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I profili di responsabilità civile degli “attori” delle crisi d’impresa
Avv. Giuseppe Iannaccone
*
La responsabilità (civile) degli amministratori e dei sindaci in ambito concorsuale
Le due norme di riferimento in tema di responsabilità di amministratori e sindaci sono,
rispettivamente, l’art. 2392 c.c., secondo cui gli amministratori “devono adempiere i doveri
ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico
e dalle loro specifiche competenze (…); essi sono solidalmente responsabili verso la società
dei danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri” e l’art. 2407 c.c., secondo cui “i sindaci
devono adempiere i loro doveri con la professionalità e la diligenza richiesta dalla natura
dell’incarico (…) essi sono responsabili solidalmente con gli amministratori (…); quando il
danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della
loro carica”.
Da una prima lettura delle disposizioni appena citate, è immediatamente chiaro che la
responsabilità civile degli amministratori e dei sindaci discende, anzitutto, da un loro
inadempimento ai doveri dell’ufficio, doveri che sono precisati dall’art. 2380bis c.c., per
quanto riguarda gli amministratori, e dall’art. 2403 c.c. rispetto ai sindaci.
Ne consegue che la responsabilità di amministratori e sindaci non è mai una responsabilità
oggettiva, ricollegata per esempio al mero dissesto della società; al contrario, essa
presuppone, sempre e comunque, l’accertamento di una mancanza di professionalità e
diligenza nel compimento dei doveri d’ufficio e, dunque, di una colpa imputabile ai
medesimi.
Precisamente, compito precipuo degli amministratori è quello di gestire l’impresa compiendo
le “operazioni necessarie”, o anche solo funzionali, “per l’attuazione dell’oggetto sociale”.
Spetta, invece, al collegio sindacale vigilare sull’attività degli amministratori e, in particolare,
sull’osservanza, da parte loro, della norme di legge e di statuto, nonché “sul rispetto dei
principi di corretta amministrazione” e “sull’adeguatezza” e funzionamento “dell’assetto
organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società”.
A ben vedere, l’oggetto del controllo dei sindaci [rispetto di legge/statuto/principi di corretta
amministrazione/adeguatezza organizzativa] coincide con l’area dell’attività gestoria che è
sindacabile e che, dunque, è distinta dalla scelta di merito in senso stretto che, in quanto tale,
è di esclusiva competenza degli amministratori e, per definizione, rimessa alla loro autonomia
(principio della c.d. business judgment rule).

	
  

1	
  
Come noto, tutte le questioni e problematiche in tema di responsabilità di sindaci e
amministratori (o, quanto meno, le principali) nascono dalla difficoltà di definire la linea di
demarcazione tra l’area sindacabile e l’area non sindacabile dell’attività gestoria; linea,
tuttavia, necessaria al fine di potere delimitare l’area di “rischio consentito” nello svolgimento
dell’attività d’impresa, rischiosa per definizione.
Sul punto, è necessario richiamare alcuni principi giurisprudenziali ormai consolidati e
formatisi, non a caso, proprio in tema di azioni di responsabilità svolte nei confronti di ex
amministratori e sindaci di società poi fallite.
Ora, la giurisprudenza, nel distinguere la sfera della funzione gestoria indubbiamente
insindacabile -attinente al merito della scelta e che, come tale, è di esclusiva competenza
dell’organo di amministrazione- dalla sfera suscettibile di essere sindacata, fa spesso
riferimento al concetto di “legittimità sostanziale” dell’atto di gestione.
Con tale locuzione si vuole intendere, non la convenienza dell’atto compiuto rispetto ad altre
possibili scelte imprenditoriali, quanto piuttosto la “correttezza del procedimento decisionale”
attraverso il quale la scelta gestionale è stata assunta. Ciò che può essere sindacato della scelta
di gestione è, dunque, l’iter decisionale che vi ha condotto e che consente di distinguere una
scelta “azzardata” e, quindi, censurabile, da una scelta ponderata (appunto, diligente) e in
quanto tale, incensurabile:
v “se è vero che l’opera di gestione ed amministrazione -discrezionale e finalizzata al
raggiungimento dello scopo sociale- si dispiega nell’ambito del rischio d’impresa,
non è meno vero che il rischio d’impresa debba essere sempre affrontato,
“incontrato” con valutazione critica dei fatti improntata, guidata ed ispirata alla più
ampia, profonda conoscenza dei possibili, prevedibili e pensabili fattori che
influenzano il risultato sia sul versante positivo sia su quello negativo. Solo dalla
ponderazione di tutti i dati conosciuti può sorgere -corretta e non sindacabile- la
scelta imprenditoriale: in mancanza di una ragionata analisi e di una ponderata
disamina, il risultato viene, invece, affidato alla pura sorte, alla irrazionalità di
decisioni neppure sorrette da intuizioni verificabili”; “necessità di una coerenza
giuridico-economica dell’attività di gestione con la direzione tracciata dallo scopo
sociale”; “Se è accettato il principio metagiuridico (quasi il “concetto puro” del
“conoscere come formula dell’agire”) del “prima fare luce e poi fare il passo” è
chiaro che la conoscenza, l’apprezzamento critico di tutti i termini economici,
finanziari e giuridici che definivano l’operazione avrebbero dovuto fornire il primo ed
essenziale
	
  

supporto

della

decisione
2	
  

negoziale

assunta.

La

conoscenza

e
l’apprezzamento dei fondamenti dell’azione da intraprendere rappresentano -infattiil primo connotato della prudenza come categoria giuridica” (Trib. Milano, 26 giugno
1989);
v “.. discrezionalità vuole dire libertà di identificare le scelte, senza esonerare
l’amministratore dall’osservanza del dovere di diligenza. Pertanto, se anche il giudice
non può sindacare la scelta in sé, deve però controllare il percorso attraverso il quale
essa è stata preferita. Secondo un criterio fatto proprio da questa Corte il discrimine
va individuato nel fatto che mentre la scelta tra il compiere o meno un atto di
gestione, ovvero di compierlo in un certo modo o in determinate circostanze non è
suscettibile di essere apprezzata in termini di responsabilità giuridica, al contrario, la
responsabilità

può

essere

generata

dall’eventuale

omissione,

da

parte

dell’amministratore, di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle informazioni
preventive normalmente richieste prima di procedere a quel tipo di scelta: in altre
parole, il giudizio sulla diligenza non può investire le scelte di gestione ma il modo in
cui sono compiute” (Cass. civ. 23.03.’04 n. 5718);
v “il controllo giurisdizionale deve essere diretto a verificare la ragionevolezza della
scelta dell’organo amministrativo tramite la verifica del procedimento di formazione
della decisione” (da ultimo, Trib. Santa Maria Capua Vetere, III Sez. Civ., Ordinanza
del 2 agosto 2012).
L’iter decisionale che ha condotto alla scelta d’impresa consente, quindi, di distinguere una
scelta “azzardata” e censurabile, da una scelta ponderata e, appunto, diligente 1 ; detto
altrimenti, l’iter decisionale corretto e conforme a diligenza vale a delimitare l’area di rischio
d’impresa “consentito”, il cui eventuale esito infausto non potrà essere addebitato agli
amministratori e, ancor meno, ai sindaci.
Va da sé che una scelta di gestione non è mai censurabile in astratto: essa si colloca sempre in
un preciso contesto, delineato dalla situazione generale di mercato, dalla situazione
economico-finanziaria della società, dalle caratteristiche delle eventuali controparti negoziali.
	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  
1

Così, è stata ritenuta infondata l’azione di responsabilità esercitata nei confronti dell’organo di
gestione che aveva deliberato un’operazione di acquisizione di un gruppo perché, a prescindere
dall’esito infausto della scelta, quest’ultima era stata preceduta da un approfondito studio eseguito per
verificare il quadro competitivo, la determinazione di sinergie, gli aspetti tecnico-contabili-finanziari
dell’operazione. Pertanto, nessun profilo di negligenza è stato ritenuto sussistente e, quindi, nessuna
responsabilità è stata ritenuta imputabile agli amministratori (Trib. Milano 1° ott. 1998, n. 13562). Al
contrario, la responsabilità dell’organo di gestione è stata ravvisata in un caso in cui è stato possibile
accertare che la commercializzazione di un prodotto era stata organizzata -in una situazione di
saturazione del mercato- senza predisporre adeguati metodi di rilevazione al riguardo (Trib. Milano,
19 nov. ’98).

