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INDICE

……………………………………………………………

Introduzione…                                                                    2

1. Un approccio interdisciplinare al concetto del sé                             5

2. La relazione fra il sé e l’oggetto di consumo                                21

3. L’acquisto compulsivo: modelli di spiegazione del comportamento              35
   di dipendenza

4. L’influenza della società dei consumi sui comportamenti d’acquisto….…        51

5. Il valore del brand e le sue basi neurologiche                               66

6. Neuropsicologia delle decisioni d’acquisto                                   87

Conclusioni                                                                    106

Bibliografia……………………………………………………………………….                                       108




                                                                           1
INTRODUZIONE


Obiettivo dell’elaborato è approfondire la relazione fra comportamenti d’acquisto e
caratteristiche del sé. Al fine di indagare al meglio questa relazione in tutte le sue
sfumature, ci approcceremo al tema con uno sguardo interdisciplinare in grado di
abbracciare diversi ambiti di studio, dalla filosofia alla sociologia, dalla psicoanalisi
alle neuroscienze, cercando di unire tutti i contributi che queste discipline possono
fornirci in un unico filone concettuale in grado di non disperderne le rispettive
potenzialità, ma anzi di integrarle in un quadro teorico coerente ed esplicativo.
Approfondendo i recenti studi sui comportamenti d’acquisto, è inevitabile notare
che essi vengono quasi sempre trattati separatamente da ognuna di queste
discipline, le quali, isolando l’argomento dal suo caratteristico tessuto di interazione
teorica e traendo da esso solo le componenti analizzabili secondo modalità
rigorosamente appartenenti alla propria sfera di competenza, ne studiano soltanto
un singolare aspetto riducendo in questo modo notevolmente la complessità delle
tematiche dalle quali l’intero fenomeno è composto.
Le scienze cognitive, proprio tenendo conto della loro ragione d’essere
rintracciabile principalmente nella propria vocazione di natura multidisciplinare,
non dovrebbero certo rimanere indifferenti di fronte all’invitante possibilità di
comprendere dettagliatamente il fenomeno degli acquisti, ma dovrebbero anzi
trovare il modo di attingere alle differenti competenze che, profondamente correlate
alle scienze cognitive, caratterizzano gli ambiti di studio che se ne sono
maggiormente occupati.
Tranne rari casi (Balconi, Antonietti; 2009) dobbiamo però sottolineare che non vi
è al momento traccia di studi sui comportamenti di consumo che siano stati in grado
di fornire un quadro esaustivo dei diversi approcci presenti sulla scena teorica;
obiettivo dell’elaborato è quindi proprio quello di cercare, con i nostri mezzi, di
riempire questa lacuna presente in letteratura, in particolare tentando di appoggiare
i vari studi neuroscientifici e sociologici svolti sul tema su un robusto terreno
epistemologico costruito su basi di natura filosofica e psicologica, che, troppo
spesso ignorate a questo proposito, svolgono invece a mio avviso un ruolo centrale
ed essenziale nella spiegazione dei comportamenti d’acquisto.


                                                                                       2
Inizieremo dunque il nostro studio cercando di porre come primo mattone di questo
edificio teorico un’analisi filosofica e psicologica del concetto di “sé”,
individuandone le componenti di base, accennando a quei possibili meccanismi che
sono alla base della sua nascita e del suo sviluppo, e studiando infine la
correlazione fra un sé di natura individuale, che fa riferimento al concetto di “io”, e
un sé di natura collettiva, che si riferisce invece alla sensazione di un “noi”.
Chiarite le basi epistemologiche della nostra indagine, introdurremo nel secondo
capitolo i comportamenti d’acquisto, rintracciando il ruolo che essi rivestono per la
vita psichica e individuando le modalità attraverso le quali questi comportamenti si
intrecciano con le componenti del sé individuale; faremo in particolare riferimento
al concetto di brand, studiando la sua funzione di esplicitazione e protezione di parti
del sé inespresse.
Nel   terzo   capitolo    presenteremo     invece    alcune   teorie   psicologiche   e
neuroscientifiche in grado di farci comprendere meglio l’adozione, da parte di molti
soggetti, di un comportamento dipendente in contesti d’acquisto, come accade con
la sempre più diffusa problematica dello shopping compulsivo.
Successivamente, il quarto capitolo avrà invece l’obiettivo di spostare la nostra
analisi da un quadro di natura esclusivamente psicologica a uno maggiormente
incentrato su spiegazioni di matrice sociologica, ponendosi infatti come obiettivo
quello di riassumere le principali ragioni e i principali cambiamenti di natura
sociale che hanno dato vita, durante gli ultimi decenni, a una vera e propria società
che si regge sui consumi e che è sempre più caratterizzata dalla presenza di uno
sfrenato bisogno umano di acquistare una quantità sempre crescente di beni.
Il quinto capitolo reintrodurrà invece nel discorso il concetto di brand, inizialmente
analizzando il suo ruolo sociale e cercando di chiarire la sua relazione con le
componenti del sé collettivo, e successivamente presentando una serie di studi di
neuro-imaging finalizzati all’individuazione di una serie di attività neurali correlate
all’esposizione di un marchio.
Infine, l’indagine neurologica sui comportamenti d’acquisto terminerà nel sesto
capitolo, nel quale, facendo riferimento a degli studi orientati alla ricerca
dell’attività cerebrale durante il momento dell’acquisto in sé, individueremo quali
aree della corteccia risultano maggiormente coinvolte durante il decision-making



                                                                                      3
del consumatore; chiuderemo poi l’elaborato analizzando le euristiche cognitive
che possono intervenire durante la fase dell’acquisto, influenzando la validità delle
scelte consumistiche e alterando il processo decisionale che ne è alla base.




                                                                                   4
1. UN APPROCCIO INTERDISCIPLINARE AL CONCETTO
   DEL SE’.

Per comprendere come oggetti di consumo e comportamenti d’acquisto possano
entrare in relazione con diverse caratteristiche del sé, ci sembra importante iniziare
il lavoro chiarendo da quale punto di vista inquadriamo il concetto del sé e
definendo quelle che, coerentemente con il fine dell’elaborato, possono essere le
componenti alle quali dedichiamo una maggiore rilevanza.
Senza addentrarci troppo approfonditamente nei dibattiti recenti intorno alla natura
del sé che caratterizzano l’ambito filosofico e neuroscientifico, sembra ormai
assodata la visione di un sé che prende sempre più le distanze dalla concezione
cartesiana, la quale, basandosi su un radicale dualismo fra mente e corpo,
identificava il sé con la sostanza pensante, fornendolo così di una realtà ontologica
nettamente separata dalla dimensione corporea e totalmente indipendente dalle
leggi cui sottostava la materia1.
Messa da parte non senza difficoltà questa radicale visione, il cui dualismo vive
ancora oggi tentativi di riformulazione teorica2, la desostanzializzazione delle
operazioni mentali avviata dal radicale empirismo di Locke, che riduceva la mente
a una tabula rasa interamente plasmata dall’ambiente3, ha trovato il suo culmine
nella visione contemporanea di un sé che non solo si caratterizza per una stretta
integrazione     con     la   dimensione       corporea      dalla    quale    è   assolutamente
imprescindibile (Damasio 1995, Montague 2006),4 ma viene addirittura inteso

1
  <<Pervenni in tal modo a conoscere che io ero una sostanza, la cui intera essenza o natura consiste
nel pensare, e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo, né dipende da alcuna cosa materiale.
Di guisa che questo io, cioè l’anima, per opera della quale io sono quel che sono, è interamente
distinta dal corpo>> Cottingham, R., (1992), A Descartes Dictionary, p. 36, nota 3, Blackwell,
Oxford.
2
  Come sottolineato da Damasio, la metafora adottata in tempi recenti di una mente come “software”
e di un cervello come “hardware”, così come la netta separazione tuttora esistente fra medicina e
psicologia, trova le sue radici proprio nella separazione cartesiana fra mente e corpo; Damasio,
(1993), p.339.
3
  <<Supponiamo dunque che lo spirito sia per così dire un foglio bianco, privo di ogni carattere,
senza alcuna idea […] Da dove si procura tutto il materiale della ragione e della conoscenza?
Rispondo con una sola parola: dall’esperienza. Su di essa tutta la nostra conoscenza si fonda e da
essa in ultimo deriva>> Locke, J., (1690), Libro II, cap. 1.
4
  <<Eccolo, l’errore di Cartesio: ecco l’abissale separazione tra corpo e mente – tra la materia del
corpo, dotata di dimensioni, mossa meccanicamente, infintamente divisibile, da un lato, e la stoffa
della mente, non misurabile, priva di dimensioni e non attivabile con un comando meccanico, non
divisibile>> Damasio, (1993), p.338. <<quasi nessuno metteva in dubbio quest’opinione: i pensieri
sono privi di base materiale; vivono in qualche posto o stato indefinibile e non posson mai venire


                                                                                                   5
come un fenomeno che privato della sostanzialità cartesiana e letto in chiave
evoluzionistica, emerge dal corpo stesso come capacità adattiva di valutare gli
stimoli    ambientali       garantendo       all’organismo       una     migliore      capacità     di
sopravvivenza.
Importante in questa direzione è stato il contributo del neuroscienziato Damasio, fra
i più chiari sostenitori di una visione evoluzionistica della mente che, intesa come la
capacità dell’organismo di avere rappresentazioni coscienti, sarebbe emersa
dall’interazione corpo-cervello con la finalità adattiva di proteggere l’organismo
stesso: l’evoluzione ha fatto sì, per Damasio, che il corpo trovasse un potente
mezzo di autodifesa nella propria capacità di sviluppare efficaci rappresentazioni
interne dell’ambiente esterno. Il sé, in questa concezione, emerge quindi come
modalità di rappresentazione della realtà circostante, e le immagini mentali che ne
caratterizzano l’attività risultano essere principalmente delle reazioni in grado di
riprodurre l’ambiente esterno basandosi sulla modificazione che esso provoca nel
corpo stesso. Ciò che percepiamo e memorizziamo, più che la realtà in sé, è come il
nostro corpo reagisce all’incontro con essa (Damasio 1995).
In quest’ottica risuona inesorabilmente non solo l’integrazione fra mente e corpo,
ma la precedenza evolutiva del corpo stesso. Per dirla con Damasio, <<gli eventi
mentali sono il risultato dell’attività che si svolge nei neuroni del cervello; ma vi è
una storia precedente e indispensabile che essi devono narrare: la storia del disegno
e del funzionamento del corpo. La supremazia del corpo è un motivo che risuona
nell’evoluzione.>>5
Staccato da radici metafisiche e sostanziali, e ancorato alla corporeità dalla quale
esso emerge, non sorprende che in quest’ottica il sé si allontani anche dal concetto
di coscienza: a partire da Freud, è infatti conoscenza comune che la maggior parte
delle attività mentali avvengano sotto il livello della coscienza, definita proprio dal
padre della psicoanalisi come la sola punta dell’iceberg dei processi mentali 6.


“catturati” da alcuna descrizione fisica. Quest’idea, se da un lato è emotivamente attraente, è però
incompatibile con quella che è una montagna di fatti circa l’ereditarietà e l’evoluzione di caratteri
biologici>> Montague, (2006), pp. 9-10.
5
  Damasio, (1993), p. 312.
6
  <<i processi psichici sono di per sé inconsci e di tutta la vita psichica sono consce soltanto alcune
parti e alcune azioni singole>> Freud (1915-17). Ma si veda a tal proposito anche Nietzsche: <<la
coscienza ha un ruolo di secondo piano, è quasi indifferente, superflua, forse destinata a sparire e a
far posto a un perfetto automatismo>> Nietzsche, (1887).


                                                                                                     6
Diversi filosofi e neuroscienziati7, fra i quali Montague, sostengono che la
coscienza stessa, lungi dall’essere il centro della vita psichica e l’origine delle
azioni umane, non sarebbe altro che un fenomeno emergente assimilabile alla
memoria di lavoro e finalizzato a monitorare i processi mentali che richiedono un
maggiore impegno di energie: una volta che il sé automatizza un insieme di
comportamenti, questi verrebbero messi in atto dall’individuo senza nessuna
difficoltà, evitando così di richiedere il dispendioso intervento della coscienza
(Montague 2006, Gigerenzer 2007). Altri ancora, sulla scia della filosofia di Hume8
e Nietzsche9, definiscono la volontà cosciente come una mera sensazione prodotta
da meccanismi inconsci, una pura emozione di paternità delle proprie azioni che dà
luogo all’illusione di agentività (Wegner 2010)10.
Il sé, comunque, sia nella sua componente cosciente che inconscia, non viene più
definito come un concetto unitario: esso, più che un’entità monolitica in grado di
agire attivamente su un ambiente passivo, è piuttosto da intendersi come un insieme
apparentemente coerente di diversi processi mentali che agiscono, e che, grazie ad
una capacità di integrarsi fra loro, contribuiscono a creare nell’individuo la
sensazione dell’esistenza di un’entità unica e unitaria in grado di percepire il mondo
e reagire agli stimoli che provengono da esso; già Nietzsche aveva notato questa
importante rivoluzione nel modo di concepire l’io nel momento in cui definiva il
soggetto come molteplicità e parvenza di unità: <<ammettere un soggetto non è
forse necessario; forse è altrettanto lecito supporre una molteplicità di soggetti, il
cui gioco d’insieme e la cui lotta stanno alla base del nostro pensiero e in generale



7
  Le Doux elenca fra gli studiosi favorevoli alla riduzione della coscienza a una funzione esecutiva e
di supervisione Shallice, Posner e Snyder, Shiffrin e Schneider, Norman e Shallice. Le Doux,
J.,(1996)
8
   Wegner cita Hume per la sua definizione di volontà come <<niente altro che quella impressione
interna che avvertiamo e di cui diveniamo consapevoli, quando coscientemente diamo origine a
qualche nuovo movimento del nostro corpo o a qualche nuova percezione della nostra mente>>
Hume (1739-1740), in Wegner, D. M., (2010) L’illusione della volontà cosciente, in De Caro, M.
Lavazza, A., Sartori, G., (2010).
9
   <<l’io è considerato come soggetto, come causa di ogni azione, come autore […] la credenza in
una sostanza trova la sua forza di persuasione nell’abitudine di considerare tutto ciò che facciamo
come conseguenza della nostra volontà- così che l’io, in quanto sostanza, non scompare nella
molteplicità dei mutamenti. Ma non esiste una volontà.>> Nietzsche (1887).
10
    <<Meccanismi inconsci e imperscrutabili creano infatti sia il pensiero cosciente dell’azione sia
l’azione, e producono anche la sensazione di volontà che sperimentiamo percependo il pensiero
come causa dell’azione>> Wegner, D.M., (2010).


                                                                                                    7
della nostra coscienza>>11. La mente perde così la connotazione di teatro cartesiano
e palcoscenico di immagini mentali per frammentarsi in una serie di molteplici
funzioni: l’unità della percezione che noi percepiamo non è altro che una mera
sensazione che non trova riscontro in alcuna sostanzialità, né in alcuna area
celebrale, ma è prodotta proprio dall’integrazione di molteplicità differenti. Come
Damasio sottolinea, l’effetto di unitarietà psichica e percettiva è dovuto a una
questione di simultaneità temporale che trova la sua base in un principio di
sincronizzazione di differenti attività neurali (Damasio 1993).
Più che di un sé, dovremmo quindi parlare di diverse parti del sé che lo
costituiscono. Ponendoci in quest’ottica di pensiero, il paragone fra la dimensione
individuale e quella sociale appare intrigante: come a livello sociale l’unione di
diversi individui può dare origine a quella sensazione di gruppo come entità
indipendente e dotata di vita propria, così, a livello individuale, le diverse funzioni
del sé basate su diversi processi mentali, interagendo fra di loro, sarebbero in grado
di dar luogo alla sensazione di un sé unico che agisce sul mondo. La conseguenza è
semplice ed efficace: il “senso del sé” che è alla base sia della percezione della
soggettività del “me” che dell’entitatività12 del “noi” è quindi il prodotto
dell’integrazione fra le sue molteplici componenti elementari; è in questa direzione,
infatti, che vanno le recenti ricerche sui substrati neurali della coscienza, fra cui
quelle che fanno capo al neuropsichiatra Tononi, il quale postula una duplice
capacità alla base dell’esperienza della soggettività: da una parte la percezione di
una molteplicità di esperienze differenti, e dall’altra la facoltà di integrare queste
diverse informazioni percepite in un unico dato. Ciò che distingue l’organismo
vivente da quello artificiale non è tanto la capacità di ricevere informazioni, quanto
la capacità di integrazione di esse (Tononi 2003)13.
Ma per quanto le teorie contemporanee ci mostrino l’unitarietà del sé come una
sensazione prodotta dall’integrazione fra diverse parti, ciò non significa che ne
svalutino l’importanza: lungi dall’essere una mera illusione poco funzionale ai fini

11
   Nietzsche, F., (1887), p.275.
12
   Con questo termine, nei recenti approcci della psicologia sociale, si fa riferimento al grado in cui
un aggregato sociale è percepito come entità esistente e reale da osservatori esterni. Speltini, G.,
Palmonari, A., (2007).
13
   Importante notare che in questo caso il termine coscienza va inteso non come stato di meta-
consapevolezza che l’individuo ha delle proprie azioni, ma più in generale come uno stato di
“vigilanza” che permette all’organismo di essere “vivo”.


                                                                                                     8
dell’individuo, la percezione di unità dell’ente psichico è invece il presupposto
essenziale su cui si basa l’intera esistenza e su cui fondiamo tutti i nostri
comportamenti. Abbiamo già visto come sia ormai insito nella natura umana
percepire se stessi come unici e in grado di agire sul mondo: il concetto di “io” è
stato appositamente creato dall’uomo in chiave adattiva, e per quanto possa essere
fittizio, è senz’altro indispensabile per la vita umana. Di nuovo, il salto
dall’individuo alla società è breve: sarebbe infatti difficile sostenere che la
sensazione di gruppo come entità dotata di una propria autonomia trovi un suo
correlato sostanziale basato su una realtà ontologica propria e indipendente dai
membri che lo costituiscono; eppure, pur trattandosi di un’illusoria sensazione, ciò
non toglie che essa risulti fondamentale nel regolare la vita del gruppo stesso.
Il gruppo come entità in sé indipendente dai suoi stessi membri non esiste, eppure
la percezione che esso sussista concretamente emerge dall’interazione dei membri,
ed è parte fondamentale del suo sviluppo. Come noto a ogni persona chiamata a
gestire il lavoro di un team, non vi è nulla di più importante per la vita di un gruppo
del creare un’atmosfera tale che i suoi membri siano in grado di sperimentare la
sensazione di far parte di un’entità comune che trascende i confini del singolo; una
volta che viene prodotta questa sensazione, ogni membro percepirà il gruppo a
livello inconscio come entità indipendente non solo da se stesso, ma anche da tutti
gli altri membri: un potente fenomeno emergente che deve la sua origine al solo
fatto che tutti lo pensino tale. Qualcosa che non esiste concretamente, ma che nello
stesso tempo trascende tutti: l’identità, staccata da radici ontologiche, non perde
potenza, ma anzi la acquisisce.
Rispondere quindi alla domanda su quali siano i processi in grado di formare questa
sensazione di “entitatività” non sembra epistemologicamente separabile dal
ricercare i processi mentali in grado di formare il senso del sé individuale: così
come l’integrazione fra membri fornisce al gruppo quella che viene chiamata
“un’identità”, anche un buon senso di identità a livello personale sarà secondo
questa visione dato da una capacità delle parti del sé di interagire e comprendere i
propri stati a vicenda.
Detto questo, ambiti disciplinari come filosofia, neuroscienze, psicoanalisi e
psicologia sociale si trovano di fronte a una lunga strada da percorrere in



                                                                                     9
quest’ambito: siamo infatti ancora lontani dal capire come le diverse componenti di
un sistema riescano a interagire per arrivare a produrre un senso di entità. Si può
però nel frattempo definire le caratteristiche di base di questo “senso di entità”,
nella speranza in un futuro prossimo di poter conoscere i processi in grado di
originarlo. Cosa contraddistingue quindi il sé, oltre al senso di unità? Quali sono le
sue caratteristiche di base? Non sappiamo mediante quali processi hanno origine,
ma sappiamo definire quali esse siano? In chiusura del suo libro “Che cosa
sappiamo della mente?” il neuroscienziato indiano Vilayanur Ramachandran elenca
quelle che sono per lui le componenti centrali del sé sulle quali concentrare le
ricerche:


           “Che cosa si intende esattamente con <<sé>>? Ho individuato cinque
           caratteristiche fondanti. La prima è l’impressione di continuità, di un
           filo che corre lungo l’intero tessuto della nostra esperienza,
           accompagnato dal senso del passato, del presente e del futuro. La
           seconda, strettamente correlata alla prima, è l’idea di unità e
           coerenza. Nonostante la varietà dei ricordi, delle credenze, dei
           pensieri e delle esperienze sensoriali, ciascuno di noi esperisce se
           stesso come un individuo unico, un’unità. La terza è la corporeità, o
           meglio il senso del possesso del proprio corpo, al quale ci si sente
           ancorati. La quarta è la facoltà di azione volontaria, quella che
           chiamiamo libero arbitrio, l’idea di essere padroni delle proprie
           azioni e del proprio destino […]. La quinta, e più elusiva di tutte, è
           la capacità di riflessione, la consapevolezza che il sé ha di se stesso
           […] La malattia mentale perturba uno o più aspetti del sé ed è per
           questo che non ritengo il sé un’entità unitaria, bensì un insieme di
           varie componenti.”14

Con il concetto di continuità possiamo facilmente far riferimento alla sensazione di
sviluppo temporale riguardante le esperienze passate e le aspettative future che
caratterizza non solo il sé individuale, ma anche il sé collettivo; più che un collage
di ricordi e speranze operato grazie a una rievocazione consapevole da parte
dell’individuo, la sensazione di continuità si presenta come un fenomeno che, attivo
principalmente a livello inconscio, si avvicina al concetto di “sentimento di fondo”
introdotto da Damasio per descrivere il senso di proprietà del corpo e tramite il
quale si fa riferimento a una sensazione del sé costituita dall’associazione fra


14
     Ramachandran, V., (2003), pp .97-98.


                                                                                     10
modificazioni corporee e rappresentazioni neurali delle modificazioni stesse: una
tipologia particolare di sentimento continuamente presente in sottofondo, e della
quale si può diventare consapevoli soltanto quando vi si pone volontariamente
attenzione (Damasio 1993). Il senso di continuità potrebbe quindi trovare il suo
fondamento nell’integrazione fra diverse rappresentazioni inconsce riguardanti lo
stato passato, presente e futuro del sé.
Come accennato da Ramachandran, la correlazione fra i turbamenti a questa
componente del sé e le patologie mentali non è da trascurare: facendo riferimento
agli studi sull’attaccamento prodotti dalla psicoanalisi e in particolare da Bowlby15,
un buon senso di continuità del sé ha la possibilità di svilupparsi quando
nell’ambito della relazione originaria e fusionale fra il caregiver e il bambino, il
primo riesce a tranquillizzare le paure di abbandono che il secondo nutre riguardo
al distacco, permettendo al bambino stesso di sviluppare una base sicura che faccia
riferimento a un sufficiente livello di fiducia nella possibilità di ritrovare il legame
con il caregiver in futuro; perché si sviluppi un buon senso di continuità del sé, è
importante che vi sia nel bambino la capacità di mantenere nella propria mente una
rappresentazione costante dell’altro anche in sua assenza: soltanto così si può
instaurare quella fiducia basata sulla possibilità di ritrovamento dell’altro in futuro,
che diventerà poi fiducia nelle proprie capacità di trovare nel mondo ciò che
procura piacere. Al contrario, una mancanza di fiducia nel ritrovare l’altro in questa
fase di separazione risulterebbe decisiva nel turbare il senso di continuità del
bambino stesso, che nel corso della sua vita potrebbe vivere traumaticamente le
separazioni (non solo da figure affettive, ma anche da situazioni, pensieri, luoghi,
oggetti..), ancorandosi così a ciò che di piacevole trova nel passato, guardando con
timore ai cambiamenti, e reiterando con comportamenti dipendenti le situazioni
presenti piacevoli, vissute come momenti ineluttabilmente destinati a non tornare
più: il sé rischia in questi casi di perdere il suo carattere di continuità trasformando
la vita psichica in una serie di momenti slegati fra di loro e frammentati in un
quadro tutt’altro che unitario e rassicurante: ogni stato emotivo si trasformerebbe in
un’ineluttabile condizione priva di uscita e scollegata dal resto.


