elegge. La troika che va in soccorso vuole solo ga-
ranzia che riavrà i suoi soldi, i nostri soldi. Come non è affar
loro, purchè sia antibiotico, non tachipirina. Usare la stessa
moneta implica condividere gli indicatori economici, Grecia,
Germania, Italia, Olanda, tutti. Come farlo è ancora affare
dei singoli Stati. Qualcuno riesce meglio e prima, qualcuno
arranca e soffre. Ma deve arrivarci da solo. Si può insegnare a
un bambino a andare in bicicletta, ma non si può pedalare al
posto suo.
Nell’Europa economica e non politica, la Grecia è uno Stato
sovrano. Anche se il suo modello economico non regge, nessu-
no ha il potere di intervenire per riformare il sistema e gestirlo
in modo diverso: o lo fanno loro, o non lo fa nessuno. Finora,
non l’ha fatto nessuno. Hanno scelto di tagliare solo le spese,
per non cambiare l’assetto che li ha portati nel baratro. Forse
perché piace? Suona strano, ma è proprio la sovranità che ha
affamato i greci, non la mancanza di essa. Questa la cifra del
problema, e non si chiama solo Grecia.
Articolo pubblicato su il Giornale, il 24 febbraio 2015
22
A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
OLTRE LA NOVITÀ, ALLA RICERCA DEL
“CLASSICO” INTRAMONTABILE
Il tempo passa. E i tempi cambiano. Ciò che ieri abbiamo
acquistato e indossato, oggi ci sembra un po’ meno attuale. Se
poi ripeschiamo qualcosa di dieci anni fa, quasi ci stupiamo.
È la moda, bellezza! Del resto, si tratta per la gran parte di og-
getti dal prezzo contenuto. Quando ci avviciniamo a un pro-
dotto più impegnativo, stiamo attenti a non sceglierlo troppo
legato alla moda del momento, perché sappiamo che dopo
poco tempo non sarebbe facilmente indossabile.
Nell’orologeria, occorre un distinguo. Quella di basso prezzo,
fino a 100 euro, può benissimo proporsi con prodotti che ogni
anno si rinnovano. Il prototipo è lo Swatch, che addirittura
ha basato il suo posizionamento sulle novità delle collezioni.
Ma quando saliamo agli orologi di fascia media e poi arrivia-
mo a quelli di lusso, oltre i 2.000 euro, la prospettiva cambia.
Va bene che non lo riceviamo più alla cresima per tenercelo
al polso tutta la vita, come i nostri nonni. Però si tratta pur
sempre di un oggetto economicamente impegnativo, che vor-
remmo indossare con soddisfazione e compiacimento ancora
tra dieci anni.
Le maison si sforzano di competere attirando l’attenzione del
pubblico con le novità, presentando ogni anno a Basilea le
nuove collezioni. Ma c’è da chiedersi quanto questo sia in
linea con lo spirito del prodotto, così come lo interpretano i
clienti. Anche perché poi, a ben guardare, ogni maison ha uno
o due classici che fanno una grossa fetta delle vendite e confe-
riscono potere contrattuale verso i distributori. Cosa sarebbe
Tag Heuer senza il Monaco? IWC senza il Portoghese? Omega
senza il Moonwatch? Jaeger-LeCoultre senza il Reverso? Ma
questi classici un tempo sono stati la novità dell’anno. Vero!
23
Sessant’anni fa Rolex presentò il Submariner, una novità che
ancora oggi è un best seller, che ha subito lievissimi ritocchi in
sei decenni. Allora la chiave deve essere un’altra.
Fanno bene le maison a progettare continuamente nuovi oro-
logi, è la loro missione. Ma forse dovrebbero farlo ponendosi
un orizzonte temporale più lungo, che non sia la collezione
del prossimo anno. La ricerca dovrebbe puntare non alla moda
del momento, ma all’icona dei prossimi decenni. È una sfida
difficile. Una ciambella che raramente riesce col buco. Però è
questa la vocazione dei maestri orologiai. Gerald Genta, uno
dei più grandi e prolifici designer di capolavori di orologeria,
ha firmato – tra gli altri - il Royal Oak per Audemars Piguet
nel 1970, il Nautilus per Patek Philippe nel 1976 e il Pasha
per Cartier nel 1997. Ci serve davvero l’esercito di designer
che sforna ogni anno una collezione e ritocca/invecchia i pro-
dotti esistenti?
Articolo pubblicato su il Giornale, il 26 maggio 2015
24
A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
DIMENSIONI VERSUS EQUILIBRIO
Gli orologi da polso sono troppo grandi e ingombranti. Pare
che l’abbiano capito anche i produttori, visto che molte Mai-
son già in autunno, in anticipo su Basilea, avevano presentato
versioni più contenute di alcuni modelli classici.
In verità, è una vexata quaestio, almeno a giudicare dai forum
che si leggono in rete. Indubbiamente, certe dimensioni gene-
rose hanno sedotto più di un cliente.
D’altro canto, molti appassionati rifiutano quei millimetri ec-
cedenti che trasformano, secondo loro, un oggetto splendido
in un’esternazione insopportabile, decisamente sopra le righe.
Una questione di eleganza, per chi la vuole capire: del resto,
signori si nasce!
Le forme troppo contenute del secolo scorso erano spesso tese
a rappresentare la bravura dei maestri orologiai nel contenere
i meccanismi in spazi angusti.
Un eccesso dovuto ai tecnici a cui è seguito poi il suo contra-
rio: le grandi dimensioni sono state il frutto di politiche di
marketing all’inseguimento di una clientela capace di spen-
dere molto, ma ancora un tantino distante da certe finezze.
Calciatori, oligarchi, sceicchi.
Tutte persone che la sveglia, se non al collo, ce l’hanno al polso.
Purtroppo, non sembra che il ritorno a dimensioni normali
sia dettato da uno spirito di affermazione del bello e dell’e-
leganza da parte delle manifatture, quanto dalla necessità di
vestire polsi asiatici e femminili (che da alcuni anni hanno
deciso di adottare le versioni maschili degli orologi – e hanno
fatto quasi sempre bene).
25
Però va bene, prendiamoci queste forme recuperate di garbo,
e diffondiamo il gusto dell’equilibrio.
Articolo pubblicato su il Giornale, il 26 maggio 2015
26
A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
I FANNULLONI? LI CREA LO STATO INEFFICIENTE
“Licenziare i dipendenti pubblici che falsificano le presenze”.
Su questa affermazione del Ministro Madia è subito partita la
discussione. Nel mondo normale, manco se ne parla di uno
che perde il posto perché non va a lavorare e fa timbrare da un
altro: tutti e due fuori e fortunati che non vengano denunciati
alla Procura. Ma va bene. Però, se discussione dev’essere, che
siano invitati pure i 578 lavoratori Michelin di Fossano, che
perderanno il posto pur non essendo assenteisti. Magari han-
no qualcosa da dire ai colleghi della PA.
Loro, che vivono e lavorano nel mondo normale, perdono il
posto se il sistema non ha più bisogno che vadano ogni giorno
a produrre, perché il mercato, la domanda, non acquista il
frutto del loro lavoro.
Piaccia o non piaccia, a grandi linee così funziona il nostro
sistema economico. Che funziona. L’altro sistema ha fallito,
ricordiamolo, proprio perché aveva eliminato dal lavoro la
competizione basata sul risultato. Dicono: la legge per licen-
ziare c’è, ma non viene applicata. Nel privato, se un capo del
personale non licenzia un assenteista, l’amministratore dele-
gato licenzia lui.
La domanda al Ministro è: perché ne parla ai convegni, invece
di agire?
È il Ministro, mica un opinionista qualsiasi. E non si agisce solo
con un›ennesima legge, che sarebbe compito del Parlamento,
ma dando pressione ai dirigenti, convocandoli, facendo
ispezioni. Insomma, un giro di vite. Questo fa l›esecutivo, fa
funzionare la macchina che ha, oggi un po’ meglio di ieri,
domani ancora meglio di oggi. Nelle aziende private non ti
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fanno nemmeno respirare, quando le cose vanno meno che
benissimo.
Ma non tutti nella PA sono fannulloni. Ci mancherebbe altro.
L’impegno sul lavoro non è una caratteristica genetica, ma un
comportamento che il sistema permette e agevola. Anche il
più volenteroso stacanovista inserito in un ufficio dove se ac-
celeri ti guardano male, a cominciare dai capi, dopo un po’ si
adegua: è volenteroso, non stupido.
Ma basta con la denuncia di ciò che non va! L’abbiamo capito.
Allora che fare?
Il sistema della PA non è orientato a produrre un risultato po-
sitivo, ma ad applicare norme, procedure e circolari interne.
Se poi il ‘dopo’ è peggiore del ‘prima’ non fa niente, perché
l’azione è avulsa dal contesto. Dunque il vero snodo è questo:
nella PA mancano gli obiettivi specifici, puntuali e temporiz-
zati, per singolo ufficio e dipendente, verso cui valutare i ri-
sultati. Tant’è che poi danno i premi a tutti. E allora si preten-
de di affidarsi al singolo, sull’idea di fondo (catto-comunista,
dunque per me sbagliata), che l’uomo sia per natura buono
e tenda al bene. Per corollario, più sta in basso e più sarebbe
buono, onesto e laborioso.
La storia insegna che l’uomo, come tutte le creature del pia-
neta, è egoista e mira al proprio tornaconto. Solo un siste-
ma civico efficace rende conveniente il bene e sconveniente il
male – tipo Inferno e Paradiso, però in questa vita. Quando il
sistema è inefficace, produce i fannulloni e anche peggio.
Articolo pubblicato su il Giornale, il 5 novembre 2015
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A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
GLI IMMIGRATI SCELGANO: LA NOSTRA
CIVILTÀ O LA LORO
La domanda è: il multi-culturalismo è praticabile all’interno
della stessa società?
Ci sono differenze che possono convivere dentro un contesto so-
ciale: a chi piace il calcio, a chi il basket. Ma altre differenze sono
una la negazione dell’altra: democrazia e dittatura, ad esempio.
La Weltanschauung, l’orientamento culturale (sia ideologico sia
religioso) è un concetto che non può convivere con il suo alter,
perché comporta un progetto di costruzione della società e della
comunità: nessuna comunità può fondarsi su due progetti diversi.
Oggi i bisogni economici spingono i flussi migratori. Ma chi si
sposta deve scegliere: o resta nella sua comunità (con il suo pro-
getto identitario) oppure s’incammina e abbraccia il progetto so-
ciale del Paese di destinazione. L’Europa oggi è laica e fonda il suo
progetto su una remota ma solida base cristiana, religione che ha
elevato la donna da diavolo tentatrice a madre di Dio.
Ma il punto non è chi ha ragione e chi ha torto, ma dove: se degli
europei scegliessero di trasferirsi in uno stato islamico, dovrebbero
accettarne il progetto culturale.
Non si può stare in Paradiso a dispetto dei santi.
Articolo pubblicato su il Giornale, il 10 gennaio 2016
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COSÌ L’ITALIA HA PERSO UNA GENERAZIONE
La generazione persa per colpa di Stato, scuola e famiglia. Per
i nati negli anni ’80 il futuro è a rischio: colpa di scuole poco
selettive, lauree inutili e scarsa disponibilità al sacrificio.
Come si perde una generazione? È quasi impossibile in tempi
di ricostruzione e boom economico, e infatti dei nati negli
anni ‘50 e ‘60 non s’è perso nessuno. Neppure i nati nei de-
cenni della dittatura, dell’autarchia e del disastro bellico si
sono persi. I nati negli anni ‘80 sì. Ora lo dicono i tecnici,
Draghi, Boeri e prima di loro Ignazio Visco. Chi vive e lavora
se n’era già accorto. Del resto, come non leggere nel risultato
del M5S del 2013 anche lo sfogo di una parte di quei trenten-
ni che hanno capito sulla loro pelle come stanno davvero le
cose? Buoni ultimi lo ammetteranno i politici, che dovranno
portare le soluzioni. Conoscere le cause e rimuoverle fa sem-
pre parte di una cura efficace. Così, di nuovo: come si fa a per-
dersi una generazione? Non è facile, però con gli ingredienti
giusti si può fare.
Per prima cosa, serve una scuola in cui i diritti degli insegnan-
ti non siano solo più importanti del diritto degli studenti a
ricevere una didattica di livello medio/alto. No, per perdere
una generazione è essenziale che i diritti degli insegnanti si-
ano gli unici in campo. I diritti degli studenti, come quello
di avere ogni giorno in classe lo stesso professore per l’intero
anno o ciclo, impegnato a svolgere bene il programma, im-
pedendo il circo delle supplenze, nemmeno devono esistere.
Un esempio concreto? L’insegnate che a giugno è incinta e a
settembre comincia le lezioni. È già scritto che non sarà lei a
terminare l’anno scolastico, per giustissime priorità di salute
e maternità. Fatte salve queste, il dilemma è: conta di più il
diritto degli studenti ad avere una didattica eccellente o quello
dell’insegnante ad andare in aula finché può e finché le va, e
30
A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
tanti saluti ai ragazzi quando arrivano le nausee? Ma quest’ul-
timo, è ovvio. Sennò come te la perdi la generazione? Non
basta ancora. La scuola deve essere anche non selettiva. Chi
non ricorda i telegiornali celebrare come un successo il 99%
di promossi alla maturità? Delle due l’una: o erano tutti dei
geni o l’asticella del diploma era troppo bassa. La seconda, se
vuoi perderti una generazione.
La scuola è importante, ma da sola non poteva farcela. Occor-
reva, ed è stata data, un’università ai limiti del ridicolo. Ate-
nei dietro l’angolo, solo per moltiplicare cattedre e rettorati e
sperperare a pioggia soldi per una ricerca diffusa, microscopi-
ca e non coordinata. Professori che hanno la cattedra a vita,
senza il minimo controllo sui contenuti della loro didattica,
né sulla loro effettiva presenza alle lezioni. La contropartita?
Un pezzo di carta chiamato laurea, inutile a trovarti un lavoro,
ma utilissimo a gonfiarti ancora di più le aspettative e a met-
terti così fuorigioco nella partita dell’occupazione e della vita.
Ecco, le aspettative. È stato magistrale l’apporto delle famiglie
che, satolle del loro grande piccolo benessere ormai raggiun-
to, hanno narrato la buona novella agli adolescenti. Avevano
fatto i sacrifici, negli anni ‘60 e ‘70, ma adesso le cose erano
sistemate. Il lavoro e ogni altro diritto erano garantiti a vita,
e così sarebbe stato anche per la nuova generazione. Hanno
però scordato di far cenno dei doveri: studiare per apprendere,
impegnarsi, meritare, rendersi disponibili al sacrificio – che è
cosa diversa dalla resa disperata.
Di volere ciò che tutte le generazioni avevano sempre perse-
guito: superare quella precedente. Ma perché mai? Adesso non
c’era più nulla da superare, andava bene così, con la casa di
proprietà e l’automobile. Per occuparsi finalmente dello spi-
rito: la cultura (quella vera), il cinema, le nuove arti, lo sport.
L’età dell’Acquario. E sia. Fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza. O no? No, se nel frat-
31
tempo il Paese si trasforma nel villaggio globale, popolato da
giovani affamati e disponibili.
Servono tutte queste cose insieme per perdere una generazio-
ne. Ma la sicurezza ce l’hai se anche lo Stato ci mette del suo:
frena ogni sano spasmo economico, drena metà della ricchez-
za che si produce e poi ne spreca una buona parte. Non è
stato affatto facile perdersi una generazione, ma noi Italiani ce
l’abbiamo fatta. Ora la domanda è: abbiamo smesso o ce ne
stiamo perdendo anche altre?
Articolo pubblicato su il Giornale, il 23 aprile 2016
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A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
IL “CONCORSONE” DEI PROFESSORI? DA
BOCCIARE...
Scuola, concorsone bocciato sul web. Candidati contro il
nuovo esame: carenze e sospetti di irregolarità. Pioggia di
critiche sui social.
Che c’è di male nel concorso per assumere 64mila insegnati nei
prossimi tre anni? A parte il concorso stesso? Niente. O meglio,
niente che non sia classificabile nella normale dialettica critica po-
litico-amministrativa. Dopotutto, siamo Italiani. Mica ci possia-
mo trovare d’accordo? Ma il concorso in sé, quello sì che è un se-
gnale forte. E sbagliato. Prima concordiamo tutti su questo, meno
danni infliggeremo alle nostre future generazioni.
Diciamo che in una scuola serva un nuovo insegnante. Bene,
come lo scegliamo? Quando sono interessi nostri, ossia nel priva-
to, vogliamo essere ben certi di assumere la persona giusta, perché
riponiamo in lui/lei delle precise aspettative di rendimento. Vo-
gliamo che sia in grado di svolgere bene i suoi compiti, che abbia
motivazione a crescere professionalmente, che sappia integrarsi
con i colleghi, che condivida le finalità e i valori della nostra or-
ganizzazione. Siamo disposti a pagarlo bene, anche più degli altri
se saprà meritarselo. Questo accade non solo dove chi assume è il
titolare di un’organizzazione (leggi, sono soldi suoi). Le medesi-
me logiche si applicano anche quando ad assumere è un semplice
manager di medio livello (leggi, soldi non suoi). Perché? Perché il
manager sa che se quel nuovo addetto non sarà valido ne pagherà
egli stesso le conseguenze. Allora che si fa? Più manager fanno di-
versi colloqui di selezione tra più candidati, prima di convenire su
colui/colei che sembra, dal curriculum e dall’impressione ricavata
nei colloqui, la persona giusta. Ma non c’è la certezza. Così dopo
essere stata assunta segue un percorso di inserimento e poi, se
dopo alcuni mesi non avrà confermato le aspettative, potrà essere
33
accomodata alla porta. È triste? Beh, chiediamolo a colui che così
potrà avere un’altra chance di occupare quel posto. Chiediamolo
ai colleghi che sapranno che l’organizzazione dove lavorano sarà
meno debole. Per la scuola, potremmo chiederlo agli studenti, se
importasse qualcosa.
Se fossero fatti nostri, non ci sogneremmo nemmeno di assumere
un insegnante sulla base di qualche compito scritto, con domande
chiuse e aperte. Ma non sono fatti nostri. Sono fatti di nessuno.
Se fossero fatti nostri, chiederemmo ai dirigenti delle 8.644 istitu-
zioni scolastiche distribuite sul territorio di selezionare e assume-
re una media di 7 insegnanti ciascuno. Due obiezioni: non sono
qualificati alla selezione e non sono affidabili eticamente (assu-
merebbero parenti e amici). Due soluzioni. Primo, se non sono
capaci, o lo diventano o li cacci. Non è pensabile che un dirigente
sia a capo di organizzazioni professionali, di donne e uomini, e
non sia in grado di selezionarli e poi gestirli. Secondo, se non
sono affidabili eticamente bisogna che lo diventino. In natura,
non esistono persone per bene e furfanti. Esistono situazioni in
cui farsi gli affari propri conviene e situazioni invece in cui con-
viene fare gli interessi dell’organizzazione: dove il furbo coincide
con l’onesto. È una questione di asticella. Se chiedi all’insegnante
una performance didattica elevata e questi non la dà, semplice-
mente cacci lui e il dirigente che l’ha assunto. Il corollario è che
devi controllare e devi poter cacciare le persone che non valgono.
Altro che concorso!
Ora, lo capisco anch’io che niente di quanto sopra è realizzabile
nell’attuale macchina della P.A. Però quel sistema funziona, in tut-
te le attività umane che vogliano e debbano produrre un risultato.
Dunque mi aspetterei che l’azione di Governo fosse orientata a
cambiare l’impianto della P.A. – magari cominciando dalla scuola,
non dalla Camera Alta. Com’era, cambiare verso?
Articolo pubblicato su il Giornale, il 29 aprile 2016
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A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
LE BELLEZZE ITALIANE? PER LE NOSTRE LEGGI
SONO SOLO ECOMOSTRI
Quanti ecomostri (a rigor di legge) tra le nostre bellezze. Se
applicassimo alla lettera le norme sulla tutela ambientale
demoliremmo il meglio.
È un eco-mostro la villa di Curzio Malaparte a Capri? Non lo
so. A pochi metri dai Faraglioni, un parallelepipedo rosso bello
visibile su uno sperone di roccia che non si confonde affatto col
paesaggio. Ribadisco, non saprei se definirla un eco-mostro o no.
Migliaia di turisti ammirano questa costruzione in uno scorcio di
natura bellissimo e nessuno tuona contro, forse perché edificata
nella pienezza dei permessi. Se hai il permesso non sei mostro.
Se a qualcuno saltasse in mente di abbatterla, non potrebbe.
Ma è un rischio inesistente, perché gli alfieri della natura e dei
paesaggi non si spingono mai oltre i venti, trent’anni. Troppo
scomodo. Si scontrerebbero magari con Venezia. Oggi potremmo
edificare una simile meraviglia del Mondo, pur disponendo di una
laguna? Assolutamente no. Però poi gli stessi vogliono proteggerla
dall’erosione delle acque. Ma l’acqua della laguna non fa parte della
natura? E i palazzi veneziani – oggettivamente più belli della laguna
stessa – non sono invece opera dell’uomo, da limitare e contrastare?
Sono provocazioni per una materia complessa. L’uomo e le sue ope-
re fanno parte di questo pianeta, che piaccia o no. A volte l’ab-
belliscono, altre volte lo deturpano. Introdurre una valutazione di
merito non guasterebbe. Gli stessi piani urbanistici non dovrebbe-
ro limitarsi a particelle di territorio e metri cubi, altrimenti accade
quello che vediamo andando in giro per le nostre campagne. Ac-
canto al rudere di una vecchia abitazione, ancora pieno di sapore
e di storia architettonica (anche povera) di quei luoghi, troviamo
la casetta orribile, costruita sfruttando i metri cubi della vecchia,
perché costava meno che ristrutturare la casa avita.
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Però esiste una legge ed esiste un popolo incline a schivarla. È
vero. Ma la legge non è una via semplice per regolare le cose, come
il fuorigioco: o sei dentro o sei fuori.
Chi conosce bene il diritto, nel senso che non solo l’ha imparato, ma
lo ha anche capito, una cosa sa bene: il diritto è quanto di meno mani-
cheo gli uomini abbiano prodotto. Legge le sfaccettature della realtà e
vi si adatta. Chi brandisce i codici invocando le ruspe, conosce l’istitu-
to dell’usucapione? La proprietà dei beni immobili e gli altri diritti re-
ali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso
continuato per venti anni (art. 1158 CC, ma prima ancora XII tavole,
Roma, 451 a.C. – sì, sempre Roma). Quando per anni lo Stato incassa
la tassa sui rifiuti e allaccia luce, acqua, gas e fogne, cos’è? Non somiglia
al riconoscimento di uno status di ‘uso proprietario’ dell’immobile?
Quando si brandisce la mancanza di un permesso contro un manufat-
to, invocandone e perseguendone l’abbattimento, occorre prudenza e
rispetto.