	
  

3	
  
La correttezza dell’iter decisionale è ravvisabile proprio laddove la scelta di gestione appaia
ben contestualizzata e assunta sulla base di una attenta valutazione e ponderazione delle
anzidette circostanze e di tutto il materiale informativo a disposizione.
*
Dai principi appena illustrati, si capisce bene il motivo per cui l’addebito più frequentemente
rivolto agli amministratori -soprattutto agli amministratori non delegati- consiste nella
violazione dell’obbligo di informarsi, cui consegue la violazione dell’obbligo di vigilanza.
Al riguardo, si consideri il riformato art. 2381 c.c., il quale -oltre a precisare e circostanziare
la diversa posizione degli amministratori delegati da quella dei meri consiglieri- conferisce
una importanza centrale alla corretta, sistematica e continua circolazione delle informazioni
all’interno del consiglio.
In particolare, da tale norma risulta:
(i) il dovere di ciascun consigliere di “agire in modo informato”, conoscendo dunque tutte
le informazioni funzionali a ponderare adeguatamente la questione su cui è necessario
esprimersi;
(ii) l’obbligo degli organi delegati di riferire periodicamente, almeno ogni sei mesi,
all’intero consiglio delegante ed anche al collegio sindacale, “sul generale andamento
della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione nonché sulle operazioni di maggior
rilievo, per le loro dimensioni e caratteristiche, effettuate dalla società e dalle sue
controllate”;
(iii) l’obbligo del consiglio di amministrazione di vigilare sulla base delle informazioni così
ricevute e il potere, configurabile in capo a ciascun consigliere, di richiedere ai delegati
“che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società”.
*
Strettamente connesso al dovere di agire informati, è il dovere -che in alcuni casi la legge
specificamente impone agli amministratori- di motivare le scelte di gestione assunte: se,
infatti, l’iter decisionale è sindacabile, ne consegue la necessità di renderlo manifesto e chiaro.
Non è, dunque, un caso se gli obblighi di specifica e analitica motivazione siano imposti
proprio laddove ci si trovi di fronte a un’operazione particolarmente delicata e/o in apparente
o potenziale contrasto con l’interesse sociale e laddove, quindi, il procedimento decisionale si
presti più facilmente ad essere sindacato e censurato (così, per citarne alcune, art. 2391 c.c., in
tema di operazioni in conflitto d’interesse, art. 2497ter c.c. in tema di operazioni infragruppo,
2501ter ss. c.c. in tema di operazioni di LBO).
Va da sé che tutti questi doveri di motivazione -a meno di volerli considerare (contro ogni
logica e in contraddizione con quanto sino ad ora osservato) doveri di natura meramente
	
  

4	
  
formale/documentale- valgono a identificare dei sottostanti doveri di carattere sostanziale e
delimitano i confini entro i quali le operazioni cui essi si riferiscono possono essere sindacate
sotto il profilo della legittimità sostanziale.
Ne consegue che l’assolvimento di tali obblighi motivazionali rileva anche e innanzi tutto
nell’interesse degli amministratori; questi ultimi, ove chiamati a rispondere giudizialmente
degli esiti infausti di determinate operazioni, potranno più facilmente sostenere la
ragionevolezza delle proprie scelte, ricostruendo –anche a distanza di tempo- l’iter logico a
suo tempo seguito e dimostrando che, in un’ottica ex ante, le scelte medesime erano state
diligentemente ricostruite e ponderate.
Tutte le considerazioni sopra illustrate in merito alla diligenza richiesta all’organo di gestione
e alla rilevanza dei doveri di informazione e trasparenza valgono a fortiori nei contesti di
turnaround, vale a dire nei contesti volti a un risanamento e a un rilancio delle imprese in
crisi o in declino (non è un caso se, come già evidenziato, gli obblighi specifici di
motivazione riguardino operazioni spesso eseguite in questi contesti).
Si consideri, in particolare, come in tali contesti agli amministratori sia richiesto, in primo
luogo, di rilevare tempestivamente i segnali di crisi; il che rappresenta, evidentemente, una
specificazione di quel dovere di informazione sopra illustrato. Invero, una delle contestazioni
più frequentemente sollevate nei confronti degli amministratori è proprio quella di avere preso
atto con ritardo della crisi, per colpevole inerzia o per l’inesistenza degli strumenti atti a
monitorare efficacemente l’andamento aziendale e sulla cui adeguatezza sono chiamati a
vigilare tutti gli amministratori (cfr. Trib. Verbania, 13.07.04, ove è stata addebitata agli
amministratori la mancata vigilanza sulla “concreta capacità della società di offrire
rappresentazioni attendibili della propria situazione economica”).
Aggiungo che, non appena colti i primi segnali di crisi, lo stesso dovere di informazione non
potrà che accentuarsi: l’attività dell’organo di gestione dovrà intensificarsi, le riunioni del
Consiglio dovranno avvenire più frequentemente, la esatta situazione patrimoniale dovrà
essere continuamente aggiornata, attraverso la redazione di situazioni infra-annuali.
Una volta accertata e a approfondita l’esatta entità della crisi, si tratterà di valutare se, come e
con quali strumenti sia possibile superarla.
Come noto, le profonde modifiche al diritto concorsuale sono senz’altro intervenute con
l’intento di agevolare le prospettive e le scelte volte ad un risanamento e ad un superamento
della crisi d’impresa, delineando tre diversi istituti finalizzati alla risoluzione delle “crisi
d’impresa”; il tutto nel dichiarato intento di fornire agli organi di gestione degli strumenti con
cui fronteggiare tempestivamente le patologie dell’impresa prima che degenerino in situazioni
di dissesto irrimediabili.
	
  

5	
  
Precisamente e in estrema sintesi, ricordo che tali strumenti sono:
-

la nuova procedura di concordato preventivo ex art. 160 l. fall. (cui si aggiunge la
peculiare declinazione del concordato con continuità aziendale ex art 186bis l. fall.) e
gli accordi di ristrutturazione ex art. 182bis l. fall., che hanno entrambi, quale espresso
presupposto, l’esistenza di un vero e proprio “stato di crisi”;

-

il piano attestato ex art. 67, co. 3° lett. d) l. fall. che, invece, almeno secondo
l’interpretazione che io ritengo di sostenere2, ha quale presupposto una situazione non
già di vera e propria ‘crisi’, bensì di mera tensione finanziaria.

Al riguardo, la prassi mostra come spesso si faccia ricorso, in maniera pressoché indifferente,
ai piani attestati ex art. 67, comma 3, lett. d, l. fall. e agli accordi di ristrutturazione ex art.
182bis l. fall..
Tuttavia, sarebbe bene tenere presente i diversi presupposti, non fungibili e/o alternativi tra
loro.
Senza qui potere soffermarsi al riguardo, mi limito a evidenziare come, almeno a mio avviso,
il ricorso ai piani attestati ex art. 67 l. fall. dovrebbe tendenzialmente essere riservato ai
contesti di tensione finanziaria transitoria, quali le semplici “crisi di liquidità”, o comunque a
tutte quelle situazioni di crisi in cui la cui soluzione non comporta, necessariamente,
interventi significativi sulla struttura dell’impresa.
Viceversa, ogni qual volta l’azienda versi in uno stato di incapacità di sostenere, in una
prospettiva di medio-lungo periodo, il proprio modello di business in condizioni di
economicità e di equilibrio patrimoniale e finanziario, l’imprenditore, dovendo rivedere in
sostanza le fondamenta e la struttura della propria attività, dovrà inevitabilmente ricorrere agli
accordi di ristrutturazione o, nei casi in cui gli interventi siano ancora più massicci, addirittura
alla procedura concordataria.
Va poi considerata e ponderata la diversa “tenuta” dei piani laddove l’esito sia infausto: a
fronte, cioè, di un tentativo di risanamento finito male, ai fini delle responsabilità di
amministratori e sindaci, ben diverso sarà il vaglio giudiziale in presenza di un piano attestato
ex art. 67 l. fall. rispetto a quello in presenza di un concordato omologato.
Non vi è dubbio, infatti, che, nel primo caso, l’autorità giudiziaria bene avrà il potere di
valutare e approfondire, seppure in un’ottica ex ante, la ragionevolezza dei criteri utilizzati
	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  
2

Sul punto, segnalo l’esistenza di pareri contrastanti: secondo alcuni interpreti, anche il piano
attestato ex art. 67 l. fall. rappresenterebbe uno strumento utilizzabile nelle situazioni di crisi
d’impresa in senso stretto, in alternativa quindi con lo strumento dell’accordo di ristrutturazione
previsto dall’art. 182bis cit.. Tale impostazione non è da me ritenuta condivisibile in ragione del fatto
che i due istituti in considerazione si fondano su presupposti oggettivi del tutto differenti fra loro.