15
   Faremo riferimento a questi studi più avanti: i nostri punti di riferimento per la teoria
dell’attaccamento sono comunque Bowlby (1969), Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002),


                                                                                         11
Il senso di continuità, lungi quindi dall’essere una mera sensazione priva di
sostanzialità, si presenta come un sentimento di fondo con caratteristiche
fondamentali per l’attività del sé stesso; anche facendo riferimento all’attività di un
gruppo, risulta quanto mai importante fornire ai singoli l’immagine di un team
continuo nel tempo, basato su un importante passato e slanciato verso un
prosperoso futuro: si rischia altrimenti di ritrovarsi un gruppo che vive come
piccolo trauma ogni minimo cambiamento.
Se la continuità può quindi essere intesa come la sensazione di uno sviluppo
temporale dal sé, l’unità o coerenza che Ramachandran cita come seconda
componente può a mio avviso essere pensata come la sensazione di uno sviluppo
spaziale del sé: per acquisire coscienza di se stessi come una medesima entità
psichica, nonostante i cambiamenti seppur minimi che il tempo ci impone,
dobbiamo infatti far riferimento almeno a livello inconscio ad una rappresentazione
mentale dei nostri confini e di ciò che nello stesso tempo ci limita e ci
contraddistingue dall’altro e dall’ambiente: solo in presenza di tale mappa psichica
in grado di contrassegnare i nostri limiti come fattori di distinzione finalizzati a
tracciare un confine con l’altro possiamo percepirci come spazialmente distanti
dagli altri e conseguentemente come individualità uniche e invarianti rispetto al
tempo. I confini non sono in questo senso da intendersi solo come propriamente
fisici, ma anche psichici: ogni stato emotivo percepito come proprio e non attribuito
all’altro permette al sé di conoscere e percepire i propri limiti, di posizionarsi
rispetto all’altro, e di trovare quindi la propria identità.
Anche questa componente del sé sembra avere le caratteristiche di un sentimento di
fondo che scorre sotto il livello della coscienza durante ogni istante della nostra
vita: ogni sensazione percepita come propria permette la ricostruzione continua di
un confine di separazione che permette al sé di auto-delimitarsi e auto-percepirsi
nello spazio come ente autonomo e dotato di caratteristiche personali e differenti
dagli altri. Ogni qualvolta siamo in grado di percepire un contatto prettamente
fisico con l’ambiente, il sé coglie la reazione dell’organismo aggiornando la
rappresentazione dello schema corporeo e ridefinendo i propri confini fisici con lo
spazio circostante; non vi sono ragioni per dubitare che la medesima cosa possa
accadere anche con gli stati affettivi: quando il sé riconosce come proprio uno stato



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emotivo (ad esempio paura, felicità o rabbia), la rappresentazione dei propri confini
si plasma riposizionandosi rispetto agli altri e percependo i propri limiti come
fondamentali nella costituzione di un senso di unità del sé.
Più banalmente, ogni volta che evidenziamo ai nostri occhi o a quelli degli altri
alcune nostre caratteristiche quali possono essere gentilezza o onestà, piuttosto che
pigrizia o avarizia, stiamo mettendo l’accento su componenti caratteriali in grado di
distinguerci dagli altri, e quindi di definire la nostra identità. Un atteggiamento
eccessivamente orientato a mettere in rilievo le caratteristiche dell’altro
(specialmente negative) può essere a questo proposito sottolineato come una
modalità per rinforzare i propri confini laddove essi siano più fragili: se l’altro è
visto come un “non-sé”, le caratteristiche attribuitegli possono portare per
esclusione a definire i propri limiti e quindi a trovare l’identità del “sé”; sembra
questo il meccanismo rintracciabile anche a livello collettivo all’origine delle
accese rivalità fra gruppi, che trovano nella proiezione di caratteristiche negative
all’altro gruppo (o spesso proprio nella costruzione apposita di un “altro” fittizio)
una modalità per definire se stessi e per compattare i propri confini.
Anche qui, la correlazione con le problematiche legate al sé balza all’occhio: senza
entrare nel dettaglio clinico per il quale non ne abbiamo le competenze, è chiaro
anche agli occhi dei non esperti che se parti del sé e aspetti del carattere vengono
vissuti come deficit da annullare e da superare e non come sani limiti in grado di
contraddistinguerci dagli altri e di fornire i necessari confini al sé, ne deriverà non
solo un profondo senso di frustrazione per la mancata accettazione di parti del sé e
un conseguente tentativo di repressione di ciò che viene rifiutato e spesso proiettato
in figure esterne, ma anche una forte sensazione di incompletezza legata alla
percezione di uno scarto fra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere: vedremo poi
come questo può essere correlato, fra le altre cose, a certi comportamenti
d’acquisto.
Il sé, quindi, sia a livello individuale che collettivo, necessita da una parte, nella sua
dimensione temporale di continuità, di una capacità di mantenere viva una
rappresentazione degli oggetti anche se assenti e di una fiducia di base nella
possibilità di poterli ritrovare con le proprie potenzialità, e dall’altra, nella sua
dimensione spaziale necessaria per percepirsi come la stessa unità, di basarsi su una



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rappresentazione dei propri limiti fisici e psichici, esperiti come caratteristiche in
grado di separarlo e distinguerlo dalle altre entità.
Dimensione spaziale e temporale sembrano decisive nel caratterizzare le reazioni
del sé agli stimoli percepiti: persone con un differente senso di continuità del sé
reagiranno diversamente a livello emotivo di fronte a situazioni simili quali, ad
esempio, distacchi affettivi. In quest’ottica, queste componenti di base del sé
sembrano interporsi fra la percezione degli stimoli e la reazione ad essi, giocando
così un ruolo decisivo nell’indirizzare i comportamenti sulla base delle loro
differenti caratteristiche: i dati sensibili percepiti dal soggetto tramite una capacità
di integrare le informazioni propria dei sistemi coscienti costituirebbero delle entità
sensibili che entrerebbero nello stesso tempo in contatto con varie dimensioni del
sé, fra cui quelle spaziali e temporali, le quali, secondo le proprie caratteristiche
sviluppatesi nel tempo, filtrerebbero gli stimoli percepiti permettendo una
rappresentazione psichica differente per ogni individuo e producendo differenti
reazioni.
Essendo meno rilevanti ai fini dell’elaborato, non dedichiamo altrettanta attenzione
alle altre componenti del sé segnalate da Ramachandran: la corporeità, o il senso di
appartenenza al proprio corpo, si delinea come una caratteristica maggiormente
ancorata alla dimensione fisica, e può fare riferimento agli studi di Damasio sul
sentimento di fondo e sulla rappresentazione corporea ai quali abbiamo accennato
prima (Damasio 1993); a proposito dell’azione volontaria, invece, ne abbiamo già
discusso precedentemente, riportando le tesi secondo cui la coscienza e il libero
arbitrio non sarebbero altro che sensazioni fondamentali per percepire se stessi
come entità che agiscono sull’ambiente, e non rappresenterebbero cause vere e
proprie delle azioni (Wegner 2010): la riflessività è probabilmente la caratteristica
che più da vicino riguarda l’uomo e può essere intesa come meta-consapevolezza e
capacità di pensare a sé stessi come esseri pensanti.
Chiarite quelle che potrebbero essere le diverse componenti del sé, non è scopo di
questo elaborato prendere in esame tutte le teorie su come queste possano arrivare a
formarsi sviluppando il senso del sé: sappiamo l’importanza che la continuità e i
confini del sé rivestono per la vita psichica, ma non è nostro obiettivo comprendere
come questi si formino. Ci sembra tuttavia utile chiudere questa prima parte



                                                                                     14
presentando una teoria dello sviluppo psichico e delle caratteristiche del sé che ci
potrà servire in seguito per comprendere alcuni aspetti del comportamento umano:
si tratta del modello della mentalizzazione discusso da Fonagy, Gergely, Jurist e
Target (Fonagy, Gergely, Jurist, Target, 2002). Lontano dall’idea solipsistica di un
sé che fonda la sua realtà psichica indipendentemente dall’ambiente e grazie a
strutture innate16, al centro del lavoro dei quattro psicoanalisti c’è invece l’idea di
uno sviluppo del sé che, sulla scia delle teorie dell’attaccamento proposte da
Bowlby17, è assolutamente imprescindibile dall’interazione con l’altro: in
particolare, il bambino acquisisce una consapevolezza e una capacità di controllo
sui propri stati emotivi (chiamata regolazione affettiva e resa possibile grazie allo
stabilirsi di quelle che vengono chiamate strutture di controllo secondario) solo
grazie <<all’osservazione delle manifestazioni espressivo-affettive degli altri e
associando queste con le situazioni e gli esiti comportamentali che accompagnano
queste espressioni delle emozioni>>18. Il “matching” operato dal bambino fra ciò
che esso sente a livello viscerale e la reazione espressiva del caregiver a questo
sentire prende il nome di bio-feedback sociale e costituisce per gli autori la base
necessaria per passare da uno stato in cui le emozioni possono essere concepite
come automatismi incontrollati a uno in cui il sé diviene cosciente dei suoi stessi
segnali, e quindi di se stesso. Come gli stessi autori sostengono <<la
manifestazione esterna dell’emozione contingente all’attuale stato affettivo del
bambino porta alla sensibilizzazione e al riconoscimento di uno stato interno che
precedentemente non era accessibile>>19.

16
   <<Le evidenze mostrano chiaramente che è ingenuo assumere che il destino genotipico di un
bambino si realizzi in un cervello ermeticamente sigillato, in qualche modo isolato dall’ambiente
sociale nel quale si verifica l’ontogenesi e il solido adattamento che costituisce il principio
organizzativo dell’intero sistema>> Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002), p.95.
17
   Le teorie dell’attaccamento trovano le proprie origini nella celebre opera Attaccamento e Perdita
dello psicologo John Bowlby, il quale fu il primo a considerare il rapporto fra bambino e caregiver
come elemento fondante dello stile affettivo e relazionale che il bambino acquisisce. Secondo
Bowlby, il livello di sensibilità e disponibilità del caregiver nel rispondere alle richieste del bambino
è quindi alla base della formazione di modelli operativi interni che andranno a definire i
comportamenti relazionali futuri. Cfr. Bowlby, J., (1969), Attaccamento e perdita, vol.1:
L’attaccamento alla madre. Tr. it. Boringhieri, Torino 1983.
18
   Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002), p.106.
19
   Ivi, p. 114. Viene fornito anche un esempio in grado di supportare questa tesi tratto da (Dicara,
L.V., (1970), “Learning in the automatic nervous system” In Scientific American, 222, pp. 30-39 e
Miller, N.E., (1978), “Biofeedback and visceral learning”. In Annual review of psychology, 29, pp.
373-404. <<in questo tipo di studi vengono effettuate continue misurazioni dei cambiamenti dello
stato di alcuni stimoli interni a cui il soggetto, inizialmente, non ha un diretto accesso percettivo,


                                                                                                      15
Così, nei primi mesi di vita il bambino sarebbe geneticamente predisposto a
ricercare nell’ambiente eventi contingenti alle proprie azioni, identificando stimoli
esterni come conseguenze di azioni messe in atto e sviluppando una
<<rappresentazione          primaria      del     sé    corporeo       come       oggetto      distinto
dall’ambiente>>20; allo stesso modo, osservando il rispecchiamento affettivo della
propria espressione emotiva modulato dal genitore, il bambino correlerà i propri
stati interni con le manifestazioni espressive del caregiver, cercando poi di
comprendere quali proprie azioni hanno preceduto il rispecchiamento affettivo del
genitore e giungendo così a esercitare consapevolezza e padronanza del proprio
stato emozionale. Più che un unico sé che diviene d’un tratto cosciente, abbiamo in
questo modello diverse parti del sé e stati emotivi che acquistano coscienza di se
stesse tramite il rispecchiamento con l’altro.
Tuttavia, per far sì che questo avvenga, è necessario che il bambino comprenda che
ciò che sente e che viene correlato alla manifestazione del genitore sia uno stato che
appartiene a se stesso e non al caregiver. Detto in altri termini, c’è bisogno di un
processo di categorizzazione degli stimoli (come appartenenti a sé o all’altro)
perché il sé emerga come struttura cosciente: questo, secondo gli autori, avviene
solamente quando il genitore produce una versione esagerata dell’espressione
emotiva <<marcando in modo saliente le proprie manifestazioni di rispecchiamento
affettivo per renderle percettivamente differenziabili dalle espressioni emozionali
autentiche>>21. Se il genitore dovesse produrre delle espressioni coincidenti con
l’espressione emotiva del bambino, quest’ultimo, data la somiglianza fra il proprio
stato e la manifestazione esterna di esso, non coglierebbe la differenza e non
attribuirebbe più ciò che sente al sé, ma all’altro: lo stato emotivo, non essendo
riconosciuto come proprio (perché troppo simile al rispecchiamento del genitore)
verrebbe attribuito alla stessa persona che produce la manifestazione espressiva,
con il risultato che sarebbe impedito lo sviluppo di rappresentazioni secondarie per
quello stesso stato emotivo, con la spiacevole conseguenza di non riuscire né a


come, per esempio, la pressione sanguigna. I cambiamenti dello stato interno vengono rappresentati
da uno stimolo esterno equivalente, direttamente osservabile dal soggetto, il cui stato co-varia con
quello dello stimolo interno. L’esposizione ripetuta a una tale rappresentazione esterna dello stato
interno ha come esito finale la sensibilizzazione a e, in alcuni casi, il controllo sullo stato interno>>
20
   Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002), p.119.
21
   Ivi, p.129.


                                                                                                      16
comprenderlo, né tanto meno a gestirlo. Mettendoci nei panni di un bambino che
non distingue ancora fra un “sé” e un “non-sé”, e che vede la realtà come un “tutto”
unico, non percependo la differenza fra una sensazione e lo sguardo del genitore di
fronte a tale sensazione, non avrò neanche la percezione che si tratti di due entità
distinte: è infatti lo scarto fra sensazione e comportamento rispecchiato che mi
permette di comprendere che c’è qualcosa che si distingue in quel “tutto” unico, e
quel qualcosa è il “sé”. In mancanza di questa consapevolezza, il bambino non
categorizza lo stato emotivo come suo ed è obbligato a introiettare nel sé la
rappresentazione dell’altro: <<il bambino che non è in grado di sviluppare una
rappresentazione intenzionale del sé, probabilmente, incorporerà nell’immagine di
sé la rappresentazione dell’altro, a volte quella mentale, a volte quella fisica.
L’immagine del sé, sarà, dunque “falsa”>>22. Questo, come vedremo, porta a
ricercare l’altro e a esserne dipendenti ogni qualvolta quello stato affettivo viene
percepito: si creano nel sé delle zone di insicurezza dove il soggetto, al posto di
sentire le emozioni proprie, avrà introiettato le reazioni dell’altro a quegli stati
emotivi.
Per ora, sottolineiamo come questa teoria non solo vada incontro alla concezione
del sé come struttura tutt’altro che unitaria ma costituita da diverse parti, ma pone
anche alla base della formazione del sé la categorizzazione e l’attribuzione di stati
emotivi: soltanto quando questo procedimento avviene correttamente, il sé
costituisce dei confini fra stati sentiti come propri e stati riferiti all’altro: ecco
quindi che il procedimento di attribuzione è la base di quella che abbiamo definito
come dimensione spaziale del sé, concernente la consapevolezza dei proprio
confini. Non è possibile percepire confini propri rispetto agli stati affettivi se non vi
è stato un corretto sviluppo del bio-feedback alla base di essi: detto in parole
semplici, così come non è possibile definire i confini di un gruppo se non si è
stabilito quali persone vi appartengono e quali no, non si possono definire i confini
degli stati emotivi e quindi del sé, se non si è stabilito quali stati sono propri e quali
no. Essendo gli stati emotivi fondamentali anche per costruire la propria identità, se
essi non vengono correttamente rispecchiati il bambino rischia di introiettare gli
stati emotivi del genitore: se, ad esempio, di fronte a sensazioni di richieste di

22
     Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002), p. 148.


                                                                                       17
affetto, il bambino osserverà ripetutamente un comportamento evitante del genitore
che non produrrà nessuna espressione marcata della sensazione, lo stato affettivo
non verrà percepito come proprio e verrà introiettata la reazione evitante del
caregiver. La conseguenza è che il bambino non acquisirà consapevolezza della
propria richiesta d’affetto e non svilupperà in corrispondenza di questo stato
emotivo i giusti confini fra il sé e l’altro, reprimendo il sentimento e attivando al
suo posto la rappresentazione evitante del genitore, che gli imporrà di tenere a sua
volta un comportamento schivo: il soggetto, nel corso della sua vita, è probabile che
faccia di tutto per evitare l’identità di persona in cerca di affetto mostrando invece il
lato evitante corrispondente al falso-sé.
Questo ci mostra che le caratteristiche del sé che permangono nonostante il
trascorrere del tempo e che sono alla base della sensazione di unità e dei propri
confini possono corrispondere a quelli stati emotivi non rispecchiati e al “falso-sé”
che viene introiettato al posto di essi: il soggetto, al posto di percepire i propri limiti
come caratteristiche che permettono di distinguerlo dagli altri, se in corrispondenza
di essi non ha sviluppato una linea di confine fra il sé e l’altro data dall’attribuzione
di ciò che lui sente e ciò che sentono gli altri, rischia di viverli come handicap da
reprimere e confini da superare provando un senso di incompletezza del sé da
colmare attraverso l’identificazione con la rappresentazione di stati della mente
altrui.
Se il processo di attribuzione è decisivo per la coscienza dei propri confini e dei
propri limiti, esso risulta importante anche nella dimensione di continuità del sé.
Abbiamo già visto precedentemente come questa nozione sia strettamente correlata
al concetto di cambiamento: un buon senso di continuità del sé permette infatti di
vivere i cambiamenti non traumaticamente, ma con la fiducia nelle proprie
potenzialità future. Il modello di Fonagy getta ulteriore luce sull’argomento: se
infatti, di fronte alla novità che per sua intrinseca natura arreca una sensazione
inziale di paura, il bambino osserva un’espressione marcata del genitore che
“gioca” sullo spavento minimizzandolo, il bambino stesso noterà una differenza fra
la paura che sente e la manifestazione espressiva del genitore, e comprenderà lo
stato emotivo interiorizzandolo come proprio; se invece, nella medesima situazione,
il bambino vedrà un’espressione altrettanto spaventata di fronte alla novità, non



                                                                                        18
coglierà lo scarto fra ciò che prova e ciò che vede e attribuirà la paura al genitore e
non a se stesso.
Ciò porterà a una mancata costruzione di confini fra il sé e l’altro in corrispondenza
dello stato emotivo di paura di fronte a una novità: ne segue che in futuro, in
presenza di contesti simili come i cambiamenti, il soggetto riproverà la paura del
genitore ricercando allarme negli occhi degli altri, non riuscendo a comprendere se
l’origine del sentimento sia da ricercarsi in sé o negli altri, e non riuscendo così a
esercitare un controllo su di se. È probabile, quindi, che la sensazione di continuità
del sé possa basarsi soprattutto sulla regolazione affettiva di stati emotivi
riguardanti i cambiamenti, trovando maggiori lacune proprio negli individui in cui
questi stati affettivi non trovino rappresentazioni di secondo ordine.
Abbiamo quindi visto approfonditamente come l’errata attribuzione all’altro di uno
stato emotivo primario appartenente al sé possa essere in grado di produrre nel sé,
in corrispondenza di stati affettivi non correttamente rispecchiati “zone di
insicurezza”, prive di confini fra il sé e l’altro; queste parti del sé non rispecchiate
sarebbero alla base di problematiche legate sia alla dimensione temporale di
continuità, alterando la fiducia del soggetto nell’affrontare i cambiamenti cui è
soggetto il sé, sia alla dimensione spaziale della consapevolezza della propria
unicità e dei propri confini, non permettendo al soggetto di percepire alcuni suoi
stati e alcune sue caratteristiche come propri, ma favorendo al contrario la
discrepanza fra ciò che si è e le aspettative e gli stati emotivi propri dell’altro
introiettati nei propri confini.
Concludendo, la categorizzazione è quindi vista come quel processo fondativo del
sé individuale e collettivo in grado di sviluppare comprensione cosciente dei propri
comportamenti e dal quale dipendono sia il senso di continuità, sia la percezione dei
propri confini23. Il punto di vista dal quale partiamo è quindi quello di un sé



23
  Si veda a tal proposito anche Altman: <<se posso controllare quello che sono io da quello che
non sono io, se posso definire cosa è me e cosa non lo è, e se posso osservare I limiti e lo scopo del
mio controllo, allora ho dato un grande passo verso la comprensione e la definizione di chi sono.>>
Altman, I., (1975), The environmental and social behavior: Privacy, personal space, territory and
crowding. Wadsworth, New York. Riguardo all’importanza del processo di categorizzazione per la
costruzione di limiti e di senso di continuità del sé collettivo: <<il concetto di identità risponde alla
necessità di individuare e comunicare gli aspetti particolarmente caratteristici e specifici di
un’organizzazione, l’insieme di quegli elementi che la rendono distinguibile dalle altre


                                                                                                      19
corporeo e frammentato, identificabile più con una serie di diversi fenomeni
mentali che ne sono alla base che come concetto unitario; lo studio dei
comportamenti di consumo che intendiamo svolgere sarà quindi basato su questa
concezione, ed essi verranno conseguentemente esaminati mettendoli in relazione
non con le attività di un sé unitario, ma con l’attività di differenti funzioni del sé.




organizzazioni e che si manifestano con una certa continuità temporale>> Olivero, N., Russo, V.,
(2009), p. 447.