Prudenza, perché sappiamo tutti che quella scure colpirà solo una pri-
ma manciata di malcapitati. Dopo la prima sfuriata, le ruspe si spegne-
ranno. Demolirne alcune e salvarne altre è un’ingiustizia ben peggiore.
Rispetto. Abbattere uno scheletro in costruzione (non ancora casa,
non ancora abitata) non è lo stesso che abbattere un’abitazione che è
dimora di persone, famiglie, bambini.
Applicare la legge è una prerogativa dello Stato ma non può essere
esercitata al di fuori del tempo. Se non è stata demolita quando in
costruzione, suggerirei di demolire la casa di chi all’epoca aveva la re-
sponsabilità di farlo.
Chi legifera in favore della casa (rimuovendone le tasse) perché
bene supremo e bla e bla, non dovrebbe avere sempre la medesima
sensibilità?
Articolo pubblicato su il Giornale, il 13 maggio 2016
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A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
REDDITO DI CITTADINANZA, FABBRICA DI
DISOCCUPATI
“Gli Europei sono così ricchi che si possono permettere di
pagare chiunque per non lavorare”. Così l’economista Rudi-
ger Dornbush descriveva il welfare all’europea, che secondo
Mario Draghi era da considerarsi archiviato già nel 2011, giu-
bilato nei fatti dall’elevato tasso di disoccupazione giovanile.
Ma che relazione c’è tra il welfare e la disoccupazione, se non
quella apparentemente ovvia che più sale la seconda più di-
venta necessario estendere il primo? Esattamente questa, ma
invertita: più aumenta il welfare più cresce la disoccupazione.
Detta così sembra una bestemmia. Redditi distribuiti ai citta-
dini in varie forme, ma non legati a una qualsiasi produzione
di valore, non generano immediatamente disoccupazione. No,
ci vuole tempo. Noi Italiani abbiamo impiegato un paio di
generazioni, quelle scolarizzate negli anni `80 e `90, cresciute
in famiglie che stavano godendosi la parte bella del welfare,
frutto delle loro battaglie politiche. In quegli anni si è diffusa
l’idea che lo Stato non ti avrebbe lasciato mai a piedi.
Qualsiasi sorte ti fosse capitata, avresti sempre avuto un tetto
tuo e pasti caldi per la famiglia. Il corollario automatico era
che non dovevi poi sbatterti più di tanto per trovare uno spa-
zio dove dare il tuo contributo. Questa l’interpretazione dalla
parte del cittadino. Dalla parte dello Stato, poi, la prospettiva
ha indotto a difendere fino allo stremo qualsiasi posto di la-
voro, pur di non ritrovarsi con altri che non producono nul-
la e devono comunque ricevere un reddito. In questo modo,
dopo un certo periodo, la spinta propulsiva del tessuto sociale
risulta indebolita, sia dalla minore disponibilità a mettersi in
gioco dei lavoratori, sia dalle rigidità delle norme sul lavoro
che scoraggiano le imprese.
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Il prodotto è un’economia in affanno, che non assorbe i nuo-
vi entranti. In questo senso, la relazione tra welfare e disoc-
cupazione c’è. Per converso, è opportuno rimarcare che oggi
l’atteggiamento che si riscontra nei giovani ventenni è molto
diverso dai loro fratelli maggiori: sono più disincantati e più
aperti, disponibili a mettersi in gioco facendo leva sulle pro-
prie forze e capacità. Proprio perché hanno capito che ormai
la festa è finita ed è inutile piangersi addosso.
Più o meno, questa è la fotografia di dove siamo adesso. Ma
per il M5S pare non sufficiente: invocano il reddito di cit-
tadinanza, che però non è un vezzo nostrano, partorito da
un gruppo di neo-politici improvvisati. Poche settimane fa la
Svizzera (non esattamente una repubblica delle banane) è an-
data al voto popolare sul tema. Il prossimo anno la Finlandia
dovrebbe testare una sua versione di sussidio incondizionato
per tutti i cittadini, fino a 800 euro al mese.
Come mai mentre alcuni mettono in discussione il welfare
altri vorrebbero rafforzarlo? Che strabismo è?
Il fatto è che il sistema attuale tutela solo chi il lavoro ce l’ha
già. Ma fuori dai cancelli c’è la massa enorme di due genera-
zioni che preme e ha capito che non riuscirà ad entrare, se non
dalla porta di servizio, alias accettando condizioni alle quali
non era preparata (molti sono laureati e diplomati). Pertanto,
è sconsigliabile fare spallucce e trattare con sufficienza la pe-
tizione, a meno di non voler correre il serio rischio di trovarla
nelle agende di qualche altra forza politica che voglia lisciare
il pelo ad alcuni milioni di votanti. Così, vediamo su quali
basi si poggia. I teorici argomentano che l’economia si fonda
sui consumi diffusi e che la politica ha la funzione primaria
di redistribuire la ricchezza secondo criteri tendenti all’equità.
Visto che nei Paesi OCSE la disuguaglianza sociale (misura-
ta con il coefficiente di Gini) è aumentata dal 1985 al 2013
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A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
da 0,28 a 0,32, perché – concludono – non seguire la via
più semplice e redistribuire direttamente il reddito, anziché
prenderla lunga, costruendo reti più o meno articolate di assi-
stenza e magari redistribuire gli strumenti che producono red-
dito (buona scuola, valori impegnativi, condizioni di mercato
meno ingessate)?
Perché è sbagliato e pericoloso, sia detto forte e chiaro. Una
cosa è dare a una persona una forma di aiuto in circostanze
particolarmente critiche, che non lo esime dal cimentarsi nel
contesto produttivo. Ma decenni di welfare abusato e indiscri-
minato hanno insegnato che garantire un reddito minerebbe
alla base la necessità – e dunque la propensione – a uscire la
mattina per tornare a casa la sera avendo prodotto un valore.
Se dai a qualcuno un biscotto, dicono gli americani, quello
poi ti chiederà la tazza di latte. Un reddito di cittadinanza
non risolverebbe il problema, anzi lo moltiplicherebbe per le
generazioni che adesso si stanno formando, indebolendole.
Detto questo, il problema rimane e non è piccolo.
Ma va circoscritto e risolto. È il momento per la politica alta
di scendere in campo, scegliendo la strada giusta, non quella
in discesa.
Articolo pubblicato su il Giornale, il 22 giugno 2016
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DOCENTI AL BIVIO E QUEI SACRIFICI DECISI
DA UN PC
“Ma scusi se anche mio figlio dopo lo stage venisse assun-
to come farebbe a vivere in un’altra città con 1200 euro al
mese?”. “Ha perfettamente ragione. Lei si tenga pure suo fi-
glio, che l’azienda per quel posto troverà un altro.” Ho avuto
più di una conversazione come questa in oltre dieci anni di
selezioni per le borse di studio del Master sull’Automobile del
Centro Studi Fleet&Mobility. Questo pensano molti italia-
ni: il lavoro glielo devono portare sotto casa. Perché il lavoro
è un diritto, come l’istruzione e l’assistenza sanitaria. Ovvio
che una piccola percentuale di insegnanti, che pure ha avuto
l’assunzione a tempo indeterminato, si lamenti di un’assegna-
zione troppo distante.
Chi si deve spostare in forza di una domanda di insegnanti
che non coincide con l’offerta, in termini di territorio, deve
accettare che si spostano le persone, non il lavoro, nel mondo
reale. Che un giovane poi debba fare dei sacrifici all’inizio sta
nell’ordine delle cose. Si adatterà, soffrirà qualche rinuncia
(non la lontananza dalla fidanzata, sia chiaro). Se poi si trat-
ta non di giovani ma di 40enni e 50enni, viene da chiedersi
come mai a quell’età, con un’ottima scolarizzazione e una lau-
rea, non abbiano intrapreso da decenni un altro lavoro, uno
qualsiasi. A quest’ora sarebbero ben inseriti. Invece hanno
preferito una vita di supplenze mal pagate. Evidentemente il
premio finale deve ben valere decenni di precariato.
A chi invece è stata assegnata una sede distante, diciamo in
Veneto, mentre la scuola sotto casa attende un insegnante che
verrà guarda caso dal Veneto, e i due profili sono abbastanza
sovrapponibili, dobbiamo dire che sì, il calcolatore probabil-
mente ha commesso un errore. In verità, ne avrà commessi più
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A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
d’uno. I sistemi, per quanto ci sforziamo di chiamarli intelli-
genti, per darci conforto da soli, non fanno altro che applicare
gli input che hanno ricevuto. Sono ben lontani dalla sofisti-
cazione e dalla flessibilità del pensiero umano. È in corso un
grande dibattito a livello mondiale su questo. Meglio sarebbe
stato far decidere agli uomini, ai dirigenti delle oltre 8600
istituzioni scolastiche, quale insegnante chiamare per quella
cattedra. Ma quando mesi fa, da queste pagine, sostenemmo
che anche le assunzioni andassero fatte non per concorso ma
con colloqui di selezione, responsabilizzando i dirigenti, mol-
ti eccepirono che il bene supremo fosse l’imparzialità, tutti
uguali davanti agli stessi identici criteri. Bene, tenetevi allora
la fredda assegnazione del computer.
Articolo pubblicato su il Giornale, il 10 agosto 2016
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DUE FOTO PER CAPIRE CHE L’IRAN ERA PIÙ
AVANTI 50 ANNI FA
La foto della nazionale femminile iraniana di pallavolo 2016.
Le atlete col chador e le gambe fasciate. Che c’è di strano? È la
loro religione, va rispettata. Stessa foto, stessa nazionale, 1966.
Magliette e pantaloncini, come tutte le atlete del mondo. Hanno
cambiato religione? Quella religione è diventata più restrittiva?
No, sono cambiate loro. Cinquant’anni fa erano più evolute, ave-
vano relegato la religione ad un ambito più intimo, di rapporto
con Dio. Queste foto stimolano alcune riflessioni.
Una sui pregiudizi indotti dalla politica intesa come fede,
senza spirito critico. Chi nel ‘79 si schierò a favore della ri-
voluzione islamica di Khomeini contro lo scià Reza Pahlevi
potrebbe riconsiderare criticamente quella posizione e le sue
motivazioni, in gran parte riconducibili al fatto che lo scià era
ritenuto di destra perché per lo sviluppo e la modernizzazione
del paese (riforma agraria anti-clericale, suffragio femminile,
divorzio, alfabetizzazione) favoriva le multinazionali occiden-
tali interessate allo sfruttamento. Di risulta, gli ayatollah era-
no di sinistra, anche perché sostenuti dal popolo, quella parte
ancora poco educata ed evoluta, di cui oggi ci godiamo i figli,
con annesse cinture al tritolo. In altre parole, la profondità
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A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
dell’analisi politica era questa: il nemico del mio nemico è
mio amico. Non c’è male.
L’altra, più filosofica, sull’interpretazione delle vicende uma-
ne. Dovremmo ammettere che sebbene la storia nel lungo
periodo va avanti, nei sotto-cicli brevi presenta a volte, anzi
spesso, degli arretramenti culturali. Per corollario, chi viene
dopo non necessariamente è migliore o semplicemente più
avanti di chi c’era prima.
Poi, ci sarebbe quella sensazione di esagerazione, di misura
colma, che avvertiamo di fronte a simili interpretazioni estre-
me e concrete della religione, incluso il burkini. Alcuni di noi
in occidente si sforzano di mediare, di far convivere le due
culture, con intenti anche genuini e lodevoli. Ma per mediare
bisogna essere in due. Molti di fede islamica non sono dispo-
nibili. Giusto per fare un paragone con la religione cristiana,
noi abbiamo inventato il Purgatorio, che ha abolito l’erga-
stolo dell’Inferno, abbiamo fatto la Riforma per liberare le
forze produttive della borghesia, abbiamo creato la figura del
‘credente-non-praticante’ (piccola riflessione, prego) e stiamo
valutando di accogliere alla mensa del Padre i divorziati, dato
il numero ingente e crescente – andiamo, mica te li vorrai
perdere? Grazie che poi dura da duemila anni.
Articolo pubblicato su il Giornale, il 18 agosto 2016
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NON VIVIAMO PER LAVORARE? MA SENZA
LAVORO NON SI VIVE
L’ipocrisia dell’ex presidente dell’Uruguay.
“Non veniamo al mondo per lavorare o per accumulare ric-
chezza, ma per vivere. E di vita ne abbiamo solo una”. Che
bella questa frase che circola sui social media, diffusa da
un’autorevole testata, insieme all’immagine dell’autore Josè
Mujica, un caro vecchietto dagli occhi buoni. Un pensiero
semplice, che come tutte le frasi belle e semplici esercita
un’enorme seduzione. Come non essere d’accordo? Eppure,
è un pensiero che può fare del male. In verità, molto di
questo male è già stato fatto, nei decenni scorsi, e le feri-
te sono ancora da rimarginare. Le cicatrici, poi, chissà se
scompariranno mai.
Intanto, chi è Josè Mujica, l’autore di tanta saggezza? Un
signore di 80 anni, già presidente dell’Uruguay dal 2010
al 2015 (sì, mica uno qualunque), che negli anni sessanta
aderì al movimento dei Tupamaros e poi, arrestato, trascor-
se circa 15 anni in carcere, molti dei quali in una cella
d’isolamento. Proprio questo isolamento gli causò gravi
problemi di salute, specialmente psicologici.
Questa penosa segregazione, che non augureremmo a nes-
suno, non gli impedì tuttavia di elaborare profonde medi-
tazioni, come questa: “In prigione ho pensato che le cose
hanno un inizio e una fine. Ció che ha un inizio e una fine
è semplicemente la vita. Il resto è solo di passaggio. La
vita è questo, un minuto e se ne va.” Certo non si tratta di
pensieri complicati, come egli stesso ammette: “non sono
né un filosofo né un intellettuale. Lo sono stato fino ai 25
anni. Fino a quell’età leggevo di tutto, dalla guida tele-
44
A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
fonica a Seneca”. Dunque, ricapitolando, negli anni della
prigionia, isolato dal mondo e comprensibilmente alienato,
ha elaborato cosa suggerire a chi stava fuori a tirare avanti.
Per ogni altra attività, questo farebbe sorgere qualche per-
plessità sulla capacità di conoscere e stare in sintonia con
l’oggetto delle riflessioni.
Ma accantoniamo ogni perplessità e pregiudizio per entrare
nel merito dell’affermazione centrale. “Quando tu compri
qualcosa, non la paghi col denaro, ma con le ore della vita
che hai impiegato per guadagnarlo. Con la differenza che
la vita è l’unica cosa che il denaro non può comprare. È un
peccato sprecare così la vita e la libertà.
Chiedo scusa, ma che significa? Che senso ha opporre la
vita al lavoro?
Certo che stiamo al mondo per vivere, ma per farlo ci dob-
biamo sbattere dalla mattina alla sera. All’inizio lo faceva-
mo per sopravvivere. Secoli e secoli piuttosto grami, tanto
che per darci piacere, per darci un senso, inventammo una
seconda vita ultraterrena dove ci aspettava la felicità (con
buona pace di chi ha pensato che “second life” fosse arriva-
ta con internet). Ma abbiamo tenuto duro, siamo soprav-
vissuti e anche bene, fino a circa un secolo fa, quando la
specializzazione del lavoro e la tecnologia hanno aumenta-
to la produttività (meno sforzo con più risultato) creando il
benessere e il tempo libero e con loro la cultura del piacere,
ossia i beni voluttuari.
Si badi, è un’opinione, una visione della vita e del mondo,
da cui si può dissentire. Certo, uno poi si chiede se il la-
voro femminile sia stato o no una conquista. Ma lasciamo
perdere le polemiche. Uno può legittimamente scegliere di
non lavorare per dedicarsi pienamente alla vita.
Lo faccia, con i migliori e più sinceri auguri. Basta che non
45
pretenda, mentre si gode la vita, pure i frutti del lavoro,
quello degli altri.
Ma a chi riesce anche in questo, e Dio e gli italiani sanno
che tanti lo fanno benissimo, va una sola sommessa pre-
ghiera: abbiate il buon gusto di non sfotterci con queste
belle parole.
Articolo pubblicato su il Giornale, il 22 settembre 2016
46
A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
IL MITO FASTIDIOSO DEL POVERO BUONO
L’equazione “poveri/disgraziati uguale buoni”, uno dei pregiu-
dizi più radicati e diffusi, trova origine e conservazione, da un
lato, nella religione che doveva aggregare soprattutto le fasce
più umili, più disperate, proprio per lenire quelle sofferenze,
incanalandole verso una riscossa ultraterrena (piuttosto che
verso la protesta). Da qui a blandirle nella bontà d’animo, me-
ritevole di qualcosa di meglio (ancorché non subito, non qui)
e dunque capace di sopportare, di vivere nel bene maturando
un credito, il passo è breve. Dall’altro lato, nel senso di colpa.
A parte pochi malvagi, chi riesce a godere di una posizione
confortevole non è felice nel vedere chi se la passa proprio
male. Quanto per senso di giustizia e benevolenza e quanto
per l’egoismo di non volere sofferenze alla propria festa, non
è facile da stabilire. Ma il risultato è lo stesso: la compassione,
sul presupposto che il disgraziato la meriti, sia buono.
Tuttavia, come tutti i pregiudizi, anche questa favoletta dei
poveri e dei disperati che sono tutti buoni ha stancato. Ci
sono poveri buoni, magari tanti, però lo sono non a causa
ma nonostante l’indigenza in cui versano, grazie a una statura
morale che non deriva dal bisogno, anzi riesce a governarlo. Il
bisogno spinge alla trasgressione, a volta quasi la giustifica. La
povertà, il sentirsi relegato ai margini di una società che non
gli consente di accedere ai piaceri che ostenta, è piuttosto una
potenziale causa di aggressività e di rivolta. Tanti conservano
una dignità, un codice morale che gli vieta di trasformare certi
sentimenti in azioni efferate. Ma non tutti.
Per corollario, la non-povertà non significa essere cattivi. L’a-
giatezza non va espiata. Basta con l’idea che se hai fatto i soldi
qualche marachella devi averla combinata per forza, perché
sennò non si spiega: non mi sono arricchito io, come è possi-
47
bile che quello ci sia riuscito? Dopo tutto, siamo o non siamo
tutti uguali? Eh… no, non proprio, dispiace, ma è proprio
così.
Chiariamo subito che nessuno ce l’ha con chi è in difficoltà.
Solo non pare necessario elevarli a una statura morale che al-
cuni probabilmente non hanno. Prendersi cura di chi soffre,
anche facendone valere le ragioni, quando valide, è una posi-
zione corretta in punto di giustizia umana e sociale. Inoltre,
quando quei qualcuno diventano tanti o tantissimi, è anche
conveniente socialmente ed economicamente: nessun impero
è contento di generare uno Spartacus, con tanto di esercito.
Noi abbiamo prodotto un paio di generazioni poco o punto
capaci di sostenere se stesse (povere di prospettive e di com-
petenze) e importiamo ogni anno altri poveri (di vitto e al-
loggio). Trovare delle soluzioni è imperativo categorico, pur
se non il “reddito di cittadinanza”, in quanto portatore (non
estirpatore) di povertà.
Ma questo non pare abbastanza per una certa cultura. La gau-
che caviar dominante, a cominciare dalla terza carica dello
Stato, li vuole sul pulpito: i poveri, i diseredati, i disperati. Ci
devono dare lezioni di etica e di morale. Così da poterci senti-
re giustamente colpevoli o, se innocenti, almeno sbagliati. Tra
loro e noi, abbiamo sempre noi torto e qualcosa da imparare.
La parola magica per sdoganare il tutto è: cultura. I musul-
mani hanno la loro cultura: ma che cultura è tenere la donna
come essere inferiore? Gli zingari hanno la loro cultura, infatti
si devono chiamare rom: ma che cultura è rubare, scippare,
frugare nei cassonetti, crescere i figli in condizioni pietose, in-
vece di andare a lavorare? Ci dobbiamo confrontare? Sul serio?
Come ogni pregiudizio della gauche caviar, anche questo ha le
sue odi. Una per tutte, possiamo riascoltare una famosa canzo-
ne di De Andrè, Il pescatore, in cui questo sonnecchioso vec-
chietto prima foraggia un assassino dichiarato (“ho sete, sono
48
A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
un assassino”) e poi depista le indagini delle forze dell’ordine,
spargendo sul gesto un’aura evangelica con la storia del pane e
del vino. L’eroe della canzone è il vecchio pescatore, che “non
si guardò neppure intorno” prima di dare sostegno al malca-
pitato, che è l’assassino, non la vittima, il morto. Facciamo
un test: quanti illuminati di sinistra sono pronti a dichiarare
che il vecchio ha sbagliato, che il grande cantante stavolta ha
steccato? Poi diamo un nome all’assassino: facciamo che si
chiami Igor.
Articolo pubblicato su il Giornale il 19 novembre 2017
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L’UNICAARMACONTROLEBALLEÈL’ISTRUZIONE
Ci sono quelli che mettono in giro le bufale, ma poi ci sono quelli che
le bevono e, nel mezzo, quelli che le riportano. State pur certi che i pri-
mi non ci sarebbero senza i secondi, neppure con tutto l’aiuto che pos-
sono ricevere dai terzi. Nella comunicazione, è sbagliato identificare il
ricevente come la parte debole. In realtà è la parte forte, che può acco-
gliere o rifiutare. Sempre che lo voglia fare. Che voglia filtrare la notizia
e valutare se merita o no di essere acquisita nel proprio bagaglio di
conoscenza. Quelli che vogliono esercitare questo discernimento poi si
procurano, creano quasi, un terzo soggetto cui affidano la valutazione
e la filtrazione di tutte le notizie: sono alcuni mezzi di informazione e
alcuni giornalisti (non tutti, ovviamente). Col patto che, se dovessero
accorgersi che il terzo viene meno al suo compito, lo eliminerebbero
dal novero. Pur tuttavia, le bufale abbondano e non sono mai manca-
te, fin dall’inizio della storia umana. La mitologia ne racchiude molte.
Dunque, chiediamoci perché tante persone, ora come allora, scelgo-
no di credere, o meglio scelgono di non filtrare e valutare. Semplice:
perché non vogliono. In modo consapevole o inconscio, il fatto è che
tra sapere e credere optano per la seconda. Convincendosi che non ci
sia differenza, che ciò che credono sia uguale a ciò che è. Quanti tifosi
di calcio vogliono credere a un fallo in area di rigore, a favore o con-
tro? Quanti coniugi scelgono di ignorare certe evidenze? La risposta la
sappiamo. Ciò che forse non sappiamo è il perché? Perché credere
dà conforto. Il conforto di stare e muoversi e vivere in un ambiente
noto, nel quale le posizioni sono conosciute. Tifare significa indos-
sare una maglia, non guardare uno spettacolo e-che-vinca-il-miglio-
re. Sapere sempre chi sono i nostri e da chi invece guardarsi. Credere
dà la protezione del gruppo, del clan, a cui non è facile rinunciare,
se non per passare a un altro. Solo la forza enorme che deriva dall’i-
struzione e dalla conoscenza ci permette di scegliere il sapere e non
la credenza. Aumenta l’istruzione e diminuiranno le bufale.