	
  

6	
  
per la redazione del piano e, dunque, valutarne la “legittimità sostanziale”, secondo i principi
sopra citati (in quella sede, cioè, l’autorità giudiziaria tornerà a chiedersi se le previsioni
contenute nel piano fossero l’esito di un iter decisionale corretto, precedute da adeguate
indagini, conformi alle prospettive di mercato, etc.).
Il criterio con cui l’autorità giudiziaria svolgerà tale sindacato sarà quello della c.d. prognosi
postuma (ponendosi cioè in un’ottica ex ante); trattasi, evidentemente, di un criterio di
giudizio assai delicato e difficile da applicare (pur in presenza delle migliori intenzioni). In
sostanza, è intuitivo che l’intervenuto fallimento del piano -soprattutto laddove le dimensioni
del fallimento siano significative- potrà sviare il sindacato e/o comunque influenzarne l’esito.
Diverso il caso degli accordi di ristrutturazione o dei concordati: in questi casi, infatti,
essendovi già stato un intervento dell’autorità giudiziaria ex ante (realmente ex ante), è chiaro
che proprio tale intervento e il sindacato già svolto rappresenteranno ostacoli allo svolgimento
di un nuovo e diverso sindacato.
Si badi che è ormai pacifico che il controllo spettante all’autorità giudiziaria tanto sugli
accordi di ristrutturazione ex art. 182bis l. fall., quanto sui concordati preventivi sia un
controllo di “legittimità sostanziale”.
Sul punto sono intervenute recentemente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Sent. n.
1521/2013)3, chiarendo che al Tribunale, oltre al compito di supervisione generale diretto a
verificare la regolarità della procedura, spetterà anche analizzare la fattibilità giuridica della
procedura prescelta, vagliando se la proposta concordataria (o, di nuovo, mutatis mutandis,
l’accordo di ristrutturazione) sia effettivamente in grado di adempiere alla causa della
procedura prescelta, ossia se sia idonea ad assolvere la propria funzione economica (id est, il
superamento della crisi, con soddisfazione in qualsiasi percentuale dei creditori per la
procedura di concordato e con “ristrutturazione del debito” per gli accordi ex art. 182bis). Ciò
significa che il controllo del giudice può (e deve) spingersi a verificare la coerenza e la
razionalità delle argomentazioni dell’attestazione del professionista posta alla base della
procedura di concordato (o, mutatis mutandis, dell’accordo di ristrutturazione), tale per cui le
conseguenze “previste” nel programma di risanamento risultino logicamente consequenziali
rispetto alle premesse4. «Ogni qualvolta detta razionalità dovesse mancare (…) il tribunale
	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  
3

E’ doveroso precisare che la Suprema Corte è intervenuta, nello specifico, sui poteri del giudice
civile nell’ambito della procedura di concordato preventivo; riteniamo che i principi raggiunti siano,
mutatis mutandis, comunque applicabili anche per delineare i confini dell’intervento giudiziale sugli
accordi di ristrutturazione in sede di omologa. Si veda, anche, Cass. Civ., Sez. I, Sent. 27 maggio
2013, n. 13083.
4
«Ne discende che, ogni qual volta il tribunale dovesse individuare, nella relazione attestatrice, un
iter argomentativo non compatibile con i contenuti o con i dati del piano, si evidenzierebbe un aspetto
di irrazionalità rilevante sotto il profilo dell’ammissibilità della proposta e della fattibilità del piano»,

	
  

7	
  
avrebbe il potere-dovere di arrestare la procedura»5.
*
Parlando di responsabilità degli amministratori (e sindaci) nei contesti di crisi di impresa, non
può omettersi un breve cenno alle conseguenze pratiche che discendono dal riconoscimento
della responsabilità degli amministratori per i danni cagionati dall’improvvido tentativo di
risanamento poi colposamente sfociato nel dissesto. E’ noto che il curatore fallimentare, ex
art. 146 l.fall., può essere autorizzato ad esercitare – in sede civile – l’azione di responsabilità
contro gli amministratori della società fallita per le violazioni dagli stessi commesse rispetto
ai doveri del loro ufficio. Il punto è, adesso, il seguente: di quanto potrà essere chiamato a
rispondere, in concreto, l’amministratore?
Il tema della quantificazione del danno da addebitare agli amministratori e ai sindaci che
abbiano determinato o aggravato, mediante il compimento di atti di mala gestio, la perdita del
capitale sociale è stato affrontato da pratici e teorici del diritto soprattutto con riferimento
all’ipotesi di violazione, da parte degli amministratori, di quel dovere di astensione dal
compimento di nuove operazioni che viene sancito anche dopo la riforma, mediante la
previsione di un generale obbligo di gestione conservativa ex art. 2486 c.c., in caso di
scioglimento della società. Questa fattispecie rappresenta, infatti, la censura che più
frequentemente viene sollevata nei confronti degli organi sociali della società poi fallita.
Sul punto, la dottrina e la giurisprudenza hanno enucleato, nel tempo, tre diversi criteri:
1. un primo orientamento giurisprudenziale riteneva ammissibile, sia in caso di vera e propria
determinazione del dissesto che di aggravamento, una liquidazione commisurata alla
differenza tra l’entità dell’attivo e quella del passivo del fallimento6. In sostanza, si
semplificava l’onere della prova gravante sull’attore utilizzando il criterio “matematico” del
c.d. “deficit fallimentare”.
Non sono mancate, in dottrina come in giurisprudenza, le critiche all'impiego di tale principio
in quanto lo stesso:
a.

anzitutto, presenta un eccessivo grado di approssimazione, non arrivando a fornire
una

quantificazione

effettiva

dei

danni

cagionati

dall’inadempimento

dell’amministratore, potendo «risultare addirittura limitativo nei confronti della
società, perché il danno può per quest’ultima essere superiore allo stesso deficit
fallimentare» (Trib. Napoli, Sent. 27 novembre 1993);
	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  
M. VITIELLO, Il problema dei limiti del controllo del tribunale sulla fattibilità del piano come risolto
dalle Sezioni Unite, (in) Il Fallimentarista, 2013.
5
M. VITIELLO, Il problema dei limiti del controllo del tribunale sulla fattibilità del piano come risolto
dalle Sezioni Unite, Op. Cit.
6
Così, tra le tante, Trib. Roma, Sent. 5 dicembre 1986; App. Bologna, Sent. 5 febbraio 1997; Trib.
Genova, Sent. 19 settembre 1988; Trib. Catania Sent. 30 agosto 1986.

	
  

8	
  
b.

è concettualmente inaccettabile, perché oggettivizza la responsabilità degli
amministratori, ponendosi in contrasto «con i principi, da cui è retto il
risarcimento del danno civile, che impongono l’individuazione di un preciso
nesso di causalità tra il comportamento illegittimo di cui taluno è chiamato a
rispondere e le conseguenze che ne siano derivate nell’altrui sfera giuridica»
(Cass. Civ., Sent. 24 luglio 2013, n. 12966)

c.

non considera che: a) alla formazione del passivo possano avere contribuito anche
cause ed operazioni pregresse rispetto alla causa di scioglimento; b) il deficit
fallimentare ottenuto potrebbe essere inferiore all’effettivo danno provocato (per
es. nel caso di rinuncia di alcuni creditori ad insinuarsi al passivo); c) le nuove
operazioni, anche se illecitamente intraprese, potrebbero avere realizzato delle
sopravvenienze attive.

2. Dal ripudio di ogni automatismo risarcitorio basato sullo squilibrio fallimentare, il
Tribunale di Milano era giunto all’individuazione di un secondo e diverso criterio, definito
della “differenza dei netti patrimoniali”: il danno imputabile all’amministratore infedele
dovrebbe essere, più correttamente, individuato nella differenza tra la situazione patrimoniale
della società al momento del verificarsi della causa di scioglimento e la situazione
patrimoniale al momento della dichiarazione di fallimento.
Anche questo criterio non ha ricevuto l’avallo della giurisprudenza di legittimità, la quale ha
sottolineato che:
a. anche il metodo della “differenza dei netti patrimoniali” approda, in sostanza, ad una
quantificazione in via meramente presuntiva;
b. non solo non si tiene conto del necessario rapporto di causalità che deve legare l’atto di
mala gestio e il danno denunziato, ma, inoltre, imputando sic et simpliciter agli
amministratori la perdita incrementale successiva alla causa di scioglimento, non si
prende nella dovuta considerazione che una parte di essa si sarebbe potuta produrre
anche in caso di immediata liquidazione o (addirittura) in caso di tempestiva istanza di
fallimento7.
3. Dal superamento dei metodi finora citati, un terzo criterio, che riceve ad oggi i maggiori
consensi, impone una quantificazione del danno da effettuarsi “in concreto”, compiuta cioè in
	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  
7

In questi termini, Cass., 23 giugno 2008, n. 17033, in Giust. Civ. 2009, I, 2437. La Corte, con
riferimento alla violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni, ha osservato che non è
giustificata, in mancanza di uno specifico accertamento in proposito, l’applicazione del criterio della
differenza dei netti patrimoniali, in quanto non tutta la perdita accertata dopo la causa di scioglimento
può essere considerata derivante dalla prosecuzione indebita, potendo tale perdita essere dovuta, ad
es., alla svalutazione dei cespiti aziendali in dipendenza del venire meno del going concern,
dell’operatività dell’impresa.