                                                                                             20
2. LA RELAZIONE FRA IL Sé E L’OGGETTO DI CONSUMO.


Chiarito da quale punto di vista intendiamo definire il concetto del sé, occupiamoci
ora di approfondire la relazione che le sue diverse componenti e funzioni
precedentemente descritte intrattengono con i comportamenti di consumo: obiettivo
principale di questo capitolo è in particolare analizzare il ruolo simbolico rivestito
dagli oggetti e la loro importanza per l’attività psichica, cercando di comprendere al
meglio le basi della relazione soggetto-oggetto che risulta essere di estrema
rilevanza in un’epoca contemporanea che vede nel comportamento di consumo una
delle sue principali caratteristiche.
La relazione fra soggetto e oggetto viene solitamente presa in considerazione dalle
neuroscienze e dalla filosofia della mente facendo riferimento alla dimensione
puramente fisica, indagando cioè come la rappresentazione dei confini corporei
possa variare in relazione all’interazione con gli oggetti: emblematico a questo
proposito è l’articolo apparso nel 1996 sulla rivista Neuroreport24, nel quale il
neuroscienziato Atsushi Iriki e il suo team, durante uno studio sperimentale
condotto sulle scimmie, hanno abilmente dimostrato come un gruppo di neuroni
della corteccia parietale posteriore dell’animale si attivava in corrispondenza non
solo del movimento della mano della scimmia, mettendo in atto così una funzione
di codificazione dello spazio circostante che già si sapeva appartenere a questi
neuroni, ma anche quando la scimmia cercava di raggiungere del cibo tramite un
rastrello, il quale, modificando la rappresentazione dello spazio raggiungibile
circostante, veniva quindi nel vero senso della parola incorporato nel campo
recettivo visivo di questi neuroni, andando così ad ampliare i confini di ciò che
veniva percepito come appartenente al sé.
L’espansione dei confini della rappresentazione corporea era in questo caso
strettamente legata al momento in cui lo strumento veniva usato: una volta messo
da parte il rastrello, i campi recettivi tornavano alla loro estensione usuale
delimitando i reali confini corporei (Berlucchi 1997, Rizzolatti, Sinigaglia 2006).



24
 Iriki, A., Tanaka, M., Iwamura, Y. (1996), “Coding of modified body schema during tool use by
macaque postcentral neurones”. In Neuroreport, 7, pp. 2325-2330.


                                                                                                 21
Ciò che in questo caso viene chiamato body schema, ossia la rappresentazione
mentale del proprio corpo e dei suoi limiti spaziali, è quindi una mappa corporea
sempre presente in grado di plasmarsi a seconda delle interazioni dell’organismo
con l’ambiente e di estendersi includendo nei propri confini oggetti che, pur non
appartenenti al corpo stesso, vengono percepiti come tali se sono in grado di
aumentare il raggio di azioni potenziali del soggetto modellando la sua possibile
attività: nel momento in cui il rastrello permetteva alla scimmia di mettere in atto
una possibile azione quale raggiungere una quantità lontana di cibo, esso veniva
infatti introiettato nella rappresentazione dei confini del corpo della scimmia stessa.
Il classico esempio che viene fatto a tal proposito in riferimento all’uomo è quello
del ciclista, il cui body schema arriverebbe a includere la bicicletta durante l’uso
che di essa viene fatto (Berlucchi, Agliotti 1997). Allo stesso modo è probabile che
chiunque, dopo aver preso confidenza con la propria macchina, sperimenterà una
sensazione di sicurezza nel calcolare automaticamente gli spazi in cui essa può
muoversi e entro i quali, ad esempio, può essere parcheggiata: la rappresentazione
corporea è estesa in quei momenti fino ai confini della macchina stessa, e i nostri
neuroni si attivano come segnali in grado di codificare lo spazio circostante proprio
come se si trattasse del nostro corpo.
Scoperte e ipotesi di questo tipo ci aiutano a prendere consapevolezza della
malleabilità e della flessibilità dei confini del body schema, concetto che appare
assimilabile a quella rappresentazione corporea che Damasio aveva identificato
come sentimento di fondo sempre presente (Damasio 1993) e Ramachandran come
componente centrale del sé chiamata corporeità (Ramachandran 2002). La
sensazione di proprietà del proprio corpo e dei suoi confini è una delle
caratteristiche fondamentali del sé, e il corpo stesso, fra tutte le entità che siamo in
grado di percepire, è ciò che viene maggiormente identificato come “mio”, se non,
addirittura, come “me”25 (Belk 1988, Prelinger 1959).

25
   In una ricerca del 1959 condotta dallo psicologo Prelinger, veniva chiesto a dei soggetti di
assegnare a 160 frasi, in una scala da 0 a 3, un punteggio corrispondente al grado in cui queste frasi
contenevano un elemento percepito come appartenente a sé, come “mio”. Le frasi erano raggruppate
in 8 categorie diverse. Ne risultò che, nell’ordine, il grado di correlazione con il sé era sentito più
altro in corrispondenza di parti del corpo (2,98), processi psicologici come la coscienza (2,46),
caratteristiche e attributi personali (2,22), oggetti posseduti (1,57), idee astratte (1,36), altre persone
(1,10), oggetti dell’ambiente circostante (0,64), oggetti ambientali lontani (0,19). Prelinger, E.
(1959) “Extension and Structure of the Self” in Journal of Psychology, 47, pp. 13-23.


                                                                                                        22
Se, come sostengono diverse scuole di pensiero psicoanalitico, il bambino nasce
incapace di distinguere il sé dall’ambiente circostante, è con il passare del tempo e
con l’acquisizione della consapevolezza di esercitare un certo grado di controllo su
alcune parti del proprio organismo che si incomincia a creare nella sua mente uno
schema della propria dimensione corporea costituito dalla rappresentazione neurale
di tutte le sue modificazioni (Belk 1988).
Abbiamo precedentemente visto che però, nonostante l’importanza che la
dimensione prettamente corporea riveste per la vita psichica, vi sono altre
componenti che agiscono come sentimenti di fondo e mappe mentali necessarie per
il sé: in particolare, per i nostri obiettivi, è importante far riferimento sia a quella
che abbiamo descritto come la dimensione spaziale del sé, ossia la sensazione di
unicità e unitarietà fornita dalla consapevolezza di una differenza psichica fra sé e
gli altri e da una rappresentazione mentale dei confini esistenti fra le proprie
caratteristiche e quelle altrui, sia alla dimensione di continuità, ossia una mappa
mentale del proprio sviluppo temporale.
Alla pari della flessibilità dello schema corporeo, possiamo infatti ipotizzare che
anche la percezione dei propri confini psichici e temporali sia ugualmente
malleabile e arrivi a incorporare, oltre agli stati emotivi degli altri come visto nel
modello di Fonagy, anche ciò che gli oggetti rappresentano, facendo sì che essi
vengano percepiti come vere e proprie parti del sé; un oggetto, così come nella sua
dimensione meramente fisica può venir percepito come parte integrante del corpo
qualora modifichi il rapporto del soggetto con lo spazio e il suo raggio d’azioni
potenziali, anche nella sua dimensione simbolica potrebbe essere introiettato nella
rappresentazione dei propri limiti e confini e percepito come parte del sé qualora si
presenti agli occhi del soggetto come un aggregato di significati in grado o di
esprimere alcune sue caratteristiche, andando così a rimodellare le differenze fra
esso e le altre individualità, oppure di fornirgli la concreta sensazione di un proprio
sviluppo temporale.
Per comprendere come possa avvenire questo processo, rivolgiamoci agli studi
filosofici e psicologici che si sono occupati di chiarire la relazione fra gli individui
e gli oggetti che essi possiedono: l’idea sopra esposta che alcuni oggetti siano
percepiti come vere e proprie parti del sé affonda le sue radici nelle teorie dello



                                                                                     23
psicologo William James, il quale già nel 1890 riconduceva il concetto del sé a un
vasto insieme costituito da tutto ciò che la persona ritiene di possedere, in un ampio
agglomerato che va dai beni più concreti fino ai propri ideali e alle proprie
caratteristiche, passando per la dimensione corporea26: gli oggetti, alla pari del
corpo e di tutto ciò che viene definito dal soggetto come “mio”, diventano quindi
fondamentali nella definizione di ciò che è “me”. Non sorprende, in quest’ottica,
che James fu tra i primi a mettere in dubbio la sottile differenza esistente fra “me” e
“mine”, collocando gli oggetti in nostro possesso in un continuum decisivo per la
definizione della propria personalità: vuoto di sostanzialità, il sé si delinea ora come
una struttura plastica in grado di modificare la sua essenza in base alla provvisoria
conformazione dei propri confini27.
Sulla stessa scia di pensiero, Jean Paul Sartre, nel suo più importante lavoro
“Essere e Nulla”, definisce il senso del possesso come la base necessaria del senso
del sé: la motivazione prioritaria che spinge l’uomo a desiderare di possedere
qualcosa è infatti per il filosofo francese la volontà e la necessità di ampliare il
proprio sé, trovando riscontri della propria dimensione identitaria nell’osservazione
e nel tentativo di appropriazione di un’oggettualità esterna. Per Sartre, possiamo
infatti sapere chi siamo solo osservando ciò che abbiamo: l’avere è quindi
condizione di possibilità dell’essere, ed è solo tramite l’atto di possesso che il
soggetto può trovare e sentire l’essenza del proprio sé.
Approfondendo l’analisi fra individualità e oggetto, Sartre individua a questo
proposito tre principali modalità attraverso cui si esplica il fondamentale atto di
appropriazione di un’entità esterna: la prima è il gesto del controllo, tramite il quale
l’uomo arriva a percepire come proprio un determinato oggetto sul quale può
esercitare un certo grado di potere (uno scalatore può ad esempio sentire come
“sua” una montagna dopo aver raggiunto la vetta ed aver quindi esercitato un
controllo su tutto il panorama). La seconda modalità è invece la creazione, atto che
permette all’uomo di definire come proprio un oggetto da lui stesso creato: si presti
particolare attenzione al fatto che con il termine oggetto non si fa in questo caso

26
   Cfr. <<a man’s self is the sum total of all that he can call his, not only his body and his psychic
poker, but his clothes and his house, his wife and his children, his ancestors and friends, his
reputation and works, his lands, and yacht and bank-account>> James, W., (1980)
27
   Cfr. “But it is clear that between what a man calls me and what he simply calls mine the line is
difficult to draw” James, W., (1890).


                                                                                                   24
riferimento alla sola dimensione tangibile e concreta, e quindi esclusivamente a
beni prodotti manualmente dal soggetto, ma ovviamente anche alle entità astratte, ai
sentimenti, piuttosto che alle azioni e ai gesti messi in atto, o per così dire “creati”,
dal soggetto stesso. Anche l’atto conoscitivo dell’uomo è per Sartre un tentativo di
appropriazione di qualcosa di esterno e sconosciuto dal sé: conoscendo qualcosa,
quel dato qualcosa viene infatti introiettato nel sé e diventa una propria conoscenza,
permettendo all’individuo di ridefinire i confini della propria identità28. Ed è
proprio l’atto del conoscere che, in virtù di questa sua natura, viene identificato dal
filosofo come la terza modalità di appropriazione.
Traducendo il tutto nel nostro linguaggio, controllare, creare e conoscere sono
quindi per Sartre non solo tre differenti modi attraverso cui l’individuo entra in
possesso degli oggetti fisici e non, ma anche tre atti tramite i quali il soggetto,
rioperando un processo di categorizzazione, introietta nella sua identità nuovi
elementi che gli permettono di trovare e costruire il proprio sé, differenziandolo
dagli altri (Sartre 1943, Belk 1988): l’oggetto è qui nuovamente visto non come
un’entità percepibile che rimane esterna ed estranea al sé, in uno spazio metafisico
indefinito e irraggiungibile, ma anzi come una costellazione di potenziali azioni e
significati che attraverso l’atto di appropriazione vengono incorporati nella propria
identità esprimendo così una parte di essa.
È in questa direzione che va anche il lavoro del filosofo americano Russel Belk, il
quale per primo fa riferimento esplicito al concetto di sé esteso, identificando con
questa nozione l’insieme di oggetti, luoghi, esperienze, idee e persone che vengono
percepiti dall’individuo come parti della propria personalità. Accanto alla struttura
di base del sé costituita da un nucleo contenente le principali caratteristiche
dell’individualità del soggetto, Belk postula infatti l’esistenza di una parte estesa e
flessibile del sé in grado di inglobare e fare propria la rappresentazione di altre
entità sostanzialmente differenti dall’individuo stesso (Belk 1988).
Questa concettualizzazione, nata sulla scia del lavoro di Sartre, è stata senza dubbio
importante poiché ha introdotto nell’ambito degli studi sui consumi alcune
argomentazioni filosofiche e psicologiche di base che hanno permesso di andare


28
  Cfr. “il desiderio di conoscere, per quanto disinteressato possa apparire, è un rapporto di
appropriazione. Il conoscere è una delle forme che può prendere l’avere” Sartre, J., (1943)


                                                                                          25
oltre una ricerca sui comportamenti d’acquisto prettamente ancorata a una
dimensione      oggettuale   concretistica,   estendendo   invece   il   dominio    di
incorporazione degli oggetti nel sé anche a una dimensione astratta riguardante
luoghi, idee e altre persone; l’immagine mentale che noi produciamo di un oggetto
non è infatti da questo punto di vista ontologicamente differente da quella che noi ci
formiamo di un’altra persona o di un'altra entità non oggettuale: tutto ciò che
percepiamo diventa nella storia della nostra mente una riproduzione ugualmente
manipolabile e soggetta ai medesimi processi cognitivi e emozionali. In questo
modo, persone, luoghi e oggetti sono messi sullo stesso piano dal punto di vista di
ciò che essi rappresentano per noi: tutto può diventare parte del nostro sé esteso e
fungere da immagine mentale in grado di essere incorporata e di rappresentare una
parte del sé.
Chiarito il ruolo dell’atto d’incorporazione di un oggetto all’interno del sé, si
comincia ora a delineare la motivazione che sta dietro a molti comportamenti di
consumo, e non solo: circondarsi di oggetti includendoli nella rappresentazione dei
propri confini significa così permettere ad alcune parti del sé di esprimersi e di
trovare una loro attualizzazione nella vita quotidiana (Balconi, M., Antonietti, A.,
2009). Allo stesso modo, tenendo conto del paritetico status ontologico attribuibile
a entità astratte e concrete, possiamo affermare che venerare una persona, votare un
politico, piuttosto che affidarsi a un brand, diventano tutte modalità attraverso cui
l’individuo esprime, sia all’interno di una rete di rapporti intersoggettivi, sia a se
stesso, una determinata parte e componente del sé che altrimenti, non trovando
nell’oggetto (concreto o meno) la sua rappresentazione sensibile e la sua immagine
mentale in grado di esplicitarlo, rimarrebbe inespressa come un personaggio
teatrale privato di un attore in grado di impersonificarlo: ogni stato affettivo è
infatti nella natura umana un contenuto che ha bisogno della sua forma, ossia di
un’immagine mentale in grado di rappresentarlo.
A titolo di esempio, il desiderio di manifestare una propria carica aggressiva può
trovare così la sua estrinsecazione in personaggi e oggetti che sono associati a
questo tipo di comportamenti forti e arroganti, così come il desiderio di esibire una
parte del sé autonoma e prevaricante può individuare in figure carismatiche e
potenti la sua rappresentazione sensibile, trasformando poi l’unione fra contenuto



                                                                                   26
emozionale e rappresentazione oggettuale in un atto d’acquisto o di adesione a
modelli e oggetti inerenti a questi stati affettivi.
Si tratta quindi di una concezione rappresentazionale e profondamente simbolica
dell’oggetto di consumo, da intendersi in questo caso non solo come un qualcosa di
meramente acquistabile e riferito alla sola dimensione commerciale, ma a tutto ciò
che intercetta i desideri dei soggetti e che viene percepito da essi come una parte di
sé; in quest’epoca in cui è indubitabilmente vero che tutto si vende e tutto si
consuma, la venerazione e il desiderio di possesso non è solamente demandabile
agli oggetti, ma anche, e soprattutto, ad altre persone o ad esempio a brand.
Qualsiasi immagine mentale che può servire al soggetto come forma
rappresentativa in cui un contenuto e un sentire del sé trovano la loro
oggettificazione e attualizzazione viene così incorporata nei propri confini psichici
e percepita come vera e propria parte di sé. Il momento del consumo e più in
generale di adesione a ideali, persone e gruppi è diventato quindi nella realtà
moderna un fondamentale momento di espressione del sé per mezzo del quale
l’individuo può trovare forme simboliche in grado esprimere diverse componenti
della sua personalità, definendola e rimodellandola in continuazione, e permettendo
una sua manifestazione agli altri.
Lo studio dei consumi sembra avere acquisito la consapevolezza di una funzione
dell’oggetto che trascende il valore funzionale del prodotto in sé a partire dai lavori
sociologici di Douglas e Isherwood, fra i primi ad aver indicato la centralità del
processo di significazione operato dai consumatori all’interno di una teoria volta a
comprendere i comportamenti d’acquisto (Douglas, M., Isherwood, B., 1979). Tale
processo rappresenta per ogni individuo una grande opportunità di costruire e
cambiare la propria identità secondo le proprie scelte consumistiche, fornendo nello
stesso tempo uno specchio di ciò che si vorrebbe essere anche agli altri: come
sintetizzato recentemente da Olivero e Russo <<si può sostenere che i significati
condivisi socialmente orientano il consumatore verso un dato prodotto, il quale
successivamente mette in atto un’operazione di personalizzazione, di attribuzione di
significati legati alla relazione che vi instaura, come se divenissero un territorio
esteso per la rappresentazione del self>>.29.

29
     Oliviero, N., Russo, D., (2009)


                                                                                    27
Il ruolo dell’oggetto nella definizione della personalità viene ribadito anche dal
filosofo comportamentista Mead e da Cooley, i quali, riferendosi all’insieme di
teorie già esposte nel capitolo precedente, rievocano il ruolo centrale del processo
di rispecchiamento e di osservazione dei comportamenti degli altri per la
formazione del sé, e inquadrano in quest’ottica l’acquisto come un ritorno a questa
dimensione, grazie alla quale l’opinione espressa dagli altri su di sé, e sul bene
posseduto, funge da punto di partenza per la costituzione di una propria identità;
non solo, quindi, il processo di scelta diventa una modalità di comunicazione
mediante la quale trasmettere agli altri un messaggio e una componente del sé, ma
riveste anche una grande importanza nell’auto-costruzione di un’identità (Balconi,
M., Antonietti, A., 2009).
Naturalmente questo ruolo degli oggetti d’acquisto non è sfuggito a chi è stato
chiamato alla gestione di un brand, dove con questo termine, come già ricordato,
non intendiamo designare solamente la mera dimensione oggettuale, ma anche
qualsiasi prodotto “vendibile”, persone e ideali compresi: ad ogni “oggetto” da
porre sul mercato viene infatti associata una personalità, così da favorire un
processo di identificazione da parte dei soggetti, i quali cercano nel momento del
consumo un’opportunità per narrare parti del sé inespresse, allargando i confini del
sé e percependo come appartenenti a se stessi tutte le entità in grado di fornire un
vestito concettuale a un corpo emotivo di base30.
Un rapido sguardo alle pubblicità ci mostra infatti come <<Barilla acquista un
carattere prevalentemente affettivo e protettivo, Tim diventa amicale e affiliativa,
Vodafone dinamica e coraggiosa, Dior altezzosa e aristocratica […] La preferenza
accordata a una marca piuttosto che all’altra assume il valore di simbolo, di
stemma, con cui il consumatore esprime il suo personale stile di vita, l’adesione a
determinati valori>> (Balconi, M., Antonietti, A., 2009). Non sorprende che in
questo contesto di personalizzazione dei brand31, un ambito che riscuote sempre

30
   Riguardo all’importante concetto di identificazione, processo alla base dell’introiezione di un
oggetto nei propri confini, il contributo principale deriva dalla psicoanalisi: <<Nella teoria
psicoanalitica, infatti, questi processi sono strutturanti l’identità dei soggetti, spostando i confini
tra il sé e realtà in modo tale che in ogni esperienza transizionale l’oggetto di identificazione
divenga parte di sé (introiezione), così come parti di noi divengano elementi dell’oggetto
(proiezione)>> Balconi, M., Antonietti, A., (2009).
31
   Gli studi di Aaker sulla brand personality, ovvero l’antropomorfizzazione del brand hanno
condotto all’individuazione di 5 caratteristiche di personalità, anche dette Big Five, riconoscibili, in


                                                                                                     28
grande successo sia quello dell’abbigliamento, tramite il quale la natura del
comportamento d’acquisto esprime tutto il suo potenziale: il vestito diventa infatti il
paradigma per eccellenza della possibilità degli individui di indossare e prendere in
prestito un’identità, trasformandola in un qualcosa di prettamente fisico e
facilmente comunicabile agli altri. I capi d’abbigliamento, così, non solo possono
essere incorporati nel proprio body schema ampliando i confini della propria
rappresentazione corporea (Berlucchi, G., Agliotti, S., 1997), ma possono anche
essere inglobati nella dimensione spaziale del sé contenente le proprie
caratteristiche, dando forma alle proprie componenti identitarie e venendo di
conseguenza percepiti come vere e proprie parti di del sé.
Chiarito l’importante ruolo che l’oggetto d’acquisto riveste nel processo di
espressione di parti del sé che l’individuo intende mostrare, occupiamoci invece ora
di comprendere le modalità tramite cui ciò che viene incorporato nel proprio sé
esteso possa contribuire a proteggere alcune zone del sé e a nascondere certi stati
affettivi per mezzo dell’identificazione in oggettualità esterne.
Lo studio della relazione fra il significato simbolico attribuito agli oggetti e le
mancanze percepite nella rappresentazione del sé trova la sua origine negli studi di
Wicklund e Gollwitzer, che nel loro volume “Self-completion theory” teorizzano
l’esistenza di un processo di completamento simbolico del sé, che, inserito in un
contesto intersoggettivo, viene operato dagli individui come tentativo di sopperire
al mancato raggiungimento di un obiettivo, ritenuto fondamentale per la propria
immagine, attraverso un oggetto che sia socialmente ritenuto rappresentativo del
medesimo scopo. Gli individui, secondo questa teoria, sperimenterebbero un senso
di completezza quando, di fronte alla percezione di un divario psichico fra il sé
attuale, ossia ciò che essi pensano di essere, e il sé ideale, ossia ciò che essi
vorrebbero essere, riescono, tramite l’esibizione di “etichette” e l’appropriazione di
oggetti, a ridurre questo gap agli occhi degli altri. Le oggettualità esterne, in virtù
della loro natura rappresentazionale, fungono in questo caso da entità in grado di
colmare un vuoto interiore.




misure diverse, in tutte le marche: sincerità, eccitazione, competenza, sofisticatezza e rudezza. Cfr.
Olivero, N., Russo, V., (2009), pp. 209-210.