Articolo pubblicato su il Giornale il 2 dicembre 2017
AVANCES VIETATE. CI ESTINGUEREMO PER
FEMMINISMO
«Estinzionista, l’epoca più antierotica di sempre». Così il Foglio ha
definito il tempo segnato molto opportunamente dalla copertina
di Time, che ha eletto person-of-the-year il movimento «Metoo».
In effetti, se lasciamo fare ai moralisti chic, quelli che la-donna-
non-si-tocca-neppure-con-lo-sguardo, finiremo per estinguerci
come specie. Mettere alla gogna un uomo perché ci ha provato (di
questo si tratta, per parlar semplice) ci può anche stare, ma pro-
viamo a essere coerenti e conclusivi. A volte l’uomo ci prova e ci
riesce. Chi più, chi meno. Non sempre, è chiaro, ma con un tasso
di successo che induce a ritenere la strada perseguibile. Se questa
strada si rivelasse infruttuosa, verrebbe accantonata, come infatti
è il caso per gli uomini particolarmente timidi o poco attraenti.
Perché dunque scagliarsi contro la pratica degli approcci, delle
avance? Va bene condannare la coercizione, ma perché buttare il
bambino con l’acqua sporca? Perché fa emergere il vero problema,
che non sono le avance rifiutate, ma quelle accettate, in quanto
manifestazione di debolezza della ragione verso la passione. Dal
punto di vista maschile, è una disquisizione minore: sono secoli
che saltiamo dal peccato alla retta via. Gli abbiamo anche dato un
nome: vita. Dal punto di vista femminile invece è una minaccia,
perché la debolezza compromette quel percorso di affrancamento,
di vita e di costumi, che da decenni stanno percorrendo. Un po’
come le esecuzioni sommarie nelle rivoluzioni: ingiuste, ma utili
ad affermare la supremazia del nuovo corso. Scoprirsi debole dà
fastidio, se stai affermando proprio l’indipendenza e l’autosuffi-
cienza. Però, e sia detto per inciso, agli uomini piacciono le donne
e alle donne piacciono gli uomini.
Biologicamente, uno ci prova e l’altra decide se ci sta. Può indi-
spettire, lo capisco, ma sfortunatamente è così. Questa rivoluzio-
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ne ci restituirebbe un mondo tranquillo, dove a nessuna donna
può capitare di «subire» un’avance. Un tantino freddo, in verità.
Sia come sia, comunque si dovrebbe poi arrivare a consumare, a
darsi un po’ di piacere, non avendo ancora optato per la castità.
Ma come?
Se inibisci la tentazione, la ragione prevarrà sempre. L’ipotesi di
lasciare che sia la donna a prendere l’iniziativa sembrerebbe la so-
luzione, gradita a certi quanto indigesta ad altri, ma invece non è
così. Perché stiamo vedendo che il maschio non dovrebbe reagire,
pur se provocato a meno di un’accettazione scritta, ovviamente,
meglio ancora se rogata da un notaio.
In conclusione, sarebbe forse opportuno affrontare la questione
con misura e discernimento. Intanto, tra avance e coercizione. La
seconda è un soffocamento della volontà e dunque della dignità
della persona, che va protetta, anche dai tentativi. La prima invece
è il sano fondamento della specie e come tale va preservata, nelle
varie forme dialettiche in cui viene agita. Forme che sono le più
effimere, sottili, intangibili, come si conviene al linguaggio dei
sensi quando vogliono e devono sostituirsi alla ragione. Che sia
l’avventura di una sera o il rapporto di due coniugi, la freddezza
del pensiero ostacola il calore della passione. Sia nel senso più ac-
cettabile, che per provare certi piaceri occorre abbandonarsi, per
il maschio (una certa cosa non vuole pensieri, è il detto popolare)
come per la femmina, sia nel senso dell’attrazione: l’uomo e la
donna freddi, algidi, inducono timore e distanza, non accendono
il desiderio.
E se non c’è fiammella, a lungo andare non ci sono nemmeno
bambini. Così a estinguerci non sarà stata la guerra atomica, ma
le sciocchezze atomiche.
Articolo pubblicato su il Giornale l’8 dicembre 2017
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A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
53
POLITICA
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A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
UN SINDACATO MOSTRO CHE PRENDE SOLO
IL POTERE
Est modus in rebus. In questo difficile periodo di transizione
e di adeguamento della nostra cultura sociale ed economica,
la cosa che davvero non serve è uno scontro sindacato sì, sin-
dacato no. Il sindacato va bene come unione dei dipendenti di
un’impresa, per bilanciare il potere che l’impresa avrebbe nei
confronti del singolo dipendente.
Ma quando il sindacato diventa federazione e confederazione
acquisisce un peso eccessivo rispetto alla funzione originaria.
Per mantenere comunque coesa la massa di lavoratori i sinda-
cati hanno cercato il potere, inteso come esercizio dello stesso
e come occupazione di posizioni importanti nelle Istituzioni.
Quanti leader politici sono stati dirigenti sindacali?
Quante cariche istituzionali sono state ricoperte da ex diri-
genti sindacali?
Il potere cerca il potere. Così il sindacato ha cercato ed è stato
cercato - colpevolmente – pure dai Governi. Ma per quanto
grande un sindacato non potrà mai essere un soggetto titolato,
non in una democrazia parlamentare elettiva. Molti cittadini
ancora vogliono che a decidere siano 630 deputati e 315 sena-
tori, eletti col sistema “1 testa = 1 voto”. Eppure nei decenni
il potere ha consentito al sindacato di stare nel mezzo delle
trattative importanti di politica economica, determinando le
scelte al di fuori di ogni equilibrio democratico. Concertazio-
ne, l’hanno chiamata. Ossia, mettiamoci d’accordo tra noi.
Tra coloro che hanno il potere, quello vero.
Ogni organizzazione ha un obiettivo primario: sopravvivere.
Data la natura stessa del sindacato, ossia l’unione, la sua so-
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pravvivenza è direttamente legata al numero dei lavoratori che
rappresenta.
Così la politica sindacale degli ultimi decenni è stata “inclu-
siva”: difendere ogni lavoratore, anche quelli “indifendibili”.
Ma le donne e gli uomini non sono uguali, e non tutti vanno
difesi, non sempre. Utilizzare la forza che proviene da tanti
che lavorano con impegno e passione, per proteggere e di-
fendere qualcuno che se ne approfitta, è un impiego molto
discutibile di quel patrimonio di forza, di unione.
Oggi il mondo è cambiato. Una parte rilevante dell’opinione
pubblica ha avuto modo di toccare con mano i modi di ope-
rare del sindacato, quanto meno discutibili in più di un caso.
Troppi dei loro iscritti sono pensionati.
La grande maggioranza dei lavoratori semplicemente non è
iscritta a un sindacato. Ma soprattutto, tanti lavoratori chie-
dono la possibilità di impegnarsi e di meritarsi il frutto del
loro lavoro, senza essere ostacolati da chi insegue/protegge co-
mode rendite di posizione. L’articolo 18 sta tutto qui.
Toglierlo non serve a licenziare, ma a far lavorare con impegno
chi finora ha pensato di poterne fare a meno. Aver consentito
a tanti, troppi, di nascondersi ogni giorno dalla responsabili-
tà che un posto di lavoro impone, è il prezzo che il Paese sta
pagando. Quello che i sindacati sembrano non capire è che
proprio i più deboli pagano il conto più salato. Speriamo che
i deboli, almeno loro, lo capiscano.
Articolo pubblicato su il Giornale, il 30 ottobre 2014
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A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
LA GUERRA SI PAGA CARA: CON LA BORSA (O
LA VITA)
Un conflitto costa troppo e nessuno si oppone ai Paesi che
aiutano l’Isis. Ma anche senz’armi si deve reagire.
Uccidere le persone non è gratis, costa molti soldi. Elimini
i soldi, elimini il problema. Se non tutto, una buona par-
te. Almeno, in attesa che le nostre autocritiche e successive
espiazioni convincano i cattivi a fare i buoni. Sì, perché noi
puntiamo sempre a risolvere le cose sul piano umano, sull’as-
sunto che l’uomo tenda al bene e dunque basti rimuovere le
occasioni di peccato. Ma torniamo ai soldi.
Per colpire il terrorismo occorre colpire le sue fonti di finan-
ziamento. Ora, se ogni sera ci fanno vedere che il mondo della
finanza (che muove il mondo) pullula di schermi collegati h24
dove tutto appare in tempo reale, se l’acquisto di un gioiello
sopra i 3.000 euro viene segnalato, non possiamo credere che
non sia possibile tracciare le transazioni di qualche centina-
io (migliaia?) di terroristi o loro fiancheggiatori. Forse non è
possibile in modo legale. Magari non senza far infuriare qual-
che Stato sovrano. E siamo arrivati al punto, perché dietro
un cane c’è un padrone. Da più parti si sostiene che i sol-
di arrivino proprio da alcuni di questi, dell’area del Golfo.
Probabilmente si tratta di Paesi con cui abbiamo necessità di
intrattenere buone relazioni commerciali. Ancora il denaro.
Da loro forse acquistiamo prodotti energetici indispensabi-
li. A loro altrettanto certamente vendiamo nostri manufatti:
profumi, ma anche armi. I loro investimenti sono una manna
per molte nostre imprese. Dopotutto, parliamo di gente con
tanti, tanti soldi da spendere, desiderosa di consumare alla
maniera occidentale e di vivere in città moderne, piene di in-
frastrutture. Prendere una posizione dura e ferma contro di
57
loro significherebbe come minimo danneggiare una fetta di
questa nostra economia. Quanto saremmo pronti noi europei
e italiani a sacrificare parte del nostro benessere, per stroncare
alla fonte il terrorismo? Si badi, non si tratta di denunciare
in blocco ogni relazione economica perché non rispettano i
diritti civili, come alcuni sostengono. Facciano in casa loro
come gli pare – tanto, finché non ci arrivano da soli, non è che
gliela puoi esportare. Dovremmo solo entrare, con le buone
o con le cattive, nei circuiti informatici finanziari e impedire
che i soldi finiscano nelle mani di chi li usa per farci saltare in
aria. Del resto, se gli USA spiano i capi di stato, si potrà bene
sbirciare qualche conto bancario.
Avremmo ritorsioni sul piano economico? Probabilmente sì.
La palla sta come al solito nel campo nostro. I Governi euro-
pei esitano a mettere mano al portafoglio, perché danneggian-
do il nostro benessere si giocherebbero il consenso elettorale.
Non fanno nulla, salvo ammettere che siamo in guerra. Come
a dire: qualche morto ci può scappare. Ma una guerra va com-
battuta, sebbene non per forza con armi e eserciti regolari.
Una guerra costa. Possiamo non cedere vite umane, ma non
possiamo pensare di non cedere soldi, risorse economiche, be-
nessere. L’idea che si possa essere in guerra e combatterla nei
talk show e nei colloqui europei è davvero singolare.
Se una cosa la storia ha insegnato, è che le guerre sono sempre
state scatenate per ragioni economiche e poi combattute con
motivazioni ideali, religione o superiorità razziale che sia. Noi
europei, forse anche per lunga esperienza, non crediamo più
(non così tanto, almeno) e dunque abbiamo bandito la guerra.
Non è articolo che ci interessi. Di sicuro non in casa nostra e
non combattuta di persona. Se altri vogliono farla, magari ne
possiamo parlare (ecco, in questo siamo cintura nera), anche
mandare qualcuno o qualcosa a farlo per noi – se possibile, ma
forse sarebbe troppo, dopo il TG delle 20,00. Un’esagerazio-
58
A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
ne? Ma se stamattina i commenti personali più diffusi sui fatti
di ieri erano che non si riesce ancora a parlare al cellulare con
gli amici che sono a Bruxelles? Ammettiamolo, andremmo in
guerra a farci i selfie.
Noi europei ci siamo affrancati dalle guerre che abbiamo sem-
pre scatenato e combattuto tra noi. Ma quando ci confrontia-
mo con altri paesi dobbiamo accettare che forse loro non han-
no bandito la guerra. E se la portano contro di noi, almeno
la mano al portafoglio dobbiamo metterla. Perché una guerra
non finisce, una guerra o la vinci o la perdi.
Articolo pubblicato su il Giornale, il 24 marzo 2016
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TRE MOTIVI (DI CIVILTÀ) PER NON SCEGLIERE
IL PD
Non è solo politica. L’esercizio del voto è un messaggio che ciascu-
no manda al Palazzo. Sul piano politico, ognuno può scegliere il
candidato più vicino alle proprie aspettative. Ma c’è un limite, un
confine, che nessuno può violare impunemente. È il piano delle
regole etiche, del senso alto e profondo delle Istituzioni, di come
si sta a tavola tra signori. Ecco, su questo il PD ha dato di sé una
rappresentazione ampiamente inadeguata ad assumere l’onere e
soprattutto l’onore di guidare Roma.
Da cittadino, a prescindere dal voto politico, si può tollerare che
il sindaco di una capitale del G7 venga letteralmente defenestrato?
Che spettacolo abbiamo dato al mondo intero? Sono stati meno
sguaiati i brasiliani con la presidente Rousseff. Quando qualcu-
no ci paragona a una repubblica sudamericana – attenzione! – i
sudamericani potrebbero offendersi, e a ragione. Il Sindaco della
Capitale, prima e oltre che una persona e le sue politiche, è un’I-
stituzione. Non ci si può giocare come con i mattoncini Lego,
che li smonti e li rimonti. Dietro quella carica ci sono milioni di
cittadini, tutti, non solo chi l’ha votato.
Ancora da cittadino e ancora a prescindere dal voto politico,
quando il sindaco della Capitale viene dileggiato da un Capo di
Stato estero d’oltre Tevere in diretta TV (perché si sarebbe im-
bucato a una manifestazione a Philadelphia), mi aspetterei che
fosse elegantemente ma fermamente difeso dal capo del Governo
(e del PD). Di nuovo, non è la persona ma l’Istituzione che viene
sbeffeggiata, e questo forse qualche rigurgito di dignità lo meri-
terebbe. Ma del resto, quando poi si coprono le statue dei Musei
Capitolini, che dovrebbero essere parte del nostro orgoglio, tutto
torna.
Sempre da cittadino, quando il partito che ha governato la città
60
A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
per circa un ventennio, seppur con la parentesi Alemanno, viene
pescato con le mani nella marmellata al punto da commissariar-
si da solo, mi aspetterei, dopo un anno e prima di ripresentarsi
a chiedere il voto, nomi cognomi e fatti per cui fare ammenda.
Altrimenti manca il finale e la storia resta aperta. Se poi chi viene
cacciato è il sindaco, colui che bene o male aveva fatto scoppiare il
bubbone, allora forse come finisce la storia si comincia a intuire.
Finisce che la storia continua. Perché sulle buche cadono i moto-
ciclisti, non i sindaci. Questi cadono sempre sui soldi (quelli veri,
non gli scontrini).
Tornando a domani, molti romani nemmeno ci pensano a votare
PD e a loro non servono queste considerazioni. Ma altri non tro-
vano grandi ostacoli a farlo, anche perché Giachetti sembra una
brava persona e anche conoscitore della macchina amministrativa
(quanto poi voglia e possa cambiarla, quella macchina, resta un al-
tro paio di maniche). Questi elettori possono mandare un segnale
etico, di galateo istituzionale, evidentemente necessario a chi non
ha avuto un’educazione civica adeguata.
Dire che no, certi limiti non si possono oltrepassare, che a tavola si
sta composti, o non si sta. È una scelta forte, dolorosa nell’imme-
diato, perché consegna senza combattere la città a chi viene rite-
nuto politicamente avverso. Ma nel medio periodo questi segnali
danno i frutti, perché portano l’attenzione sul significato stesso di
‘servizio civile’. L’alternativa è confermare il loro voto, provando a
mandare al ballottaggio il PD.
Il messaggio sarebbe devastante e chiaro: potete giocare a piaci-
mento con le Istituzioni e con noi che ne siamo rappresentati.
Non preoccupatevi, il nostro voto comunque non mancherà mai.
Più che sudditi, servi della gleba.
Articolo pubblicato su il Giornale, il 4 giugno 2016
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LABARBARIEDELLOSCIOPEROCHEDANNEGGIA
SOLO I CITTADINI
Un sindacato civile non prenderebbe in ostaggio i cittadini per
usarli come arma nelle proprie contese. Un Paese civile, con isti-
tuzioni politiche (il sindacato non lo è, pur se si atteggia a tale)
che interpretano i bisogni di tutti, non lo permetterebbe. Ogni
riferimento allo sciopero dei casellanti delle autostrade indetto per
domenica 5 giugno dai sindacati è esplicitamente voluto.
Esercitare il diritto di sciopero è un conto, farlo perseguendo il
massimo disagio per milioni di cittadini, che nella vicenda del
rinnovo del contratto tra sindacati e Federmeccanica sono terzi,
è una barbarie. Lo sciopero è un’arma privata nelle mani dei la-
voratori, per far valere le proprie ragioni contro quelle del datore
di lavoro, che è l’unico a doverne essere danneggiato. Si esercita
all’interno di una faccenda privata. Qualsiasi nocumento a sogget-
ti estranei alla vicenda deve essere evitato, perché è un danno gra-
tuito. Ma l’idea bislacca del sindacato è che tutte le sue battaglie
siano sociali, pubbliche, e che dunque i cittadini non siano terzi
ma parte (dalla loro, parte). Così è l’opinione pubblica a eserci-
tare pressione sulla politica affinchè questa a sua volta entri nella
trattativa affianco al sindacato. Purtroppo, la politica nel migliore
dei casi ha paura a contrastare duramente gli scioperi che mettono
in ginocchio la vita sociale, preferendo l’aberrazione di lasciare i
cittadini ostaggio dei sindacati. Negli scioperi dei trasporti e dei
servizi al pubblico, l’unica cosa davvero sociale sono i danni che
vengono causati a tutte le attività nel nome delle ragioni di un
gruppo di lavoratori. Targioni (Cgil) ieri si è detto “preoccupato
per quanto potrà avvenire in serata se Autostrade non fa aprire
come al solito (per minimizzare il danno causato dallo sciopero)
dei varchi per far defluire le auto in coda.” Preoccupato? Mini-
mizzare il danno? Quanta sensibilità sociale! Ma per favore, per
favore. Almeno il pudore di stare zitto.
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A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
Infine, dal punto di vista dei lavoratori, il fatto che chi opera nei
servizi al pubblico abbia un’arma tanto speciale quanto impropria
è solo una discriminazione. Che pensa l’operaio di una fabbrica
qualsiasi, che quando sciopera nessuno se ne accorge? E tutti gli
addetti del turismo (su cui per inciso il Paese vorrebbe fondare
parte della crescita) non sono lavoratori degni di tutela, contro le
barbarie dei sindacati?
Articolo pubblicato su il Giornale, il 6 giugno 2016
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CAMBIAREFACCENONCAMBIERÀILSISTEMA-PAESE
Inutile cambiare le persone se non miglioriamo il sistema.
Continuare a proporre facce nuove non è la soluzione. La
priorità è rendere più salubre l’ambiente politico.
È stato un voto per il cambiamento. Bene, e grazie per avercelo
fatto notare. Ora, volendo per una volta spingerci oltre le colonne
d’Ercole dei 140 caratteri, cogliamo l’occasione per approfondire.
Esattamente, quale cambiamento? Nella storia recente, gli Italiani
hanno inseguito di frequente il ricambio della classe politica. Negli
anni `70 era il PCI, che però ha cambiato il nome sul citofono e
nient’altro. Negli anni `90 il vento del cambiamento si chiamava
Lega Nord, che doveva fare piazza pulita dei professionisti della
politica sporchi e corrotti. È finita con Bobo Maroni con la scopa
in mano. Adesso, dopo altri vent’anni, il cambiamento si chiama
M5S. È lecito chiedersi se non stiamo sbagliando qualcosa, dopo
tre cambiamenti annunciati e prima del quarto, che dovrebbe
arrivare negli anni `30 ma sicuramente anticiperà.
Continuare a proporre facce nuove magari non è la soluzione.
Cosa c’è, oltre le persone, se non il sistema nel quale vanno a
operare?
Forse è lì il problema, prima che negli uomini. Il teorema che ci
siano più specie umane non regge. Credere che ci siano gli onesti e
i disonesti, i fannulloni e gli operosi, e via così, è un modo infanti-
le, da catechismo, di vedere le cose. Gli uomini (e le donne – si dia
per acquisito) si adattano, al vizio come alle virtù. Mossi da con-
venienza e egoismo, fanno ciò che possono e non fanno ciò che
gli porterebbe male. Poi, non è che all’occasione saremmo tutti
ladri. Il processo non è un interruttore. Vizio e virtù si muovono
lungo cerchi discendenti o ascendenti: è la teoria del ‘vetro rotto’
del sindaco Rudolph Giuliani. In un ambiente civile e favorevole
64
A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
uno è indotto a comportarsi adeguatamente, per se stesso prima
che per gli altri.
Poiché l’ambiente della politica non è salubre, per quanti Angeli
mandiamo nel Palazzo il risultato sarà comunque l’Inferno. Il gio-
co può continuare all’infinito, visto che su 60 milioni un centina-
io di persone perbene le troveremo sempre.
Ma saranno la soluzione? E saranno anche brave?
Nel frattempo metà di noi, il partito dell’astensione, ha già smesso
di giocare. Noi altri invece ci affanniamo, ventennio dopo venten-
nio, a cercare (e illuderci di trovare) l’eroe che ci salverà. Ma ormai
tutti sappiamo (quasi tutti) che nessuno da solo può davvero fare
la differenza e cambiare le cose.
Una persona minimamente avvisata è consapevole che – pur rico-
prendo la carica di Sindaco o Primo Ministro – ben poco potreb-
be realmente incidere per far funzionare le cose come vorrebbe. La
sorpresa più grande per Berlusconi, quando arrivò nelle stanze dei
bottoni, fu proprio questa: i bottoni c’erano, ma i fili non erano
collegati. In gergo motoristico diremmo che schiacci l’acceleratore
senza scaricare potenza a terra.
L’apparato burocratico e le norme che fissano in dettaglio ogni
singolo atto costituiscono, nel complesso, un guscio impenetra-
bile.
Dietro cui i grandi e i piccoli burocrati si muovono e si nascondo-
no con abilità e resilienza. Riescono a vanificare ogni intenzione
di produrre un risultato, per il semplice motivo che il loro status
professionale è avulso da qualsiasi risultato. Possono farlo perché
non gli succede nulla. Provate ad avere un atteggiamento simile in
un’organizzazione privata. Poco dopo sarete seduti davanti al di-
rettore delle risorse umane a discutere la buonuscita. Nello Stato,
per ottenere che qualcosa si muova, anche di poco, occorre scen-
dere a patti, fare compromessi. Così il cambiamento viene svilito
65
e quel poco ha un corrispettivo di scambi e favori che, dopo alcuni
passaggi, diventano a volte o spesso corruzione.