	
  

9	
  
base al concreto accertamento del nesso di causalità tra le singole condotte e i singoli effetti
dannosi e che porti alla esatta determinazione di ogni singolo pregiudizio. Si tratta di
un’indagine caso per caso delle conseguenze imputabili alle specifiche operazioni compiute
dagli amministratori dopo la causa di scioglimento, con particolare attenzione alla natura di
tali operazioni, dal momento che rilevano, ai fini della quantificazione del danno, solo quelle
idonee a generare nuovi rischi per la società. Da qui l’onere del curatore di indicare i singoli
atti gestori aventi una finalità non conservativa e/o liquidatoria, adottati dagli amministratori
in violazione del divieto di cui all’art. 2486, comma 1, c.c. Pertanto, ai fini della
quantificazione del danno occorre sottrarre dallo sbilancio patrimoniale:
i. le passività derivanti da quelle scelte gestionali precedenti alla causa di scioglimento e
che avevano logorato il capitale;
ii. quel deficit patrimoniale derivante da operazioni successive alla perdita ma in sé
legittime poiché, se pur concretamente pregiudizievoli, risultano astrattamente conformi
ad un’ottica liquidatoria/conservativa (cfr., da ultimo, Cass. Civ., Sent. 24 luglio 2013,
n. 12966)8.
4. Infine, solo nei casi di impossibilità (debitamente motivata dal giudice) nel ricostruire la
precisa determinazione del danno, che deve comunque essere provato insieme alla
individuazione delle operazioni di mala gestio, potranno soccorrere i criteri di liquidazione in
via equitativa9.
*
La banca e il finanziamento dell’impresa in crisi: tra «concessione abusiva» e
«interruzione brutale» del credito
Premessa: il rapporto banca-impresa.
Esaurito l’esame dei profili di responsabilità dell’intraneus (ossia, l’amministratore ed,
eventualmente, il sindaco) dell’impresa in crisi, mi occuperò delle possibili responsabilità
dell’extraneus, trattando una tematica particolarmente delicata: il difficile rapporto tra il
creditore bancario, da una parte, e un imprenditore non più in bonis, dall’altra.
	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  
8

Trib. Napoli, Sent. 27 novembre 1993; Trib. Milano, Sent. 22 settembre 1988; Cass. Civ., Sent. 22
ottobre 1998, n. 10488; Trib. Padova, Sent. 16 luglio 1999; Trib. Roma, Sent. 7 maggio 2002; App.
Milano, Sent. 6 giugno 2007; Cass. Civ., Sent. 8 febbraio 2005, n. 2538; Cass. Civ., Sent. 22 aprile
2009, n. 9619.
9
Al riguardo, è doveroso ricordare anche che il criterio del c.d. “deficit fallimentare” non è stato
totalmente abbandonato dalla Cassazione, potendo essere attribuito allo stesso un ruolo sussidiario:
tale criterio, infatti, «può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via
equitativa qualora sia stata accertata l’impossibilità di ricostruire i dati con la analiticità necessaria
per individuare le conseguenze dannose riconducibili al comportamento dei sindaci (o degli
amministratori), ma, in tal caso, il giudice del merito deve indicare le ragioni che non hanno
permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli riconducibili alla condotta di costoro»
(Cass. 22 aprile 2009, n. 9619; nello stesso senso Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538).

	
  

10	
  
Difficile perché nel corso della fase calante della vita dell’impresa la banca è attraversata da
istinti diametralmente opposti, da spinte centripete e centrifughe: da un lato, essa sa bene che
il suo appoggio finanziario è determinante perché l’imprenditore possa anche solo pensare di
superare la crisi; dall’altro, l’imprenditore in dissesto è un soggetto il cui merito creditizio
risulta essere, inevitabilmente, compromesso. Ed allora ecco la posizione ambigua della
banca: mantenere le linee di credito o revocare gli affidamenti pregressi? Concedere nuovi
finanziamenti o rifiutarne l’erogazione? Rigore o flessibilità?
Per quanto riguarda, in particolare, la responsabilità civile, il rapporto con il cliente in crisi
costringe la banca tra la “interruzione brutale di credito”, da una parte, e la “concessione
abusiva del credito”, dall’altra: «da un lato si accusa la banca di essere eccessivamente
restrittiva, rigida, avara nella concessione del credito, dall’altro lato antinomicamente, si
accusa la banca di essere eccessivamente larga, corriva, generosa nell’accordare credito che
l’affidato non meriterebbe»10.
Qual è, dunque, l’atteggiamento che una banca accorta dovrà tenere, nell’ambito della crisi
d’impresa, per evitare di incorrere in responsabilità risarcitorie?
*
La responsabilità civile della banca per “concessione abusiva di credito” all’impresa in
stato di decozione.
1. Passato vs. presente.
Volgendo lo sguardo al passato, si può agevolmente porre in evidenza come, prima della
riforma del diritto fallimentare, fosse difficile – per non dire quasi impossibile – trovare un
finanziatore professionale (e penso, ovviamente, alle banche) propenso a concedere credito ad
un’impresa in crisi che attraversasse una fase di ristrutturazione stragiudiziale.
Qualora infatti il tentativo di “salvataggio” dell’impresa sovvenuta non fosse andato in porto e
fosse, dunque, sopravvenuto il fallimento, l’inquietante spettro della responsabilità civile per
“concessione abusiva di credito”, nonché dell’incriminazione per fatti di bancarotta si sarebbe
aggirato dietro l’angolo. Senza contare, oltre a ciò, il rischio delle revocatorie ed il loro
regime probatorio schiettamente favorevole alla curatela; e senza contare, ancora, che un
eventuale credito sorto nei confronti dell’impresa finanziata sarebbe quasi certamente finito
nel mare magnum dei crediti concorsuali e, come tale, inesorabilmente assoggettato
all’impietosa falcidia fallimentare.
Oggi, il panorama sembra (almeno in parte) meno inquietante del passato: le esenzioni dalla
revocatoria previste all’art. 67 l. fall., la nuova disciplina della prededuzione di cui agli artt.
	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  
10

	
  

V. ROPPO, Responsabilità delle banche nell’insolvenza dell’impresa, (in) Il Fall., 1997/IX/870.

11	
  
111 e 182-quater l. fall., nonché l’esenzione dai reati di bancarotta del nuovo art. 217-bis l.
fall., consentono ai finanziatori, in specie a quelli professionali, di avvicinarsi con meno
timore alle imprese in crisi che intendano far “decollare” un tentativo di ristrutturazione.
Qui si tratta di vedere se ed in quale misura detti finanziatori possano stare più tranquilli e
sereni con riferimento al rischio di incorrere in responsabilità d’ordine civile e penale.
2. La responsabilità civile della banca erogatrice di credito: la c.d. “concessione abusiva
di credito”.
Principiando dalle responsabilità d’ordine civile – cioè, per esser chiari, dalla probabilità che
venga contestata la c.d. “concessione abusiva di credito” – diciamo subito (è, a mio modo di
vedere, un’utile osservazione empirica!) che, nei confronti delle banche, le intenzioni dei
curatori fallimentari non sembrano essere fra le più miti: sotto questo profilo, non è certo un
mistero – e lo sostengono gli interpreti più autorevoli – che siffatta, atipica ed incerta forma di
responsabilità sia « destinata a costituire una sorta di nuova frontiera per i curatori, i quali,
‘orfani’ ormai della revocatoria fallimentare » cercheranno giocoforza di « ripiegare proprio
su que[sta] figura per tentare di rimpinguare gli attivi delle procedure »11.
Diciamo, allora, che promette “mal tempo” per le banche!
Ma è il caso di chiedersi: sopraggiunto il fallimento, può il curatore esperire un’azione per
“concessione abusiva di credito” nei confronti della banca finanziatrice? E se può esperirla,
quali sono le sue chance di vittoria?
2.1. La questione di diritto processuale.
Se il curatore fallimentare possa esperire l’azione in discorso – ovvero, in termini
eminentemente processuali, se abbia la c.d. legittimazione ad agire – è tema ancora
lungamente e fortemente dibattuto; ciò nondimeno, in proposito, lo stato attuale della
giurisprudenza e della dottrina sembra suggerire di distinguere fra tre ipotesi.
La prima ipotesi è quella in cui il “nostro” “Aulo Agerio” deduca il danno che la
“concessione abusiva di credito” avrebbe cagionato ai creditori dell’impresa sovvenuta;
ipotesi, questa, rispetto alla quale la Suprema Corte – con le tre note sentenze “gemelle” della
sua più autorevole composizione – ha recisamente negato la legittimazione attiva
dell’organo della procedura; con ciò consolidando un indirizzo già propugnato dalla

	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  
11

Così, testualmente, NIGRO, La responsabilità della banca nell’erogazione del credito, in Soc., 2007,
p. 438.