                                                                                                   29
Mettere in atto inconsciamente questo tipo di strategia compensatoria tesa a
nascondere preesistenti e durature mancanze del sé implica per gli autori
l’instaurazione di rapporti interpersonali non autentici, ma piuttosto improntati
solamente sull’esasperato bisogno del soggetto di essere visto e riconosciuto dagli
altri come individualità priva di imperfezioni e di quella stessa mancanza, vissuta
dal sé come limite. L’altro perde in questi casi il suo carattere di persona con cui
empatizzare, e diventa un mero specchio attraverso il quale controllare l’efficacia di
un processo di occultazione del sé reale e di sovrapposizione di una maschera
rappresentante il sé ideale (Wicklund, R., Gollwitzer, P., 1982). Esibire, in questo
senso, significa nascondere: la vergogna di mostrare le proprie mancanze viene
cancellata da un oggetto, un concetto, o una persona in grado di esprimere un
significato opposto alla propria carenza, e vicino invece a ciò che si vorrebbe
essere.
Tornando all’argomentazione di Russel Belk, è probabilmente a questo principio
che il filosofo fa riferimento quando ipotizza una relazione di proporzionalità
inversa fra la solidità del nucleo di base del sé e la necessità di acquisire entità
esterne da introiettare nel sé esteso: maggiore è il grado in cui un’individualità
poggia su basi certe e ancorate alla propria personalità, minore dovrebbe essere il
suo bisogno di fare affidamento a oggetti e personalità esterne al fine di definire e
proteggere se stessa; al contrario, una minore solidità di base e una minore
consapevolezza dei confini della propria identità sarebbero causa di un
atteggiamento del sé orientato all’incorporazione di oggettualità esterne in grado di
sopperire alle mancanze di base (Belk 1988)32: potremmo parafrasare la questione
con un semplice “più siamo vuoti dentro, più tenteremo di essere ricchi fuori”. In
questa nuova ottica di pensiero, molti comportamenti d’acquisto troverebbero il
loro significato in un estremo tentativo del sé di trovare i propri confini non
precedentemente definiti sulla base di un sano sviluppo della personalità.
Facendo riferimento al lavoro di Fonagy esplicitato nel primo capitolo, possiamo
comprendere che ciò che viene definito “sano sviluppo del sé” è un processo
fondato su una corretta attribuzione di stati affettivi operata tramite il meccanismo

32
  Cfr. “we may speculate that the stronger the individual’s unextended or core self, the less the
need to acquire, save, and care for a number of possessions forming a part of the extended self”.
Belk, R. (1988), p. 159.


                                                                                              30
di rispecchiamento: categorizzare uno stato affettivo come appartenente al sé o
all’altro è infatti ciò che sta alla base della costituzione di una mappa psichica che
rappresenti i confini del sé e funga da sentimento di base in grado di fornire al sé la
necessaria consapevolezza dell’estensione della propria identità di base, delle sue
caratteristiche, dei suoi limiti, del suo sviluppo temporale e di una precisa
distinzione fra sé e altro. In mancanza di questo processo abbiamo visto che il sé
non acquisisce la corretta percezione dei propri confini e introietta lo stato mentale
dell’altro portando alla costituzione di quello che Fonagy, con riferimento a
Winnicott, chiama non a caso il falso sé33, una personalità basata sulla negazione di
questi stessi stati mentali (Fonagy, Gergely, Jurist, Target, 2002).
Possiamo ora capire che questo falso sé, che prende forma nelle zone di insicurezza
laddove manca una percezione dei propri confini e che come detto da Fonagy
<<prende in prestito ideali>> per colmare il proprio vuoto, coincide con la fragilità
del nucleo di base del sé e con il conseguente tentativo di ricorrere ad entità esterne
per proteggersi a cui fa riferimento Belk (Belk 1988). Il concetto di base è infatti il
medesimo: un sé poco sicuro dei propri confini e delle proprie caratteristiche
ricorrerà a oggetti, personalità e ideali esterni che gli permettano di trovare i suoi
stessi limiti, mascherando così il vuoto di personalità sottostante.
Ritornando all’esempio trattato nel primo capitolo, possiamo, a scopo meramente
didattico e mettendo fra parentesi per un momento la complessità di fattori che
concorrono alla formazione della personalità, ipotizzare che un soggetto il quale,
causa il reiterato comportamento evitante del genitore, non acquisisca
consapevolezza della propria richiesta d’affetto e tenda quindi a reprimere quel
sentimento imponendo a se stesso di assumere invece un comportamento a sua
volta evitante, dovrebbe fare di tutto per evitare l’identità di persona in cerca di
affetto: è probabile dunque che, per mascherare lo stato affettivo e il vuoto di
personalità sottostante ad esso, acquisirà ideali di forza e aggressività, orienterà i



33
   Cfr. “un sé il cui stato costitutivo no ha ottenuto riconoscimento è un sé vuoto. Il vuoto riflette
l’attivazione di una rappresentazione secondaria che manca delle connessioni corrispondenti con
l’attivazione affettiva all’interno del sé costitutivo. L’esperienza emozionale sarà priva di significato,
e l’individuo potrà ricercare altre figure potenti con cui fondersi, o ricercare l’induzione per causa
esterna (attraverso droghe) di esperienze fisiche di attivazione per riempire il vuoto con una forza
o ideali presi in prestito.” (Fonagy, Gergely, Jurist, Target, 2002), pp. 146-147.


                                                                                                       31
suoi consumi e i suoi gusti in tale direzione, e prenderà come modelli di
identificazione personalità che esibiscano questi tipi di comportamento.
Una zona di insicurezza del sé contenente uno stato affettivo non compreso diventa
dunque terreno fertile per la ricerca di oggettualità esterne che, introiettate nel sé,
definiscano la personalità. Accade così che l’acquisto esasperato di oggetti, la cieca
adorazione di una personalità e l’espressione esacerbata di estremi ideali possano
rappresentare in questo senso modalità tramite cui il sé nasconde a se stesso e agli
altri un’insicurezza sottostante; essendo quest’area di insicurezza, come abbiamo
visto, territorio in cui non vi è confine fra un proprio sentire e quello di un altro, e
in cui regna sovrana la confusione, un qualcosa di esterno viene mentalmente
incorporato e sentito come proprio con la speranza che possa aiutare il sé a
ricostruire il proprio confine con l’altro definendo così la propria identità:
comprando un oggetto, piuttosto che attraverso l’identificazione con qualcuno, ho
infatti l’opportunità di ribadire una personalità, di esprimere una parte di me, e in
poche parole, di definirmi e posizionarmi rispetto agli altri. Maggiore sarà la mia
insicurezza, maggiore sarà la necessità di ricorrere a queste entità esterne per
definirmi.
Il riferimento a dimensioni oggettuali utilizzate per mascherare aspetti del sé viene
identificata in psicoanalisi con il concetto di strategia feticista: facendo riferimento
in questo ambito al brillante saggio scritto dalla psicoterapeuta americana Louise J.
Kaplan e intitolato “falsi idoli”, con il termine feticismo non si fa riferimento a un
comportamento attinente alla sola sfera sessuale, come si è soliti pensare, ma più in
generale ad un concetto che rimanda ad un qualsiasi atteggiamento di venerazione
per certi oggetti: il feticcio, in quest’ottica, diventa quindi la sintesi di tutto ciò che
fino ad ora abbiamo identificato come dimensione oggettuale incorporata nei
confini del sé per esprimere o mascherare parti del sé. Per la Kaplan, in particolare,
la strategia feticista è quel processo messo in atto dal soggetto per trasformare tutto
ciò che è immateriale, ambiguo e per sua natura incontrollabile, come possono
essere quelle emozioni e quegli stati affettivi non compresi, in qualcosa di
materiale, conosciuto, manipolabile e distante da sé. Nel feticismo sessuale, ad
esempio, la forza pulsionale dell’erotismo, ambigua e mai compresa fino in fondo,
costituisce un’ombra pericolosa che viene esorcizzata e mascherata dalla presenza



                                                                                        32
di un oggetto su cui concentrare le proprie attenzioni e i propri desideri: proiettando
infatti su un’entità esterna un qualsiasi sentimento imprevedibile e pericoloso, il
soggetto allontana l’ignoto da sé, prendendone le distanze e sperimentando una
sensazione di controllo su di esso. Naturalmente, questo atteggiamento inconscio
pervade molti istanti della nostra quotidianità; come ci ricorda la Kaplan, <<la
nostra vita quotidiana è basata sulle culture del feticismo che sostituiscono i valori
spirituali con oggetti materiali che catturano la nostra attenzione con il loro
scintillio in modo da nascondere più agevolmente il loro contenuto traumatico>>34.
La smodata venerazione per oggetti, ma anche per persone, ideali e concetti che
vengono, in termini di marketing, brandizzati, e cioè trasformati in icone, è in
buona parte rimandabile a questo bisogno di coprire un sentimento sottostante
vissuto come imprevedibile e inquietante perché, come direbbe Fonagy, non
mentalizzato e non rispecchiato; senza una capacità riflessiva di comprendere i
propri stati emotivi l’individuo è infatti facilmente portato a percepirli come ignoti
e quindi pericolosi, ricorrendo così a dimensioni oggettuali che deviino la sua
attenzione, reprimano il sentire, mascherino le sue carenze, ed esprimano parti del
sé: <<quando l’oggetto del desiderio è vivente e incontrollabile, il desiderio, per
proteggersi si posa su un oggetto inanimato.>>35
Il brand e l’oggetto rivestono in questo senso l’importanza di etichette da
sovrapporre alle ferite del sé per coprire un doloroso sentire sottostante: la stessa
Kaplan fa riferimento al marketing ricordando che <<senza saperlo distintamente,
la sterile cultura contemporanea fa leva su questi timori primordiali per sviluppare
strategie di marketing che inducano i consumatori ad acquistare molte più merci di
quante gliene occorrerebbero>>36
Concludendo questo capitolo, abbiamo dunque visto come le dimensioni del sé e le
conseguenti percezioni di una propria unicità e di un proprio sviluppo temporale cui
faceva riferimento Ramachandran siano flessibili e malleabili rappresentazioni
inconsce che, essendosi sviluppate sulla base di un corretto processo di
categorizzazione, possono anche essere alla base di certi comportamenti d’acquisto
tesi non solo all’incorporazione di oggetti esterni mirata a dare una veste sensibile e

34
   Kaplan, L.,J., (2006), p. 17.
35
   Ivi, p. 147.
36
   Ivi, p, 165.


                                                                                    33
rappresentativa alle proprie parti e caratteristiche, ma anche a proteggere e
difendere il sé nelle sue zone più vulnerabili, cercando la ricostruzione di un
confine e di una personalità laddove non vi sia stato un corretto processo di
sviluppo di distinzione fra il sé e l’altro.




                                                                            34
3. L’ACQUISTO COMPULSIVO: MODELLI DI SPIEGAZIONE
   DEL COMPORTAMENTO DI DIPENDENZA.

Dopo aver attentamente analizzato il rapporto fra il sé e gli oggetti d’acquisto, e
prima di dedicarci allo studio dell’influenza esercitata dalla società dei consumi su
questa relazione, è giunto ora il momento di concentrare le nostre attenzioni su un
tema che svolge un ruolo centrale nei comportamenti d’acquisto, e non solo: la
dipendenza.
Obiettivo di questo capitolo non è ovviamente fornire una panoramica completa di
tutti gli ambiti in cui questo concetto può essere studiato, e neanche rintracciare un
quadro esaustivo delle sue possibili cause, ma bensì, coerentemente con i
precedenti capitoli, analizzare la possibile relazione fra il comportamento
dipendente e la sfera degli acquisti, correlazione che trova la sua attuazione in un
fenomeno che negli ultimi decenni è stato chiamato acquisto o shopping
compulsivo.
Prima di addentrarci nell’analisi di questo fenomeno, è tuttavia necessario porre
come doverosa premessa un rapido quadro generale del concetto di dipendenza: se
è senza dubbio vero che con questa espressione, attualmente, si è sempre soliti far
riferimento ad un qualsiasi comportamento compulsivo di ricerca di una
determinata sostanza o ad una reiterata messa in atto di un comportamento, ed è
dunque da intendersi come un concetto che racchiude in sé una serie di molteplici
significati che vanno ben oltre la sfera attinente agli acquisti e gli intenti di questo
elaborato, è però fondamentale sottolineare che tradizionalmente il termine
dipendenza veniva esclusivamente usato in riferimento al reiterato abuso di
sostanze alcooliche o tossiche da parte di un individuo non in grado di esercitare un
controllo su questa azione (Pani, Biolcati, 2006).
Nonostante il suo significato originario affondi quindi le radici in un contesto di
abuso di alcool o droga, tuttavia, negli ultimi decenni, il concetto si è esteso fino a
inglobare una serie di determinate azioni non per forza orientate all’assunzione di
tali determinate sostanze: in particolare, in ambito psicologico, a fianco del
tradizionale modo di intendere la dipendenza, ha fatto la sua comparsa il concetto di
“addiction”, termine con il quale recentemente si è soliti designare una condizione
generale di <<dipendenza psicologica che spinge alla costante ricerca dell’oggetto,


                                                                                     35
dell’attività, senza i quali l’esistenza dell’individuo sembrerebbe perdere di
senso>>37.
Il concetto di dipendenza esce quindi da una condizione di forte imprescindibilità
dalla presenza di una concreta sostanzialità per arrivare invece a includere tutte le
generiche circostanze in cui vi è un abuso, da parte del soggetto, di un determinato
comportamento, ripetuto in modo incontrollato poiché dettato da un sottostante
bisogno urgente che richiede immediato soddisfacimento.
Ciò che è importante rimarcare per il prosieguo della nostra analisi è che,
indipendentemente dall’oggetto del comportamento dipendente, vi sono importanti
aspetti che accomunano le recenti “addictions” con le tradizionali dipendenze:
primo fra questi lo stato di forte desiderio compulsivo verso il raggiungimento
dell’oggetto/comportamento, accompagnato secondariamente da un malessere
dovuto all’astinenza da esso e da correlate radicali alterazioni del tono dell’umore
in corrispondenza dell’inizio o della fine dell’attività dipendente; quest’ultima,
inoltre, recita un ruolo di dominanza nel pensiero e negli atteggiamenti del
soggetto, arrivando a interferire con la quotidianità della sua vita e rischiando di
compromettere non solo la stabilità psichica del soggetto stesso, ma anche le
relazioni che esso intrattiene con coloro che gli stanno vicino (Pani, Biolcati, 2006).
Così inteso, il comportamento dipendente può quindi arrivare a includere i più
svariati ambiti di applicazione, che vanno dal gioco d’azzardo a internet, fino allo
shopping, sul quale concentriamo i nostri studi in questo capitolo; se infatti, come
abbiamo precedentemente visto, l’acquisto è sicuramente un importante momento
di espressione del sé grazie alla sua capacità da una parte di offrire al consumatore
un mezzo di identificazione di parti del sé, e dall’altra di porsi come potente
strumento comunicativo tramite il quale manifestare un determinato ruolo sociale,
non è finora chiaro come, e per quali ragioni, esso possa passare da rituale
momentaneo e episodico quale comunemente è, a vera e propria ossessione ripetuta
anche contro la propria volontà.
Posta quindi come premessa inamovibile del discorso la rilevanza dei beni materiali
nell’auto-definizione del sé e nella costruzione di una propria manifestazione
espressiva vicina a un sé ideale tanto agognato quanto internamente irraggiungibile,

37
     Pani R., Biolcati R., 2006, pp. 3-4.


                                                                                    36
e messo momentaneamente fra parentesi il considerevole impatto dell’influenza
sociale nel far sì che questi comportamenti dipendenti vengano dirottati sui
consumi, è possibile tracciare un quadro concettuale che sia in grado di fornire una
spiegazione il più possibile completa e corretta dell’acquisto compulsivo?
Nonostante qualche sporadico cenno di interesse a questo tema sia stato riscontrato
anche all’inizio del ventesimo secolo38, la psicologia ha provato seriamente a
rispondere a questa domanda solo in tempi recenti, dove la tematica dello shopping
compulsivo è diventata di stringente attualità grazie anche a una serie di indagini
specifiche sull’argomento condotte sia in ambiti di competenza prettamente
psicologica e psichiatrica, che in campi di studio attinenti alla sfera del marketing,
merito di un sempre crescente interesse sul tema da parte soprattutto degli studiosi
di mercato; naturalmente, trattandosi ancora di un’area di ricerca abbastanza
giovane, soprattutto se confrontata con gli studi relativi ad altre dipendenze, è
impossibile pervenire ad un esauriente elenco di tutte le sue caratteristiche, ma
ricerche scientifiche e resoconti clinici sono abbastanza numerosi per poter
permettere un discorso abbastanza preciso sul tema39.
Malgrado i dati empirici sembrino mostrare una maggiore presenza di questo
disturbo nella popolazione femminile40, il fenomeno è segnalato in crescita anche
nel genere maschile41, a testimonianza del fatto che la differenza di genere finora
riscontrata non è tanto rimandabile a una diversità intrinseca nella natura di uomo o

38
    I primi a parlarne furono Kraepelin (1915) e Bleuler (1924), che coniarono il termine
<<oniomania>> per descrivere la mania degli acquisti, considerandola appartenente alla categoria
degli impulsi patologici. Dopo di loro, tuttavia, non se ne è parlato per più di 60 anni. Cfr. Pani R.,
Biolcati R., 2006, p. 22.
39
   Per un buon elenco delle principali fonti bibliografiche sul tema dell’acquisto compulsivo, si veda
Pani, R., Biolcati R., 2006, p.25.
40
   Vi sono numerose evidenze empiriche a sostegno di una prevalenza del genere femminile per
quanto riguarda il problema dello shopping compulsivo: “Nello studio di D’Astous e Tremblay
(1988), le donne hanno ottenuto un punteggio significativamente più elevato alla scala che valuta
lo shopping compulsivo. Inoltre, quasi tutti i casi di acquisto compulsivo, presentati in letteratura
psicoterapeutica, riguardano donne. Nell’indagine compiuta da Scherhorn, Reisch e Raab (1990)
nella Germania occidentale, le donne hanno ottenuto punteggi più elevati al German Addictive
Buying Indicator rispetto agli uomini” Pani, R., Biolcati, R. (2006), p.36
41
   “lo shopping compulsivo rimane un disturbo più rappresentato nella popolazione femminile,
seppur ci sembra, dalla nostra pratica clinica, che in Italia l’aumento registrato, negli ultimi cinque
anni, vada a carico percentualmente più degli uomini che delle donne. I dati di cui siamo in
possesso sono ricavati da esperienze cliniche più che strettamente sperimentali e sospettiamo che
tale aumento sia di natura socioculturale, parallelo al cambiamento che vede gli uomini più attenti
all’estetica e a una sorta di identificazione con l’atteggiamento femminile” Pani, R., Biolcati, R.
(2006), p.37


                                                                                                    37
donna (teorie queste che rischiano di aprire un pericoloso dibattito sull’innatismo
delle differenze fra i sessi) quanto ad un’influenza sociale dettata da pubblicità,
mercato e coscienza collettiva, che tradizionalmente associano maggiormente alle
donne l’attività dello shopping.
Per comprendere da più vicino il fenomeno dello shopping compulsivo, facciamo
ora riferimento a queste ricerche: per quanto riguarda una precisa definizione del
problema, possiamo innanzitutto dire che vi è in letteratura un ampio consenso di
base nel determinare l’acquisto compulsivo come un disturbo che non consiste
tanto nell’episodico e comune impulso a comprare che produce improvvisi e
singolari atti di acquisto non pianificati; piuttosto, esso viene definito come la
perdita cronica del controllo su questi impulsi, che evolvono quindi in un pattern
ripetitivo in grado di assorbire drammaticamente l’individuo in una catena di
acquisti, reiterata fino al punto in cui essa determina effetti dannosi per il soggetto
stesso e per le persone che gli stanno vicine. Alla pari delle altre dipendenze, il
soggetto che sviluppa una dipendenza nei confronti degli acquisti sperimenta quindi
un desiderio ossessivo di ricerca dell’attività dello shopping, con una relativa
compulsione a comprare in continuazione che, seppur spesso riconosciuta come
esagerata, solo in pochi casi sfocia in una consapevolezza dell’individuo riguardo la
gravità della problematica.
Come primo aspetto del disturbo, ci pare importante sottolineare che l’acquisto di
beni è in questi casi indipendente dalla funzionalità di essi: ciò che emerge dalle
ricerche indica infatti che i soggetti compulsivi comprano oggetti non perché utili di
per sé, ma perché spinti dal desiderio frenetico e irresistibile di comprare più di
quanto effettivamente necessitano (Raab, Elger, Neuner, Weber, 2010); la maggior
parte di articoli acquistati da questi soggetti viene infatti usata in minima parte, se
non addirittura conservata intatta e chiusa in pacchetti senza poi mai essere
utilizzata42.
Questa svalutazione della funzionalità del bene induce a pensare che, similmente a
quanto avviene nelle altre “addictions”, i soggetti affetti da shopping compulsivo
sviluppino una dipendenza non tanto verso una concreta sostanza esterna quale può
essere droga o alcool piuttosto che beni materiali, quanto piuttosto verso un preciso

42
     Cfr. Pani, R., Biolcati, R., (2006), p. 41.


                                                                                    38
comportamento, in questo caso l’acquisto, che viene ossessivamente ricercato; sono
infatti numerose, a questo proposito, le testimonianze di soggetti che descrivono
l’esperienza dello shopping in sé come eccitante e portatrice di soddisfazione,
felicità e benessere43: << alcuni pazienti dipingono lo shopping come qualcosa di
eccitante, di pazzo, che dà un brivido, il cosiddetto thrilling o buzz […] Alcuni
soggetti, interrogati sulle sensazioni corporee, hanno parlato di vibrazioni, di calore,
vampate, energia che si diffonde>>44.
Più che dal possesso dei beni in sé, si può quindi diventare dipendenti dall’atto
d’acquisto: è l’azione, più che l’oggetto, la determinante della compulsione. A
dimostrazione di questo concetto, centrale per comprendere la dipendenza,
sembrano esserci anche alcune evidenze neurologiche: in un recente esperimento
svolto in presenza di soggetti affetti da shopping compulsivo, i ricercatori idearono
un contesto sperimentale volto ad analizzare l’attività di due aree cerebrali, che,
come vedremo dettagliatamente più avanti, vengono spesso associate agli atti
d’acquisto, e non solo: il nucleo accumbens (NAcc) e l’insula. Se la prima è infatti
notoriamente coinvolta durante i processi che generano piacere nell’individuo,
come ad esempio la semplice presentazione di una ricompensa, la seconda sembra
invece giocare un ruolo fondamentale nei processi di aspettativa del dolore e del
dispiacere, quale può essere ad esempio la percezione del prezzo da pagare per
l’ottenimento di un bene (Babiloni, Meroni, Soranzo, 2007; Lugli, 2010; Knutson,
2007). Partendo da queste conoscenze, un gruppo di ricercatori coordinato dal
professore tedesco Gerhard Raab, radunò un gruppo di 49 donne, 23 delle quali
riconosciute grazie a diversi test come affette da shopping compulsivo, e studiò,
tramite la tecnica di visualizzazione cerebrale nota come FMRi (risonanza
magnetica funzionale), l’attività del nucleus accumbens e dell’insula durante un
semplice compito: a tutti i partecipanti, compulsivi e non, venivano mostrate in un
primo tempo le immagini di vari prodotti, successivamente accostate al loro prezzo;
poi, in un terzo momento, gli veniva chiesto, per ogni oggetto mostrato, di decidere
se acquistarlo o meno.