In conclusione, se cambiamento ha da essere, sia! Indicando però
quale parte del sistema verrà colpita, chi sentirà il dolore. Lisciare
tutti e non scontentare nessuno è come dire che si cambia senza
terapia, o addirittura che esistono terapie indolore. Una favoletta
buona per le anime semplici, cui il primo partito del Paese non
crede più.
E non dicano che il dolore lo sentiranno solo qualche decina o
centinaia di papaveri. Il sistema non sono venti o cento politici
che prendono una mazzetta, bensì 800 miliardi di spesa pubblica
fuori controllo, dove vivacchiano sprechi di ogni natura, senza che
nessuno sia mai chiamato a rispondere di un’opera mai terminata,
di una siringa strapagata o di altre schifezze simili.
Ma questi soldi dove finiscono? Nelle tasche di milioni di citta-
dini che ci campano. Qui non si tratta di colpire i parlamentari,
ma la gente comune. Per dare un ordine di grandezza, Camera,
Senato e Quirinale costano insieme pochi miliardi, nemmeno lo
0,5% della spesa pubblica, e in gran parte sono stipendi.
Quando si parla delle auto blu, il grosso del costo sono gli autisti,
non le vetture. Ecco il nodo: siamo disposti a cambiare in meglio
questa gigantesca macchina che distribuisce reddito? La strada del
cambiamento non porta dai parlamentari, ma a casa della gente
normale.
Andiamo?
Articolo pubblicato su il Giornale, il 24 giugno 2016
66
A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
DUE MILIONI DI BRITANNICI CHIEDONO GIÀ
DI RIVOTARE
Londra abbia il coraggio di tornare indietro.
“The lady’s not for turning.” Con questa celebre frase nel 1980
Margaret Tatcher rifiutò di cambiare politica nei confronti delle
liberalizzazioni, come le suggeriva il suo stesso partito, di fronte
a una crisi gravissima con 2 milioni di disoccupati (che sarebbero
diventati 3 entro due anni). Chissà cosa farebbe adesso, in una
situazione più difficile ma molto più grave?
La via più semplice è avviare le negoziazioni per uscire dall’U-
nione Europea. Non servono giganti della politica per farlo. Il
costo economico lo pagherà per la maggior parte lo stesso Regno
Unito. La sua presenza nella UE è di natura commerciale, finan-
ziaria e mercantile. Poi col tempo ci sarà un nuovo equilibrio,
anche perché parliamo di un popolo tenace e preparato. “C’è
tempesta sulla Manica, il Continente è isolato” non è una bat-
tuta, ma un’espressione identitaria. Non si sono arresi sotto le
bombe di Hitler, vuoi che non resistano a una crisi monetaria e
economica. Il costo politico lo pagheremo probabilmente noi,
l’Europa. Questo voto rafforzerà le ali nazionaliste e separatiste
dei vari Paesi membri, inducendo i Parlamenti a non spingere
verso un’integrazione maggiore, che affianchi la politica (estera
ed economico-fiscale, soprattutto) a un apparato monetario e
amministrativo che da solo non riesce a interpretare le attese dei
cittadini, figuriamoci a produrre risposte. Il percorso verso poli-
tiche più mercantili e liberali e meno stataliste rallenterà ancora –
sempre che sia in movimento, corretto. In altri termini, le ragioni
che hanno spinto UK a uscire saranno rafforzate, invece di venire
finalmente affrontate, come forse i nostri leader pure vorrebbero.
Ma sono davvero tali?
67
Poi c’è l’altra via. Quella difficile. Politicamente scorretta. Gli
Americani distinguono tra ciò che è giusto e ciò che va fatto.
Oggi la Storia meriterebbe uno statista in grado di fare ciò che
va fatto: non avviare i negoziati di uscita, per il bene degli stessi
elettori. È un fardello pesantissimo, contraddire quanto uscito
dalle urne. Il consenso parlamentare ci sarebbe, con il Labour
già schierato per il Remain. L’Inghilterra vanta il più antico Par-
lamento della modernità: batta un colpo. Esca dall’ombra ed
eserciti la sua funzione di rappresentanza competente e respon-
sabile, per spiegare all’opinione pubblica perché in casi estremi
(e rari) la leadership di un Paese non può limitarsi a fare il notaio
della volontà popolare. Tsipras in Grecia lo ha fatto. Ha chia-
mato un referendum per il NO e poi ha immediatamente agito
contro l’esito da egli stesso invocato, nell’interesse del suo Paese.
Già, si disse, ma a quelle latitudini fanno di tutto. Beh, quella
è stata la culla della democrazia. Forse per questo la conoscono
bene e sanno come e fino a dove usarla. La statura dei leader si
misura quando si tratta di salvare il Paese, anche da se stesso se
necessario.
Qui si parla di professionalità politica e leadership nelle deci-
sioni impopolari. Di democrazia diretta in questioni complesse.
Lungi dal voler sostenere la dittatura contro la democrazia, è ve-
nuto il tempo di dire che questa forma di governo ha i suoi limi-
ti, che vanno conosciuti e gestiti. La nostra Costituzione esclude
i trattati internazionali dallo strumento referendario, perché per
decidere su una materia non basta avere la piena cittadinanza.
Occorrono conoscenze e competenze. Non siamo condomini
che decidono l’orario del riscaldamento. Da cittadino, faccio
il mio lavoro e prendo le mie decisioni, di cui mi assumo la
responsabilità. Nel mercato, i miei interlocutori mi diranno se
qualcosa va aggiustata. Da cittadino, mi aspetterei che chi è pa-
gato per compiere scelte politiche lo facesse, senza pretendere il
mio benestare a ogni piè sospinto. Rivolgersi sempre al popolo,
per addossargli scelte per cui non ha le competenze, ha un che di
68
A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
perverso e pericoloso. Le dittature sono quasi sempre populiste
e scavalcano proprio la classe politica rivolgendosi direttamente
al popolo, con panem et circenses.
Questa visione diminutiva della politica è un male del nostro
tempo. Coniuga insieme una carenza di leadership e una fallace
interpretazione della democrazia. Un leader è figura diversa dal
sondaggista. Un leader è colui che interpreta la via giusta nell’in-
teresse degli elettori e poi riesce con abilità a farsi seguire lungo
quella strada. Vir bonus, dicendi peritus. La democrazia è la fa-
coltà di fare il punto sulla strada, ogni tanto, per decidere, nel
caso che la via non si riveli corretta, di affidarsi a un altro leader.
Oggi ci troviamo con una carenza di leadership e un abuso di
democrazia. Il chirurgo, l’operaio, l’ingegnere che ritengono di
poter decidere su questioni politiche ed economiche complesse,
dicano per favore se sarebbero disposti a lasciare il bisturi, la
macchina o il calcolo di un pilone nelle mani di altri non quali-
ficati. Chiediamoci se Churchill darebbe seguito alle urne.
Articolo pubblicato su il Giornale, il 26 giugno 2016
69
LA LEZIONE DEI 5 STELLE: UNO VALE UNO
MA C’È ANCHE CHI VALE MENO DI ZERO
M5S è impreparato. Troppi dilettanti. Uno non vale l’altro.
Raggi ha il dovere di governare e i romani il diritto di essere da lei
governati. Lo abbiamo già detto.
A Roma ci sono interessi economici enormi (dai grandi appalti
di opere e servizi alle piccole ma numerosissime rendite di posi-
zione, anche sindacalizzate) e gli equilibri di anni non si faranno
demolire senza resistere. Questo pure lo capiamo. La stessa ammi-
nistrazione comunale, di fronte al pericolo che i nuovi regnanti
tocchino dei privilegi, avrà già cominciato a muoversi, chi cer-
cando un predellino sul nuovo carro, chi spargendo trappole per
favorire il ritorno degli esuli e ricevere una lauta ricompensa. Non
è bello e non è giusto, d’accordo, ma un movimento con centinaia
di parlamentari che si candidi a gestire Roma un pensierino su
cosa l’aspetta lo fa. Invece l’approccio dei grillini al Campidoglio è
quello di un’armata Brancaleone. Tutti, nessuno escluso. Da Gril-
lo a Raggi fino agli altri coinvolti a vario titolo.
Ora, premesso che non sono tutti brutti e cattivi, non più degli
altri, non più di tutti noi, vale la pena interrogarsi sulle cause,
per cui il movimento più fresco e vergine, con uno dei maggiori
consensi elettorali, sia sull’orlo del fallimento alla prima vera pro-
va importante, al punto da pregiudicarne la credibilità politica e
amministrativa, forse per sempre.
In sintesi, la colpa è che il M5S è una scorciatoia, una via breve e
frettolosa per sostituire una classe politica che pure in larga parte
lo merita. Catapultare cittadini ai vertici delle istituzioni sconta
la mancanza di esperienza che solo un formativo cursus honorum
può dare.
70
A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
Uno vale uno. No. Uno valeva uno in un tempo paleo-sociale,
prima della specializzazione del lavoro. Oggi uno vale in funzione
delle competenze, a loro volta frutto di conoscenza e esperienza.
Dunque, uno vale uno, un altro vale 10 e qualcuno vale zero.
Questa idea che per una malattia esantematica del pupo si ricorra
allo specialista, mentre per governare una grande città vada bene
chiunque è, diciamolo chiaro, stupida e indice di un analfabeti-
smo concettuale, figlio del 6 politico e padre di un senso di rivalsa
contro chi ha studiato e operato.
Che una professionista giovane non potesse da sola prendere in
mano le redini del Campidoglio era scontato, ma almeno doveva
presentarsi con un piccolo “raggio magico” formato di due/ tre
fedelissimi, esperti e a prova di scandalo, col cui consiglio formare
la squadra reggendo alle pressioni esterne e soprattutto interne,
perché molto di questo è fuoco amico. Invece niente, una serie di
nomine poi revocate o modificate: roba da matti. Molto, molto
imbarazzante.
Infine, l’uso troppo parsimonioso del silenzio. Il governo della ca-
pitale non può essere rappresentato come un pollaio. Mai e ancor
di più dopo la ribalta internazionale seguita all’affermazione del
M5S. Non è questione di trasparenza, ma di etichetta istituzionale
e, prim’ancora, di educazione tout court.
Va bene venire dal popolo, ma non siamo un popolo di lavandaie,
chiassose e ignoranti.
Articolo pubblicato su il Giornale, il 4 settembre 2016
71
TUTTI FUGGONO DAL «SOGNO» DI FIDEL
Ha animato ideologie e illusioni che però si sono scontrate
contro il muro della storia. Sbriciolandosi.
Il Black Friday è una cosa da poveracci, da semi-analfabeti. I
veri leader del pensiero non cascano certo in questi trucchetti da
marketing di quart’ordine. No, loro si stanno godendo il Black
November, cominciato con la vittoria di Trump (anzi, per essere
precisi, la sconfitta di Obama per mano di Hillary), che prosegue
con il grande evento del Referendum, sul quale tutti, ma proprio
tutti, si stanno scatenando, dando una sconfortante impressione
di criceti da laboratorio, di inconsapevoli cavie. Insomma, un vero
periodo di opulenza per spargere l’intelligenza applicata alle dina-
miche sociali. Poteva bastare, ma poi è arrivato lui, il lider maximo
(da non confondere con Massimo D’Alema – ndr per i 5S, che
pare vadano facilmente in confusione oltre i cinque anni di sto-
ria). Cosa avranno mai fatto per meritarsi anche questa fantastica
opportunità di evocare gli inizi della superiorità, i tempi in cui la
verità fu rivelata? Come loro, sono stato un ammiratore di Fidel,
quando in gioventù pensavo che il comunismo fosse la soluzione
alle storture del Mondo. Come loro (un po’ prima, in verità), l’ho
abbandonato, quando ho visto nei fatti che non portava a nulla di
buono. A differenza di loro, ero sincero.
Molti hanno sepolto, non accantonato, l’idea. Per convenienza
politica ed economica. Del resto, lo stesso Fidel l’ha fatto. Eh sì,
perché verso la fine del secolo, quando i soldi sovietici sono finiti
e l’equazione non tornava più, ha cominciato a strizzare gli occhi.
Prima uno, alla Chiesa, poi l’altro, direttamente al presidente nero,
recentemente. La vita è bellissima per questo, perché vale sempre la
pena alzarsi la mattina, sicuri che il Mondo riuscirà a sorprenderci
ancora una volta. Il Papa nemico del comunismo che va a trovare
l’unico, vero campione del comunismo, uno autentico, origina-
A spasso per i fatti nostri
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  • 4.
  • 5. 5 SOMMARIO PREFAZIONE 9 INTRODUZIONE 13 SOCIETÀ 17 FIAT. ZITTITUTTI, PARLA SOLO LA CGIL 18 Protezione e assistenza non garantiscono il lavoro. I GRECI VOTANO MALE, LA COLPA È ANCHE LORO 20 OLTRE LA NOVITÀ, ALLA RICERCA DEL “CLASSICO” INTRAMONTABILE 22 DIMENSIONI VERSUS EQUILIBRIO 24 I FANNULLONI? LI CREA LO STATO INEFFICIENTE 26 GLI IMMIGRATI SCELGANO: LA NOSTRA CIVILTÀ O LA LORO 28 COSÌ L’ITALIA HA PERSO UNA GENERAZIONE 29 La generazione persa per colpa di Stato, scuola e famiglia. Per i nati negli anni ’80 il futuro è a rischio: colpa di scuole poco selettive, lauree inutili e scarsa disponibilità al sacrificio IL “CONCORSONE” DEI PROFESSORI? DA BOCCIARE... 32 Scuola, concorsone bocciato sul web. Candidati contro il nuovo esame: carenze e sospetti di irregolarità. Pioggia di critiche sui social.
  • 6. 6 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI LE BELLEZZE ITALIANE? PER LE NOSTRE LEGGI SONO SOLO ECOMOSTRI 34 Quanti ecomostri (a rigor di legge) tra le nostre bellezze. Se applicassimo alla lettera le norme sulla tutela ambientale demoliremmo il meglio. REDDITO DI CITTADINANZA, FABBRICA DI DISOCCUPATI 36 DOCENTI AL BIVIO E QUEI SACRIFICI DECISI DA UN PC 39 DUE FOTO PER CAPIRE CHE L’IRAN ERA PIÙ AVANTI 50 ANNI FA 41 NONVIVIAMOPERLAVORARE?MASENZALAVORONONSIVIVE 43 L’ipocrisia dell’ex presidente dell’Uruguay. IL MITO FASTIDIOSO DEL POVERO BUONO 46 L’UNICA ARMA CONTRO LE BALLE È L’ISTRUZIONE 49 AVANCES VIETATE. CI ESTINGUEREMO PER FEMMINISMO 40 POLITICA 53 UN SINDACATO MOSTRO CHE PRENDE SOLO IL POTERE 54 LA GUERRA SI PAGA CARA: CON LA BORSA (O LA VITA) 56 Un conflitto costa troppo e nessuno si oppone ai Paesi che aiutano l’Isis. Ma anche senz’armi si deve reagire. TRE MOTIVI (DI CIVILTÀ) PER NON SCEGLIERE IL PD 59 LA BARBARIE DELLO SCIOPERO CHE DANNEGGIA SOLO I CITTADINI 61
  • 7. 7 CAMBIARE FACCE NON CAMBIERÀ IL SISTEMA-PAESE 63 Inutile cambiare le persone se non miglioriamo il sistema. Continuare a proporre facce nuove non è la soluzione. La priorità è rendere più salubre l’ambiente politico. DUE MILIONI DI BRITANNICI CHIEDONO GIÀ DI RIVOTARE 66 Londra abbia il coraggio di tornare indietro. LA LEZIONE DEI 5 STELLE: UNO VALE UNO MA C’È ANCHE CHI VALE MENO DI ZERO 69 M5S è impreparato.Troppi dilettanti. Uno non vale l’altro. TUTTI FUGGONO DAL «SOGNO» DI FIDEL 71 Ha animato ideologie e illusioni che però si sono scontrate contro il muro della storia. Sbriciolandosi. LA POLITICA OSTAGGIO DELLA PIAZZA ROSSA 74 CHIAMIAMO ITERRORISTI CON IL LORO NOME: CRETINI 76 Saranno anche bravi a usare strumenti e altro, ma in quanto a percezione della realtà sono veramente scemi. LO “IUS SOLI” ELETTORALE L’ULTIMA CARTA DEL PD 79 Spesa pubblica sprecona, P.A. che non pensa al cittadino, un debito pubblico enorme, ma il Pd pensa allo ius soli. ILCOLONIALISMOPOLITICO?ORACISEMBRAILMALEMINORE 81 L’ULTIMA FOLLIA GRILLINA:TRASPORTI LUMACA CON LA «MOBILITÀ DOLCE» 83 Nel loro programma esaltano la lentezza degli spostamenti: colpo mortale al turismo. IL FASCISMO E IL PAESE ALLO SPECCHIO 86
  • 8. 8 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI ECONOMIA 89 TROPPE VESSAZIONI CI VUOLE UN’ALTRA MARCIA DEI 40MILA 90 Marcia dei 40.000 contro la distruzione del lavoro. FIAT È QUOTATA, FA QUEL CHE VUOLE 92 Fiat è quotata in Borsa: per farle cambiare idea basterebbe scalarla. Il governo non faccia ancora il pompiere, ma il suo lavoro: migliori le condizioni del mercato e apra a nuove attività. MODELLI E FABBRICHE: PERTORINO SCELTE OBBLIGATE 94 QUEL DOPPIOPESISMO SULLE REGOLE DELL’ECONOMIA 97 FCA E UNA VERITÀ DURA DA DIGERIRE 99 CONTA SOLO LA PRODUZIONE NON L’ITALIANITÀ 101 DelViscovo «L’allarme dei sindacati? Dicano cosa hanno fatto per lo sviluppo delle imprese di questo Paese». LOW COST, LA PERVERSA UTOPIA CHE CI RENDETUTTI PIÙ POVERI 104 Il web diffonde il suo commercio facendo leva pure sul prezzo. Ma è un virus che danneggia l’economia. POVERTÀ DIMEZZATA IN 20 ANNI. È MERITO DELLA GLOBALIZZAZIONE 107 Il capitalismo è un sistema imperfetto ma ha benefici. Gli Stati più ricchi devono però fare ancora molto. PERCHÉ IL MODELLO RYANAIR È FURBETTO E QUASI FALLITO 109 RINGRAZIAMENTI 117
  • 9. 9 PREFAZIONE Non siamo tanti, fra quelli che svolgono un lavoro professionale o un impegno imprenditoriale, a concederci la difficile libertà di scrivere per la stampa quotidiana, cioè per un genere di comuni- cazione squisitamente di massa (mentre noi viviamo in circuiti e su problemi molto stretti) ed essenzialmente dipendente dalla cro- naca, dagli eventi di cronaca che si succedono giorno dopo giorno (mentre noi lavoriamo su problemi e processi di media e lunga durata). Scrivendo ogni tanto un articolo, ci mettiamo nelle con- dizioni di oggettiva incoerenza; eppure lo facciamo. Perché lo facciamo? In un recente colloquio del Viscovo ed io ci siamo dati due risposte: la prima è che lo facciamo perché rite- niamo di potere fa rifluire sulla stampa quotidiana le nostre idee, le nostre riflessioni, le nostre proposte, cioè il nostro patrimonio conoscitivo; la seconda risposta, più banale e meno ambiziosa, è che lo facciamo perché ogni tanto ci piace uscire dal recinto in cui siamo collocati, e darci la libertà di andare a spasso (a “flanellare”) per strade e vicoli per noi inusuali, la cui realtà ci distrae o ci incu- riosisce. Ne traiamo un po’ di igiene mentale ma anche stimoli che mai e poi mai il recinto professionale ci potrebbe garantire. Le pagine che seguono dimostrano chiaramente questo orienta- mento. Vero è che alcuni degli articoli di del Viscovo sembrano discrete esternazioni di convincimenti anche delicati nati nel suo lavoro professionale. Basta rileggersi l’articolo sulla mobilità che deve essere “non dolce” (darebbe un colpo mortale al turismo) ma solo “rapida e capillare”; e più ancora i quattro-cinque articoli de- dicati alla FCA, alla sua strategia, ai suoi prodotti, alle sue decisioni di localizzazione, alla sua prudenza negli investimenti (magari in polemica con “un alfiere del lusso made in Italy” che chiedeva più coraggio nel prospettare nuovi prodotti); tutto a conferma che noi scriviamo sui quotidiani “anche” per rendere pubbliche e discuti- bili le nostre convinzioni ed opzioni professionali. Ma la maggior parte degli articoli qui ripubblicati è figlia dell’an-
  • 10. 10 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI dare a spasso, del flanellare, nella realtà quotidiana; e per coglierne aspetti che di solito non arrivano sui nostri tavoli di lavoro. E si ritrova quindi in essi la curiosità giornalistica di: - vedere e capire i grandi problemi di sistema: la globalizzazione, la povertà, il ruolo del capitalismo industriale nel ridurle, le disegua- glianze sociali e la loro drammatica complessità, la guerra e le sue ambiguità (“l’idea che la si possa combattere nei talk-show e nei colloqui europei è davvero singolare); - vedere e capire i grandi processi politici che oggi agitano la realtà europea (Brexit, la crisi della Grecia, l’evoluzione del Welfare State, le ambigue istanze alla “sovranità nazionale”, ecc.); - vedere e capire le tante pieghe dei problemi che angustiano il nostro vivere collettivo: la generazione attuale di giovani, “persa” in parte per propria colpa ma ancor più per colpa delle famiglie, del sistema formativo, dello Stato (“che drena metà della ricchezza che si produce e ne spreca una buona parte”); il grande flusso de- gli immigrati, non adeguatamente regolato; la troppa fiducia nella “piazza” come campo di rivendicazione; il peso crescente delle fake news e il loro fronteggiamento con forti impegni culturali e for- mativi; la crisi del sindacato e il rischio che la rappresentanza di interessi specifici possa danneggiare i cittadini; - ed infine vedere e capire, con coraggio civile, le vicende della nostra disastrata dialettica politica: si veda l’articolo sui “tre motivi per non votare PD”; e quello sul meccanismo “uno vale uno”, che rischia di portare il M5S a diventare una “armata Brancaleone” o un più agreste “pollaio”. La passeggiata nella società ha, come si vede, dato a del Viscovo una buona raccolta di stimoli e di provocazioni; e sono convinto che ne trarrà vantaggio anche la consistenza socioeconomica del suo lavoro professionale. Andare ogni tanto a spasso fa bene, per- ché quando si ritorna nel proprio recinto, manteniamo una certa attenzione al proprio “altrove” ed alla complessità, quasi alla estra- neità di tanti comportamenti individuali e collettivi. Una tale conclusione può essere accusata di quell’egoismo intel- lettuale che tende a incorporare tutto nella propria testa e che è
  • 11. 11 tipico di chi fa lavoro intellettuale. Personalmente ammetto di col- tivare tale egoismo, ma sono convinto che altrettanto non si possa dire per del Viscovo, visto che gli articoli che seguono dimostrano una grande tensione civile ad informare ed orientare una opinione pubblica condizionata più dagli eventi che dai processi reali; più dalla cronaca spicciola che dall’approfondimento delle tante varia- bili del reale; più dalle chiacchiere di retroscena che dal confronto sui temi centrali dell’attuale sviluppo. Ed a questo credo si debba aggiungere qualcosa di più sottile, vor- rei dire valoriale, in quanto del Viscovo mette infatti in ogni artico- lo una dose più o meno esplicita di richiami alla serietà degli atteg- giamenti e dei comportamenti: ragionare e far ragionare in modo equilibrato, senza sbavature di accentuazioni enfatiche; ragionare e far ragionare in termini di rigore intellettuale ed umano – senza alcuno spazio per “approcci amatoriali”; ragionare e far ragionare ricercando sempre la “dimensione giusta” (dei polsi per gli orologi come dei conti di un eventuale reddito di cittadinanza); ragionare e far ragionare sul necessario parallelo sviluppo del desiderio di pa- droneggiare la realtà circostante e del rispetto degli altrui bisogni e pareri; ragionare e far ragionare come “persone per bene che parla- no a persone per bene” (ambizioso ma necessario obiettivo); ragio- nare e far ragionare non in termini di astratto rispetto del “merito”, ma dei concreti processi di selezione, gestione, valorizzazione del personale; ragionare nell’intima convinzione della centralità anche sociale della responsabilità di ogni singola persona. In fondo mi piace sintetizzare il valore della presenza giornalistica di del Visco- vo nell’ultima frase di un suo articolo di tre anni fa: “meritocrazia, responsabilità, idee e coraggio”. È un messaggio, mi sembra di po- ter affermare, che non viene tanto dalla sua e nostra seria profes- sionalità, ma dal suo andare a spasso nelle tante realtà del sociale. A conferma, diremmo sorridendo noi due, che “flanellare fa bene”. Giuseppe De Rita Presidente Fondazione Censis
  • 12.