	
  

12	
  
giurisprudenza milanese12 e poi condiviso nei più recenti arresti di quella successiva, tanto di
legittimità13, quanto di merito14.
Il ragionamento della Cassazione è senz’altro ispirato ad una logica ferrea; ed infatti:
§ la premessa maggiore del sillogismo, è che « la legittimazione del curatore ad agire in
rappresentanza dei creditori è limitata alle azioni c.d. di massa », ossia a quelle azioni «
finalizzate alla ricostituzione del patrimonio del debitore nella sua funzione di garanzia
generica ed aventi carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del loro esito positivo
»;
§ la premessa minore del sillogismo è che a tale tipologia di azioni (i.e., alla tipologia
delle « azioni c.d. di massa ») non afferisce quella per “concessione abusiva di credito”, in
quanto tale azione, « analogamente a quella prevista dall’art. 2395 cod. civ., costituisce
strumento di reintegrazione del patrimonio del singolo creditore »;
§ la conclusione del sillogismo è, inevitabilmente, che la legittimazione del curatore non
sussiste con riferimento all’azione volta a contestare la “concessione abusiva di credito”
15

.

In altri termini, la Corte non nega che la “concessione abusiva di credito” possa produrre un
danno in capo al singolo creditore preesistente al finanziamento abusivo, il quale – per effetto
di quest’ultimo e dell’aggravarsi del dissesto – abbia visto diminuite le proprie possibilità di
soddisfacimento; così come, ancora, la Corte non nega che dalla medesima “concessione
abusiva” possa discendere un danno in capo al singolo creditore successivo al finanziamento
abusivo, il quale – evidentemente – non avrebbe instaurato un rapporto contrattuale con
l’impresa sovvenuta se non fosse stato tratto in inganno dall’apparenza di solvibilità
ingenerata dall’erogazione abusiva di credito.
Tuttavia, la Corte è dell’avviso che un danno di tal fatta – proprio perché si produce
direttamente sul patrimonio di ciascun singolo creditore ed è diverso da caso a caso – potrà
essere fatto valere soltanto dal singolo creditore ipoteticamente danneggiato, e non già dal
	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  
12

Cort. App. Milano, Sent. 11 maggio2004, in Banca borsa tit. credito, 2004, p. 643; Trib. Milano,
Sent. 21 maggio 2001, in Dir. banca e mercato fin., 2002, p. 259.
13
«Le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato i seguenti principi: 1) il curatore fallimentare
non è legittimato a proporre, nei confronti del finanziatore responsabile, l’azione da illecito aquiliano
per il risarcimento dei danni causati ai creditori dall’abusiva concessione di credito diretta a
mantenere artificiosamente in vita una impresa decotta, suscitando così nel mercato la falsa
impressione che si tratti di impresa economicamente valida (…) Dal principio di cui alla prima
massima - al quale il collegio, pienamente condividendo, intende dare anche in questa occasione,
integrale continuità - discende l’infondatezza delle censure miranti all’affermazione della
legittimazione del curatore a promuovere l’azione per abusiva concessione di credito quale
rappresentante della massa dei creditori» (Cass. Civ., Sez. I, Sent. del 1 giugno 2010, n. 13413; cfr.
anche, Cass. Civ., Sent. 23 luglio 2010, n. 17284).
14
Trib. Monza 8.2.2011, n. 317, (in) Riv. dott. comm., 2011, p. 440.
15
Cass. Civ., Sez. Un., Sentt. 28 marzo 2006, nn. 7029, 7030 e 7031.

	
  

13	
  
curatore fallimentare, il quale, altrimenti, sarebbe inspiegabilmente legittimato, contro il
disposto dell’art. 81 cod. proc. civ., a far valere in nome proprio un diritto altrui, per tale
intendendosi il diritto dei singoli creditori asseritamente danneggiati. E può essere giusto
osservare che autorevole dottrina giudica l’opinione espressa dalla Corte come «
assolutamente ineccepibile »16.
Veniamo ora alla seconda ipotesi: quella in cui il curatore agisca deducendo il danno che “la
concessione abusiva di credito” avrebbe cagionato (non già ai creditori dell’impresa
sovvenuta, bensì) al patrimonio della medesima impresa sovvenuta.
Qui le Sezioni Unite, con una motivazione a tratti sibillina17, non hanno escluso una volta per
tutte la legittimazione attiva: esse si sono semplicemente limitate ad affermare, con
riferimento alle vicende loro sottoposte, che la domanda era stata formulata solo in grado di
cassazione ed era pertanto inammissibile.
Nelle tre sentenze “gemelle”, insomma, non si è detto che il curatore è privo di legittimazione
ad agire per l’ipotesi in cui alleghi il danno dalla “concessione abusiva di credito”
asseritamente cagionato all’impresa sovvenuta, ma soltanto che egli deve proporre una simile
domanda tempestivamente, cioè a dire senza incorrere nelle preclusioni dell’ordinario
processo di cognizione18.
Vediamo infine la terza ipotesi: quella in cui l’impresa sovvenuta sia una società di capitali ed
il curatore agisca deducendo (non già il danno che la “concessione abusiva di credito”
avrebbe cagionato ai creditori dell’impresa, e nemmeno il nocumento che la stessa
“concessione” avrebbe cagionato al patrimonio dell’impresa, bensì) un inadempimento degli
amministratori nei confronti della società ed il concorso della banca erogatrice del credito in
siffatto inadempimento.
Ebbene, anche a questo riguardo la Cassazione19 – come chiosa reputata dottrina20 – sembra
aver riconosciuto la legittimazione ad agire del curatore: sembra cioè che là dove quest’ultimo
affermi che gli amministratori, differendo l’apertura della procedura concorsuale, si sono resi
inadempienti verso la società, il finanziatore possa essere convenuto come concorrente
	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  
16

NIGRO, La responsabilità delle banche nell’erogazione del credito, (in) Giur. comm., 2011, p. 312.
Le Sezioni Unite hanno evidenziato che la società fallita (abusivamente finanziata), «partecipò al
contratto che dette luogo alla abusiva concessione del credito. Essa dunque da quel contratto non
trasse un credito nei confronti della banca, oggi rivendicabile dal curatore. Piuttosto dette luogo,
nella stessa costruzione della curatela, all’illecito di cui si discute (…) Nella vicenda in esame si ha
che l’abuso del credito affermato si è perfezionato mediante la conclusione di un contratto al quale la
s.r.l. partecipò con i suoi organi, a tanto legittimati dai statuti» (Cass. Civ., Sez. Un., Sent. n. 7029
del 28 marzo 2006).
18
Per quest’osservazione cfr. anche F. BONELLI, « Concessione abusiva » di credito e « interruzione
abusiva » di credito, in ID. (a cura di), Crisi di imprese: casi e materiali, Milano, 2011, p. 259 e ss.
19
Cass. Civ., Sez. I, Sent. 1 giugno 2010, n. 13413.
20
Cfr. NIGRO, La responsabilità delle banche nell’erogazione del credito, cit., p. 317.
17

	
  

14	
  
nell’inadempimento (e ciò, va da sé, secondo il comodo regime dell’obbligazione risarcitoria
solidale di cui all’art. 2055 cod. civ. che, come risaputo, non implica il litisconsorzio
necessario fra i concorrenti). In tal contesto, il curatore agirebbe secondo il combinato
disposto degli artt. 2393 cod. civ. (che disciplina la responsabilità degli amministratori
verso la società) e 146 l. fall. (che attribuisce allo stesso curatore la legittimazione ad
agire ex art. 2393 cod. civ.).
In definitiva, «se un unico evento dannoso» (nel caso di specie, l’aggravamento del dissesto
in virtù del finanziamento abusivo) «è imputabile a più persone» (ossia, agli amministratori
in primis che hanno richiesto il finanziamento illegittimo e alla banca che ha provveduto ad
erogarlo) «al fine di ritenere la responsabilità di tutte nell’obbligo risarcitorio è sufficiente,
in base ai principi che regolano il nesso di causalità e il concorso di più cause efficienti nella
produzione dell’evento, che le azioni od omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo
efficiente a produrlo, configurandosi a carico dei responsabili del danno un’obbligazione
solidale» (Cass. Civ., Sez. I, Sent. 1° giugno 2010, n. 13413).
I principi di diritto affermati dalla Suprema Corte nella sentenza n. 13413 del 2010 appena
citata hanno trovato accoglimento nelle corti di merito con la sentenza n. 25 del 10 gennaio
2013 del Tribunale di Parma: il Tribunale ha infatti riconosciuto la legittimazione del
commissario straordinario (ma la statuizione è valida, mutatis mutandis, per il curatore
fallimentare) a far valere processualmente la responsabilità della banca, che abbia continuato
illegittimamente a concedere credito ad un’impresa ormai in grave stato di decozione, per i
danni cagionati al patrimonio dell’impresa abusivamente finanziata in concorso con gli
amministratori dell’impresa medesima: «nel caso in esame invece è stata allegata dalle
attrici un’azione risarcitoria promossa contro il terzo che concorrendo con i propri
amministratori abbia cagionato un danno al patrimonio della società aggravandone il
dissesto. Ciò determina la titolarità del rapporto dal punto di vista passivo sia degli
amministratori in forza dell’art. 2393 c.c., sia di coloro che abbiano concorso nell’illecito ai
sensi dell’art. 2055 c.c.» (Tribunale di Parma, Sent. del 10 gennaio 2013 n. 25).
In sostanza, la possibilità di far valere la responsabilità civile della banca in sede fallimentare
è stata espulsa dalla finestra e fatta rientrare dalla porta (sic!), in quanto si è negata la
legittimazione attiva del curatore a far valere un danno dei (singoli) creditori per concessione
abusiva di credito, ma se ne è affermata la legittimazione (in via decisamente “principale”) a
far valere un danno della società fallita per concorso/complicità nell’illecito degli
amministratori.