43
   <<molti sostengono che solo l’attività dello shopping possa farli sentire meglio>> Pani, R.,
Biolcati, R., (2006), p. 40
44
   Cfr. Ivi, p. 47


                                                                                            39
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  • 1. INDICE …………………………………………………………… Introduzione… 2 1. Un approccio interdisciplinare al concetto del sé 5 2. La relazione fra il sé e l’oggetto di consumo 21 3. L’acquisto compulsivo: modelli di spiegazione del comportamento 35 di dipendenza 4. L’influenza della società dei consumi sui comportamenti d’acquisto….… 51 5. Il valore del brand e le sue basi neurologiche 66 6. Neuropsicologia delle decisioni d’acquisto 87 Conclusioni 106 Bibliografia………………………………………………………………………. 108 1
  • 2. INTRODUZIONE Obiettivo dell’elaborato è approfondire la relazione fra comportamenti d’acquisto e caratteristiche del sé. Al fine di indagare al meglio questa relazione in tutte le sue sfumature, ci approcceremo al tema con uno sguardo interdisciplinare in grado di abbracciare diversi ambiti di studio, dalla filosofia alla sociologia, dalla psicoanalisi alle neuroscienze, cercando di unire tutti i contributi che queste discipline possono fornirci in un unico filone concettuale in grado di non disperderne le rispettive potenzialità, ma anzi di integrarle in un quadro teorico coerente ed esplicativo. Approfondendo i recenti studi sui comportamenti d’acquisto, è inevitabile notare che essi vengono quasi sempre trattati separatamente da ognuna di queste discipline, le quali, isolando l’argomento dal suo caratteristico tessuto di interazione teorica e traendo da esso solo le componenti analizzabili secondo modalità rigorosamente appartenenti alla propria sfera di competenza, ne studiano soltanto un singolare aspetto riducendo in questo modo notevolmente la complessità delle tematiche dalle quali l’intero fenomeno è composto. Le scienze cognitive, proprio tenendo conto della loro ragione d’essere rintracciabile principalmente nella propria vocazione di natura multidisciplinare, non dovrebbero certo rimanere indifferenti di fronte all’invitante possibilità di comprendere dettagliatamente il fenomeno degli acquisti, ma dovrebbero anzi trovare il modo di attingere alle differenti competenze che, profondamente correlate alle scienze cognitive, caratterizzano gli ambiti di studio che se ne sono maggiormente occupati. Tranne rari casi (Balconi, Antonietti; 2009) dobbiamo però sottolineare che non vi è al momento traccia di studi sui comportamenti di consumo che siano stati in grado di fornire un quadro esaustivo dei diversi approcci presenti sulla scena teorica; obiettivo dell’elaborato è quindi proprio quello di cercare, con i nostri mezzi, di riempire questa lacuna presente in letteratura, in particolare tentando di appoggiare i vari studi neuroscientifici e sociologici svolti sul tema su un robusto terreno epistemologico costruito su basi di natura filosofica e psicologica, che, troppo spesso ignorate a questo proposito, svolgono invece a mio avviso un ruolo centrale ed essenziale nella spiegazione dei comportamenti d’acquisto. 2
  • 3. Inizieremo dunque il nostro studio cercando di porre come primo mattone di questo edificio teorico un’analisi filosofica e psicologica del concetto di “sé”, individuandone le componenti di base, accennando a quei possibili meccanismi che sono alla base della sua nascita e del suo sviluppo, e studiando infine la correlazione fra un sé di natura individuale, che fa riferimento al concetto di “io”, e un sé di natura collettiva, che si riferisce invece alla sensazione di un “noi”. Chiarite le basi epistemologiche della nostra indagine, introdurremo nel secondo capitolo i comportamenti d’acquisto, rintracciando il ruolo che essi rivestono per la vita psichica e individuando le modalità attraverso le quali questi comportamenti si intrecciano con le componenti del sé individuale; faremo in particolare riferimento al concetto di brand, studiando la sua funzione di esplicitazione e protezione di parti del sé inespresse. Nel terzo capitolo presenteremo invece alcune teorie psicologiche e neuroscientifiche in grado di farci comprendere meglio l’adozione, da parte di molti soggetti, di un comportamento dipendente in contesti d’acquisto, come accade con la sempre più diffusa problematica dello shopping compulsivo. Successivamente, il quarto capitolo avrà invece l’obiettivo di spostare la nostra analisi da un quadro di natura esclusivamente psicologica a uno maggiormente incentrato su spiegazioni di matrice sociologica, ponendosi infatti come obiettivo quello di riassumere le principali ragioni e i principali cambiamenti di natura sociale che hanno dato vita, durante gli ultimi decenni, a una vera e propria società che si regge sui consumi e che è sempre più caratterizzata dalla presenza di uno sfrenato bisogno umano di acquistare una quantità sempre crescente di beni. Il quinto capitolo reintrodurrà invece nel discorso il concetto di brand, inizialmente analizzando il suo ruolo sociale e cercando di chiarire la sua relazione con le componenti del sé collettivo, e successivamente presentando una serie di studi di neuro-imaging finalizzati all’individuazione di una serie di attività neurali correlate all’esposizione di un marchio. Infine, l’indagine neurologica sui comportamenti d’acquisto terminerà nel sesto capitolo, nel quale, facendo riferimento a degli studi orientati alla ricerca dell’attività cerebrale durante il momento dell’acquisto in sé, individueremo quali aree della corteccia risultano maggiormente coinvolte durante il decision-making 3
  • 4. del consumatore; chiuderemo poi l’elaborato analizzando le euristiche cognitive che possono intervenire durante la fase dell’acquisto, influenzando la validità delle scelte consumistiche e alterando il processo decisionale che ne è alla base. 4
  • 5. 1. UN APPROCCIO INTERDISCIPLINARE AL CONCETTO DEL SE’. Per comprendere come oggetti di consumo e comportamenti d’acquisto possano entrare in relazione con diverse caratteristiche del sé, ci sembra importante iniziare il lavoro chiarendo da quale punto di vista inquadriamo il concetto del sé e definendo quelle che, coerentemente con il fine dell’elaborato, possono essere le componenti alle quali dedichiamo una maggiore rilevanza. Senza addentrarci troppo approfonditamente nei dibattiti recenti intorno alla natura del sé che caratterizzano l’ambito filosofico e neuroscientifico, sembra ormai assodata la visione di un sé che prende sempre più le distanze dalla concezione cartesiana, la quale, basandosi su un radicale dualismo fra mente e corpo, identificava il sé con la sostanza pensante, fornendolo così di una realtà ontologica nettamente separata dalla dimensione corporea e totalmente indipendente dalle leggi cui sottostava la materia1. Messa da parte non senza difficoltà questa radicale visione, il cui dualismo vive ancora oggi tentativi di riformulazione teorica2, la desostanzializzazione delle operazioni mentali avviata dal radicale empirismo di Locke, che riduceva la mente a una tabula rasa interamente plasmata dall’ambiente3, ha trovato il suo culmine nella visione contemporanea di un sé che non solo si caratterizza per una stretta integrazione con la dimensione corporea dalla quale è assolutamente imprescindibile (Damasio 1995, Montague 2006),4 ma viene addirittura inteso 1 <<Pervenni in tal modo a conoscere che io ero una sostanza, la cui intera essenza o natura consiste nel pensare, e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo, né dipende da alcuna cosa materiale. Di guisa che questo io, cioè l’anima, per opera della quale io sono quel che sono, è interamente distinta dal corpo>> Cottingham, R., (1992), A Descartes Dictionary, p. 36, nota 3, Blackwell, Oxford. 2 Come sottolineato da Damasio, la metafora adottata in tempi recenti di una mente come “software” e di un cervello come “hardware”, così come la netta separazione tuttora esistente fra medicina e psicologia, trova le sue radici proprio nella separazione cartesiana fra mente e corpo; Damasio, (1993), p.339. 3 <<Supponiamo dunque che lo spirito sia per così dire un foglio bianco, privo di ogni carattere, senza alcuna idea […] Da dove si procura tutto il materiale della ragione e della conoscenza? Rispondo con una sola parola: dall’esperienza. Su di essa tutta la nostra conoscenza si fonda e da essa in ultimo deriva>> Locke, J., (1690), Libro II, cap. 1. 4 <<Eccolo, l’errore di Cartesio: ecco l’abissale separazione tra corpo e mente – tra la materia del corpo, dotata di dimensioni, mossa meccanicamente, infintamente divisibile, da un lato, e la stoffa della mente, non misurabile, priva di dimensioni e non attivabile con un comando meccanico, non divisibile>> Damasio, (1993), p.338. <<quasi nessuno metteva in dubbio quest’opinione: i pensieri sono privi di base materiale; vivono in qualche posto o stato indefinibile e non posson mai venire 5
  • 6. come un fenomeno che privato della sostanzialità cartesiana e letto in chiave evoluzionistica, emerge dal corpo stesso come capacità adattiva di valutare gli stimoli ambientali garantendo all’organismo una migliore capacità di sopravvivenza. Importante in questa direzione è stato il contributo del neuroscienziato Damasio, fra i più chiari sostenitori di una visione evoluzionistica della mente che, intesa come la capacità dell’organismo di avere rappresentazioni coscienti, sarebbe emersa dall’interazione corpo-cervello con la finalità adattiva di proteggere l’organismo stesso: l’evoluzione ha fatto sì, per Damasio, che il corpo trovasse un potente mezzo di autodifesa nella propria capacità di sviluppare efficaci rappresentazioni interne dell’ambiente esterno. Il sé, in questa concezione, emerge quindi come modalità di rappresentazione della realtà circostante, e le immagini mentali che ne caratterizzano l’attività risultano essere principalmente delle reazioni in grado di riprodurre l’ambiente esterno basandosi sulla modificazione che esso provoca nel corpo stesso. Ciò che percepiamo e memorizziamo, più che la realtà in sé, è come il nostro corpo reagisce all’incontro con essa (Damasio 1995). In quest’ottica risuona inesorabilmente non solo l’integrazione fra mente e corpo, ma la precedenza evolutiva del corpo stesso. Per dirla con Damasio, <<gli eventi mentali sono il risultato dell’attività che si svolge nei neuroni del cervello; ma vi è una storia precedente e indispensabile che essi devono narrare: la storia del disegno e del funzionamento del corpo. La supremazia del corpo è un motivo che risuona nell’evoluzione.>>5 Staccato da radici metafisiche e sostanziali, e ancorato alla corporeità dalla quale esso emerge, non sorprende che in quest’ottica il sé si allontani anche dal concetto di coscienza: a partire da Freud, è infatti conoscenza comune che la maggior parte delle attività mentali avvengano sotto il livello della coscienza, definita proprio dal padre della psicoanalisi come la sola punta dell’iceberg dei processi mentali 6. “catturati” da alcuna descrizione fisica. Quest’idea, se da un lato è emotivamente attraente, è però incompatibile con quella che è una montagna di fatti circa l’ereditarietà e l’evoluzione di caratteri biologici>> Montague, (2006), pp. 9-10. 5 Damasio, (1993), p. 312. 6 <<i processi psichici sono di per sé inconsci e di tutta la vita psichica sono consce soltanto alcune parti e alcune azioni singole>> Freud (1915-17). Ma si veda a tal proposito anche Nietzsche: <<la coscienza ha un ruolo di secondo piano, è quasi indifferente, superflua, forse destinata a sparire e a far posto a un perfetto automatismo>> Nietzsche, (1887). 6
  • 7. Diversi filosofi e neuroscienziati7, fra i quali Montague, sostengono che la coscienza stessa, lungi dall’essere il centro della vita psichica e l’origine delle azioni umane, non sarebbe altro che un fenomeno emergente assimilabile alla memoria di lavoro e finalizzato a monitorare i processi mentali che richiedono un maggiore impegno di energie: una volta che il sé automatizza un insieme di comportamenti, questi verrebbero messi in atto dall’individuo senza nessuna difficoltà, evitando così di richiedere il dispendioso intervento della coscienza (Montague 2006, Gigerenzer 2007). Altri ancora, sulla scia della filosofia di Hume8 e Nietzsche9, definiscono la volontà cosciente come una mera sensazione prodotta da meccanismi inconsci, una pura emozione di paternità delle proprie azioni che dà luogo all’illusione di agentività (Wegner 2010)10. Il sé, comunque, sia nella sua componente cosciente che inconscia, non viene più definito come un concetto unitario: esso, più che un’entità monolitica in grado di agire attivamente su un ambiente passivo, è piuttosto da intendersi come un insieme apparentemente coerente di diversi processi mentali che agiscono, e che, grazie ad una capacità di integrarsi fra loro, contribuiscono a creare nell’individuo la sensazione dell’esistenza di un’entità unica e unitaria in grado di percepire il mondo e reagire agli stimoli che provengono da esso; già Nietzsche aveva notato questa importante rivoluzione nel modo di concepire l’io nel momento in cui definiva il soggetto come molteplicità e parvenza di unità: <<ammettere un soggetto non è forse necessario; forse è altrettanto lecito supporre una molteplicità di soggetti, il cui gioco d’insieme e la cui lotta stanno alla base del nostro pensiero e in generale 7 Le Doux elenca fra gli studiosi favorevoli alla riduzione della coscienza a una funzione esecutiva e di supervisione Shallice, Posner e Snyder, Shiffrin e Schneider, Norman e Shallice. Le Doux, J.,(1996) 8 Wegner cita Hume per la sua definizione di volontà come <<niente altro che quella impressione interna che avvertiamo e di cui diveniamo consapevoli, quando coscientemente diamo origine a qualche nuovo movimento del nostro corpo o a qualche nuova percezione della nostra mente>> Hume (1739-1740), in Wegner, D. M., (2010) L’illusione della volontà cosciente, in De Caro, M. Lavazza, A., Sartori, G., (2010). 9 <<l’io è considerato come soggetto, come causa di ogni azione, come autore […] la credenza in una sostanza trova la sua forza di persuasione nell’abitudine di considerare tutto ciò che facciamo come conseguenza della nostra volontà- così che l’io, in quanto sostanza, non scompare nella molteplicità dei mutamenti. Ma non esiste una volontà.>> Nietzsche (1887). 10 <<Meccanismi inconsci e imperscrutabili creano infatti sia il pensiero cosciente dell’azione sia l’azione, e producono anche la sensazione di volontà che sperimentiamo percependo il pensiero come causa dell’azione>> Wegner, D.M., (2010). 7
  • 8. della nostra coscienza>>11. La mente perde così la connotazione di teatro cartesiano e palcoscenico di immagini mentali per frammentarsi in una serie di molteplici funzioni: l’unità della percezione che noi percepiamo non è altro che una mera sensazione che non trova riscontro in alcuna sostanzialità, né in alcuna area celebrale, ma è prodotta proprio dall’integrazione di molteplicità differenti. Come Damasio sottolinea, l’effetto di unitarietà psichica e percettiva è dovuto a una questione di simultaneità temporale che trova la sua base in un principio di sincronizzazione di differenti attività neurali (Damasio 1993). Più che di un sé, dovremmo quindi parlare di diverse parti del sé che lo costituiscono. Ponendoci in quest’ottica di pensiero, il paragone fra la dimensione individuale e quella sociale appare intrigante: come a livello sociale l’unione di diversi individui può dare origine a quella sensazione di gruppo come entità indipendente e dotata di vita propria, così, a livello individuale, le diverse funzioni del sé basate su diversi processi mentali, interagendo fra di loro, sarebbero in grado di dar luogo alla sensazione di un sé unico che agisce sul mondo. La conseguenza è semplice ed efficace: il “senso del sé” che è alla base sia della percezione della soggettività del “me” che dell’entitatività12 del “noi” è quindi il prodotto dell’integrazione fra le sue molteplici componenti elementari; è in questa direzione, infatti, che vanno le recenti ricerche sui substrati neurali della coscienza, fra cui quelle che fanno capo al neuropsichiatra Tononi, il quale postula una duplice capacità alla base dell’esperienza della soggettività: da una parte la percezione di una molteplicità di esperienze differenti, e dall’altra la facoltà di integrare queste diverse informazioni percepite in un unico dato. Ciò che distingue l’organismo vivente da quello artificiale non è tanto la capacità di ricevere informazioni, quanto la capacità di integrazione di esse (Tononi 2003)13. Ma per quanto le teorie contemporanee ci mostrino l’unitarietà del sé come una sensazione prodotta dall’integrazione fra diverse parti, ciò non significa che ne svalutino l’importanza: lungi dall’essere una mera illusione poco funzionale ai fini 11 Nietzsche, F., (1887), p.275. 12 Con questo termine, nei recenti approcci della psicologia sociale, si fa riferimento al grado in cui un aggregato sociale è percepito come entità esistente e reale da osservatori esterni. Speltini, G., Palmonari, A., (2007). 13 Importante notare che in questo caso il termine coscienza va inteso non come stato di meta- consapevolezza che l’individuo ha delle proprie azioni, ma più in generale come uno stato di “vigilanza” che permette all’organismo di essere “vivo”. 8
  • 9. dell’individuo, la percezione di unità dell’ente psichico è invece il presupposto essenziale su cui si basa l’intera esistenza e su cui fondiamo tutti i nostri comportamenti. Abbiamo già visto come sia ormai insito nella natura umana percepire se stessi come unici e in grado di agire sul mondo: il concetto di “io” è stato appositamente creato dall’uomo in chiave adattiva, e per quanto possa essere fittizio, è senz’altro indispensabile per la vita umana. Di nuovo, il salto dall’individuo alla società è breve: sarebbe infatti difficile sostenere che la sensazione di gruppo come entità dotata di una propria autonomia trovi un suo correlato sostanziale basato su una realtà ontologica propria e indipendente dai membri che lo costituiscono; eppure, pur trattandosi di un’illusoria sensazione, ciò non toglie che essa risulti fondamentale nel regolare la vita del gruppo stesso. Il gruppo come entità in sé indipendente dai suoi stessi membri non esiste, eppure la percezione che esso sussista concretamente emerge dall’interazione dei membri, ed è parte fondamentale del suo sviluppo. Come noto a ogni persona chiamata a gestire il lavoro di un team, non vi è nulla di più importante per la vita di un gruppo del creare un’atmosfera tale che i suoi membri siano in grado di sperimentare la sensazione di far parte di un’entità comune che trascende i confini del singolo; una volta che viene prodotta questa sensazione, ogni membro percepirà il gruppo a livello inconscio come entità indipendente non solo da se stesso, ma anche da tutti gli altri membri: un potente fenomeno emergente che deve la sua origine al solo fatto che tutti lo pensino tale. Qualcosa che non esiste concretamente, ma che nello stesso tempo trascende tutti: l’identità, staccata da radici ontologiche, non perde potenza, ma anzi la acquisisce. Rispondere quindi alla domanda su quali siano i processi in grado di formare questa sensazione di “entitatività” non sembra epistemologicamente separabile dal ricercare i processi mentali in grado di formare il senso del sé individuale: così come l’integrazione fra membri fornisce al gruppo quella che viene chiamata “un’identità”, anche un buon senso di identità a livello personale sarà secondo questa visione dato da una capacità delle parti del sé di interagire e comprendere i propri stati a vicenda. Detto questo, ambiti disciplinari come filosofia, neuroscienze, psicoanalisi e psicologia sociale si trovano di fronte a una lunga strada da percorrere in 9
  • 10. quest’ambito: siamo infatti ancora lontani dal capire come le diverse componenti di un sistema riescano a interagire per arrivare a produrre un senso di entità. Si può però nel frattempo definire le caratteristiche di base di questo “senso di entità”, nella speranza in un futuro prossimo di poter conoscere i processi in grado di originarlo. Cosa contraddistingue quindi il sé, oltre al senso di unità? Quali sono le sue caratteristiche di base? Non sappiamo mediante quali processi hanno origine, ma sappiamo definire quali esse siano? In chiusura del suo libro “Che cosa sappiamo della mente?” il neuroscienziato indiano Vilayanur Ramachandran elenca quelle che sono per lui le componenti centrali del sé sulle quali concentrare le ricerche: “Che cosa si intende esattamente con <<sé>>? Ho individuato cinque caratteristiche fondanti. La prima è l’impressione di continuità, di un filo che corre lungo l’intero tessuto della nostra esperienza, accompagnato dal senso del passato, del presente e del futuro. La seconda, strettamente correlata alla prima, è l’idea di unità e coerenza. Nonostante la varietà dei ricordi, delle credenze, dei pensieri e delle esperienze sensoriali, ciascuno di noi esperisce se stesso come un individuo unico, un’unità. La terza è la corporeità, o meglio il senso del possesso del proprio corpo, al quale ci si sente ancorati. La quarta è la facoltà di azione volontaria, quella che chiamiamo libero arbitrio, l’idea di essere padroni delle proprie azioni e del proprio destino […]. La quinta, e più elusiva di tutte, è la capacità di riflessione, la consapevolezza che il sé ha di se stesso […] La malattia mentale perturba uno o più aspetti del sé ed è per questo che non ritengo il sé un’entità unitaria, bensì un insieme di varie componenti.”14 Con il concetto di continuità possiamo facilmente far riferimento alla sensazione di sviluppo temporale riguardante le esperienze passate e le aspettative future che caratterizza non solo il sé individuale, ma anche il sé collettivo; più che un collage di ricordi e speranze operato grazie a una rievocazione consapevole da parte dell’individuo, la sensazione di continuità si presenta come un fenomeno che, attivo principalmente a livello inconscio, si avvicina al concetto di “sentimento di fondo” introdotto da Damasio per descrivere il senso di proprietà del corpo e tramite il quale si fa riferimento a una sensazione del sé costituita dall’associazione fra 14 Ramachandran, V., (2003), pp .97-98. 10