  • 13. 13 INTRODUZIONE Curvare la realtà. Deviare dalla linea reale dei fatti, seguendo un’idea e fingendo che essa sia la realtà. Quando la vita pre- senta uno spigolo, nella forma di cose e comportamenti che male si incastrano con la visione che uno ha di sé e degli altri, la curvatura addolcisce lo spigolo. Ma tanti non si acconten- tano solo della dolcezza, pretendono che la sporgenza sia ap- piattita, quando non addirittura resa concava. La realtà viene profondamente curvata. Fino alle inversioni a U. È una pratica tanto diffusa in quanto connaturata all’animo umano. Ma cosa spinge donne e uomini lontano dalla realtà, verso una visione di essa, più o meno adattata, modellata? Sia- mo portati in genere a guardarla come una nostra debolezza, qualcosa da estirpare, nel nome del bene supremo, la verità. Tuttavia, abbiamo bisogno di questa facoltà di schermarci da alcuni aspetti della realtà. Per rendere la vita stessa più sop- portabile. Siamo immersi in una vita che somiglia a un pendolo tra il co- dice e la sua trasgressione. Può non piacerci, ma è così. Siamo così. Siamo questo. E il giudizio si applica a quella zona grigia, positivo quando tende al bianco o negativo se eccede verso il nero. Pas trop de zèle. Ma questa oscillazione continua non riguarda solo il singo- lo, ma anche la società, nella misura in cui abbiamo bisogno di condividere l’appartenenza a determinati gruppi, siano la famiglia, un ambiente di lavoro, una squadra sportiva o un movimento socio-politico. Per farlo, dobbiamo a volte tra- sformarli in qualcosa di meno stridente, dobbiamo addolcirne qualche spigolo. Vogliamo diminuire l’enfasi su certe miserie e accentuare i lati positivi. Facciamo queste scelte guidati dalla bussola dei valori che abbiamo adottato e a cui cerchiamo di far corrispondere noi stessi e i nostri gruppi di appartenenza.
  • 14. 14 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI L’ambiente che ci circonda, dentro cui viviamo fisicamente e spiritualmente, è formato di donne e uomini, che lo rendono ovviamente a loro somiglianza. A nostra somiglianza e dunque per definizione imperfetto, denso di sbavature e di allonta- namenti dal codice di condotta. Codice che serve appunto a indicare la rotta a persone diversamente erranti, inclini alla facilità e all’amor proprio e a tutti quegli istinti che vogliamo invece mitigare e governare con l’autorità che ciascuno eserci- ta su sé stesso. Ma una volta che decidiamo di appartenere a un contesto, che sia una famiglia o un’associazione o semplicemente un movimento di opinione, sentiamo il bisogno di preservarne la compiutezza dell’impianto, o almeno di non scardinarlo. Nel fare ciò, è necessario attutire o soffocare alcune evidenze, quelle che deviano dal codice che il contesto medesimo ha scelto per sé. È un’operazione che si prefigge la conservazione del nostro ambiente elettivo. Il compito dell’informazione è di portare la verità all’atten- zione del pubblico. Ma, per quanto sopra detto, il seme della verità non trova tutti i campi pronti ad accoglierlo con favo- re. Se la verità svela fatti in contrasto con l’idea di noi o del nostro ambiente, si apre una valutazione: rigettare quel seme ovvero accoglierlo comunque, magari opportunamente trat- tato e addolcito. Questa seconda opzione è la più ricorrente. Tanto da aver dato luogo all’informazione di parte, per quello che possa significare. Non tutti hanno bisogno però della stes- sa edulcorazione. C’è chi vuole proprio una melassa, ossia la trasfigurazione della realtà, e chi all’opposto preferisce il caffè amaro. Ma il grosso un cucchiaino lo gradisce, in certi casi anche due. Cosa fa la differenza? Cosa rende la persona capace di accettare le devianze, le debolezze, senza compromettere l’intero impianto? La conoscenza, il sapere, che dà la fiducia di poter stare anche in un ambiente meno che perfetto. La convinzione che il bianco sia una destinazione, sebbene non raggiungibile perché estranea alla natura umana.
  • 15. 15 Dal canto suo, l’informazione si aggiusta di conseguenza, sce- gliendo di dare ciò che piace piuttosto che ciò che è. Tradendo la sua missione? A rigor di logica sì. Ma nel paese del perdono e del purgatorio può bastare sapere che c’è chi addolcisce per la controparte, in modo da bilanciare. Con tutta la comprensione possibile e senza alcun intento giu- dicante, gli articoli raccolti in questo volume puntano a svelare quei lati dei fatti che tendenzialmente vengono tenuti nascosti o negati, perché stonano nella sinfonia della rappresentazio- ne. Non si tratta di verità sconosciute, anzi. Frequentemente basta un semplice accenno a motivazioni e comportamenti e fatti. Perché sono cose soltanto accantonate, rimosse. Note stonate, che pure fanno parte dello spartito della vita, anche se in punto di etica (e di estetica, a volte) non dovrebbero. Ma la suonata della vita, ahimè, è più vasta delle sue aree di indagine filosofica. Ci sarò riuscito? Dimmelo tu.
  • 16.
  • 18. 18 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI FIAT. ZITTI TUTTI, PARLA SOLO LA CGIL Protezione e assistenza non garantiscono il lavoro. I politici sono intervenuti sull’intervista rilasciata da Mar- chionne a Fabio Fazio, con due addebiti principali: la Fiat ha un debito verso il Paese per gli aiuti ricevuti in passato e do- vrebbe fare auto grandi su cui si guadagna di più, così da poter competere anche con costi maggiori dovuti al “sistema Paese”. Primo. Gli aiuti in passato miravano a forzare scelte contro il mercato ma in favore di occupazione e localizzazione in aree depresse. Se quei politici non hanno già ottenuto tutto il cor- rispettivo di quegli aiuti, da cittadino me la prendo con loro. Comunque, quella partita è chiusa. Ma certe politiche indu- striali di retroguardia non hanno favorito né il Paese né la Fiat, arrivata a inizio secolo sull’orlo del fallimento (di fronte al quale lo Stato ha alzato le mani, salvo ritornare alla carica appena ha sentito odore di soldi). Protezione e assistenza non hanno mai garantito il lavoro, la competizione sì. E questo non è capitalismo, è storia umana. Secondo, fare auto grandi. Se oggi la Fiat è tonica lo deve sì al coraggio della famiglia di restare nell’auto e a un leader che culturalmente non è italiano e professionalmente non è un “car guy”. Ma anche ad alcuni vantaggi competitivi, tra cui la tecnologia d’avanguardia sui motori e – soprattutto – la grande capacità di costruire auto piccole ottime, belle e spa- ziose. Se c’è in Europa un segmento che fatica meno è proprio quello delle automobili piccole: costano meno, consumano meno, in città sono comode, fuori città si va sempre meno in auto, l’auto è un oggetto più personale che familiare, il lusso può stare anche in 3 metri di macchina. Per fare soldi nell’alto di gamma servono – oltre a un prodotto adeguato – un brand
  • 19. 19 e una distribuzione globale, a cui Fiat sta lavorando. Questi sono i fatti. La logica dei politici è invece sintomatica del loro livello. Non affrontano il problema di “come rendere compe- titiva una produzione italiana?” (a cominciare dal cuneo fisca- le, direi), ma ribaltano la questione: “Quali prodotti occul- terebbero le nostre inefficienze? Per quanto tempo ancora?” Le critiche sono arrivate da destra e da sinistra, ma Epifani ha tuonato da vero padrone delle ferriere, chiarendo che in fondo Marchionne può fare ciò che vuole, tranne parlare. «Se parla ai cittadini, la vertenza Fiat si risolve più facilmente o più difficilmente? La ricomposizione di un tavolo con la Fiom è più facile o più difficile dopo questa esposizione mediatica? Ci si può limitare ad andare in tv? Si possono trattare così le organizzazioni sindacali?» Ma quale ricomposizione? Quale tavolo? È incredibile. 30 anni fa Berlinguer ci ha sbattuto il muso, sulla volontà delle persone perbene di decidere se lavorare o scioperare, senza imposizioni. Si chiama democrazia. Adesso ci risiamo. 3 persone possono scioperare, sì, ma non sabotare gli impianti per impedire agli altri di lavorare. Ma nessuno può dirlo, il microfono (lo scettro) è suo. Le fabbriche possono restare o andare, ma ciò che gli sta a cuore è che la storia la racconti lui. Lui e nessun altro. Perché chi racconta ha il potere. Articolo pubblicato su il Giornale, il 9 novembre 2010
  • 20. 20 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI I GRECI VOTANO MALE, LA COLPA È ANCHE LORO Adesso è politica. Tsipras è in difficoltà con gli elettori. Aveva promesso di mordere la mano che sta elargendo i soldi per gli stipendi: 240 miliardi, gli ultimi 7 da incassare adesso, e la BCE che torna ad accettare i bond ellenici. Ora dovrà azzan- nare le cause del disastro: corruzione, evasione, contrabban- do, PA ipertrofica, Stato troppo presente in economia. Non ci ricorda qualcuno? Ma era, ed è, tutta politica. Tsipras è un politico. “Abbiamo vinto tutti”, ha detto Padoan – se non è politica questa… La partita economica era già stata confinata entro limiti circoscritti quando Obama aveva avvertito che l’uscita dall’euro, con la conseguente attrazione nell’orbita russa, non è un’opzione: giocate pure, ma non fate cascare la palla di sotto. In politica, la crisi greca è stata presentata come una disputa tra i buoni, il popolo greco impoverito, e i cattivi, i ricchi eu- ropei che godono a vederli annaspare. Era la via più semplice. Dare addosso allo straniero. Meglio se teutonico, inutile fin- gere di no. All’obiezione che sono i greci ad aver causato il dis- sesto economico, si replica che sono stati i governi precedenti di centrodestra (ma prima e a lungo furono di centrosinistra), non Tsipras e comunque mai il popolo. Ecco, l’idea spacciata (perché di oppio si tratta) che i meriti siano del popolo e le colpe dei governi è scorretta e oltraggiosa. La Grecia è una de- mocrazia a suffragio universale: chi sta al potere è espressione della maggioranza dei cittadini. Chi ritiene i cittadini in grado di eleggere, deve anche ritenerli responsabili del dissesto. Vi- ceversa, chi li solleva dalla responsabilità, afferma di fatto che popolo e governo sono due entità non così legate. È comodo, perché poi è un attimo spostare le colpe dal governo, se ‘dei nostri’, alla troika. Ma è scorretto. Il popolo (tutto, non solo
  • 21. 21 chi ha votato a favore) è responsabile delle scelte politiche dei governi che elegge. La troika che va in soccorso vuole solo ga- ranzia che riavrà i suoi soldi, i nostri soldi. Come non è affar loro, purchè sia antibiotico, non tachipirina. Usare la stessa moneta implica condividere gli indicatori economici, Grecia, Germania, Italia, Olanda, tutti. Come farlo è ancora affare dei singoli Stati. Qualcuno riesce meglio e prima, qualcuno arranca e soffre. Ma deve arrivarci da solo. Si può insegnare a un bambino a andare in bicicletta, ma non si può pedalare al posto suo. Nell’Europa economica e non politica, la Grecia è uno Stato sovrano. Anche se il suo modello economico non regge, nessu- no ha il potere di intervenire per riformare il sistema e gestirlo in modo diverso: o lo fanno loro, o non lo fa nessuno. Finora, non l’ha fatto nessuno. Hanno scelto di tagliare solo le spese, per non cambiare l’assetto che li ha portati nel baratro. Forse perché piace? Suona strano, ma è proprio la sovranità che ha affamato i greci, non la mancanza di essa. Questa la cifra del problema, e non si chiama solo Grecia. Articolo pubblicato su il Giornale, il 24 febbraio 2015
  • 22. 22 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI OLTRE LA NOVITÀ, ALLA RICERCA DEL “CLASSICO” INTRAMONTABILE Il tempo passa. E i tempi cambiano. Ciò che ieri abbiamo acquistato e indossato, oggi ci sembra un po’ meno attuale. Se poi ripeschiamo qualcosa di dieci anni fa, quasi ci stupiamo. È la moda, bellezza! Del resto, si tratta per la gran parte di og- getti dal prezzo contenuto. Quando ci avviciniamo a un pro- dotto più impegnativo, stiamo attenti a non sceglierlo troppo legato alla moda del momento, perché sappiamo che dopo poco tempo non sarebbe facilmente indossabile. Nell’orologeria, occorre un distinguo. Quella di basso prezzo, fino a 100 euro, può benissimo proporsi con prodotti che ogni anno si rinnovano. Il prototipo è lo Swatch, che addirittura ha basato il suo posizionamento sulle novità delle collezioni. Ma quando saliamo agli orologi di fascia media e poi arrivia- mo a quelli di lusso, oltre i 2.000 euro, la prospettiva cambia. Va bene che non lo riceviamo più alla cresima per tenercelo al polso tutta la vita, come i nostri nonni. Però si tratta pur sempre di un oggetto economicamente impegnativo, che vor- remmo indossare con soddisfazione e compiacimento ancora tra dieci anni. Le maison si sforzano di competere attirando l’attenzione del pubblico con le novità, presentando ogni anno a Basilea le nuove collezioni. Ma c’è da chiedersi quanto questo sia in linea con lo spirito del prodotto, così come lo interpretano i clienti. Anche perché poi, a ben guardare, ogni maison ha uno o due classici che fanno una grossa fetta delle vendite e confe- riscono potere contrattuale verso i distributori. Cosa sarebbe Tag Heuer senza il Monaco? IWC senza il Portoghese? Omega senza il Moonwatch? Jaeger-LeCoultre senza il Reverso? Ma questi classici un tempo sono stati la novità dell’anno. Vero!
  • 23. 23 Sessant’anni fa Rolex presentò il Submariner, una novità che ancora oggi è un best seller, che ha subito lievissimi ritocchi in sei decenni. Allora la chiave deve essere un’altra. Fanno bene le maison a progettare continuamente nuovi oro- logi, è la loro missione. Ma forse dovrebbero farlo ponendosi un orizzonte temporale più lungo, che non sia la collezione del prossimo anno. La ricerca dovrebbe puntare non alla moda del momento, ma all’icona dei prossimi decenni. È una sfida difficile. Una ciambella che raramente riesce col buco. Però è questa la vocazione dei maestri orologiai. Gerald Genta, uno dei più grandi e prolifici designer di capolavori di orologeria, ha firmato – tra gli altri - il Royal Oak per Audemars Piguet nel 1970, il Nautilus per Patek Philippe nel 1976 e il Pasha per Cartier nel 1997. Ci serve davvero l’esercito di designer che sforna ogni anno una collezione e ritocca/invecchia i pro- dotti esistenti? Articolo pubblicato su il Giornale, il 26 maggio 2015
  • 24. 24 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI DIMENSIONI VERSUS EQUILIBRIO Gli orologi da polso sono troppo grandi e ingombranti. Pare che l’abbiano capito anche i produttori, visto che molte Mai- son già in autunno, in anticipo su Basilea, avevano presentato versioni più contenute di alcuni modelli classici. In verità, è una vexata quaestio, almeno a giudicare dai forum che si leggono in rete. Indubbiamente, certe dimensioni gene- rose hanno sedotto più di un cliente. D’altro canto, molti appassionati rifiutano quei millimetri ec- cedenti che trasformano, secondo loro, un oggetto splendido in un’esternazione insopportabile, decisamente sopra le righe. Una questione di eleganza, per chi la vuole capire: del resto, signori si nasce! Le forme troppo contenute del secolo scorso erano spesso tese a rappresentare la bravura dei maestri orologiai nel contenere i meccanismi in spazi angusti. Un eccesso dovuto ai tecnici a cui è seguito poi il suo contra- rio: le grandi dimensioni sono state il frutto di politiche di marketing all’inseguimento di una clientela capace di spen- dere molto, ma ancora un tantino distante da certe finezze. Calciatori, oligarchi, sceicchi. Tutte persone che la sveglia, se non al collo, ce l’hanno al polso. Purtroppo, non sembra che il ritorno a dimensioni normali sia dettato da uno spirito di affermazione del bello e dell’e- leganza da parte delle manifatture, quanto dalla necessità di vestire polsi asiatici e femminili (che da alcuni anni hanno deciso di adottare le versioni maschili degli orologi – e hanno fatto quasi sempre bene).