	
  

15	
  
2.2. La questione di diritto sostanziale.
A conti fatti, nella concreta dimensione processuale, la legittimazione attiva del curatore
rispetto all’azione per “concessione abusiva di credito” sembra essere ormai destinata a
divenire una realtà: una realtà che il finanziatore professionale che si accinga a far credito ad
imprese in situazione di difficoltà dovrà inevitabilmente tener presente, poiché un giorno (a
fallimento dichiarato) un qualche “Aulo Augerio” potrebbe agire contro di lui.
Sennonché, si tratta di vedere, nel merito, quali margini di vittoria abbia quell’“Aulo Agerio”;
e cioè quali siano i presupposti sostanziali in forza dei quali il giudice potrebbe porre in carico
alla banca l’obbligo risarcitorio.
Ora – nell’ambito delle riflessioni che da anni, anzi da svariati decenni, la letteratura va
facendo (anche e soprattutto sulla scia della giurisprudenza d’oltralpe) sul fenomeno della
“concessione abusiva di credito” – sembra potersi affermare che l’azione in discorso,
riconducibile al paradigma dell’illecito extra-contrattuale, possa dal curatore essere
vittoriosamente esperita solo ove quest’ultimo fornisca in giudizio una rigorosa prova:
ovvero, la dimostrazione che la banca ha erogato il credito ad un impresa che, al momento
della concessione dello stesso, versava in una situation désespérée, per tale intendendosi una
crisi definitiva ed irreversibile che, se esteriorizzata, legittimerebbe ed anzi renderebbe
doverosa la dichiarazione di fallimento; situation désespérée che la banca conosceva o, con
l’esigibile diligenza, avrebbe dovuto conoscere21.
Ebbene, potrebbe prima facie ritenersi che il “nostro” curatore abbia, per così dire, la “strada
spianata”: non è chi non veda come, in effetti, l’erogazione del credito “in funzione” od “in
esecuzione” di una ristrutturazione dell’impresa in difficoltà sempre presupponga – per
definizione – la conoscenza, da parte dell’ente finanziatore, della situazione precaria
dell’impresa (e magari, proprio, di … una situation désespérée)22.
Tuttavia, per l’attore in responsabilità il “gioco” è meno facile di quanto possa apparire.
Sul tema che ci occupa risulta decisivo osservare che la giurisprudenza francese – il cui esame
(va ancora rammentato) ha da sempre costituito la “pietra di paragone” per la letteratura
italiana – non esita ad escludere la responsabilità della banca là dove esista un « piano di
risanamento credibile »23.
Ricalcando il modello transalpino, la dottrina italiana più accorta non ha mai mancato di
sottolineare come la banca, là dove il credito sia stato concesso ad un’impresa in situazione di
	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  
21

In senso sostanzialmente analogo cfr., per tutti, ARATO, La responsabilità della banca nelle crisi di
impresa, in Fall., 2007, p. 255 e ss. Cfr., per la necessità che si tratti di un’insolvenza attuale (e non
già soltanto potenziale), App. Milano 11.5.2004, in Banca borsa tit. cred., 2004, II, p. 643.
22
Ciò che coglie acutamente anche BONELLI, « Concessione abusiva » di credito, cit., p. 268.
23
Cass. Com. 15.6.1993, in JCP, 1993, p. 253; App. Paris, 15.12.1995, in D., 1996, inf. rap., p. 65.

	
  

16	
  
crisi definitiva e irreversibile, possa ben andare esente da responsabilità se dimostra di aver
escluso l’esistenza della situation désespérée in forza, giustappunto, di un « credibile piano di
risanamento »24, ossia sulla base di un progetto « oggettivamente serio, vale a dire dotato di
comprovate ed obiettive possibilità di realizzazione »25.
In analogo ordine di idee, il brillante Autore che testé citavo ha affermato che « chi concede
finanziamenti » nell’ottica di un « tentativo serio di soluzione della crisi » non può essere
ritenuto responsabile se il tentativo non ha successo » ; nel senso che « solo quando si opera
in condizioni, non di semplice incertezza sul vantaggio per i creditori, ma di ragionevole
certezza circa l’assenza di un vantaggio per costoro può esservi la reazione sanzionatoria
dell’ordinamento »; sicché la responsabilità del finanziatore potrebbe sorgere solo là dove
quest’ultimo avesse attribuito nuove risorse ad un’impresa in difficoltà « consapevole
dell’inutilità del finanziamento per gli interessi dei creditori »26.
Se così è, non pare allora revocabile in dubbio che – alla pretesa del curatore – la banca possa
ragionevolmente contrapporre il proprio affidamento su di un “fattibile” piano di risanamento,
cioè a dire la propria convinzione circa l’utilità dello stesso per i creditori; e qui si apriranno,
come è subito intuibile, vari “scenari”: perché differenti sono gli strumenti che la prassi e la
vigente legislazione fallimentare conoscono per evitare il fallimento e consentire la
ristrutturazione.
2.3. Segue: gli “scenari” possibili.
Orbene, sono a mio avviso logicamente distinguibili, in un’ideale “griglia” di analisi (forse, a
prima impressione, un po’ cervellotica), i seguenti “scenari”.
Il primo “scenario” è quello della banca che eroga credito in esecuzione di un piano di
risanamento non attestato o non ancora attestato; “scenario” che mi sembra logicamente
assimilabile a quello in cui la banca eroga credito in vista della presentazione della domanda
di omologazione dell’accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l. fall., ovvero della domanda
di concordato preventivo senza che siano state ancora redatte, rispettivamente, la relazione del
professionista sull’« attuabilità » dell’accordo e sulla « fattibilità » del piano allegato alla
domanda di concordato.
Il secondo “scenario” è quello della banca che eroga credito in esecuzione di un piano di
risanamento attestato; “scenario” che mi pare affine a quello (attualmente disciplinato
dall’art. 182quater l.fall.) in cui la banca eroga credito in vista della domanda di concordato
	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  
24

Così testualmente, per tutti, ARATO, La responsabilità della banca, cit., p. 256.
Così testualmente, già prima della riforma, CASTIELLO D’ANTONIO, Il rischio delle banche nel
finanziamento delle imprese in difficoltà: la concessione abusiva di credito, in Dir. fall., 1995, p. 254
26
Così, testualmente, STANGHELLINI, Finanziamenti-ponte e finanziamenti alla ristrutturazione, in
Fall., 2010, pp. 1361-1362.
25

	
  

17	
  
preventivo, allorché sia stata già redatta la relazione del professionista sulla «fattibilità» del
piano allegato che verrà accluso alla domanda medesima; “scenario” che, ancora, mi sembra
somigliante a quello in cui la banca eroga credito in vista della domanda di omologazione
dell’accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l. fall. là dove si sia già in presenza della
relazione sull’«attuabilità».
Il

terzo

“scenario”

è

rappresentato

dall’erogazione

di

credito,

sulla

base

dell’autorizzazione del Tribunale , ex art. 182quinquies, comma 1, l. fall., al debitore che
abbia presentato:
a. una domanda (anche “prenotativa” o “in bianco” ai sensi del nuovo sesto comma
dell’art. 161 l. fall.) di concordato,
b. oppure, domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione ex art. 182bis,
comma 1, l. fall.,
c. oppure ancora una «proposta di accordo di ristrutturazione» ai sensi del sesto comma
dell’art. 182bis;
a patto che, in ogni caso, vi sia l’attestazione del professionista che comprovi la funzionalità
del finanziamento richiesto al miglior soddisfacimento dei creditori, una volta verificato
l’effettivo fabbisogno finanziario dell’impresa sino al momento dell’omologazione del
concordato o dell’accordo di ristrutturazione.
In presenza delle condizioni appena citate, il credito della banca, in virtù del finanziamento
erogato, sarà dotato, in caso di eventuale fallimento del beneficiario, del carattere della
prededucibilità ai sensi dell’art. 111 l. fall.
Il quarto ed ultimo scenario, infine, è quello della banca che eroga credito in esecuzione di un
accordo di ristrutturazione omologato, ovvero di un concordato preventivo.
Non sarà eccessivamente arduo afferrare il criterio logico-giuridico che presiede alla
classificazione dianzi proposta.
Difatti:
§ il primo “scenario” corrisponde alle ipotesi nelle quali il credito è dalla banca concesso
in assenza della certificazione di un soggetto terzo, ossia del professionista che – iscritto
nell’albo dei revisori contabili ed in possesso dei requisiti richiesti per lo svolgimento
dell’incarico di curatore – attesta la “fattibilità” (o “credibilità”, “attuabilità” … che dir si
voglia!) del piano di risanamento;
§ il secondo “scenario” corrisponde alle ipotesi nelle quali il credito è dalla banca
concesso in presenza della certificazione del professionista in ordine alla “fattibilità”
(variamente denominabile) del piano;