  • 11. modificazioni corporee e rappresentazioni neurali delle modificazioni stesse: una tipologia particolare di sentimento continuamente presente in sottofondo, e della quale si può diventare consapevoli soltanto quando vi si pone volontariamente attenzione (Damasio 1993). Il senso di continuità potrebbe quindi trovare il suo fondamento nell’integrazione fra diverse rappresentazioni inconsce riguardanti lo stato passato, presente e futuro del sé. Come accennato da Ramachandran, la correlazione fra i turbamenti a questa componente del sé e le patologie mentali non è da trascurare: facendo riferimento agli studi sull’attaccamento prodotti dalla psicoanalisi e in particolare da Bowlby15, un buon senso di continuità del sé ha la possibilità di svilupparsi quando nell’ambito della relazione originaria e fusionale fra il caregiver e il bambino, il primo riesce a tranquillizzare le paure di abbandono che il secondo nutre riguardo al distacco, permettendo al bambino stesso di sviluppare una base sicura che faccia riferimento a un sufficiente livello di fiducia nella possibilità di ritrovare il legame con il caregiver in futuro; perché si sviluppi un buon senso di continuità del sé, è importante che vi sia nel bambino la capacità di mantenere nella propria mente una rappresentazione costante dell’altro anche in sua assenza: soltanto così si può instaurare quella fiducia basata sulla possibilità di ritrovamento dell’altro in futuro, che diventerà poi fiducia nelle proprie capacità di trovare nel mondo ciò che procura piacere. Al contrario, una mancanza di fiducia nel ritrovare l’altro in questa fase di separazione risulterebbe decisiva nel turbare il senso di continuità del bambino stesso, che nel corso della sua vita potrebbe vivere traumaticamente le separazioni (non solo da figure affettive, ma anche da situazioni, pensieri, luoghi, oggetti..), ancorandosi così a ciò che di piacevole trova nel passato, guardando con timore ai cambiamenti, e reiterando con comportamenti dipendenti le situazioni presenti piacevoli, vissute come momenti ineluttabilmente destinati a non tornare più: il sé rischia in questi casi di perdere il suo carattere di continuità trasformando la vita psichica in una serie di momenti slegati fra di loro e frammentati in un quadro tutt’altro che unitario e rassicurante: ogni stato emotivo si trasformerebbe in un’ineluttabile condizione priva di uscita e scollegata dal resto. 15 Faremo riferimento a questi studi più avanti: i nostri punti di riferimento per la teoria dell’attaccamento sono comunque Bowlby (1969), Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002), 11
  • 12. Il senso di continuità, lungi quindi dall’essere una mera sensazione priva di sostanzialità, si presenta come un sentimento di fondo con caratteristiche fondamentali per l’attività del sé stesso; anche facendo riferimento all’attività di un gruppo, risulta quanto mai importante fornire ai singoli l’immagine di un team continuo nel tempo, basato su un importante passato e slanciato verso un prosperoso futuro: si rischia altrimenti di ritrovarsi un gruppo che vive come piccolo trauma ogni minimo cambiamento. Se la continuità può quindi essere intesa come la sensazione di uno sviluppo temporale dal sé, l’unità o coerenza che Ramachandran cita come seconda componente può a mio avviso essere pensata come la sensazione di uno sviluppo spaziale del sé: per acquisire coscienza di se stessi come una medesima entità psichica, nonostante i cambiamenti seppur minimi che il tempo ci impone, dobbiamo infatti far riferimento almeno a livello inconscio ad una rappresentazione mentale dei nostri confini e di ciò che nello stesso tempo ci limita e ci contraddistingue dall’altro e dall’ambiente: solo in presenza di tale mappa psichica in grado di contrassegnare i nostri limiti come fattori di distinzione finalizzati a tracciare un confine con l’altro possiamo percepirci come spazialmente distanti dagli altri e conseguentemente come individualità uniche e invarianti rispetto al tempo. I confini non sono in questo senso da intendersi solo come propriamente fisici, ma anche psichici: ogni stato emotivo percepito come proprio e non attribuito all’altro permette al sé di conoscere e percepire i propri limiti, di posizionarsi rispetto all’altro, e di trovare quindi la propria identità. Anche questa componente del sé sembra avere le caratteristiche di un sentimento di fondo che scorre sotto il livello della coscienza durante ogni istante della nostra vita: ogni sensazione percepita come propria permette la ricostruzione continua di un confine di separazione che permette al sé di auto-delimitarsi e auto-percepirsi nello spazio come ente autonomo e dotato di caratteristiche personali e differenti dagli altri. Ogni qualvolta siamo in grado di percepire un contatto prettamente fisico con l’ambiente, il sé coglie la reazione dell’organismo aggiornando la rappresentazione dello schema corporeo e ridefinendo i propri confini fisici con lo spazio circostante; non vi sono ragioni per dubitare che la medesima cosa possa accadere anche con gli stati affettivi: quando il sé riconosce come proprio uno stato 12
  • 13. emotivo (ad esempio paura, felicità o rabbia), la rappresentazione dei propri confini si plasma riposizionandosi rispetto agli altri e percependo i propri limiti come fondamentali nella costituzione di un senso di unità del sé. Più banalmente, ogni volta che evidenziamo ai nostri occhi o a quelli degli altri alcune nostre caratteristiche quali possono essere gentilezza o onestà, piuttosto che pigrizia o avarizia, stiamo mettendo l’accento su componenti caratteriali in grado di distinguerci dagli altri, e quindi di definire la nostra identità. Un atteggiamento eccessivamente orientato a mettere in rilievo le caratteristiche dell’altro (specialmente negative) può essere a questo proposito sottolineato come una modalità per rinforzare i propri confini laddove essi siano più fragili: se l’altro è visto come un “non-sé”, le caratteristiche attribuitegli possono portare per esclusione a definire i propri limiti e quindi a trovare l’identità del “sé”; sembra questo il meccanismo rintracciabile anche a livello collettivo all’origine delle accese rivalità fra gruppi, che trovano nella proiezione di caratteristiche negative all’altro gruppo (o spesso proprio nella costruzione apposita di un “altro” fittizio) una modalità per definire se stessi e per compattare i propri confini. Anche qui, la correlazione con le problematiche legate al sé balza all’occhio: senza entrare nel dettaglio clinico per il quale non ne abbiamo le competenze, è chiaro anche agli occhi dei non esperti che se parti del sé e aspetti del carattere vengono vissuti come deficit da annullare e da superare e non come sani limiti in grado di contraddistinguerci dagli altri e di fornire i necessari confini al sé, ne deriverà non solo un profondo senso di frustrazione per la mancata accettazione di parti del sé e un conseguente tentativo di repressione di ciò che viene rifiutato e spesso proiettato in figure esterne, ma anche una forte sensazione di incompletezza legata alla percezione di uno scarto fra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere: vedremo poi come questo può essere correlato, fra le altre cose, a certi comportamenti d’acquisto. Il sé, quindi, sia a livello individuale che collettivo, necessita da una parte, nella sua dimensione temporale di continuità, di una capacità di mantenere viva una rappresentazione degli oggetti anche se assenti e di una fiducia di base nella possibilità di poterli ritrovare con le proprie potenzialità, e dall’altra, nella sua dimensione spaziale necessaria per percepirsi come la stessa unità, di basarsi su una 13
  • 14. rappresentazione dei propri limiti fisici e psichici, esperiti come caratteristiche in grado di separarlo e distinguerlo dalle altre entità. Dimensione spaziale e temporale sembrano decisive nel caratterizzare le reazioni del sé agli stimoli percepiti: persone con un differente senso di continuità del sé reagiranno diversamente a livello emotivo di fronte a situazioni simili quali, ad esempio, distacchi affettivi. In quest’ottica, queste componenti di base del sé sembrano interporsi fra la percezione degli stimoli e la reazione ad essi, giocando così un ruolo decisivo nell’indirizzare i comportamenti sulla base delle loro differenti caratteristiche: i dati sensibili percepiti dal soggetto tramite una capacità di integrare le informazioni propria dei sistemi coscienti costituirebbero delle entità sensibili che entrerebbero nello stesso tempo in contatto con varie dimensioni del sé, fra cui quelle spaziali e temporali, le quali, secondo le proprie caratteristiche sviluppatesi nel tempo, filtrerebbero gli stimoli percepiti permettendo una rappresentazione psichica differente per ogni individuo e producendo differenti reazioni. Essendo meno rilevanti ai fini dell’elaborato, non dedichiamo altrettanta attenzione alle altre componenti del sé segnalate da Ramachandran: la corporeità, o il senso di appartenenza al proprio corpo, si delinea come una caratteristica maggiormente ancorata alla dimensione fisica, e può fare riferimento agli studi di Damasio sul sentimento di fondo e sulla rappresentazione corporea ai quali abbiamo accennato prima (Damasio 1993); a proposito dell’azione volontaria, invece, ne abbiamo già discusso precedentemente, riportando le tesi secondo cui la coscienza e il libero arbitrio non sarebbero altro che sensazioni fondamentali per percepire se stessi come entità che agiscono sull’ambiente, e non rappresenterebbero cause vere e proprie delle azioni (Wegner 2010): la riflessività è probabilmente la caratteristica che più da vicino riguarda l’uomo e può essere intesa come meta-consapevolezza e capacità di pensare a sé stessi come esseri pensanti. Chiarite quelle che potrebbero essere le diverse componenti del sé, non è scopo di questo elaborato prendere in esame tutte le teorie su come queste possano arrivare a formarsi sviluppando il senso del sé: sappiamo l’importanza che la continuità e i confini del sé rivestono per la vita psichica, ma non è nostro obiettivo comprendere come questi si formino. Ci sembra tuttavia utile chiudere questa prima parte 14
  • 15. presentando una teoria dello sviluppo psichico e delle caratteristiche del sé che ci potrà servire in seguito per comprendere alcuni aspetti del comportamento umano: si tratta del modello della mentalizzazione discusso da Fonagy, Gergely, Jurist e Target (Fonagy, Gergely, Jurist, Target, 2002). Lontano dall’idea solipsistica di un sé che fonda la sua realtà psichica indipendentemente dall’ambiente e grazie a strutture innate16, al centro del lavoro dei quattro psicoanalisti c’è invece l’idea di uno sviluppo del sé che, sulla scia delle teorie dell’attaccamento proposte da Bowlby17, è assolutamente imprescindibile dall’interazione con l’altro: in particolare, il bambino acquisisce una consapevolezza e una capacità di controllo sui propri stati emotivi (chiamata regolazione affettiva e resa possibile grazie allo stabilirsi di quelle che vengono chiamate strutture di controllo secondario) solo grazie <<all’osservazione delle manifestazioni espressivo-affettive degli altri e associando queste con le situazioni e gli esiti comportamentali che accompagnano queste espressioni delle emozioni>>18. Il “matching” operato dal bambino fra ciò che esso sente a livello viscerale e la reazione espressiva del caregiver a questo sentire prende il nome di bio-feedback sociale e costituisce per gli autori la base necessaria per passare da uno stato in cui le emozioni possono essere concepite come automatismi incontrollati a uno in cui il sé diviene cosciente dei suoi stessi segnali, e quindi di se stesso. Come gli stessi autori sostengono <<la manifestazione esterna dell’emozione contingente all’attuale stato affettivo del bambino porta alla sensibilizzazione e al riconoscimento di uno stato interno che precedentemente non era accessibile>>19. 16 <<Le evidenze mostrano chiaramente che è ingenuo assumere che il destino genotipico di un bambino si realizzi in un cervello ermeticamente sigillato, in qualche modo isolato dall’ambiente sociale nel quale si verifica l’ontogenesi e il solido adattamento che costituisce il principio organizzativo dell’intero sistema>> Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002), p.95. 17 Le teorie dell’attaccamento trovano le proprie origini nella celebre opera Attaccamento e Perdita dello psicologo John Bowlby, il quale fu il primo a considerare il rapporto fra bambino e caregiver come elemento fondante dello stile affettivo e relazionale che il bambino acquisisce. Secondo Bowlby, il livello di sensibilità e disponibilità del caregiver nel rispondere alle richieste del bambino è quindi alla base della formazione di modelli operativi interni che andranno a definire i comportamenti relazionali futuri. Cfr. Bowlby, J., (1969), Attaccamento e perdita, vol.1: L’attaccamento alla madre. Tr. it. Boringhieri, Torino 1983. 18 Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002), p.106. 19 Ivi, p. 114. Viene fornito anche un esempio in grado di supportare questa tesi tratto da (Dicara, L.V., (1970), “Learning in the automatic nervous system” In Scientific American, 222, pp. 30-39 e Miller, N.E., (1978), “Biofeedback and visceral learning”. In Annual review of psychology, 29, pp. 373-404. <<in questo tipo di studi vengono effettuate continue misurazioni dei cambiamenti dello stato di alcuni stimoli interni a cui il soggetto, inizialmente, non ha un diretto accesso percettivo, 15
  • 16. Così, nei primi mesi di vita il bambino sarebbe geneticamente predisposto a ricercare nell’ambiente eventi contingenti alle proprie azioni, identificando stimoli esterni come conseguenze di azioni messe in atto e sviluppando una <<rappresentazione primaria del sé corporeo come oggetto distinto dall’ambiente>>20; allo stesso modo, osservando il rispecchiamento affettivo della propria espressione emotiva modulato dal genitore, il bambino correlerà i propri stati interni con le manifestazioni espressive del caregiver, cercando poi di comprendere quali proprie azioni hanno preceduto il rispecchiamento affettivo del genitore e giungendo così a esercitare consapevolezza e padronanza del proprio stato emozionale. Più che un unico sé che diviene d’un tratto cosciente, abbiamo in questo modello diverse parti del sé e stati emotivi che acquistano coscienza di se stesse tramite il rispecchiamento con l’altro. Tuttavia, per far sì che questo avvenga, è necessario che il bambino comprenda che ciò che sente e che viene correlato alla manifestazione del genitore sia uno stato che appartiene a se stesso e non al caregiver. Detto in altri termini, c’è bisogno di un processo di categorizzazione degli stimoli (come appartenenti a sé o all’altro) perché il sé emerga come struttura cosciente: questo, secondo gli autori, avviene solamente quando il genitore produce una versione esagerata dell’espressione emotiva <<marcando in modo saliente le proprie manifestazioni di rispecchiamento affettivo per renderle percettivamente differenziabili dalle espressioni emozionali autentiche>>21. Se il genitore dovesse produrre delle espressioni coincidenti con l’espressione emotiva del bambino, quest’ultimo, data la somiglianza fra il proprio stato e la manifestazione esterna di esso, non coglierebbe la differenza e non attribuirebbe più ciò che sente al sé, ma all’altro: lo stato emotivo, non essendo riconosciuto come proprio (perché troppo simile al rispecchiamento del genitore) verrebbe attribuito alla stessa persona che produce la manifestazione espressiva, con il risultato che sarebbe impedito lo sviluppo di rappresentazioni secondarie per quello stesso stato emotivo, con la spiacevole conseguenza di non riuscire né a come, per esempio, la pressione sanguigna. I cambiamenti dello stato interno vengono rappresentati da uno stimolo esterno equivalente, direttamente osservabile dal soggetto, il cui stato co-varia con quello dello stimolo interno. L’esposizione ripetuta a una tale rappresentazione esterna dello stato interno ha come esito finale la sensibilizzazione a e, in alcuni casi, il controllo sullo stato interno>> 20 Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002), p.119. 21 Ivi, p.129. 16
  • 17. comprenderlo, né tanto meno a gestirlo. Mettendoci nei panni di un bambino che non distingue ancora fra un “sé” e un “non-sé”, e che vede la realtà come un “tutto” unico, non percependo la differenza fra una sensazione e lo sguardo del genitore di fronte a tale sensazione, non avrò neanche la percezione che si tratti di due entità distinte: è infatti lo scarto fra sensazione e comportamento rispecchiato che mi permette di comprendere che c’è qualcosa che si distingue in quel “tutto” unico, e quel qualcosa è il “sé”. In mancanza di questa consapevolezza, il bambino non categorizza lo stato emotivo come suo ed è obbligato a introiettare nel sé la rappresentazione dell’altro: <<il bambino che non è in grado di sviluppare una rappresentazione intenzionale del sé, probabilmente, incorporerà nell’immagine di sé la rappresentazione dell’altro, a volte quella mentale, a volte quella fisica. L’immagine del sé, sarà, dunque “falsa”>>22. Questo, come vedremo, porta a ricercare l’altro e a esserne dipendenti ogni qualvolta quello stato affettivo viene percepito: si creano nel sé delle zone di insicurezza dove il soggetto, al posto di sentire le emozioni proprie, avrà introiettato le reazioni dell’altro a quegli stati emotivi. Per ora, sottolineiamo come questa teoria non solo vada incontro alla concezione del sé come struttura tutt’altro che unitaria ma costituita da diverse parti, ma pone anche alla base della formazione del sé la categorizzazione e l’attribuzione di stati emotivi: soltanto quando questo procedimento avviene correttamente, il sé costituisce dei confini fra stati sentiti come propri e stati riferiti all’altro: ecco quindi che il procedimento di attribuzione è la base di quella che abbiamo definito come dimensione spaziale del sé, concernente la consapevolezza dei proprio confini. Non è possibile percepire confini propri rispetto agli stati affettivi se non vi è stato un corretto sviluppo del bio-feedback alla base di essi: detto in parole semplici, così come non è possibile definire i confini di un gruppo se non si è stabilito quali persone vi appartengono e quali no, non si possono definire i confini degli stati emotivi e quindi del sé, se non si è stabilito quali stati sono propri e quali no. Essendo gli stati emotivi fondamentali anche per costruire la propria identità, se essi non vengono correttamente rispecchiati il bambino rischia di introiettare gli stati emotivi del genitore: se, ad esempio, di fronte a sensazioni di richieste di 22 Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2002), p. 148. 17
  • 18. affetto, il bambino osserverà ripetutamente un comportamento evitante del genitore che non produrrà nessuna espressione marcata della sensazione, lo stato affettivo non verrà percepito come proprio e verrà introiettata la reazione evitante del caregiver. La conseguenza è che il bambino non acquisirà consapevolezza della propria richiesta d’affetto e non svilupperà in corrispondenza di questo stato emotivo i giusti confini fra il sé e l’altro, reprimendo il sentimento e attivando al suo posto la rappresentazione evitante del genitore, che gli imporrà di tenere a sua volta un comportamento schivo: il soggetto, nel corso della sua vita, è probabile che faccia di tutto per evitare l’identità di persona in cerca di affetto mostrando invece il lato evitante corrispondente al falso-sé. Questo ci mostra che le caratteristiche del sé che permangono nonostante il trascorrere del tempo e che sono alla base della sensazione di unità e dei propri confini possono corrispondere a quelli stati emotivi non rispecchiati e al “falso-sé” che viene introiettato al posto di essi: il soggetto, al posto di percepire i propri limiti come caratteristiche che permettono di distinguerlo dagli altri, se in corrispondenza di essi non ha sviluppato una linea di confine fra il sé e l’altro data dall’attribuzione di ciò che lui sente e ciò che sentono gli altri, rischia di viverli come handicap da reprimere e confini da superare provando un senso di incompletezza del sé da colmare attraverso l’identificazione con la rappresentazione di stati della mente altrui. Se il processo di attribuzione è decisivo per la coscienza dei propri confini e dei propri limiti, esso risulta importante anche nella dimensione di continuità del sé. Abbiamo già visto precedentemente come questa nozione sia strettamente correlata al concetto di cambiamento: un buon senso di continuità del sé permette infatti di vivere i cambiamenti non traumaticamente, ma con la fiducia nelle proprie potenzialità future. Il modello di Fonagy getta ulteriore luce sull’argomento: se infatti, di fronte alla novità che per sua intrinseca natura arreca una sensazione inziale di paura, il bambino osserva un’espressione marcata del genitore che “gioca” sullo spavento minimizzandolo, il bambino stesso noterà una differenza fra la paura che sente e la manifestazione espressiva del genitore, e comprenderà lo stato emotivo interiorizzandolo come proprio; se invece, nella medesima situazione, il bambino vedrà un’espressione altrettanto spaventata di fronte alla novità, non 18
  • 19. coglierà lo scarto fra ciò che prova e ciò che vede e attribuirà la paura al genitore e non a se stesso. Ciò porterà a una mancata costruzione di confini fra il sé e l’altro in corrispondenza dello stato emotivo di paura di fronte a una novità: ne segue che in futuro, in presenza di contesti simili come i cambiamenti, il soggetto riproverà la paura del genitore ricercando allarme negli occhi degli altri, non riuscendo a comprendere se l’origine del sentimento sia da ricercarsi in sé o negli altri, e non riuscendo così a esercitare un controllo su di se. È probabile, quindi, che la sensazione di continuità del sé possa basarsi soprattutto sulla regolazione affettiva di stati emotivi riguardanti i cambiamenti, trovando maggiori lacune proprio negli individui in cui questi stati affettivi non trovino rappresentazioni di secondo ordine. Abbiamo quindi visto approfonditamente come l’errata attribuzione all’altro di uno stato emotivo primario appartenente al sé possa essere in grado di produrre nel sé, in corrispondenza di stati affettivi non correttamente rispecchiati “zone di insicurezza”, prive di confini fra il sé e l’altro; queste parti del sé non rispecchiate sarebbero alla base di problematiche legate sia alla dimensione temporale di continuità, alterando la fiducia del soggetto nell’affrontare i cambiamenti cui è soggetto il sé, sia alla dimensione spaziale della consapevolezza della propria unicità e dei propri confini, non permettendo al soggetto di percepire alcuni suoi stati e alcune sue caratteristiche come propri, ma favorendo al contrario la discrepanza fra ciò che si è e le aspettative e gli stati emotivi propri dell’altro introiettati nei propri confini. Concludendo, la categorizzazione è quindi vista come quel processo fondativo del sé individuale e collettivo in grado di sviluppare comprensione cosciente dei propri comportamenti e dal quale dipendono sia il senso di continuità, sia la percezione dei propri confini23. Il punto di vista dal quale partiamo è quindi quello di un sé 23 Si veda a tal proposito anche Altman: <<se posso controllare quello che sono io da quello che non sono io, se posso definire cosa è me e cosa non lo è, e se posso osservare I limiti e lo scopo del mio controllo, allora ho dato un grande passo verso la comprensione e la definizione di chi sono.>> Altman, I., (1975), The environmental and social behavior: Privacy, personal space, territory and crowding. Wadsworth, New York. Riguardo all’importanza del processo di categorizzazione per la costruzione di limiti e di senso di continuità del sé collettivo: <<il concetto di identità risponde alla necessità di individuare e comunicare gli aspetti particolarmente caratteristici e specifici di un’organizzazione, l’insieme di quegli elementi che la rendono distinguibile dalle altre 19
  • 20. corporeo e frammentato, identificabile più con una serie di diversi fenomeni mentali che ne sono alla base che come concetto unitario; lo studio dei comportamenti di consumo che intendiamo svolgere sarà quindi basato su questa concezione, ed essi verranno conseguentemente esaminati mettendoli in relazione non con le attività di un sé unitario, ma con l’attività di differenti funzioni del sé. organizzazioni e che si manifestano con una certa continuità temporale>> Olivero, N., Russo, V., (2009), p. 447. 20