  • 25. 25 Però va bene, prendiamoci queste forme recuperate di garbo, e diffondiamo il gusto dell’equilibrio. Articolo pubblicato su il Giornale, il 26 maggio 2015
  • 26. 26 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI I FANNULLONI? LI CREA LO STATO INEFFICIENTE “Licenziare i dipendenti pubblici che falsificano le presenze”. Su questa affermazione del Ministro Madia è subito partita la discussione. Nel mondo normale, manco se ne parla di uno che perde il posto perché non va a lavorare e fa timbrare da un altro: tutti e due fuori e fortunati che non vengano denunciati alla Procura. Ma va bene. Però, se discussione dev’essere, che siano invitati pure i 578 lavoratori Michelin di Fossano, che perderanno il posto pur non essendo assenteisti. Magari han- no qualcosa da dire ai colleghi della PA. Loro, che vivono e lavorano nel mondo normale, perdono il posto se il sistema non ha più bisogno che vadano ogni giorno a produrre, perché il mercato, la domanda, non acquista il frutto del loro lavoro. Piaccia o non piaccia, a grandi linee così funziona il nostro sistema economico. Che funziona. L’altro sistema ha fallito, ricordiamolo, proprio perché aveva eliminato dal lavoro la competizione basata sul risultato. Dicono: la legge per licen- ziare c’è, ma non viene applicata. Nel privato, se un capo del personale non licenzia un assenteista, l’amministratore dele- gato licenzia lui. La domanda al Ministro è: perché ne parla ai convegni, invece di agire? È il Ministro, mica un opinionista qualsiasi. E non si agisce solo con un›ennesima legge, che sarebbe compito del Parlamento, ma dando pressione ai dirigenti, convocandoli, facendo ispezioni. Insomma, un giro di vite. Questo fa l›esecutivo, fa funzionare la macchina che ha, oggi un po’ meglio di ieri, domani ancora meglio di oggi. Nelle aziende private non ti
  • 27. 27 fanno nemmeno respirare, quando le cose vanno meno che benissimo. Ma non tutti nella PA sono fannulloni. Ci mancherebbe altro. L’impegno sul lavoro non è una caratteristica genetica, ma un comportamento che il sistema permette e agevola. Anche il più volenteroso stacanovista inserito in un ufficio dove se ac- celeri ti guardano male, a cominciare dai capi, dopo un po’ si adegua: è volenteroso, non stupido. Ma basta con la denuncia di ciò che non va! L’abbiamo capito. Allora che fare? Il sistema della PA non è orientato a produrre un risultato po- sitivo, ma ad applicare norme, procedure e circolari interne. Se poi il ‘dopo’ è peggiore del ‘prima’ non fa niente, perché l’azione è avulsa dal contesto. Dunque il vero snodo è questo: nella PA mancano gli obiettivi specifici, puntuali e temporiz- zati, per singolo ufficio e dipendente, verso cui valutare i ri- sultati. Tant’è che poi danno i premi a tutti. E allora si preten- de di affidarsi al singolo, sull’idea di fondo (catto-comunista, dunque per me sbagliata), che l’uomo sia per natura buono e tenda al bene. Per corollario, più sta in basso e più sarebbe buono, onesto e laborioso. La storia insegna che l’uomo, come tutte le creature del pia- neta, è egoista e mira al proprio tornaconto. Solo un siste- ma civico efficace rende conveniente il bene e sconveniente il male – tipo Inferno e Paradiso, però in questa vita. Quando il sistema è inefficace, produce i fannulloni e anche peggio. Articolo pubblicato su il Giornale, il 5 novembre 2015
  • 28. 28 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI GLI IMMIGRATI SCELGANO: LA NOSTRA CIVILTÀ O LA LORO La domanda è: il multi-culturalismo è praticabile all’interno della stessa società? Ci sono differenze che possono convivere dentro un contesto so- ciale: a chi piace il calcio, a chi il basket. Ma altre differenze sono una la negazione dell’altra: democrazia e dittatura, ad esempio. La Weltanschauung, l’orientamento culturale (sia ideologico sia religioso) è un concetto che non può convivere con il suo alter, perché comporta un progetto di costruzione della società e della comunità: nessuna comunità può fondarsi su due progetti diversi. Oggi i bisogni economici spingono i flussi migratori. Ma chi si sposta deve scegliere: o resta nella sua comunità (con il suo pro- getto identitario) oppure s’incammina e abbraccia il progetto so- ciale del Paese di destinazione. L’Europa oggi è laica e fonda il suo progetto su una remota ma solida base cristiana, religione che ha elevato la donna da diavolo tentatrice a madre di Dio. Ma il punto non è chi ha ragione e chi ha torto, ma dove: se degli europei scegliessero di trasferirsi in uno stato islamico, dovrebbero accettarne il progetto culturale. Non si può stare in Paradiso a dispetto dei santi. Articolo pubblicato su il Giornale, il 10 gennaio 2016
  • 29. 29 COSÌ L’ITALIA HA PERSO UNA GENERAZIONE La generazione persa per colpa di Stato, scuola e famiglia. Per i nati negli anni ’80 il futuro è a rischio: colpa di scuole poco selettive, lauree inutili e scarsa disponibilità al sacrificio. Come si perde una generazione? È quasi impossibile in tempi di ricostruzione e boom economico, e infatti dei nati negli anni ‘50 e ‘60 non s’è perso nessuno. Neppure i nati nei de- cenni della dittatura, dell’autarchia e del disastro bellico si sono persi. I nati negli anni ‘80 sì. Ora lo dicono i tecnici, Draghi, Boeri e prima di loro Ignazio Visco. Chi vive e lavora se n’era già accorto. Del resto, come non leggere nel risultato del M5S del 2013 anche lo sfogo di una parte di quei trenten- ni che hanno capito sulla loro pelle come stanno davvero le cose? Buoni ultimi lo ammetteranno i politici, che dovranno portare le soluzioni. Conoscere le cause e rimuoverle fa sem- pre parte di una cura efficace. Così, di nuovo: come si fa a per- dersi una generazione? Non è facile, però con gli ingredienti giusti si può fare. Per prima cosa, serve una scuola in cui i diritti degli insegnan- ti non siano solo più importanti del diritto degli studenti a ricevere una didattica di livello medio/alto. No, per perdere una generazione è essenziale che i diritti degli insegnanti si- ano gli unici in campo. I diritti degli studenti, come quello di avere ogni giorno in classe lo stesso professore per l’intero anno o ciclo, impegnato a svolgere bene il programma, im- pedendo il circo delle supplenze, nemmeno devono esistere. Un esempio concreto? L’insegnate che a giugno è incinta e a settembre comincia le lezioni. È già scritto che non sarà lei a terminare l’anno scolastico, per giustissime priorità di salute e maternità. Fatte salve queste, il dilemma è: conta di più il diritto degli studenti ad avere una didattica eccellente o quello dell’insegnante ad andare in aula finché può e finché le va, e
  • 30. 30 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI tanti saluti ai ragazzi quando arrivano le nausee? Ma quest’ul- timo, è ovvio. Sennò come te la perdi la generazione? Non basta ancora. La scuola deve essere anche non selettiva. Chi non ricorda i telegiornali celebrare come un successo il 99% di promossi alla maturità? Delle due l’una: o erano tutti dei geni o l’asticella del diploma era troppo bassa. La seconda, se vuoi perderti una generazione. La scuola è importante, ma da sola non poteva farcela. Occor- reva, ed è stata data, un’università ai limiti del ridicolo. Ate- nei dietro l’angolo, solo per moltiplicare cattedre e rettorati e sperperare a pioggia soldi per una ricerca diffusa, microscopi- ca e non coordinata. Professori che hanno la cattedra a vita, senza il minimo controllo sui contenuti della loro didattica, né sulla loro effettiva presenza alle lezioni. La contropartita? Un pezzo di carta chiamato laurea, inutile a trovarti un lavoro, ma utilissimo a gonfiarti ancora di più le aspettative e a met- terti così fuorigioco nella partita dell’occupazione e della vita. Ecco, le aspettative. È stato magistrale l’apporto delle famiglie che, satolle del loro grande piccolo benessere ormai raggiun- to, hanno narrato la buona novella agli adolescenti. Avevano fatto i sacrifici, negli anni ‘60 e ‘70, ma adesso le cose erano sistemate. Il lavoro e ogni altro diritto erano garantiti a vita, e così sarebbe stato anche per la nuova generazione. Hanno però scordato di far cenno dei doveri: studiare per apprendere, impegnarsi, meritare, rendersi disponibili al sacrificio – che è cosa diversa dalla resa disperata. Di volere ciò che tutte le generazioni avevano sempre perse- guito: superare quella precedente. Ma perché mai? Adesso non c’era più nulla da superare, andava bene così, con la casa di proprietà e l’automobile. Per occuparsi finalmente dello spi- rito: la cultura (quella vera), il cinema, le nuove arti, lo sport. L’età dell’Acquario. E sia. Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza. O no? No, se nel frat-
  • 31. 31 tempo il Paese si trasforma nel villaggio globale, popolato da giovani affamati e disponibili. Servono tutte queste cose insieme per perdere una generazio- ne. Ma la sicurezza ce l’hai se anche lo Stato ci mette del suo: frena ogni sano spasmo economico, drena metà della ricchez- za che si produce e poi ne spreca una buona parte. Non è stato affatto facile perdersi una generazione, ma noi Italiani ce l’abbiamo fatta. Ora la domanda è: abbiamo smesso o ce ne stiamo perdendo anche altre? Articolo pubblicato su il Giornale, il 23 aprile 2016
  • 32. 32 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI IL “CONCORSONE” DEI PROFESSORI? DA BOCCIARE... Scuola, concorsone bocciato sul web. Candidati contro il nuovo esame: carenze e sospetti di irregolarità. Pioggia di critiche sui social. Che c’è di male nel concorso per assumere 64mila insegnati nei prossimi tre anni? A parte il concorso stesso? Niente. O meglio, niente che non sia classificabile nella normale dialettica critica po- litico-amministrativa. Dopotutto, siamo Italiani. Mica ci possia- mo trovare d’accordo? Ma il concorso in sé, quello sì che è un se- gnale forte. E sbagliato. Prima concordiamo tutti su questo, meno danni infliggeremo alle nostre future generazioni. Diciamo che in una scuola serva un nuovo insegnante. Bene, come lo scegliamo? Quando sono interessi nostri, ossia nel priva- to, vogliamo essere ben certi di assumere la persona giusta, perché riponiamo in lui/lei delle precise aspettative di rendimento. Vo- gliamo che sia in grado di svolgere bene i suoi compiti, che abbia motivazione a crescere professionalmente, che sappia integrarsi con i colleghi, che condivida le finalità e i valori della nostra or- ganizzazione. Siamo disposti a pagarlo bene, anche più degli altri se saprà meritarselo. Questo accade non solo dove chi assume è il titolare di un’organizzazione (leggi, sono soldi suoi). Le medesi- me logiche si applicano anche quando ad assumere è un semplice manager di medio livello (leggi, soldi non suoi). Perché? Perché il manager sa che se quel nuovo addetto non sarà valido ne pagherà egli stesso le conseguenze. Allora che si fa? Più manager fanno di- versi colloqui di selezione tra più candidati, prima di convenire su colui/colei che sembra, dal curriculum e dall’impressione ricavata nei colloqui, la persona giusta. Ma non c’è la certezza. Così dopo essere stata assunta segue un percorso di inserimento e poi, se dopo alcuni mesi non avrà confermato le aspettative, potrà essere
  • 33. 33 accomodata alla porta. È triste? Beh, chiediamolo a colui che così potrà avere un’altra chance di occupare quel posto. Chiediamolo ai colleghi che sapranno che l’organizzazione dove lavorano sarà meno debole. Per la scuola, potremmo chiederlo agli studenti, se importasse qualcosa. Se fossero fatti nostri, non ci sogneremmo nemmeno di assumere un insegnante sulla base di qualche compito scritto, con domande chiuse e aperte. Ma non sono fatti nostri. Sono fatti di nessuno. Se fossero fatti nostri, chiederemmo ai dirigenti delle 8.644 istitu- zioni scolastiche distribuite sul territorio di selezionare e assume- re una media di 7 insegnanti ciascuno. Due obiezioni: non sono qualificati alla selezione e non sono affidabili eticamente (assu- merebbero parenti e amici). Due soluzioni. Primo, se non sono capaci, o lo diventano o li cacci. Non è pensabile che un dirigente sia a capo di organizzazioni professionali, di donne e uomini, e non sia in grado di selezionarli e poi gestirli. Secondo, se non sono affidabili eticamente bisogna che lo diventino. In natura, non esistono persone per bene e furfanti. Esistono situazioni in cui farsi gli affari propri conviene e situazioni invece in cui con- viene fare gli interessi dell’organizzazione: dove il furbo coincide con l’onesto. È una questione di asticella. Se chiedi all’insegnante una performance didattica elevata e questi non la dà, semplice- mente cacci lui e il dirigente che l’ha assunto. Il corollario è che devi controllare e devi poter cacciare le persone che non valgono. Altro che concorso! Ora, lo capisco anch’io che niente di quanto sopra è realizzabile nell’attuale macchina della P.A. Però quel sistema funziona, in tut- te le attività umane che vogliano e debbano produrre un risultato. Dunque mi aspetterei che l’azione di Governo fosse orientata a cambiare l’impianto della P.A. – magari cominciando dalla scuola, non dalla Camera Alta. Com’era, cambiare verso? Articolo pubblicato su il Giornale, il 29 aprile 2016
  • 34. 34 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI LE BELLEZZE ITALIANE? PER LE NOSTRE LEGGI SONO SOLO ECOMOSTRI Quanti ecomostri (a rigor di legge) tra le nostre bellezze. Se applicassimo alla lettera le norme sulla tutela ambientale demoliremmo il meglio. È un eco-mostro la villa di Curzio Malaparte a Capri? Non lo so. A pochi metri dai Faraglioni, un parallelepipedo rosso bello visibile su uno sperone di roccia che non si confonde affatto col paesaggio. Ribadisco, non saprei se definirla un eco-mostro o no. Migliaia di turisti ammirano questa costruzione in uno scorcio di natura bellissimo e nessuno tuona contro, forse perché edificata nella pienezza dei permessi. Se hai il permesso non sei mostro. Se a qualcuno saltasse in mente di abbatterla, non potrebbe. Ma è un rischio inesistente, perché gli alfieri della natura e dei paesaggi non si spingono mai oltre i venti, trent’anni. Troppo scomodo. Si scontrerebbero magari con Venezia. Oggi potremmo edificare una simile meraviglia del Mondo, pur disponendo di una laguna? Assolutamente no. Però poi gli stessi vogliono proteggerla dall’erosione delle acque. Ma l’acqua della laguna non fa parte della natura? E i palazzi veneziani – oggettivamente più belli della laguna stessa – non sono invece opera dell’uomo, da limitare e contrastare? Sono provocazioni per una materia complessa. L’uomo e le sue ope- re fanno parte di questo pianeta, che piaccia o no. A volte l’ab- belliscono, altre volte lo deturpano. Introdurre una valutazione di merito non guasterebbe. Gli stessi piani urbanistici non dovrebbe- ro limitarsi a particelle di territorio e metri cubi, altrimenti accade quello che vediamo andando in giro per le nostre campagne. Ac- canto al rudere di una vecchia abitazione, ancora pieno di sapore e di storia architettonica (anche povera) di quei luoghi, troviamo la casetta orribile, costruita sfruttando i metri cubi della vecchia, perché costava meno che ristrutturare la casa avita.
  • 35. 35 Però esiste una legge ed esiste un popolo incline a schivarla. È vero. Ma la legge non è una via semplice per regolare le cose, come il fuorigioco: o sei dentro o sei fuori. Chi conosce bene il diritto, nel senso che non solo l’ha imparato, ma lo ha anche capito, una cosa sa bene: il diritto è quanto di meno mani- cheo gli uomini abbiano prodotto. Legge le sfaccettature della realtà e vi si adatta. Chi brandisce i codici invocando le ruspe, conosce l’istitu- to dell’usucapione? La proprietà dei beni immobili e gli altri diritti re- ali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni (art. 1158 CC, ma prima ancora XII tavole, Roma, 451 a.C. – sì, sempre Roma). Quando per anni lo Stato incassa la tassa sui rifiuti e allaccia luce, acqua, gas e fogne, cos’è? Non somiglia al riconoscimento di uno status di ‘uso proprietario’ dell’immobile? Quando si brandisce la mancanza di un permesso contro un manufat- to, invocandone e perseguendone l’abbattimento, occorre prudenza e rispetto. Prudenza, perché sappiamo tutti che quella scure colpirà solo una pri- ma manciata di malcapitati. Dopo la prima sfuriata, le ruspe si spegne- ranno. Demolirne alcune e salvarne altre è un’ingiustizia ben peggiore. Rispetto. Abbattere uno scheletro in costruzione (non ancora casa, non ancora abitata) non è lo stesso che abbattere un’abitazione che è dimora di persone, famiglie, bambini. Applicare la legge è una prerogativa dello Stato ma non può essere esercitata al di fuori del tempo. Se non è stata demolita quando in costruzione, suggerirei di demolire la casa di chi all’epoca aveva la re- sponsabilità di farlo. Chi legifera in favore della casa (rimuovendone le tasse) perché bene supremo e bla e bla, non dovrebbe avere sempre la medesima sensibilità? Articolo pubblicato su il Giornale, il 13 maggio 2016
  • 36. 36 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI REDDITO DI CITTADINANZA, FABBRICA DI DISOCCUPATI “Gli Europei sono così ricchi che si possono permettere di pagare chiunque per non lavorare”. Così l’economista Rudi- ger Dornbush descriveva il welfare all’europea, che secondo Mario Draghi era da considerarsi archiviato già nel 2011, giu- bilato nei fatti dall’elevato tasso di disoccupazione giovanile. Ma che relazione c’è tra il welfare e la disoccupazione, se non quella apparentemente ovvia che più sale la seconda più di- venta necessario estendere il primo? Esattamente questa, ma invertita: più aumenta il welfare più cresce la disoccupazione. Detta così sembra una bestemmia. Redditi distribuiti ai citta- dini in varie forme, ma non legati a una qualsiasi produzione di valore, non generano immediatamente disoccupazione. No, ci vuole tempo. Noi Italiani abbiamo impiegato un paio di generazioni, quelle scolarizzate negli anni `80 e `90, cresciute in famiglie che stavano godendosi la parte bella del welfare, frutto delle loro battaglie politiche. In quegli anni si è diffusa l’idea che lo Stato non ti avrebbe lasciato mai a piedi. Qualsiasi sorte ti fosse capitata, avresti sempre avuto un tetto tuo e pasti caldi per la famiglia. Il corollario automatico era che non dovevi poi sbatterti più di tanto per trovare uno spa- zio dove dare il tuo contributo. Questa l’interpretazione dalla parte del cittadino. Dalla parte dello Stato, poi, la prospettiva ha indotto a difendere fino allo stremo qualsiasi posto di la- voro, pur di non ritrovarsi con altri che non producono nul- la e devono comunque ricevere un reddito. In questo modo, dopo un certo periodo, la spinta propulsiva del tessuto sociale risulta indebolita, sia dalla minore disponibilità a mettersi in gioco dei lavoratori, sia dalle rigidità delle norme sul lavoro che scoraggiano le imprese.
  • 37. 37 Il prodotto è un’economia in affanno, che non assorbe i nuo- vi entranti. In questo senso, la relazione tra welfare e disoc- cupazione c’è. Per converso, è opportuno rimarcare che oggi l’atteggiamento che si riscontra nei giovani ventenni è molto diverso dai loro fratelli maggiori: sono più disincantati e più aperti, disponibili a mettersi in gioco facendo leva sulle pro- prie forze e capacità. Proprio perché hanno capito che ormai la festa è finita ed è inutile piangersi addosso. Più o meno, questa è la fotografia di dove siamo adesso. Ma per il M5S pare non sufficiente: invocano il reddito di cit- tadinanza, che però non è un vezzo nostrano, partorito da un gruppo di neo-politici improvvisati. Poche settimane fa la Svizzera (non esattamente una repubblica delle banane) è an- data al voto popolare sul tema. Il prossimo anno la Finlandia dovrebbe testare una sua versione di sussidio incondizionato per tutti i cittadini, fino a 800 euro al mese. Come mai mentre alcuni mettono in discussione il welfare altri vorrebbero rafforzarlo? Che strabismo è? Il fatto è che il sistema attuale tutela solo chi il lavoro ce l’ha già. Ma fuori dai cancelli c’è la massa enorme di due genera- zioni che preme e ha capito che non riuscirà ad entrare, se non dalla porta di servizio, alias accettando condizioni alle quali non era preparata (molti sono laureati e diplomati). Pertanto, è sconsigliabile fare spallucce e trattare con sufficienza la pe- tizione, a meno di non voler correre il serio rischio di trovarla nelle agende di qualche altra forza politica che voglia lisciare il pelo ad alcuni milioni di votanti. Così, vediamo su quali basi si poggia. I teorici argomentano che l’economia si fonda sui consumi diffusi e che la politica ha la funzione primaria di redistribuire la ricchezza secondo criteri tendenti all’equità. Visto che nei Paesi OCSE la disuguaglianza sociale (misura- ta con il coefficiente di Gini) è aumentata dal 1985 al 2013
  • 38. 38 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI da 0,28 a 0,32, perché – concludono – non seguire la via più semplice e redistribuire direttamente il reddito, anziché prenderla lunga, costruendo reti più o meno articolate di assi- stenza e magari redistribuire gli strumenti che producono red- dito (buona scuola, valori impegnativi, condizioni di mercato meno ingessate)? Perché è sbagliato e pericoloso, sia detto forte e chiaro. Una cosa è dare a una persona una forma di aiuto in circostanze particolarmente critiche, che non lo esime dal cimentarsi nel contesto produttivo. Ma decenni di welfare abusato e indiscri- minato hanno insegnato che garantire un reddito minerebbe alla base la necessità – e dunque la propensione – a uscire la mattina per tornare a casa la sera avendo prodotto un valore. Se dai a qualcuno un biscotto, dicono gli americani, quello poi ti chiederà la tazza di latte. Un reddito di cittadinanza non risolverebbe il problema, anzi lo moltiplicherebbe per le generazioni che adesso si stanno formando, indebolendole. Detto questo, il problema rimane e non è piccolo. Ma va circoscritto e risolto. È il momento per la politica alta di scendere in campo, scegliendo la strada giusta, non quella in discesa. Articolo pubblicato su il Giornale, il 22 giugno 2016
  • 39. 39 DOCENTI AL BIVIO E QUEI SACRIFICI DECISI DA UN PC “Ma scusi se anche mio figlio dopo lo stage venisse assun- to come farebbe a vivere in un’altra città con 1200 euro al mese?”. “Ha perfettamente ragione. Lei si tenga pure suo fi- glio, che l’azienda per quel posto troverà un altro.” Ho avuto più di una conversazione come questa in oltre dieci anni di selezioni per le borse di studio del Master sull’Automobile del Centro Studi Fleet&Mobility. Questo pensano molti italia- ni: il lavoro glielo devono portare sotto casa. Perché il lavoro è un diritto, come l’istruzione e l’assistenza sanitaria. Ovvio che una piccola percentuale di insegnanti, che pure ha avuto l’assunzione a tempo indeterminato, si lamenti di un’assegna- zione troppo distante. Chi si deve spostare in forza di una domanda di insegnanti che non coincide con l’offerta, in termini di territorio, deve accettare che si spostano le persone, non il lavoro, nel mondo reale. Che un giovane poi debba fare dei sacrifici all’inizio sta nell’ordine delle cose. Si adatterà, soffrirà qualche rinuncia (non la lontananza dalla fidanzata, sia chiaro). Se poi si trat- ta non di giovani ma di 40enni e 50enni, viene da chiedersi come mai a quell’età, con un’ottima scolarizzazione e una lau- rea, non abbiano intrapreso da decenni un altro lavoro, uno qualsiasi. A quest’ora sarebbero ben inseriti. Invece hanno preferito una vita di supplenze mal pagate. Evidentemente il premio finale deve ben valere decenni di precariato. A chi invece è stata assegnata una sede distante, diciamo in Veneto, mentre la scuola sotto casa attende un insegnante che verrà guarda caso dal Veneto, e i due profili sono abbastanza sovrapponibili, dobbiamo dire che sì, il calcolatore probabil- mente ha commesso un errore. In verità, ne avrà commessi più
  • 40. 40 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI d’uno. I sistemi, per quanto ci sforziamo di chiamarli intelli- genti, per darci conforto da soli, non fanno altro che applicare gli input che hanno ricevuto. Sono ben lontani dalla sofisti- cazione e dalla flessibilità del pensiero umano. È in corso un grande dibattito a livello mondiale su questo. Meglio sarebbe stato far decidere agli uomini, ai dirigenti delle oltre 8600 istituzioni scolastiche, quale insegnante chiamare per quella cattedra. Ma quando mesi fa, da queste pagine, sostenemmo che anche le assunzioni andassero fatte non per concorso ma con colloqui di selezione, responsabilizzando i dirigenti, mol- ti eccepirono che il bene supremo fosse l’imparzialità, tutti uguali davanti agli stessi identici criteri. Bene, tenetevi allora la fredda assegnazione del computer. Articolo pubblicato su il Giornale, il 10 agosto 2016
  • 41. 41 DUE FOTO PER CAPIRE CHE L’IRAN ERA PIÙ AVANTI 50 ANNI FA La foto della nazionale femminile iraniana di pallavolo 2016. Le atlete col chador e le gambe fasciate. Che c’è di strano? È la loro religione, va rispettata. Stessa foto, stessa nazionale, 1966. Magliette e pantaloncini, come tutte le atlete del mondo. Hanno cambiato religione? Quella religione è diventata più restrittiva? No, sono cambiate loro. Cinquant’anni fa erano più evolute, ave- vano relegato la religione ad un ambito più intimo, di rapporto con Dio. Queste foto stimolano alcune riflessioni. Una sui pregiudizi indotti dalla politica intesa come fede, senza spirito critico. Chi nel ‘79 si schierò a favore della ri- voluzione islamica di Khomeini contro lo scià Reza Pahlevi potrebbe riconsiderare criticamente quella posizione e le sue motivazioni, in gran parte riconducibili al fatto che lo scià era ritenuto di destra perché per lo sviluppo e la modernizzazione del paese (riforma agraria anti-clericale, suffragio femminile, divorzio, alfabetizzazione) favoriva le multinazionali occiden- tali interessate allo sfruttamento. Di risulta, gli ayatollah era- no di sinistra, anche perché sostenuti dal popolo, quella parte ancora poco educata ed evoluta, di cui oggi ci godiamo i figli, con annesse cinture al tritolo. In altre parole, la profondità
  • 42. 42 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI dell’analisi politica era questa: il nemico del mio nemico è mio amico. Non c’è male. L’altra, più filosofica, sull’interpretazione delle vicende uma- ne. Dovremmo ammettere che sebbene la storia nel lungo periodo va avanti, nei sotto-cicli brevi presenta a volte, anzi spesso, degli arretramenti culturali. Per corollario, chi viene dopo non necessariamente è migliore o semplicemente più avanti di chi c’era prima. Poi, ci sarebbe quella sensazione di esagerazione, di misura colma, che avvertiamo di fronte a simili interpretazioni estre- me e concrete della religione, incluso il burkini. Alcuni di noi in occidente si sforzano di mediare, di far convivere le due culture, con intenti anche genuini e lodevoli. Ma per mediare bisogna essere in due. Molti di fede islamica non sono dispo- nibili. Giusto per fare un paragone con la religione cristiana, noi abbiamo inventato il Purgatorio, che ha abolito l’erga- stolo dell’Inferno, abbiamo fatto la Riforma per liberare le forze produttive della borghesia, abbiamo creato la figura del ‘credente-non-praticante’ (piccola riflessione, prego) e stiamo valutando di accogliere alla mensa del Padre i divorziati, dato il numero ingente e crescente – andiamo, mica te li vorrai perdere? Grazie che poi dura da duemila anni. Articolo pubblicato su il Giornale, il 18 agosto 2016