	
  

18	
  
§ il terzo “scenario” si verifica laddove il credito è erogato dalla banca in presenza di un
particolare atto del professionista che attesti, sulla base del complessivo bisogno
finanziario dell’impresa fino all’omologa, la funzionalità del finanziamento medesimo alla
“migliore

soddisfazione

dei

creditori”

nonché

in

presenza

dell’autorizzazione

dell’Autorità Giudiziaria.
§ il quarto “scenario”, infine, corrisponde alle ipotesi nelle quali il credito è dalla banca
concesso in presenza sia della certificazione del professionista sulla “fattibilità” del piano,
sia di un controllo giudiziale espletato dal Tribunale in sede di omologazione dell’accordo
di ristrutturazione o del concordato preventivo.
Proviamo adesso a “misurare” ciascuno di tali scenari con la premessa da cui siamo partiti,
vale a dire con la premessa che la banca potrà e dovrà andare esente da responsabilità per
“concessione abusiva di credito” là dove esista un “fattibile” (o “credibile”, “attuabile” … che
dir si voglia!) piano di risanamento.
Ne risulteranno – a mio sommesso avviso – le seguenti, lineari conseguenze:
§ quanto al primo “scenario”, la banca – mancando la certificazione di un soggetto terzo
sulla “fattibilità” del piano – potrà sì andare esente da responsabilità, ma solo se avrà
dimostrato di aver erogato il finanziamento in presenza di un piano che, pur non attestato,
era degno – in una prospettiva ex ante – di essere creduto, in quanto la situazione
economica, patrimoniale e finanziaria dell’impresa dava adito, con ragionevole sicurezza,
a concrete prospettive di ristrutturazione;
§ quanto al secondo “scenario”, la banca – mancando un controllo giudiziale sulla
fattibilità del piano – andrà esente da responsabilità se avrà dimostrato la bontà e la
correttezza, in altre parole la plausibilità, della certificazione rilasciata dal professionista,
in una prospettiva che chiaramente dovrà essere anche qui e rigorosamente ex ante, dal
momento che – bene insegnava il Manzoni – « del senno di poi son piene le fosse »27;
§ quanto al terzo “scenario”, in presenza dell’atto certificativo del professionista che
attesta la funzionalità dei finanziamenti erogati “alla migliore soddisfazione dei creditori”,
per un verso, e l’autorizzazione del Tribunale, per l’altro, non vi è spazio per riconoscere
eventuali profili di responsabilità della banca, trattandosi di concessione di credito
tutt’altro che “abusiva” in quanto specificamente autorizzata dall’Autorità Giudiziaria;

	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  
27

Cfr. sul punto, si vis, IANNACCONE, La crisi d’impresa, in Atti del Convegno Paradigma - Milano
16-17 dicembre 2010, pp. 28-29, ove rilevavo che – nell’ambito di un piano di risanamento attestato
ex art. 67 l. fall. – le banche, al fine di evitare contestazioni, dovrebbero procedere, prima di concedere
il finanziamento, ad una puntuale « verifica di logicità e coerenza dell’attestazione rilasciata dal perito
e di fattibilità del piano ».

	
  

19	
  
§ nell’ultimo “scenario”, infine, la banca – essendo presente un controllo giudiziale sulla
fattibilità del piano – andrà esente da responsabilità per definizione, avendo fatto credito
all’impresa in crisi in forza di un piano che gode dell’“imprimatur” dell’autorità
giudiziaria; ciò perché, come saggiamente evidenzia un Autore, «sarebbe (…)
contraddittorio che il Tribunale dapprima (in sede di omologa…) affermi che l’insolvenza
è reversibile, sicché la nuova finanza prevista nel piano era legittima, e poi, dopo il
fallimento, affermi invece che malgrado l’omologa e malgrado il piano di
ristrutturazione, la società era rimasta insolvente, sicché la nuova finanza era
illegittima»28.
E sarà appena il caso di notare – con un poco di esprit de geometrie – come tale
conclusione collimi pressoché perfettamente, mutatis mutandis, con il regime di stabilità
(i.e., irrevocabilità) contemplato, anche per i finanziamenti (e le eventuali garanzie),
dall’art. 67, comma 3°, lett. d), l. fall.: quando il finanziamento viene concesso « in
esecuzione » di un piano attestato, la revocabilità è esclusa solo se il giudice conferma la
plausibilità delle valutazioni operate dal professionista in punto di “fattibilità” del
progetto; diversamente, quando il finanziamento è concesso « in esecuzione » di un
accordo di ristrutturazione omologato o di un concordato preventivo, la revocabilità è
esclusa, per dir così, automaticamente29.
*
La responsabilità civile della banca per interruzione “brutale” del credito nell’ambito
della crisi d’impresa.
Sempre sulla scorta della giurisprudenza francese, le Corti italiane sono giunte a delineare una
ulteriore tipologia di responsabilità civile gravante sugli operatori bancari che interviene sulla
base di condizioni (per certi versi) opposte rispetto alla responsabilità per abusiva concessione
di credito: si tratta, come anticipato all’inizio del mio intervento, della responsabilità per
interruzione “brutale” di credito.
Tale fenomeno generatore di responsabilità, delineato dalla giurisprudenza francese ed
espressamente codificato dalla legislazione d’oltralpe (art. 442-6, comma 5, Code de
	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  
28

Così, testualmente, BONELLI, « Concessione abusiva » di credito, cit., p. 274. Cfr., in senso
convergente, VITIELLO, Responsabilità delle banche per concessione abusiva di credito e
risanamento, in Il Fallimentarista, p. 7.
29
Cfr. sul punto, per l’apprezzabile chiarezza, ROPPO, Profili strutturali e funzionali dei contratti « di
salvataggio » (o di ristrutturazione dei debiti d’impresa), in Dir. fall., 2008, p. 391, che sottolinea
come « col sigillo dell’omologa, l’accordo di ristrutturazione [come il concordato preventivo] dà
certezza formale che sussiste il presupposto per l’esonero da revocatoria; non così per il piano di
risanamento, la cui adeguatezza e ragionevolezza, e quindi idoneità a produrre l’effetto esonero, in
mancanza di accertamento previo sono soggette all’alea di un giudizio ex post »; cfr. anche
D’AMBROSIO, Sub art. 67 l. fall., in JORIO (diretto da), Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2006, p.
992.

	
  

20	
  
Commerce: «determina la responsabilità dell’autore e lo costringe a riparare i pregiudizi
causati, il commerciante, l’industriale o la persona iscritta nei registri dell’industria e
artigianato (…) che interrompe brutalmente, anche solo in parte, una relazione
commerciale stabile senza preavviso scritto tenendo conto della durata della relazione
commerciale e rispettando la durata minima di preavviso, determinata sulla base della prassi
commerciale e degli accordi professionali»), è ammesso anche dalla giurisprudenza italiana
(ricondotto, in particolare, al fenomeno dell’abuso del diritto), sebbene sia, come anche
quello della concessione abusiva, tutt’ora ignorato dal nostro legislatore.
Ciò significa che, sebbene non sussista, allo stato, alcun obbligo in capo alla banca di fare
necessariamente credito (considerando che la stessa esercita pur sempre un’attività
d’impresa, come tale improntata ai criteri di economicità ed efficienza), l’interruzione
(consentita in via normativa o pattizia) del rapporto di finanziamento con il beneficiario,
qualora assuma i connotati della arbitrarietà e della imprevedibilità, può dare luogo a
responsabilità civile. La Suprema Corte ha infatti più volte affermato quanto segue:
«l’interruzione brutale del credito bancario (…) può essere causa di risarcimento del danno
ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari» (da ultimo, Cass. Civ.,
Sent. 7 giugno 2012, n. 9253).
Invero, nella gestione del rapporto creditizio con il cliente, la banca deve pur sempre
improntare la propria condotta al rispetto dei principi generalissimi di correttezza e
buona fede come “sacralizzati” nell’art. 1175 c.c. che solennemente afferma: “il debitore e il
creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza”. Ebbene, come la
trasgressione del dogma della buona fede in sede di instaurazione del rapporto contrattuale
(i.e., delle trattative) può dare luogo a responsabilità civile c.d. pre-contrattuale, allo stesso
modo la violazione del paradigma della buona fede nel corso dell’esecuzione del contratto
può costituire il fondamento di una affine forma di responsabilità civile.
La giurisprudenza della Cassazione è costante nell’affermare quanto segue: «il principio
della buona fede oggettiva, intesa come reciproca lealtà di condotta delle parti, deve
accompagnare il contratto in tutte le sue fasi, da quella della formazione a quella della
interpretazione e della esecuzione, comportano, quale ineludibile corollario (…) il dovere di
agire, anche nella fase di patologia del rapporto, in modo da preservare, per quanto
possibile, gli interessi della controparte, e quindi, primo tra tutti, l’interesse alla
conservazione del vincolo. Peraltro, l’assenza nel nostro codice di una norma che sanzioni,
in via generale l’abuso del diritto (…) non ha impedito, a una giurisprudenza attenta alle
posizioni giuridiche in sofferenza, di sanzionare con l’illegittimità la cosiddetta interruzione
brutale del credito, e cioè il recesso di una banca da un rapporto di apertura di credito tutte
	