  • 21. 2. LA RELAZIONE FRA IL Sé E L’OGGETTO DI CONSUMO. Chiarito da quale punto di vista intendiamo definire il concetto del sé, occupiamoci ora di approfondire la relazione che le sue diverse componenti e funzioni precedentemente descritte intrattengono con i comportamenti di consumo: obiettivo principale di questo capitolo è in particolare analizzare il ruolo simbolico rivestito dagli oggetti e la loro importanza per l’attività psichica, cercando di comprendere al meglio le basi della relazione soggetto-oggetto che risulta essere di estrema rilevanza in un’epoca contemporanea che vede nel comportamento di consumo una delle sue principali caratteristiche. La relazione fra soggetto e oggetto viene solitamente presa in considerazione dalle neuroscienze e dalla filosofia della mente facendo riferimento alla dimensione puramente fisica, indagando cioè come la rappresentazione dei confini corporei possa variare in relazione all’interazione con gli oggetti: emblematico a questo proposito è l’articolo apparso nel 1996 sulla rivista Neuroreport24, nel quale il neuroscienziato Atsushi Iriki e il suo team, durante uno studio sperimentale condotto sulle scimmie, hanno abilmente dimostrato come un gruppo di neuroni della corteccia parietale posteriore dell’animale si attivava in corrispondenza non solo del movimento della mano della scimmia, mettendo in atto così una funzione di codificazione dello spazio circostante che già si sapeva appartenere a questi neuroni, ma anche quando la scimmia cercava di raggiungere del cibo tramite un rastrello, il quale, modificando la rappresentazione dello spazio raggiungibile circostante, veniva quindi nel vero senso della parola incorporato nel campo recettivo visivo di questi neuroni, andando così ad ampliare i confini di ciò che veniva percepito come appartenente al sé. L’espansione dei confini della rappresentazione corporea era in questo caso strettamente legata al momento in cui lo strumento veniva usato: una volta messo da parte il rastrello, i campi recettivi tornavano alla loro estensione usuale delimitando i reali confini corporei (Berlucchi 1997, Rizzolatti, Sinigaglia 2006). 24 Iriki, A., Tanaka, M., Iwamura, Y. (1996), “Coding of modified body schema during tool use by macaque postcentral neurones”. In Neuroreport, 7, pp. 2325-2330. 21
  • 22. Ciò che in questo caso viene chiamato body schema, ossia la rappresentazione mentale del proprio corpo e dei suoi limiti spaziali, è quindi una mappa corporea sempre presente in grado di plasmarsi a seconda delle interazioni dell’organismo con l’ambiente e di estendersi includendo nei propri confini oggetti che, pur non appartenenti al corpo stesso, vengono percepiti come tali se sono in grado di aumentare il raggio di azioni potenziali del soggetto modellando la sua possibile attività: nel momento in cui il rastrello permetteva alla scimmia di mettere in atto una possibile azione quale raggiungere una quantità lontana di cibo, esso veniva infatti introiettato nella rappresentazione dei confini del corpo della scimmia stessa. Il classico esempio che viene fatto a tal proposito in riferimento all’uomo è quello del ciclista, il cui body schema arriverebbe a includere la bicicletta durante l’uso che di essa viene fatto (Berlucchi, Agliotti 1997). Allo stesso modo è probabile che chiunque, dopo aver preso confidenza con la propria macchina, sperimenterà una sensazione di sicurezza nel calcolare automaticamente gli spazi in cui essa può muoversi e entro i quali, ad esempio, può essere parcheggiata: la rappresentazione corporea è estesa in quei momenti fino ai confini della macchina stessa, e i nostri neuroni si attivano come segnali in grado di codificare lo spazio circostante proprio come se si trattasse del nostro corpo. Scoperte e ipotesi di questo tipo ci aiutano a prendere consapevolezza della malleabilità e della flessibilità dei confini del body schema, concetto che appare assimilabile a quella rappresentazione corporea che Damasio aveva identificato come sentimento di fondo sempre presente (Damasio 1993) e Ramachandran come componente centrale del sé chiamata corporeità (Ramachandran 2002). La sensazione di proprietà del proprio corpo e dei suoi confini è una delle caratteristiche fondamentali del sé, e il corpo stesso, fra tutte le entità che siamo in grado di percepire, è ciò che viene maggiormente identificato come “mio”, se non, addirittura, come “me”25 (Belk 1988, Prelinger 1959). 25 In una ricerca del 1959 condotta dallo psicologo Prelinger, veniva chiesto a dei soggetti di assegnare a 160 frasi, in una scala da 0 a 3, un punteggio corrispondente al grado in cui queste frasi contenevano un elemento percepito come appartenente a sé, come “mio”. Le frasi erano raggruppate in 8 categorie diverse. Ne risultò che, nell’ordine, il grado di correlazione con il sé era sentito più altro in corrispondenza di parti del corpo (2,98), processi psicologici come la coscienza (2,46), caratteristiche e attributi personali (2,22), oggetti posseduti (1,57), idee astratte (1,36), altre persone (1,10), oggetti dell’ambiente circostante (0,64), oggetti ambientali lontani (0,19). Prelinger, E. (1959) “Extension and Structure of the Self” in Journal of Psychology, 47, pp. 13-23. 22
  • 23. Se, come sostengono diverse scuole di pensiero psicoanalitico, il bambino nasce incapace di distinguere il sé dall’ambiente circostante, è con il passare del tempo e con l’acquisizione della consapevolezza di esercitare un certo grado di controllo su alcune parti del proprio organismo che si incomincia a creare nella sua mente uno schema della propria dimensione corporea costituito dalla rappresentazione neurale di tutte le sue modificazioni (Belk 1988). Abbiamo precedentemente visto che però, nonostante l’importanza che la dimensione prettamente corporea riveste per la vita psichica, vi sono altre componenti che agiscono come sentimenti di fondo e mappe mentali necessarie per il sé: in particolare, per i nostri obiettivi, è importante far riferimento sia a quella che abbiamo descritto come la dimensione spaziale del sé, ossia la sensazione di unicità e unitarietà fornita dalla consapevolezza di una differenza psichica fra sé e gli altri e da una rappresentazione mentale dei confini esistenti fra le proprie caratteristiche e quelle altrui, sia alla dimensione di continuità, ossia una mappa mentale del proprio sviluppo temporale. Alla pari della flessibilità dello schema corporeo, possiamo infatti ipotizzare che anche la percezione dei propri confini psichici e temporali sia ugualmente malleabile e arrivi a incorporare, oltre agli stati emotivi degli altri come visto nel modello di Fonagy, anche ciò che gli oggetti rappresentano, facendo sì che essi vengano percepiti come vere e proprie parti del sé; un oggetto, così come nella sua dimensione meramente fisica può venir percepito come parte integrante del corpo qualora modifichi il rapporto del soggetto con lo spazio e il suo raggio d’azioni potenziali, anche nella sua dimensione simbolica potrebbe essere introiettato nella rappresentazione dei propri limiti e confini e percepito come parte del sé qualora si presenti agli occhi del soggetto come un aggregato di significati in grado o di esprimere alcune sue caratteristiche, andando così a rimodellare le differenze fra esso e le altre individualità, oppure di fornirgli la concreta sensazione di un proprio sviluppo temporale. Per comprendere come possa avvenire questo processo, rivolgiamoci agli studi filosofici e psicologici che si sono occupati di chiarire la relazione fra gli individui e gli oggetti che essi possiedono: l’idea sopra esposta che alcuni oggetti siano percepiti come vere e proprie parti del sé affonda le sue radici nelle teorie dello 23
  • 24. psicologo William James, il quale già nel 1890 riconduceva il concetto del sé a un vasto insieme costituito da tutto ciò che la persona ritiene di possedere, in un ampio agglomerato che va dai beni più concreti fino ai propri ideali e alle proprie caratteristiche, passando per la dimensione corporea26: gli oggetti, alla pari del corpo e di tutto ciò che viene definito dal soggetto come “mio”, diventano quindi fondamentali nella definizione di ciò che è “me”. Non sorprende, in quest’ottica, che James fu tra i primi a mettere in dubbio la sottile differenza esistente fra “me” e “mine”, collocando gli oggetti in nostro possesso in un continuum decisivo per la definizione della propria personalità: vuoto di sostanzialità, il sé si delinea ora come una struttura plastica in grado di modificare la sua essenza in base alla provvisoria conformazione dei propri confini27. Sulla stessa scia di pensiero, Jean Paul Sartre, nel suo più importante lavoro “Essere e Nulla”, definisce il senso del possesso come la base necessaria del senso del sé: la motivazione prioritaria che spinge l’uomo a desiderare di possedere qualcosa è infatti per il filosofo francese la volontà e la necessità di ampliare il proprio sé, trovando riscontri della propria dimensione identitaria nell’osservazione e nel tentativo di appropriazione di un’oggettualità esterna. Per Sartre, possiamo infatti sapere chi siamo solo osservando ciò che abbiamo: l’avere è quindi condizione di possibilità dell’essere, ed è solo tramite l’atto di possesso che il soggetto può trovare e sentire l’essenza del proprio sé. Approfondendo l’analisi fra individualità e oggetto, Sartre individua a questo proposito tre principali modalità attraverso cui si esplica il fondamentale atto di appropriazione di un’entità esterna: la prima è il gesto del controllo, tramite il quale l’uomo arriva a percepire come proprio un determinato oggetto sul quale può esercitare un certo grado di potere (uno scalatore può ad esempio sentire come “sua” una montagna dopo aver raggiunto la vetta ed aver quindi esercitato un controllo su tutto il panorama). La seconda modalità è invece la creazione, atto che permette all’uomo di definire come proprio un oggetto da lui stesso creato: si presti particolare attenzione al fatto che con il termine oggetto non si fa in questo caso 26 Cfr. <<a man’s self is the sum total of all that he can call his, not only his body and his psychic poker, but his clothes and his house, his wife and his children, his ancestors and friends, his reputation and works, his lands, and yacht and bank-account>> James, W., (1980) 27 Cfr. “But it is clear that between what a man calls me and what he simply calls mine the line is difficult to draw” James, W., (1890). 24
  • 25. riferimento alla sola dimensione tangibile e concreta, e quindi esclusivamente a beni prodotti manualmente dal soggetto, ma ovviamente anche alle entità astratte, ai sentimenti, piuttosto che alle azioni e ai gesti messi in atto, o per così dire “creati”, dal soggetto stesso. Anche l’atto conoscitivo dell’uomo è per Sartre un tentativo di appropriazione di qualcosa di esterno e sconosciuto dal sé: conoscendo qualcosa, quel dato qualcosa viene infatti introiettato nel sé e diventa una propria conoscenza, permettendo all’individuo di ridefinire i confini della propria identità28. Ed è proprio l’atto del conoscere che, in virtù di questa sua natura, viene identificato dal filosofo come la terza modalità di appropriazione. Traducendo il tutto nel nostro linguaggio, controllare, creare e conoscere sono quindi per Sartre non solo tre differenti modi attraverso cui l’individuo entra in possesso degli oggetti fisici e non, ma anche tre atti tramite i quali il soggetto, rioperando un processo di categorizzazione, introietta nella sua identità nuovi elementi che gli permettono di trovare e costruire il proprio sé, differenziandolo dagli altri (Sartre 1943, Belk 1988): l’oggetto è qui nuovamente visto non come un’entità percepibile che rimane esterna ed estranea al sé, in uno spazio metafisico indefinito e irraggiungibile, ma anzi come una costellazione di potenziali azioni e significati che attraverso l’atto di appropriazione vengono incorporati nella propria identità esprimendo così una parte di essa. È in questa direzione che va anche il lavoro del filosofo americano Russel Belk, il quale per primo fa riferimento esplicito al concetto di sé esteso, identificando con questa nozione l’insieme di oggetti, luoghi, esperienze, idee e persone che vengono percepiti dall’individuo come parti della propria personalità. Accanto alla struttura di base del sé costituita da un nucleo contenente le principali caratteristiche dell’individualità del soggetto, Belk postula infatti l’esistenza di una parte estesa e flessibile del sé in grado di inglobare e fare propria la rappresentazione di altre entità sostanzialmente differenti dall’individuo stesso (Belk 1988). Questa concettualizzazione, nata sulla scia del lavoro di Sartre, è stata senza dubbio importante poiché ha introdotto nell’ambito degli studi sui consumi alcune argomentazioni filosofiche e psicologiche di base che hanno permesso di andare 28 Cfr. “il desiderio di conoscere, per quanto disinteressato possa apparire, è un rapporto di appropriazione. Il conoscere è una delle forme che può prendere l’avere” Sartre, J., (1943) 25
  • 26. oltre una ricerca sui comportamenti d’acquisto prettamente ancorata a una dimensione oggettuale concretistica, estendendo invece il dominio di incorporazione degli oggetti nel sé anche a una dimensione astratta riguardante luoghi, idee e altre persone; l’immagine mentale che noi produciamo di un oggetto non è infatti da questo punto di vista ontologicamente differente da quella che noi ci formiamo di un’altra persona o di un'altra entità non oggettuale: tutto ciò che percepiamo diventa nella storia della nostra mente una riproduzione ugualmente manipolabile e soggetta ai medesimi processi cognitivi e emozionali. In questo modo, persone, luoghi e oggetti sono messi sullo stesso piano dal punto di vista di ciò che essi rappresentano per noi: tutto può diventare parte del nostro sé esteso e fungere da immagine mentale in grado di essere incorporata e di rappresentare una parte del sé. Chiarito il ruolo dell’atto d’incorporazione di un oggetto all’interno del sé, si comincia ora a delineare la motivazione che sta dietro a molti comportamenti di consumo, e non solo: circondarsi di oggetti includendoli nella rappresentazione dei propri confini significa così permettere ad alcune parti del sé di esprimersi e di trovare una loro attualizzazione nella vita quotidiana (Balconi, M., Antonietti, A., 2009). Allo stesso modo, tenendo conto del paritetico status ontologico attribuibile a entità astratte e concrete, possiamo affermare che venerare una persona, votare un politico, piuttosto che affidarsi a un brand, diventano tutte modalità attraverso cui l’individuo esprime, sia all’interno di una rete di rapporti intersoggettivi, sia a se stesso, una determinata parte e componente del sé che altrimenti, non trovando nell’oggetto (concreto o meno) la sua rappresentazione sensibile e la sua immagine mentale in grado di esplicitarlo, rimarrebbe inespressa come un personaggio teatrale privato di un attore in grado di impersonificarlo: ogni stato affettivo è infatti nella natura umana un contenuto che ha bisogno della sua forma, ossia di un’immagine mentale in grado di rappresentarlo. A titolo di esempio, il desiderio di manifestare una propria carica aggressiva può trovare così la sua estrinsecazione in personaggi e oggetti che sono associati a questo tipo di comportamenti forti e arroganti, così come il desiderio di esibire una parte del sé autonoma e prevaricante può individuare in figure carismatiche e potenti la sua rappresentazione sensibile, trasformando poi l’unione fra contenuto 26
  • 27. emozionale e rappresentazione oggettuale in un atto d’acquisto o di adesione a modelli e oggetti inerenti a questi stati affettivi. Si tratta quindi di una concezione rappresentazionale e profondamente simbolica dell’oggetto di consumo, da intendersi in questo caso non solo come un qualcosa di meramente acquistabile e riferito alla sola dimensione commerciale, ma a tutto ciò che intercetta i desideri dei soggetti e che viene percepito da essi come una parte di sé; in quest’epoca in cui è indubitabilmente vero che tutto si vende e tutto si consuma, la venerazione e il desiderio di possesso non è solamente demandabile agli oggetti, ma anche, e soprattutto, ad altre persone o ad esempio a brand. Qualsiasi immagine mentale che può servire al soggetto come forma rappresentativa in cui un contenuto e un sentire del sé trovano la loro oggettificazione e attualizzazione viene così incorporata nei propri confini psichici e percepita come vera e propria parte di sé. Il momento del consumo e più in generale di adesione a ideali, persone e gruppi è diventato quindi nella realtà moderna un fondamentale momento di espressione del sé per mezzo del quale l’individuo può trovare forme simboliche in grado esprimere diverse componenti della sua personalità, definendola e rimodellandola in continuazione, e permettendo una sua manifestazione agli altri. Lo studio dei consumi sembra avere acquisito la consapevolezza di una funzione dell’oggetto che trascende il valore funzionale del prodotto in sé a partire dai lavori sociologici di Douglas e Isherwood, fra i primi ad aver indicato la centralità del processo di significazione operato dai consumatori all’interno di una teoria volta a comprendere i comportamenti d’acquisto (Douglas, M., Isherwood, B., 1979). Tale processo rappresenta per ogni individuo una grande opportunità di costruire e cambiare la propria identità secondo le proprie scelte consumistiche, fornendo nello stesso tempo uno specchio di ciò che si vorrebbe essere anche agli altri: come sintetizzato recentemente da Olivero e Russo <<si può sostenere che i significati condivisi socialmente orientano il consumatore verso un dato prodotto, il quale successivamente mette in atto un’operazione di personalizzazione, di attribuzione di significati legati alla relazione che vi instaura, come se divenissero un territorio esteso per la rappresentazione del self>>.29. 29 Oliviero, N., Russo, D., (2009) 27
  • 28. Il ruolo dell’oggetto nella definizione della personalità viene ribadito anche dal filosofo comportamentista Mead e da Cooley, i quali, riferendosi all’insieme di teorie già esposte nel capitolo precedente, rievocano il ruolo centrale del processo di rispecchiamento e di osservazione dei comportamenti degli altri per la formazione del sé, e inquadrano in quest’ottica l’acquisto come un ritorno a questa dimensione, grazie alla quale l’opinione espressa dagli altri su di sé, e sul bene posseduto, funge da punto di partenza per la costituzione di una propria identità; non solo, quindi, il processo di scelta diventa una modalità di comunicazione mediante la quale trasmettere agli altri un messaggio e una componente del sé, ma riveste anche una grande importanza nell’auto-costruzione di un’identità (Balconi, M., Antonietti, A., 2009). Naturalmente questo ruolo degli oggetti d’acquisto non è sfuggito a chi è stato chiamato alla gestione di un brand, dove con questo termine, come già ricordato, non intendiamo designare solamente la mera dimensione oggettuale, ma anche qualsiasi prodotto “vendibile”, persone e ideali compresi: ad ogni “oggetto” da porre sul mercato viene infatti associata una personalità, così da favorire un processo di identificazione da parte dei soggetti, i quali cercano nel momento del consumo un’opportunità per narrare parti del sé inespresse, allargando i confini del sé e percependo come appartenenti a se stessi tutte le entità in grado di fornire un vestito concettuale a un corpo emotivo di base30. Un rapido sguardo alle pubblicità ci mostra infatti come <<Barilla acquista un carattere prevalentemente affettivo e protettivo, Tim diventa amicale e affiliativa, Vodafone dinamica e coraggiosa, Dior altezzosa e aristocratica […] La preferenza accordata a una marca piuttosto che all’altra assume il valore di simbolo, di stemma, con cui il consumatore esprime il suo personale stile di vita, l’adesione a determinati valori>> (Balconi, M., Antonietti, A., 2009). Non sorprende che in questo contesto di personalizzazione dei brand31, un ambito che riscuote sempre 30 Riguardo all’importante concetto di identificazione, processo alla base dell’introiezione di un oggetto nei propri confini, il contributo principale deriva dalla psicoanalisi: <<Nella teoria psicoanalitica, infatti, questi processi sono strutturanti l’identità dei soggetti, spostando i confini tra il sé e realtà in modo tale che in ogni esperienza transizionale l’oggetto di identificazione divenga parte di sé (introiezione), così come parti di noi divengano elementi dell’oggetto (proiezione)>> Balconi, M., Antonietti, A., (2009). 31 Gli studi di Aaker sulla brand personality, ovvero l’antropomorfizzazione del brand hanno condotto all’individuazione di 5 caratteristiche di personalità, anche dette Big Five, riconoscibili, in 28
  • 29. grande successo sia quello dell’abbigliamento, tramite il quale la natura del comportamento d’acquisto esprime tutto il suo potenziale: il vestito diventa infatti il paradigma per eccellenza della possibilità degli individui di indossare e prendere in prestito un’identità, trasformandola in un qualcosa di prettamente fisico e facilmente comunicabile agli altri. I capi d’abbigliamento, così, non solo possono essere incorporati nel proprio body schema ampliando i confini della propria rappresentazione corporea (Berlucchi, G., Agliotti, S., 1997), ma possono anche essere inglobati nella dimensione spaziale del sé contenente le proprie caratteristiche, dando forma alle proprie componenti identitarie e venendo di conseguenza percepiti come vere e proprie parti di del sé. Chiarito l’importante ruolo che l’oggetto d’acquisto riveste nel processo di espressione di parti del sé che l’individuo intende mostrare, occupiamoci invece ora di comprendere le modalità tramite cui ciò che viene incorporato nel proprio sé esteso possa contribuire a proteggere alcune zone del sé e a nascondere certi stati affettivi per mezzo dell’identificazione in oggettualità esterne. Lo studio della relazione fra il significato simbolico attribuito agli oggetti e le mancanze percepite nella rappresentazione del sé trova la sua origine negli studi di Wicklund e Gollwitzer, che nel loro volume “Self-completion theory” teorizzano l’esistenza di un processo di completamento simbolico del sé, che, inserito in un contesto intersoggettivo, viene operato dagli individui come tentativo di sopperire al mancato raggiungimento di un obiettivo, ritenuto fondamentale per la propria immagine, attraverso un oggetto che sia socialmente ritenuto rappresentativo del medesimo scopo. Gli individui, secondo questa teoria, sperimenterebbero un senso di completezza quando, di fronte alla percezione di un divario psichico fra il sé attuale, ossia ciò che essi pensano di essere, e il sé ideale, ossia ciò che essi vorrebbero essere, riescono, tramite l’esibizione di “etichette” e l’appropriazione di oggetti, a ridurre questo gap agli occhi degli altri. Le oggettualità esterne, in virtù della loro natura rappresentazionale, fungono in questo caso da entità in grado di colmare un vuoto interiore. misure diverse, in tutte le marche: sincerità, eccitazione, competenza, sofisticatezza e rudezza. Cfr. Olivero, N., Russo, V., (2009), pp. 209-210. 29