  • 43. 43 NON VIVIAMO PER LAVORARE? MA SENZA LAVORO NON SI VIVE L’ipocrisia dell’ex presidente dell’Uruguay. “Non veniamo al mondo per lavorare o per accumulare ric- chezza, ma per vivere. E di vita ne abbiamo solo una”. Che bella questa frase che circola sui social media, diffusa da un’autorevole testata, insieme all’immagine dell’autore Josè Mujica, un caro vecchietto dagli occhi buoni. Un pensiero semplice, che come tutte le frasi belle e semplici esercita un’enorme seduzione. Come non essere d’accordo? Eppure, è un pensiero che può fare del male. In verità, molto di questo male è già stato fatto, nei decenni scorsi, e le feri- te sono ancora da rimarginare. Le cicatrici, poi, chissà se scompariranno mai. Intanto, chi è Josè Mujica, l’autore di tanta saggezza? Un signore di 80 anni, già presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015 (sì, mica uno qualunque), che negli anni sessanta aderì al movimento dei Tupamaros e poi, arrestato, trascor- se circa 15 anni in carcere, molti dei quali in una cella d’isolamento. Proprio questo isolamento gli causò gravi problemi di salute, specialmente psicologici. Questa penosa segregazione, che non augureremmo a nes- suno, non gli impedì tuttavia di elaborare profonde medi- tazioni, come questa: “In prigione ho pensato che le cose hanno un inizio e una fine. Ció che ha un inizio e una fine è semplicemente la vita. Il resto è solo di passaggio. La vita è questo, un minuto e se ne va.” Certo non si tratta di pensieri complicati, come egli stesso ammette: “non sono né un filosofo né un intellettuale. Lo sono stato fino ai 25 anni. Fino a quell’età leggevo di tutto, dalla guida tele-
  • 44. 44 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI fonica a Seneca”. Dunque, ricapitolando, negli anni della prigionia, isolato dal mondo e comprensibilmente alienato, ha elaborato cosa suggerire a chi stava fuori a tirare avanti. Per ogni altra attività, questo farebbe sorgere qualche per- plessità sulla capacità di conoscere e stare in sintonia con l’oggetto delle riflessioni. Ma accantoniamo ogni perplessità e pregiudizio per entrare nel merito dell’affermazione centrale. “Quando tu compri qualcosa, non la paghi col denaro, ma con le ore della vita che hai impiegato per guadagnarlo. Con la differenza che la vita è l’unica cosa che il denaro non può comprare. È un peccato sprecare così la vita e la libertà. Chiedo scusa, ma che significa? Che senso ha opporre la vita al lavoro? Certo che stiamo al mondo per vivere, ma per farlo ci dob- biamo sbattere dalla mattina alla sera. All’inizio lo faceva- mo per sopravvivere. Secoli e secoli piuttosto grami, tanto che per darci piacere, per darci un senso, inventammo una seconda vita ultraterrena dove ci aspettava la felicità (con buona pace di chi ha pensato che “second life” fosse arriva- ta con internet). Ma abbiamo tenuto duro, siamo soprav- vissuti e anche bene, fino a circa un secolo fa, quando la specializzazione del lavoro e la tecnologia hanno aumenta- to la produttività (meno sforzo con più risultato) creando il benessere e il tempo libero e con loro la cultura del piacere, ossia i beni voluttuari. Si badi, è un’opinione, una visione della vita e del mondo, da cui si può dissentire. Certo, uno poi si chiede se il la- voro femminile sia stato o no una conquista. Ma lasciamo perdere le polemiche. Uno può legittimamente scegliere di non lavorare per dedicarsi pienamente alla vita. Lo faccia, con i migliori e più sinceri auguri. Basta che non
  • 45. 45 pretenda, mentre si gode la vita, pure i frutti del lavoro, quello degli altri. Ma a chi riesce anche in questo, e Dio e gli italiani sanno che tanti lo fanno benissimo, va una sola sommessa pre- ghiera: abbiate il buon gusto di non sfotterci con queste belle parole. Articolo pubblicato su il Giornale, il 22 settembre 2016
  • 46. 46 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI IL MITO FASTIDIOSO DEL POVERO BUONO L’equazione “poveri/disgraziati uguale buoni”, uno dei pregiu- dizi più radicati e diffusi, trova origine e conservazione, da un lato, nella religione che doveva aggregare soprattutto le fasce più umili, più disperate, proprio per lenire quelle sofferenze, incanalandole verso una riscossa ultraterrena (piuttosto che verso la protesta). Da qui a blandirle nella bontà d’animo, me- ritevole di qualcosa di meglio (ancorché non subito, non qui) e dunque capace di sopportare, di vivere nel bene maturando un credito, il passo è breve. Dall’altro lato, nel senso di colpa. A parte pochi malvagi, chi riesce a godere di una posizione confortevole non è felice nel vedere chi se la passa proprio male. Quanto per senso di giustizia e benevolenza e quanto per l’egoismo di non volere sofferenze alla propria festa, non è facile da stabilire. Ma il risultato è lo stesso: la compassione, sul presupposto che il disgraziato la meriti, sia buono. Tuttavia, come tutti i pregiudizi, anche questa favoletta dei poveri e dei disperati che sono tutti buoni ha stancato. Ci sono poveri buoni, magari tanti, però lo sono non a causa ma nonostante l’indigenza in cui versano, grazie a una statura morale che non deriva dal bisogno, anzi riesce a governarlo. Il bisogno spinge alla trasgressione, a volta quasi la giustifica. La povertà, il sentirsi relegato ai margini di una società che non gli consente di accedere ai piaceri che ostenta, è piuttosto una potenziale causa di aggressività e di rivolta. Tanti conservano una dignità, un codice morale che gli vieta di trasformare certi sentimenti in azioni efferate. Ma non tutti. Per corollario, la non-povertà non significa essere cattivi. L’a- giatezza non va espiata. Basta con l’idea che se hai fatto i soldi qualche marachella devi averla combinata per forza, perché sennò non si spiega: non mi sono arricchito io, come è possi-
  • 47. 47 bile che quello ci sia riuscito? Dopo tutto, siamo o non siamo tutti uguali? Eh… no, non proprio, dispiace, ma è proprio così. Chiariamo subito che nessuno ce l’ha con chi è in difficoltà. Solo non pare necessario elevarli a una statura morale che al- cuni probabilmente non hanno. Prendersi cura di chi soffre, anche facendone valere le ragioni, quando valide, è una posi- zione corretta in punto di giustizia umana e sociale. Inoltre, quando quei qualcuno diventano tanti o tantissimi, è anche conveniente socialmente ed economicamente: nessun impero è contento di generare uno Spartacus, con tanto di esercito. Noi abbiamo prodotto un paio di generazioni poco o punto capaci di sostenere se stesse (povere di prospettive e di com- petenze) e importiamo ogni anno altri poveri (di vitto e al- loggio). Trovare delle soluzioni è imperativo categorico, pur se non il “reddito di cittadinanza”, in quanto portatore (non estirpatore) di povertà. Ma questo non pare abbastanza per una certa cultura. La gau- che caviar dominante, a cominciare dalla terza carica dello Stato, li vuole sul pulpito: i poveri, i diseredati, i disperati. Ci devono dare lezioni di etica e di morale. Così da poterci senti- re giustamente colpevoli o, se innocenti, almeno sbagliati. Tra loro e noi, abbiamo sempre noi torto e qualcosa da imparare. La parola magica per sdoganare il tutto è: cultura. I musul- mani hanno la loro cultura: ma che cultura è tenere la donna come essere inferiore? Gli zingari hanno la loro cultura, infatti si devono chiamare rom: ma che cultura è rubare, scippare, frugare nei cassonetti, crescere i figli in condizioni pietose, in- vece di andare a lavorare? Ci dobbiamo confrontare? Sul serio? Come ogni pregiudizio della gauche caviar, anche questo ha le sue odi. Una per tutte, possiamo riascoltare una famosa canzo- ne di De Andrè, Il pescatore, in cui questo sonnecchioso vec- chietto prima foraggia un assassino dichiarato (“ho sete, sono
  • 48. 48 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI un assassino”) e poi depista le indagini delle forze dell’ordine, spargendo sul gesto un’aura evangelica con la storia del pane e del vino. L’eroe della canzone è il vecchio pescatore, che “non si guardò neppure intorno” prima di dare sostegno al malca- pitato, che è l’assassino, non la vittima, il morto. Facciamo un test: quanti illuminati di sinistra sono pronti a dichiarare che il vecchio ha sbagliato, che il grande cantante stavolta ha steccato? Poi diamo un nome all’assassino: facciamo che si chiami Igor. Articolo pubblicato su il Giornale il 19 novembre 2017
  • 49. 49 L’UNICAARMACONTROLEBALLEÈL’ISTRUZIONE Ci sono quelli che mettono in giro le bufale, ma poi ci sono quelli che le bevono e, nel mezzo, quelli che le riportano. State pur certi che i pri- mi non ci sarebbero senza i secondi, neppure con tutto l’aiuto che pos- sono ricevere dai terzi. Nella comunicazione, è sbagliato identificare il ricevente come la parte debole. In realtà è la parte forte, che può acco- gliere o rifiutare. Sempre che lo voglia fare. Che voglia filtrare la notizia e valutare se merita o no di essere acquisita nel proprio bagaglio di conoscenza. Quelli che vogliono esercitare questo discernimento poi si procurano, creano quasi, un terzo soggetto cui affidano la valutazione e la filtrazione di tutte le notizie: sono alcuni mezzi di informazione e alcuni giornalisti (non tutti, ovviamente). Col patto che, se dovessero accorgersi che il terzo viene meno al suo compito, lo eliminerebbero dal novero. Pur tuttavia, le bufale abbondano e non sono mai manca- te, fin dall’inizio della storia umana. La mitologia ne racchiude molte. Dunque, chiediamoci perché tante persone, ora come allora, scelgo- no di credere, o meglio scelgono di non filtrare e valutare. Semplice: perché non vogliono. In modo consapevole o inconscio, il fatto è che tra sapere e credere optano per la seconda. Convincendosi che non ci sia differenza, che ciò che credono sia uguale a ciò che è. Quanti tifosi di calcio vogliono credere a un fallo in area di rigore, a favore o con- tro? Quanti coniugi scelgono di ignorare certe evidenze? La risposta la sappiamo. Ciò che forse non sappiamo è il perché? Perché credere dà conforto. Il conforto di stare e muoversi e vivere in un ambiente noto, nel quale le posizioni sono conosciute. Tifare significa indos- sare una maglia, non guardare uno spettacolo e-che-vinca-il-miglio- re. Sapere sempre chi sono i nostri e da chi invece guardarsi. Credere dà la protezione del gruppo, del clan, a cui non è facile rinunciare, se non per passare a un altro. Solo la forza enorme che deriva dall’i- struzione e dalla conoscenza ci permette di scegliere il sapere e non la credenza. Aumenta l’istruzione e diminuiranno le bufale. Articolo pubblicato su il Giornale il 2 dicembre 2017
  • 50. AVANCES VIETATE. CI ESTINGUEREMO PER FEMMINISMO «Estinzionista, l’epoca più antierotica di sempre». Così il Foglio ha definito il tempo segnato molto opportunamente dalla copertina di Time, che ha eletto person-of-the-year il movimento «Metoo». In effetti, se lasciamo fare ai moralisti chic, quelli che la-donna- non-si-tocca-neppure-con-lo-sguardo, finiremo per estinguerci come specie. Mettere alla gogna un uomo perché ci ha provato (di questo si tratta, per parlar semplice) ci può anche stare, ma pro- viamo a essere coerenti e conclusivi. A volte l’uomo ci prova e ci riesce. Chi più, chi meno. Non sempre, è chiaro, ma con un tasso di successo che induce a ritenere la strada perseguibile. Se questa strada si rivelasse infruttuosa, verrebbe accantonata, come infatti è il caso per gli uomini particolarmente timidi o poco attraenti. Perché dunque scagliarsi contro la pratica degli approcci, delle avance? Va bene condannare la coercizione, ma perché buttare il bambino con l’acqua sporca? Perché fa emergere il vero problema, che non sono le avance rifiutate, ma quelle accettate, in quanto manifestazione di debolezza della ragione verso la passione. Dal punto di vista maschile, è una disquisizione minore: sono secoli che saltiamo dal peccato alla retta via. Gli abbiamo anche dato un nome: vita. Dal punto di vista femminile invece è una minaccia, perché la debolezza compromette quel percorso di affrancamento, di vita e di costumi, che da decenni stanno percorrendo. Un po’ come le esecuzioni sommarie nelle rivoluzioni: ingiuste, ma utili ad affermare la supremazia del nuovo corso. Scoprirsi debole dà fastidio, se stai affermando proprio l’indipendenza e l’autosuffi- cienza. Però, e sia detto per inciso, agli uomini piacciono le donne e alle donne piacciono gli uomini. Biologicamente, uno ci prova e l’altra decide se ci sta. Può indi- spettire, lo capisco, ma sfortunatamente è così. Questa rivoluzio-
  • 51. 51 ne ci restituirebbe un mondo tranquillo, dove a nessuna donna può capitare di «subire» un’avance. Un tantino freddo, in verità. Sia come sia, comunque si dovrebbe poi arrivare a consumare, a darsi un po’ di piacere, non avendo ancora optato per la castità. Ma come? Se inibisci la tentazione, la ragione prevarrà sempre. L’ipotesi di lasciare che sia la donna a prendere l’iniziativa sembrerebbe la so- luzione, gradita a certi quanto indigesta ad altri, ma invece non è così. Perché stiamo vedendo che il maschio non dovrebbe reagire, pur se provocato a meno di un’accettazione scritta, ovviamente, meglio ancora se rogata da un notaio. In conclusione, sarebbe forse opportuno affrontare la questione con misura e discernimento. Intanto, tra avance e coercizione. La seconda è un soffocamento della volontà e dunque della dignità della persona, che va protetta, anche dai tentativi. La prima invece è il sano fondamento della specie e come tale va preservata, nelle varie forme dialettiche in cui viene agita. Forme che sono le più effimere, sottili, intangibili, come si conviene al linguaggio dei sensi quando vogliono e devono sostituirsi alla ragione. Che sia l’avventura di una sera o il rapporto di due coniugi, la freddezza del pensiero ostacola il calore della passione. Sia nel senso più ac- cettabile, che per provare certi piaceri occorre abbandonarsi, per il maschio (una certa cosa non vuole pensieri, è il detto popolare) come per la femmina, sia nel senso dell’attrazione: l’uomo e la donna freddi, algidi, inducono timore e distanza, non accendono il desiderio. E se non c’è fiammella, a lungo andare non ci sono nemmeno bambini. Così a estinguerci non sarà stata la guerra atomica, ma le sciocchezze atomiche. Articolo pubblicato su il Giornale l’8 dicembre 2017
  • 52. 52 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI
  • 54. 54 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI UN SINDACATO MOSTRO CHE PRENDE SOLO IL POTERE Est modus in rebus. In questo difficile periodo di transizione e di adeguamento della nostra cultura sociale ed economica, la cosa che davvero non serve è uno scontro sindacato sì, sin- dacato no. Il sindacato va bene come unione dei dipendenti di un’impresa, per bilanciare il potere che l’impresa avrebbe nei confronti del singolo dipendente. Ma quando il sindacato diventa federazione e confederazione acquisisce un peso eccessivo rispetto alla funzione originaria. Per mantenere comunque coesa la massa di lavoratori i sinda- cati hanno cercato il potere, inteso come esercizio dello stesso e come occupazione di posizioni importanti nelle Istituzioni. Quanti leader politici sono stati dirigenti sindacali? Quante cariche istituzionali sono state ricoperte da ex diri- genti sindacali? Il potere cerca il potere. Così il sindacato ha cercato ed è stato cercato - colpevolmente – pure dai Governi. Ma per quanto grande un sindacato non potrà mai essere un soggetto titolato, non in una democrazia parlamentare elettiva. Molti cittadini ancora vogliono che a decidere siano 630 deputati e 315 sena- tori, eletti col sistema “1 testa = 1 voto”. Eppure nei decenni il potere ha consentito al sindacato di stare nel mezzo delle trattative importanti di politica economica, determinando le scelte al di fuori di ogni equilibrio democratico. Concertazio- ne, l’hanno chiamata. Ossia, mettiamoci d’accordo tra noi. Tra coloro che hanno il potere, quello vero. Ogni organizzazione ha un obiettivo primario: sopravvivere. Data la natura stessa del sindacato, ossia l’unione, la sua so-
  • 55. 55 pravvivenza è direttamente legata al numero dei lavoratori che rappresenta. Così la politica sindacale degli ultimi decenni è stata “inclu- siva”: difendere ogni lavoratore, anche quelli “indifendibili”. Ma le donne e gli uomini non sono uguali, e non tutti vanno difesi, non sempre. Utilizzare la forza che proviene da tanti che lavorano con impegno e passione, per proteggere e di- fendere qualcuno che se ne approfitta, è un impiego molto discutibile di quel patrimonio di forza, di unione. Oggi il mondo è cambiato. Una parte rilevante dell’opinione pubblica ha avuto modo di toccare con mano i modi di ope- rare del sindacato, quanto meno discutibili in più di un caso. Troppi dei loro iscritti sono pensionati. La grande maggioranza dei lavoratori semplicemente non è iscritta a un sindacato. Ma soprattutto, tanti lavoratori chie- dono la possibilità di impegnarsi e di meritarsi il frutto del loro lavoro, senza essere ostacolati da chi insegue/protegge co- mode rendite di posizione. L’articolo 18 sta tutto qui. Toglierlo non serve a licenziare, ma a far lavorare con impegno chi finora ha pensato di poterne fare a meno. Aver consentito a tanti, troppi, di nascondersi ogni giorno dalla responsabili- tà che un posto di lavoro impone, è il prezzo che il Paese sta pagando. Quello che i sindacati sembrano non capire è che proprio i più deboli pagano il conto più salato. Speriamo che i deboli, almeno loro, lo capiscano. Articolo pubblicato su il Giornale, il 30 ottobre 2014
  • 56. 56 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI LA GUERRA SI PAGA CARA: CON LA BORSA (O LA VITA) Un conflitto costa troppo e nessuno si oppone ai Paesi che aiutano l’Isis. Ma anche senz’armi si deve reagire. Uccidere le persone non è gratis, costa molti soldi. Elimini i soldi, elimini il problema. Se non tutto, una buona par- te. Almeno, in attesa che le nostre autocritiche e successive espiazioni convincano i cattivi a fare i buoni. Sì, perché noi puntiamo sempre a risolvere le cose sul piano umano, sull’as- sunto che l’uomo tenda al bene e dunque basti rimuovere le occasioni di peccato. Ma torniamo ai soldi. Per colpire il terrorismo occorre colpire le sue fonti di finan- ziamento. Ora, se ogni sera ci fanno vedere che il mondo della finanza (che muove il mondo) pullula di schermi collegati h24 dove tutto appare in tempo reale, se l’acquisto di un gioiello sopra i 3.000 euro viene segnalato, non possiamo credere che non sia possibile tracciare le transazioni di qualche centina- io (migliaia?) di terroristi o loro fiancheggiatori. Forse non è possibile in modo legale. Magari non senza far infuriare qual- che Stato sovrano. E siamo arrivati al punto, perché dietro un cane c’è un padrone. Da più parti si sostiene che i sol- di arrivino proprio da alcuni di questi, dell’area del Golfo. Probabilmente si tratta di Paesi con cui abbiamo necessità di intrattenere buone relazioni commerciali. Ancora il denaro. Da loro forse acquistiamo prodotti energetici indispensabi- li. A loro altrettanto certamente vendiamo nostri manufatti: profumi, ma anche armi. I loro investimenti sono una manna per molte nostre imprese. Dopotutto, parliamo di gente con tanti, tanti soldi da spendere, desiderosa di consumare alla maniera occidentale e di vivere in città moderne, piene di in- frastrutture. Prendere una posizione dura e ferma contro di
  • 57. 57 loro significherebbe come minimo danneggiare una fetta di questa nostra economia. Quanto saremmo pronti noi europei e italiani a sacrificare parte del nostro benessere, per stroncare alla fonte il terrorismo? Si badi, non si tratta di denunciare in blocco ogni relazione economica perché non rispettano i diritti civili, come alcuni sostengono. Facciano in casa loro come gli pare – tanto, finché non ci arrivano da soli, non è che gliela puoi esportare. Dovremmo solo entrare, con le buone o con le cattive, nei circuiti informatici finanziari e impedire che i soldi finiscano nelle mani di chi li usa per farci saltare in aria. Del resto, se gli USA spiano i capi di stato, si potrà bene sbirciare qualche conto bancario. Avremmo ritorsioni sul piano economico? Probabilmente sì. La palla sta come al solito nel campo nostro. I Governi euro- pei esitano a mettere mano al portafoglio, perché danneggian- do il nostro benessere si giocherebbero il consenso elettorale. Non fanno nulla, salvo ammettere che siamo in guerra. Come a dire: qualche morto ci può scappare. Ma una guerra va com- battuta, sebbene non per forza con armi e eserciti regolari. Una guerra costa. Possiamo non cedere vite umane, ma non possiamo pensare di non cedere soldi, risorse economiche, be- nessere. L’idea che si possa essere in guerra e combatterla nei talk show e nei colloqui europei è davvero singolare. Se una cosa la storia ha insegnato, è che le guerre sono sempre state scatenate per ragioni economiche e poi combattute con motivazioni ideali, religione o superiorità razziale che sia. Noi europei, forse anche per lunga esperienza, non crediamo più (non così tanto, almeno) e dunque abbiamo bandito la guerra. Non è articolo che ci interessi. Di sicuro non in casa nostra e non combattuta di persona. Se altri vogliono farla, magari ne possiamo parlare (ecco, in questo siamo cintura nera), anche mandare qualcuno o qualcosa a farlo per noi – se possibile, ma forse sarebbe troppo, dopo il TG delle 20,00. Un’esagerazio-
  • 58. 58 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI ne? Ma se stamattina i commenti personali più diffusi sui fatti di ieri erano che non si riesce ancora a parlare al cellulare con gli amici che sono a Bruxelles? Ammettiamolo, andremmo in guerra a farci i selfie. Noi europei ci siamo affrancati dalle guerre che abbiamo sem- pre scatenato e combattuto tra noi. Ma quando ci confrontia- mo con altri paesi dobbiamo accettare che forse loro non han- no bandito la guerra. E se la portano contro di noi, almeno la mano al portafoglio dobbiamo metterla. Perché una guerra non finisce, una guerra o la vinci o la perdi. Articolo pubblicato su il Giornale, il 24 marzo 2016
  • 59. 59 TRE MOTIVI (DI CIVILTÀ) PER NON SCEGLIERE IL PD Non è solo politica. L’esercizio del voto è un messaggio che ciascu- no manda al Palazzo. Sul piano politico, ognuno può scegliere il candidato più vicino alle proprie aspettative. Ma c’è un limite, un confine, che nessuno può violare impunemente. È il piano delle regole etiche, del senso alto e profondo delle Istituzioni, di come si sta a tavola tra signori. Ecco, su questo il PD ha dato di sé una rappresentazione ampiamente inadeguata ad assumere l’onere e soprattutto l’onore di guidare Roma. Da cittadino, a prescindere dal voto politico, si può tollerare che il sindaco di una capitale del G7 venga letteralmente defenestrato? Che spettacolo abbiamo dato al mondo intero? Sono stati meno sguaiati i brasiliani con la presidente Rousseff. Quando qualcu- no ci paragona a una repubblica sudamericana – attenzione! – i sudamericani potrebbero offendersi, e a ragione. Il Sindaco della Capitale, prima e oltre che una persona e le sue politiche, è un’I- stituzione. Non ci si può giocare come con i mattoncini Lego, che li smonti e li rimonti. Dietro quella carica ci sono milioni di cittadini, tutti, non solo chi l’ha votato. Ancora da cittadino e ancora a prescindere dal voto politico, quando il sindaco della Capitale viene dileggiato da un Capo di Stato estero d’oltre Tevere in diretta TV (perché si sarebbe im- bucato a una manifestazione a Philadelphia), mi aspetterei che fosse elegantemente ma fermamente difeso dal capo del Governo (e del PD). Di nuovo, non è la persona ma l’Istituzione che viene sbeffeggiata, e questo forse qualche rigurgito di dignità lo meri- terebbe. Ma del resto, quando poi si coprono le statue dei Musei Capitolini, che dovrebbero essere parte del nostro orgoglio, tutto torna. Sempre da cittadino, quando il partito che ha governato la città
  • 60. 60 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI per circa un ventennio, seppur con la parentesi Alemanno, viene pescato con le mani nella marmellata al punto da commissariar- si da solo, mi aspetterei, dopo un anno e prima di ripresentarsi a chiedere il voto, nomi cognomi e fatti per cui fare ammenda. Altrimenti manca il finale e la storia resta aperta. Se poi chi viene cacciato è il sindaco, colui che bene o male aveva fatto scoppiare il bubbone, allora forse come finisce la storia si comincia a intuire. Finisce che la storia continua. Perché sulle buche cadono i moto- ciclisti, non i sindaci. Questi cadono sempre sui soldi (quelli veri, non gli scontrini). Tornando a domani, molti romani nemmeno ci pensano a votare PD e a loro non servono queste considerazioni. Ma altri non tro- vano grandi ostacoli a farlo, anche perché Giachetti sembra una brava persona e anche conoscitore della macchina amministrativa (quanto poi voglia e possa cambiarla, quella macchina, resta un al- tro paio di maniche). Questi elettori possono mandare un segnale etico, di galateo istituzionale, evidentemente necessario a chi non ha avuto un’educazione civica adeguata. Dire che no, certi limiti non si possono oltrepassare, che a tavola si sta composti, o non si sta. È una scelta forte, dolorosa nell’imme- diato, perché consegna senza combattere la città a chi viene rite- nuto politicamente avverso. Ma nel medio periodo questi segnali danno i frutti, perché portano l’attenzione sul significato stesso di ‘servizio civile’. L’alternativa è confermare il loro voto, provando a mandare al ballottaggio il PD. Il messaggio sarebbe devastante e chiaro: potete giocare a piaci- mento con le Istituzioni e con noi che ne siamo rappresentati. Non preoccupatevi, il nostro voto comunque non mancherà mai. Più che sudditi, servi della gleba. Articolo pubblicato su il Giornale, il 4 giugno 2016
  • 61. 61 LABARBARIEDELLOSCIOPEROCHEDANNEGGIA SOLO I CITTADINI Un sindacato civile non prenderebbe in ostaggio i cittadini per usarli come arma nelle proprie contese. Un Paese civile, con isti- tuzioni politiche (il sindacato non lo è, pur se si atteggia a tale) che interpretano i bisogni di tutti, non lo permetterebbe. Ogni riferimento allo sciopero dei casellanti delle autostrade indetto per domenica 5 giugno dai sindacati è esplicitamente voluto. Esercitare il diritto di sciopero è un conto, farlo perseguendo il massimo disagio per milioni di cittadini, che nella vicenda del rinnovo del contratto tra sindacati e Federmeccanica sono terzi, è una barbarie. Lo sciopero è un’arma privata nelle mani dei la- voratori, per far valere le proprie ragioni contro quelle del datore di lavoro, che è l’unico a doverne essere danneggiato. Si esercita all’interno di una faccenda privata. Qualsiasi nocumento a sogget- ti estranei alla vicenda deve essere evitato, perché è un danno gra- tuito. Ma l’idea bislacca del sindacato è che tutte le sue battaglie siano sociali, pubbliche, e che dunque i cittadini non siano terzi ma parte (dalla loro, parte). Così è l’opinione pubblica a eserci- tare pressione sulla politica affinchè questa a sua volta entri nella trattativa affianco al sindacato. Purtroppo, la politica nel migliore dei casi ha paura a contrastare duramente gli scioperi che mettono in ginocchio la vita sociale, preferendo l’aberrazione di lasciare i cittadini ostaggio dei sindacati. Negli scioperi dei trasporti e dei servizi al pubblico, l’unica cosa davvero sociale sono i danni che vengono causati a tutte le attività nel nome delle ragioni di un gruppo di lavoratori. Targioni (Cgil) ieri si è detto “preoccupato per quanto potrà avvenire in serata se Autostrade non fa aprire come al solito (per minimizzare il danno causato dallo sciopero) dei varchi per far defluire le auto in coda.” Preoccupato? Mini- mizzare il danno? Quanta sensibilità sociale! Ma per favore, per favore. Almeno il pudore di stare zitto.
  • 62. 62 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI Infine, dal punto di vista dei lavoratori, il fatto che chi opera nei servizi al pubblico abbia un’arma tanto speciale quanto impropria è solo una discriminazione. Che pensa l’operaio di una fabbrica qualsiasi, che quando sciopera nessuno se ne accorge? E tutti gli addetti del turismo (su cui per inciso il Paese vorrebbe fondare parte della crescita) non sono lavoratori degni di tutela, contro le barbarie dei sindacati? Articolo pubblicato su il Giornale, il 6 giugno 2016
  • 63. 63 CAMBIAREFACCENONCAMBIERÀILSISTEMA-PAESE Inutile cambiare le persone se non miglioriamo il sistema. Continuare a proporre facce nuove non è la soluzione. La priorità è rendere più salubre l’ambiente politico. È stato un voto per il cambiamento. Bene, e grazie per avercelo fatto notare. Ora, volendo per una volta spingerci oltre le colonne d’Ercole dei 140 caratteri, cogliamo l’occasione per approfondire. Esattamente, quale cambiamento? Nella storia recente, gli Italiani hanno inseguito di frequente il ricambio della classe politica. Negli anni `70 era il PCI, che però ha cambiato il nome sul citofono e nient’altro. Negli anni `90 il vento del cambiamento si chiamava Lega Nord, che doveva fare piazza pulita dei professionisti della politica sporchi e corrotti. È finita con Bobo Maroni con la scopa in mano. Adesso, dopo altri vent’anni, il cambiamento si chiama M5S. È lecito chiedersi se non stiamo sbagliando qualcosa, dopo tre cambiamenti annunciati e prima del quarto, che dovrebbe arrivare negli anni `30 ma sicuramente anticiperà. Continuare a proporre facce nuove magari non è la soluzione. Cosa c’è, oltre le persone, se non il sistema nel quale vanno a operare? Forse è lì il problema, prima che negli uomini. Il teorema che ci siano più specie umane non regge. Credere che ci siano gli onesti e i disonesti, i fannulloni e gli operosi, e via così, è un modo infanti- le, da catechismo, di vedere le cose. Gli uomini (e le donne – si dia per acquisito) si adattano, al vizio come alle virtù. Mossi da con- venienza e egoismo, fanno ciò che possono e non fanno ciò che gli porterebbe male. Poi, non è che all’occasione saremmo tutti ladri. Il processo non è un interruttore. Vizio e virtù si muovono lungo cerchi discendenti o ascendenti: è la teoria del ‘vetro rotto’ del sindaco Rudolph Giuliani. In un ambiente civile e favorevole
  • 64. 64 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI uno è indotto a comportarsi adeguatamente, per se stesso prima che per gli altri. Poiché l’ambiente della politica non è salubre, per quanti Angeli mandiamo nel Palazzo il risultato sarà comunque l’Inferno. Il gio- co può continuare all’infinito, visto che su 60 milioni un centina- io di persone perbene le troveremo sempre. Ma saranno la soluzione? E saranno anche brave? Nel frattempo metà di noi, il partito dell’astensione, ha già smesso di giocare. Noi altri invece ci affanniamo, ventennio dopo venten- nio, a cercare (e illuderci di trovare) l’eroe che ci salverà. Ma ormai tutti sappiamo (quasi tutti) che nessuno da solo può davvero fare la differenza e cambiare le cose. Una persona minimamente avvisata è consapevole che – pur rico- prendo la carica di Sindaco o Primo Ministro – ben poco potreb- be realmente incidere per far funzionare le cose come vorrebbe. La sorpresa più grande per Berlusconi, quando arrivò nelle stanze dei bottoni, fu proprio questa: i bottoni c’erano, ma i fili non erano collegati. In gergo motoristico diremmo che schiacci l’acceleratore senza scaricare potenza a terra. L’apparato burocratico e le norme che fissano in dettaglio ogni singolo atto costituiscono, nel complesso, un guscio impenetra- bile. Dietro cui i grandi e i piccoli burocrati si muovono e si nascondo- no con abilità e resilienza. Riescono a vanificare ogni intenzione di produrre un risultato, per il semplice motivo che il loro status professionale è avulso da qualsiasi risultato. Possono farlo perché non gli succede nulla. Provate ad avere un atteggiamento simile in un’organizzazione privata. Poco dopo sarete seduti davanti al di- rettore delle risorse umane a discutere la buonuscita. Nello Stato, per ottenere che qualcosa si muova, anche di poco, occorre scen- dere a patti, fare compromessi. Così il cambiamento viene svilito
  • 65. 65 e quel poco ha un corrispettivo di scambi e favori che, dopo alcuni passaggi, diventano a volte o spesso corruzione. In conclusione, se cambiamento ha da essere, sia! Indicando però quale parte del sistema verrà colpita, chi sentirà il dolore. Lisciare tutti e non scontentare nessuno è come dire che si cambia senza terapia, o addirittura che esistono terapie indolore. Una favoletta buona per le anime semplici, cui il primo partito del Paese non crede più. E non dicano che il dolore lo sentiranno solo qualche decina o centinaia di papaveri. Il sistema non sono venti o cento politici che prendono una mazzetta, bensì 800 miliardi di spesa pubblica fuori controllo, dove vivacchiano sprechi di ogni natura, senza che nessuno sia mai chiamato a rispondere di un’opera mai terminata, di una siringa strapagata o di altre schifezze simili. Ma questi soldi dove finiscono? Nelle tasche di milioni di citta- dini che ci campano. Qui non si tratta di colpire i parlamentari, ma la gente comune. Per dare un ordine di grandezza, Camera, Senato e Quirinale costano insieme pochi miliardi, nemmeno lo 0,5% della spesa pubblica, e in gran parte sono stipendi. Quando si parla delle auto blu, il grosso del costo sono gli autisti, non le vetture. Ecco il nodo: siamo disposti a cambiare in meglio questa gigantesca macchina che distribuisce reddito? La strada del cambiamento non porta dai parlamentari, ma a casa della gente normale. Andiamo? Articolo pubblicato su il Giornale, il 24 giugno 2016
  • 66. 66 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI DUE MILIONI DI BRITANNICI CHIEDONO GIÀ DI RIVOTARE Londra abbia il coraggio di tornare indietro. “The lady’s not for turning.” Con questa celebre frase nel 1980 Margaret Tatcher rifiutò di cambiare politica nei confronti delle liberalizzazioni, come le suggeriva il suo stesso partito, di fronte a una crisi gravissima con 2 milioni di disoccupati (che sarebbero diventati 3 entro due anni). Chissà cosa farebbe adesso, in una situazione più difficile ma molto più grave? La via più semplice è avviare le negoziazioni per uscire dall’U- nione Europea. Non servono giganti della politica per farlo. Il costo economico lo pagherà per la maggior parte lo stesso Regno Unito. La sua presenza nella UE è di natura commerciale, finan- ziaria e mercantile. Poi col tempo ci sarà un nuovo equilibrio, anche perché parliamo di un popolo tenace e preparato. “C’è tempesta sulla Manica, il Continente è isolato” non è una bat- tuta, ma un’espressione identitaria. Non si sono arresi sotto le bombe di Hitler, vuoi che non resistano a una crisi monetaria e economica. Il costo politico lo pagheremo probabilmente noi, l’Europa. Questo voto rafforzerà le ali nazionaliste e separatiste dei vari Paesi membri, inducendo i Parlamenti a non spingere verso un’integrazione maggiore, che affianchi la politica (estera ed economico-fiscale, soprattutto) a un apparato monetario e amministrativo che da solo non riesce a interpretare le attese dei cittadini, figuriamoci a produrre risposte. Il percorso verso poli- tiche più mercantili e liberali e meno stataliste rallenterà ancora – sempre che sia in movimento, corretto. In altri termini, le ragioni che hanno spinto UK a uscire saranno rafforzate, invece di venire finalmente affrontate, come forse i nostri leader pure vorrebbero. Ma sono davvero tali?
  • 67. 67 Poi c’è l’altra via. Quella difficile. Politicamente scorretta. Gli Americani distinguono tra ciò che è giusto e ciò che va fatto. Oggi la Storia meriterebbe uno statista in grado di fare ciò che va fatto: non avviare i negoziati di uscita, per il bene degli stessi elettori. È un fardello pesantissimo, contraddire quanto uscito dalle urne. Il consenso parlamentare ci sarebbe, con il Labour già schierato per il Remain. L’Inghilterra vanta il più antico Par- lamento della modernità: batta un colpo. Esca dall’ombra ed eserciti la sua funzione di rappresentanza competente e respon- sabile, per spiegare all’opinione pubblica perché in casi estremi (e rari) la leadership di un Paese non può limitarsi a fare il notaio della volontà popolare. Tsipras in Grecia lo ha fatto. Ha chia- mato un referendum per il NO e poi ha immediatamente agito contro l’esito da egli stesso invocato, nell’interesse del suo Paese. Già, si disse, ma a quelle latitudini fanno di tutto. Beh, quella è stata la culla della democrazia. Forse per questo la conoscono bene e sanno come e fino a dove usarla. La statura dei leader si misura quando si tratta di salvare il Paese, anche da se stesso se necessario. Qui si parla di professionalità politica e leadership nelle deci- sioni impopolari. Di democrazia diretta in questioni complesse. Lungi dal voler sostenere la dittatura contro la democrazia, è ve- nuto il tempo di dire che questa forma di governo ha i suoi limi- ti, che vanno conosciuti e gestiti. La nostra Costituzione esclude i trattati internazionali dallo strumento referendario, perché per decidere su una materia non basta avere la piena cittadinanza. Occorrono conoscenze e competenze. Non siamo condomini che decidono l’orario del riscaldamento. Da cittadino, faccio il mio lavoro e prendo le mie decisioni, di cui mi assumo la responsabilità. Nel mercato, i miei interlocutori mi diranno se qualcosa va aggiustata. Da cittadino, mi aspetterei che chi è pa- gato per compiere scelte politiche lo facesse, senza pretendere il mio benestare a ogni piè sospinto. Rivolgersi sempre al popolo, per addossargli scelte per cui non ha le competenze, ha un che di
  • 68. 68 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI perverso e pericoloso. Le dittature sono quasi sempre populiste e scavalcano proprio la classe politica rivolgendosi direttamente al popolo, con panem et circenses. Questa visione diminutiva della politica è un male del nostro tempo. Coniuga insieme una carenza di leadership e una fallace interpretazione della democrazia. Un leader è figura diversa dal sondaggista. Un leader è colui che interpreta la via giusta nell’in- teresse degli elettori e poi riesce con abilità a farsi seguire lungo quella strada. Vir bonus, dicendi peritus. La democrazia è la fa- coltà di fare il punto sulla strada, ogni tanto, per decidere, nel caso che la via non si riveli corretta, di affidarsi a un altro leader. Oggi ci troviamo con una carenza di leadership e un abuso di democrazia. Il chirurgo, l’operaio, l’ingegnere che ritengono di poter decidere su questioni politiche ed economiche complesse, dicano per favore se sarebbero disposti a lasciare il bisturi, la macchina o il calcolo di un pilone nelle mani di altri non quali- ficati. Chiediamoci se Churchill darebbe seguito alle urne. Articolo pubblicato su il Giornale, il 26 giugno 2016
  • 69. 69 LA LEZIONE DEI 5 STELLE: UNO VALE UNO MA C’È ANCHE CHI VALE MENO DI ZERO M5S è impreparato. Troppi dilettanti. Uno non vale l’altro. Raggi ha il dovere di governare e i romani il diritto di essere da lei governati. Lo abbiamo già detto. A Roma ci sono interessi economici enormi (dai grandi appalti di opere e servizi alle piccole ma numerosissime rendite di posi- zione, anche sindacalizzate) e gli equilibri di anni non si faranno demolire senza resistere. Questo pure lo capiamo. La stessa ammi- nistrazione comunale, di fronte al pericolo che i nuovi regnanti tocchino dei privilegi, avrà già cominciato a muoversi, chi cer- cando un predellino sul nuovo carro, chi spargendo trappole per favorire il ritorno degli esuli e ricevere una lauta ricompensa. Non è bello e non è giusto, d’accordo, ma un movimento con centinaia di parlamentari che si candidi a gestire Roma un pensierino su cosa l’aspetta lo fa. Invece l’approccio dei grillini al Campidoglio è quello di un’armata Brancaleone. Tutti, nessuno escluso. Da Gril- lo a Raggi fino agli altri coinvolti a vario titolo. Ora, premesso che non sono tutti brutti e cattivi, non più degli altri, non più di tutti noi, vale la pena interrogarsi sulle cause, per cui il movimento più fresco e vergine, con uno dei maggiori consensi elettorali, sia sull’orlo del fallimento alla prima vera pro- va importante, al punto da pregiudicarne la credibilità politica e amministrativa, forse per sempre. In sintesi, la colpa è che il M5S è una scorciatoia, una via breve e frettolosa per sostituire una classe politica che pure in larga parte lo merita. Catapultare cittadini ai vertici delle istituzioni sconta la mancanza di esperienza che solo un formativo cursus honorum può dare.
  • 70. 70 A SPASSO PER I FATTI NOSTRI Uno vale uno. No. Uno valeva uno in un tempo paleo-sociale, prima della specializzazione del lavoro. Oggi uno vale in funzione delle competenze, a loro volta frutto di conoscenza e esperienza. Dunque, uno vale uno, un altro vale 10 e qualcuno vale zero. Questa idea che per una malattia esantematica del pupo si ricorra allo specialista, mentre per governare una grande città vada bene chiunque è, diciamolo chiaro, stupida e indice di un analfabeti- smo concettuale, figlio del 6 politico e padre di un senso di rivalsa contro chi ha studiato e operato. Che una professionista giovane non potesse da sola prendere in mano le redini del Campidoglio era scontato, ma almeno doveva presentarsi con un piccolo “raggio magico” formato di due/ tre fedelissimi, esperti e a prova di scandalo, col cui consiglio formare la squadra reggendo alle pressioni esterne e soprattutto interne, perché molto di questo è fuoco amico. Invece niente, una serie di nomine poi revocate o modificate: roba da matti. Molto, molto imbarazzante. Infine, l’uso troppo parsimonioso del silenzio. Il governo della ca- pitale non può essere rappresentato come un pollaio. Mai e ancor di più dopo la ribalta internazionale seguita all’affermazione del M5S. Non è questione di trasparenza, ma di etichetta istituzionale e, prim’ancora, di educazione tout court. Va bene venire dal popolo, ma non siamo un popolo di lavandaie, chiassose e ignoranti. Articolo pubblicato su il Giornale, il 4 settembre 2016
  • 71. 71 TUTTI FUGGONO DAL «SOGNO» DI FIDEL Ha animato ideologie e illusioni che però si sono scontrate contro il muro della storia. Sbriciolandosi. Il Black Friday è una cosa da poveracci, da semi-analfabeti. I veri leader del pensiero non cascano certo in questi trucchetti da marketing di quart’ordine. No, loro si stanno godendo il Black November, cominciato con la vittoria di Trump (anzi, per essere precisi, la sconfitta di Obama per mano di Hillary), che prosegue con il grande evento del Referendum, sul quale tutti, ma proprio tutti, si stanno scatenando, dando una sconfortante impressione di criceti da laboratorio, di inconsapevoli cavie. Insomma, un vero periodo di opulenza per spargere l’intelligenza applicata alle dina- miche sociali. Poteva bastare, ma poi è arrivato lui, il lider maximo (da non confondere con Massimo D’Alema – ndr per i 5S, che pare vadano facilmente in confusione oltre i cinque anni di sto- ria). Cosa avranno mai fatto per meritarsi anche questa fantastica opportunità di evocare gli inizi della superiorità, i tempi in cui la verità fu rivelata? Come loro, sono stato un ammiratore di Fidel, quando in gioventù pensavo che il comunismo fosse la soluzione alle storture del Mondo. Come loro (un po’ prima, in verità), l’ho abbandonato, quando ho visto nei fatti che non portava a nulla di buono. A differenza di loro, ero sincero. Molti hanno sepolto, non accantonato, l’idea. Per convenienza politica ed economica. Del resto, lo stesso Fidel l’ha fatto. Eh sì, perché verso la fine del secolo, quando i soldi sovietici sono finiti e l’equazione non tornava più, ha cominciato a strizzare gli occhi. Prima uno, alla Chiesa, poi l’altro, direttamente al presidente nero, recentemente. La vita è bellissima per questo, perché vale sempre la pena alzarsi la mattina, sicuri che il Mondo riuscirà a sorprenderci ancora una volta. Il Papa nemico del comunismo che va a trovare l’unico, vero campione del comunismo, uno autentico, origina-