  • 30. Mettere in atto inconsciamente questo tipo di strategia compensatoria tesa a nascondere preesistenti e durature mancanze del sé implica per gli autori l’instaurazione di rapporti interpersonali non autentici, ma piuttosto improntati solamente sull’esasperato bisogno del soggetto di essere visto e riconosciuto dagli altri come individualità priva di imperfezioni e di quella stessa mancanza, vissuta dal sé come limite. L’altro perde in questi casi il suo carattere di persona con cui empatizzare, e diventa un mero specchio attraverso il quale controllare l’efficacia di un processo di occultazione del sé reale e di sovrapposizione di una maschera rappresentante il sé ideale (Wicklund, R., Gollwitzer, P., 1982). Esibire, in questo senso, significa nascondere: la vergogna di mostrare le proprie mancanze viene cancellata da un oggetto, un concetto, o una persona in grado di esprimere un significato opposto alla propria carenza, e vicino invece a ciò che si vorrebbe essere. Tornando all’argomentazione di Russel Belk, è probabilmente a questo principio che il filosofo fa riferimento quando ipotizza una relazione di proporzionalità inversa fra la solidità del nucleo di base del sé e la necessità di acquisire entità esterne da introiettare nel sé esteso: maggiore è il grado in cui un’individualità poggia su basi certe e ancorate alla propria personalità, minore dovrebbe essere il suo bisogno di fare affidamento a oggetti e personalità esterne al fine di definire e proteggere se stessa; al contrario, una minore solidità di base e una minore consapevolezza dei confini della propria identità sarebbero causa di un atteggiamento del sé orientato all’incorporazione di oggettualità esterne in grado di sopperire alle mancanze di base (Belk 1988)32: potremmo parafrasare la questione con un semplice “più siamo vuoti dentro, più tenteremo di essere ricchi fuori”. In questa nuova ottica di pensiero, molti comportamenti d’acquisto troverebbero il loro significato in un estremo tentativo del sé di trovare i propri confini non precedentemente definiti sulla base di un sano sviluppo della personalità. Facendo riferimento al lavoro di Fonagy esplicitato nel primo capitolo, possiamo comprendere che ciò che viene definito “sano sviluppo del sé” è un processo fondato su una corretta attribuzione di stati affettivi operata tramite il meccanismo 32 Cfr. “we may speculate that the stronger the individual’s unextended or core self, the less the need to acquire, save, and care for a number of possessions forming a part of the extended self”. Belk, R. (1988), p. 159. 30
  • 31. di rispecchiamento: categorizzare uno stato affettivo come appartenente al sé o all’altro è infatti ciò che sta alla base della costituzione di una mappa psichica che rappresenti i confini del sé e funga da sentimento di base in grado di fornire al sé la necessaria consapevolezza dell’estensione della propria identità di base, delle sue caratteristiche, dei suoi limiti, del suo sviluppo temporale e di una precisa distinzione fra sé e altro. In mancanza di questo processo abbiamo visto che il sé non acquisisce la corretta percezione dei propri confini e introietta lo stato mentale dell’altro portando alla costituzione di quello che Fonagy, con riferimento a Winnicott, chiama non a caso il falso sé33, una personalità basata sulla negazione di questi stessi stati mentali (Fonagy, Gergely, Jurist, Target, 2002). Possiamo ora capire che questo falso sé, che prende forma nelle zone di insicurezza laddove manca una percezione dei propri confini e che come detto da Fonagy <<prende in prestito ideali>> per colmare il proprio vuoto, coincide con la fragilità del nucleo di base del sé e con il conseguente tentativo di ricorrere ad entità esterne per proteggersi a cui fa riferimento Belk (Belk 1988). Il concetto di base è infatti il medesimo: un sé poco sicuro dei propri confini e delle proprie caratteristiche ricorrerà a oggetti, personalità e ideali esterni che gli permettano di trovare i suoi stessi limiti, mascherando così il vuoto di personalità sottostante. Ritornando all’esempio trattato nel primo capitolo, possiamo, a scopo meramente didattico e mettendo fra parentesi per un momento la complessità di fattori che concorrono alla formazione della personalità, ipotizzare che un soggetto il quale, causa il reiterato comportamento evitante del genitore, non acquisisca consapevolezza della propria richiesta d’affetto e tenda quindi a reprimere quel sentimento imponendo a se stesso di assumere invece un comportamento a sua volta evitante, dovrebbe fare di tutto per evitare l’identità di persona in cerca di affetto: è probabile dunque che, per mascherare lo stato affettivo e il vuoto di personalità sottostante ad esso, acquisirà ideali di forza e aggressività, orienterà i 33 Cfr. “un sé il cui stato costitutivo no ha ottenuto riconoscimento è un sé vuoto. Il vuoto riflette l’attivazione di una rappresentazione secondaria che manca delle connessioni corrispondenti con l’attivazione affettiva all’interno del sé costitutivo. L’esperienza emozionale sarà priva di significato, e l’individuo potrà ricercare altre figure potenti con cui fondersi, o ricercare l’induzione per causa esterna (attraverso droghe) di esperienze fisiche di attivazione per riempire il vuoto con una forza o ideali presi in prestito.” (Fonagy, Gergely, Jurist, Target, 2002), pp. 146-147. 31
  • 32. suoi consumi e i suoi gusti in tale direzione, e prenderà come modelli di identificazione personalità che esibiscano questi tipi di comportamento. Una zona di insicurezza del sé contenente uno stato affettivo non compreso diventa dunque terreno fertile per la ricerca di oggettualità esterne che, introiettate nel sé, definiscano la personalità. Accade così che l’acquisto esasperato di oggetti, la cieca adorazione di una personalità e l’espressione esacerbata di estremi ideali possano rappresentare in questo senso modalità tramite cui il sé nasconde a se stesso e agli altri un’insicurezza sottostante; essendo quest’area di insicurezza, come abbiamo visto, territorio in cui non vi è confine fra un proprio sentire e quello di un altro, e in cui regna sovrana la confusione, un qualcosa di esterno viene mentalmente incorporato e sentito come proprio con la speranza che possa aiutare il sé a ricostruire il proprio confine con l’altro definendo così la propria identità: comprando un oggetto, piuttosto che attraverso l’identificazione con qualcuno, ho infatti l’opportunità di ribadire una personalità, di esprimere una parte di me, e in poche parole, di definirmi e posizionarmi rispetto agli altri. Maggiore sarà la mia insicurezza, maggiore sarà la necessità di ricorrere a queste entità esterne per definirmi. Il riferimento a dimensioni oggettuali utilizzate per mascherare aspetti del sé viene identificata in psicoanalisi con il concetto di strategia feticista: facendo riferimento in questo ambito al brillante saggio scritto dalla psicoterapeuta americana Louise J. Kaplan e intitolato “falsi idoli”, con il termine feticismo non si fa riferimento a un comportamento attinente alla sola sfera sessuale, come si è soliti pensare, ma più in generale ad un concetto che rimanda ad un qualsiasi atteggiamento di venerazione per certi oggetti: il feticcio, in quest’ottica, diventa quindi la sintesi di tutto ciò che fino ad ora abbiamo identificato come dimensione oggettuale incorporata nei confini del sé per esprimere o mascherare parti del sé. Per la Kaplan, in particolare, la strategia feticista è quel processo messo in atto dal soggetto per trasformare tutto ciò che è immateriale, ambiguo e per sua natura incontrollabile, come possono essere quelle emozioni e quegli stati affettivi non compresi, in qualcosa di materiale, conosciuto, manipolabile e distante da sé. Nel feticismo sessuale, ad esempio, la forza pulsionale dell’erotismo, ambigua e mai compresa fino in fondo, costituisce un’ombra pericolosa che viene esorcizzata e mascherata dalla presenza 32
  • 33. di un oggetto su cui concentrare le proprie attenzioni e i propri desideri: proiettando infatti su un’entità esterna un qualsiasi sentimento imprevedibile e pericoloso, il soggetto allontana l’ignoto da sé, prendendone le distanze e sperimentando una sensazione di controllo su di esso. Naturalmente, questo atteggiamento inconscio pervade molti istanti della nostra quotidianità; come ci ricorda la Kaplan, <<la nostra vita quotidiana è basata sulle culture del feticismo che sostituiscono i valori spirituali con oggetti materiali che catturano la nostra attenzione con il loro scintillio in modo da nascondere più agevolmente il loro contenuto traumatico>>34. La smodata venerazione per oggetti, ma anche per persone, ideali e concetti che vengono, in termini di marketing, brandizzati, e cioè trasformati in icone, è in buona parte rimandabile a questo bisogno di coprire un sentimento sottostante vissuto come imprevedibile e inquietante perché, come direbbe Fonagy, non mentalizzato e non rispecchiato; senza una capacità riflessiva di comprendere i propri stati emotivi l’individuo è infatti facilmente portato a percepirli come ignoti e quindi pericolosi, ricorrendo così a dimensioni oggettuali che deviino la sua attenzione, reprimano il sentire, mascherino le sue carenze, ed esprimano parti del sé: <<quando l’oggetto del desiderio è vivente e incontrollabile, il desiderio, per proteggersi si posa su un oggetto inanimato.>>35 Il brand e l’oggetto rivestono in questo senso l’importanza di etichette da sovrapporre alle ferite del sé per coprire un doloroso sentire sottostante: la stessa Kaplan fa riferimento al marketing ricordando che <<senza saperlo distintamente, la sterile cultura contemporanea fa leva su questi timori primordiali per sviluppare strategie di marketing che inducano i consumatori ad acquistare molte più merci di quante gliene occorrerebbero>>36 Concludendo questo capitolo, abbiamo dunque visto come le dimensioni del sé e le conseguenti percezioni di una propria unicità e di un proprio sviluppo temporale cui faceva riferimento Ramachandran siano flessibili e malleabili rappresentazioni inconsce che, essendosi sviluppate sulla base di un corretto processo di categorizzazione, possono anche essere alla base di certi comportamenti d’acquisto tesi non solo all’incorporazione di oggetti esterni mirata a dare una veste sensibile e 34 Kaplan, L.,J., (2006), p. 17. 35 Ivi, p. 147. 36 Ivi, p, 165. 33
  • 34. rappresentativa alle proprie parti e caratteristiche, ma anche a proteggere e difendere il sé nelle sue zone più vulnerabili, cercando la ricostruzione di un confine e di una personalità laddove non vi sia stato un corretto processo di sviluppo di distinzione fra il sé e l’altro. 34
  • 35. 3. L’ACQUISTO COMPULSIVO: MODELLI DI SPIEGAZIONE DEL COMPORTAMENTO DI DIPENDENZA. Dopo aver attentamente analizzato il rapporto fra il sé e gli oggetti d’acquisto, e prima di dedicarci allo studio dell’influenza esercitata dalla società dei consumi su questa relazione, è giunto ora il momento di concentrare le nostre attenzioni su un tema che svolge un ruolo centrale nei comportamenti d’acquisto, e non solo: la dipendenza. Obiettivo di questo capitolo non è ovviamente fornire una panoramica completa di tutti gli ambiti in cui questo concetto può essere studiato, e neanche rintracciare un quadro esaustivo delle sue possibili cause, ma bensì, coerentemente con i precedenti capitoli, analizzare la possibile relazione fra il comportamento dipendente e la sfera degli acquisti, correlazione che trova la sua attuazione in un fenomeno che negli ultimi decenni è stato chiamato acquisto o shopping compulsivo. Prima di addentrarci nell’analisi di questo fenomeno, è tuttavia necessario porre come doverosa premessa un rapido quadro generale del concetto di dipendenza: se è senza dubbio vero che con questa espressione, attualmente, si è sempre soliti far riferimento ad un qualsiasi comportamento compulsivo di ricerca di una determinata sostanza o ad una reiterata messa in atto di un comportamento, ed è dunque da intendersi come un concetto che racchiude in sé una serie di molteplici significati che vanno ben oltre la sfera attinente agli acquisti e gli intenti di questo elaborato, è però fondamentale sottolineare che tradizionalmente il termine dipendenza veniva esclusivamente usato in riferimento al reiterato abuso di sostanze alcooliche o tossiche da parte di un individuo non in grado di esercitare un controllo su questa azione (Pani, Biolcati, 2006). Nonostante il suo significato originario affondi quindi le radici in un contesto di abuso di alcool o droga, tuttavia, negli ultimi decenni, il concetto si è esteso fino a inglobare una serie di determinate azioni non per forza orientate all’assunzione di tali determinate sostanze: in particolare, in ambito psicologico, a fianco del tradizionale modo di intendere la dipendenza, ha fatto la sua comparsa il concetto di “addiction”, termine con il quale recentemente si è soliti designare una condizione generale di <<dipendenza psicologica che spinge alla costante ricerca dell’oggetto, 35
  • 36. dell’attività, senza i quali l’esistenza dell’individuo sembrerebbe perdere di senso>>37. Il concetto di dipendenza esce quindi da una condizione di forte imprescindibilità dalla presenza di una concreta sostanzialità per arrivare invece a includere tutte le generiche circostanze in cui vi è un abuso, da parte del soggetto, di un determinato comportamento, ripetuto in modo incontrollato poiché dettato da un sottostante bisogno urgente che richiede immediato soddisfacimento. Ciò che è importante rimarcare per il prosieguo della nostra analisi è che, indipendentemente dall’oggetto del comportamento dipendente, vi sono importanti aspetti che accomunano le recenti “addictions” con le tradizionali dipendenze: primo fra questi lo stato di forte desiderio compulsivo verso il raggiungimento dell’oggetto/comportamento, accompagnato secondariamente da un malessere dovuto all’astinenza da esso e da correlate radicali alterazioni del tono dell’umore in corrispondenza dell’inizio o della fine dell’attività dipendente; quest’ultima, inoltre, recita un ruolo di dominanza nel pensiero e negli atteggiamenti del soggetto, arrivando a interferire con la quotidianità della sua vita e rischiando di compromettere non solo la stabilità psichica del soggetto stesso, ma anche le relazioni che esso intrattiene con coloro che gli stanno vicino (Pani, Biolcati, 2006). Così inteso, il comportamento dipendente può quindi arrivare a includere i più svariati ambiti di applicazione, che vanno dal gioco d’azzardo a internet, fino allo shopping, sul quale concentriamo i nostri studi in questo capitolo; se infatti, come abbiamo precedentemente visto, l’acquisto è sicuramente un importante momento di espressione del sé grazie alla sua capacità da una parte di offrire al consumatore un mezzo di identificazione di parti del sé, e dall’altra di porsi come potente strumento comunicativo tramite il quale manifestare un determinato ruolo sociale, non è finora chiaro come, e per quali ragioni, esso possa passare da rituale momentaneo e episodico quale comunemente è, a vera e propria ossessione ripetuta anche contro la propria volontà. Posta quindi come premessa inamovibile del discorso la rilevanza dei beni materiali nell’auto-definizione del sé e nella costruzione di una propria manifestazione espressiva vicina a un sé ideale tanto agognato quanto internamente irraggiungibile, 37 Pani R., Biolcati R., 2006, pp. 3-4. 36
  • 37. e messo momentaneamente fra parentesi il considerevole impatto dell’influenza sociale nel far sì che questi comportamenti dipendenti vengano dirottati sui consumi, è possibile tracciare un quadro concettuale che sia in grado di fornire una spiegazione il più possibile completa e corretta dell’acquisto compulsivo? Nonostante qualche sporadico cenno di interesse a questo tema sia stato riscontrato anche all’inizio del ventesimo secolo38, la psicologia ha provato seriamente a rispondere a questa domanda solo in tempi recenti, dove la tematica dello shopping compulsivo è diventata di stringente attualità grazie anche a una serie di indagini specifiche sull’argomento condotte sia in ambiti di competenza prettamente psicologica e psichiatrica, che in campi di studio attinenti alla sfera del marketing, merito di un sempre crescente interesse sul tema da parte soprattutto degli studiosi di mercato; naturalmente, trattandosi ancora di un’area di ricerca abbastanza giovane, soprattutto se confrontata con gli studi relativi ad altre dipendenze, è impossibile pervenire ad un esauriente elenco di tutte le sue caratteristiche, ma ricerche scientifiche e resoconti clinici sono abbastanza numerosi per poter permettere un discorso abbastanza preciso sul tema39. Malgrado i dati empirici sembrino mostrare una maggiore presenza di questo disturbo nella popolazione femminile40, il fenomeno è segnalato in crescita anche nel genere maschile41, a testimonianza del fatto che la differenza di genere finora riscontrata non è tanto rimandabile a una diversità intrinseca nella natura di uomo o 38 I primi a parlarne furono Kraepelin (1915) e Bleuler (1924), che coniarono il termine <<oniomania>> per descrivere la mania degli acquisti, considerandola appartenente alla categoria degli impulsi patologici. Dopo di loro, tuttavia, non se ne è parlato per più di 60 anni. Cfr. Pani R., Biolcati R., 2006, p. 22. 39 Per un buon elenco delle principali fonti bibliografiche sul tema dell’acquisto compulsivo, si veda Pani, R., Biolcati R., 2006, p.25. 40 Vi sono numerose evidenze empiriche a sostegno di una prevalenza del genere femminile per quanto riguarda il problema dello shopping compulsivo: “Nello studio di D’Astous e Tremblay (1988), le donne hanno ottenuto un punteggio significativamente più elevato alla scala che valuta lo shopping compulsivo. Inoltre, quasi tutti i casi di acquisto compulsivo, presentati in letteratura psicoterapeutica, riguardano donne. Nell’indagine compiuta da Scherhorn, Reisch e Raab (1990) nella Germania occidentale, le donne hanno ottenuto punteggi più elevati al German Addictive Buying Indicator rispetto agli uomini” Pani, R., Biolcati, R. (2006), p.36 41 “lo shopping compulsivo rimane un disturbo più rappresentato nella popolazione femminile, seppur ci sembra, dalla nostra pratica clinica, che in Italia l’aumento registrato, negli ultimi cinque anni, vada a carico percentualmente più degli uomini che delle donne. I dati di cui siamo in possesso sono ricavati da esperienze cliniche più che strettamente sperimentali e sospettiamo che tale aumento sia di natura socioculturale, parallelo al cambiamento che vede gli uomini più attenti all’estetica e a una sorta di identificazione con l’atteggiamento femminile” Pani, R., Biolcati, R. (2006), p.37 37
  • 38. donna (teorie queste che rischiano di aprire un pericoloso dibattito sull’innatismo delle differenze fra i sessi) quanto ad un’influenza sociale dettata da pubblicità, mercato e coscienza collettiva, che tradizionalmente associano maggiormente alle donne l’attività dello shopping. Per comprendere da più vicino il fenomeno dello shopping compulsivo, facciamo ora riferimento a queste ricerche: per quanto riguarda una precisa definizione del problema, possiamo innanzitutto dire che vi è in letteratura un ampio consenso di base nel determinare l’acquisto compulsivo come un disturbo che non consiste tanto nell’episodico e comune impulso a comprare che produce improvvisi e singolari atti di acquisto non pianificati; piuttosto, esso viene definito come la perdita cronica del controllo su questi impulsi, che evolvono quindi in un pattern ripetitivo in grado di assorbire drammaticamente l’individuo in una catena di acquisti, reiterata fino al punto in cui essa determina effetti dannosi per il soggetto stesso e per le persone che gli stanno vicine. Alla pari delle altre dipendenze, il soggetto che sviluppa una dipendenza nei confronti degli acquisti sperimenta quindi un desiderio ossessivo di ricerca dell’attività dello shopping, con una relativa compulsione a comprare in continuazione che, seppur spesso riconosciuta come esagerata, solo in pochi casi sfocia in una consapevolezza dell’individuo riguardo la gravità della problematica. Come primo aspetto del disturbo, ci pare importante sottolineare che l’acquisto di beni è in questi casi indipendente dalla funzionalità di essi: ciò che emerge dalle ricerche indica infatti che i soggetti compulsivi comprano oggetti non perché utili di per sé, ma perché spinti dal desiderio frenetico e irresistibile di comprare più di quanto effettivamente necessitano (Raab, Elger, Neuner, Weber, 2010); la maggior parte di articoli acquistati da questi soggetti viene infatti usata in minima parte, se non addirittura conservata intatta e chiusa in pacchetti senza poi mai essere utilizzata42. Questa svalutazione della funzionalità del bene induce a pensare che, similmente a quanto avviene nelle altre “addictions”, i soggetti affetti da shopping compulsivo sviluppino una dipendenza non tanto verso una concreta sostanza esterna quale può essere droga o alcool piuttosto che beni materiali, quanto piuttosto verso un preciso 42 Cfr. Pani, R., Biolcati, R., (2006), p. 41. 38
  • 39. comportamento, in questo caso l’acquisto, che viene ossessivamente ricercato; sono infatti numerose, a questo proposito, le testimonianze di soggetti che descrivono l’esperienza dello shopping in sé come eccitante e portatrice di soddisfazione, felicità e benessere43: << alcuni pazienti dipingono lo shopping come qualcosa di eccitante, di pazzo, che dà un brivido, il cosiddetto thrilling o buzz […] Alcuni soggetti, interrogati sulle sensazioni corporee, hanno parlato di vibrazioni, di calore, vampate, energia che si diffonde>>44. Più che dal possesso dei beni in sé, si può quindi diventare dipendenti dall’atto d’acquisto: è l’azione, più che l’oggetto, la determinante della compulsione. A dimostrazione di questo concetto, centrale per comprendere la dipendenza, sembrano esserci anche alcune evidenze neurologiche: in un recente esperimento svolto in presenza di soggetti affetti da shopping compulsivo, i ricercatori idearono un contesto sperimentale volto ad analizzare l’attività di due aree cerebrali, che, come vedremo dettagliatamente più avanti, vengono spesso associate agli atti d’acquisto, e non solo: il nucleo accumbens (NAcc) e l’insula. Se la prima è infatti notoriamente coinvolta durante i processi che generano piacere nell’individuo, come ad esempio la semplice presentazione di una ricompensa, la seconda sembra invece giocare un ruolo fondamentale nei processi di aspettativa del dolore e del dispiacere, quale può essere ad esempio la percezione del prezzo da pagare per l’ottenimento di un bene (Babiloni, Meroni, Soranzo, 2007; Lugli, 2010; Knutson, 2007). Partendo da queste conoscenze, un gruppo di ricercatori coordinato dal professore tedesco Gerhard Raab, radunò un gruppo di 49 donne, 23 delle quali riconosciute grazie a diversi test come affette da shopping compulsivo, e studiò, tramite la tecnica di visualizzazione cerebrale nota come FMRi (risonanza magnetica funzionale), l’attività del nucleus accumbens e dell’insula durante un semplice compito: a tutti i partecipanti, compulsivi e non, venivano mostrate in un primo tempo le immagini di vari prodotti, successivamente accostate al loro prezzo; poi, in un terzo momento, gli veniva chiesto, per ogni oggetto mostrato, di decidere se acquistarlo o meno. 43 <<molti sostengono che solo l’attività dello shopping possa farli sentire meglio>> Pani, R., Biolcati, R., (2006), p. 40 44 Cfr. Ivi, p. 47 39