  

21	
  
le volte in cui, benché pattiziamente consentito, esso assuma connotati di arbitrarietà»
(Cass. Civ., Sent. 31 maggio 2010, n. 13208).
In applicazione di tali principi (e in particolare del divieto di abuso del diritto), il
comportamento della banca che come un “fulmine a ciel sereno” “chiuda i rubinetti” del
credito, con modalità del tutto impreviste e (soprattutto) arbitrarie ed abusando così della
propria facoltà di interrompere il rapporto contrattuale pur in astratto prevista (da disposizioni
contrattuali o finanche da disposizioni normative)30, cagionerà alla controparte un danno che
può essere qualificato ingiusto e che darà luogo alla propria responsabilità risarcitoria,
trattandosi di una condotta contraria all’affidamento che ragionevolmente il beneficiario
aveva riposto nella corretta esecuzione (e prosecuzione) del contratto da parte del creditore
bancario.
E’ doveroso sottolineare che, a differenza della responsabilità civile per “concessione
abusiva”, la responsabilità per “revoca brutale” del credito assume natura contrattuale,
sicché all’eventuale attore basterebbe denunciare la violazione del rapporto obbligatorio preesistente (di regola di finanziamento), dovendo invece la banca concretamente dimostrare che
la propria condotta non contrastava con il principio della buona fede, costituendo al contrario
legittimo esercizio di un diritto nonché delle facoltà di autotutela delle proprie posizioni
giuridiche soggettive.
Come si pone, dunque, la “revoca brutale” del credito rispetto all’impresa in crisi? In altre
parole, potrà la banca essere ritenuta responsabile, nei confronti di un’impresa non più in
bonis, per la revoca dei finanziamenti in precedenza erogati?
Riteniamo che, in assenza di alcun dovere giuridicamente vincolante per l’istituto bancario
(così come per nessun altro creditore) di supportare (o, meglio, continuare a supportare) un
proprio cliente entrato in crisi, la banca non possa essere condannata sulla base del
semplice rifiuto di proseguire nel rapporto contrattuale, trovando lo stesso motivazione e
giustificazione più che ragionevole nella mutata condizione economica, finanziaria e
	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  
30

«La Corte di Cassazione ha ritenuto configurabile un abuso del diritto nel comportamento del
contraente che esercita verso l'altro i diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto per realizzare
uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati. In tema di recesso, in particolare, con
riferimento alla c.d. interruzione brutale del credito, la S.C. ha avuto modo di affermare che il
giudice non deve limitarsi al riscontro obiettivo della sussistenza o meno dell'ipotesi di giusta causa di
recesso prevista in un contratto di apertura di credito per un tempo determinato, ma, alla stregua del
principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede, deve accertare che il recesso
non sia esercitato con modalità impreviste ed arbitrarie, tali da contrastare con la ragionevole
aspettativa di chi, in base ai rapporti usualmente tenuti dalla banca ed all'assoluta normalità
commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista redditizia per il
tempo previsto e che non può pretendersi essere pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle
somme utilizzate (Cass., I, 16 ottobre 2003 n. 15482)», Consiglio di Stato, Sez. III, Sent. 17 maggio
2012, n. 2857.

	
  

22	
  
patrimoniale della controparte (a patto, ovviamente, che tale comportamento sia pur sempre
improntato ai criteri di buona fede e correttezza e non sia meramente pretestuoso).
Quid iuris, invece, quando l’imprenditore in crisi presenti alla banca un piano di risanamento
(per tale intendendosi, indistintamente, un piano di concordato preventivo o un accordo di
ristrutturazione dei debiti o un piano attestato ex art. 67 l. fall.) che appaia sin da subito come
serio, credibile e realizzabile? Sussiste, in tal caso, un dovere della banca di aderire al
tentativo di ristrutturazione aziendale, pena la sua eventuale responsabilità civile per aver
“brutalmente” revocato i propri affidamenti?
Anche qui, riteniamo che non sia giuridicamente corretto imporre alla banca di aderire ad un
progetto di risanamento in cui la stessa non creda, quand’anche lo stesso sia fattibile. E’ vero,
le modifiche del diritto concorsuale hanno voluto incoraggiare il finanziamento e l’ausilio
dell’imprenditore in crisi, ma per l’appunto si tratta di modifiche, di carattere premiale, volte
ad incentivare, e non a “costringere”, il supporto ai tentativi di risanamento aziendale.
Profili di responsabilità della banca potranno residuare laddove questa abbia inizialmente
mostrato di aderire ad un tentativo di risanamento, ingenerando un ragionevole affidamento
nell’imprenditore in crisi, e poi abbia, senza idonei motivi sopravvenuti, revocato il proprio
appoggio finanziario; il distacco della banca dal tentativo di ristrutturazione non potrà, invece,
essere considerato illegittimo al mutare in esecuzione dello status quo, tale per cui il
programma di risanamento non risulti più, per circostanze endogene o esogene, essere
fattibile.
E’ evidente, in conclusione, come la sopravvenuta irrealizzabilità del risanamento
dell’impresa costituisca motivo (o «causa di giustificazione»)31 più che valido per la banca a
revocare i propri affidamenti (sempre, ovviamente, sulla base di specifiche disposizioni
contrattuali che glielo consentano e nel rispetto della buona fede). Anzi, è noto che proprio
continuare a sostenere una ristrutturazione aziendale ormai priva di ragionevoli chances di
successo può dare luogo alla responsabilità civile della banca per concessione abusiva di
credito.

	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  	
  
31

A. CASTIELLO D’ANTONIO, Crisi d’impresa e responsabilità della banca: «revoca brutale» del fido,
concessione abusiva di credito, (in) Il Dir. Fall., 2009/I/300.

	
  

23	
  

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I profili di responsabilità civile degli "attori" delle crisi d'impresa

  • 1. I profili di responsabilità civile degli “attori” delle crisi d’impresa Avv. Giuseppe Iannaccone * La responsabilità (civile) degli amministratori e dei sindaci in ambito concorsuale Le due norme di riferimento in tema di responsabilità di amministratori e sindaci sono, rispettivamente, l’art. 2392 c.c., secondo cui gli amministratori “devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze (…); essi sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri” e l’art. 2407 c.c., secondo cui “i sindaci devono adempiere i loro doveri con la professionalità e la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico (…) essi sono responsabili solidalmente con gli amministratori (…); quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica”. Da una prima lettura delle disposizioni appena citate, è immediatamente chiaro che la responsabilità civile degli amministratori e dei sindaci discende, anzitutto, da un loro inadempimento ai doveri dell’ufficio, doveri che sono precisati dall’art. 2380bis c.c., per quanto riguarda gli amministratori, e dall’art. 2403 c.c. rispetto ai sindaci. Ne consegue che la responsabilità di amministratori e sindaci non è mai una responsabilità oggettiva, ricollegata per esempio al mero dissesto della società; al contrario, essa presuppone, sempre e comunque, l’accertamento di una mancanza di professionalità e diligenza nel compimento dei doveri d’ufficio e, dunque, di una colpa imputabile ai medesimi. Precisamente, compito precipuo degli amministratori è quello di gestire l’impresa compiendo le “operazioni necessarie”, o anche solo funzionali, “per l’attuazione dell’oggetto sociale”. Spetta, invece, al collegio sindacale vigilare sull’attività degli amministratori e, in particolare, sull’osservanza, da parte loro, della norme di legge e di statuto, nonché “sul rispetto dei principi di corretta amministrazione” e “sull’adeguatezza” e funzionamento “dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società”. A ben vedere, l’oggetto del controllo dei sindaci [rispetto di legge/statuto/principi di corretta amministrazione/adeguatezza organizzativa] coincide con l’area dell’attività gestoria che è sindacabile e che, dunque, è distinta dalla scelta di merito in senso stretto che, in quanto tale, è di esclusiva competenza degli amministratori e, per definizione, rimessa alla loro autonomia (principio della c.d. business judgment rule).   1  
  • 2. Come noto, tutte le questioni e problematiche in tema di responsabilità di sindaci e amministratori (o, quanto meno, le principali) nascono dalla difficoltà di definire la linea di demarcazione tra l’area sindacabile e l’area non sindacabile dell’attività gestoria; linea, tuttavia, necessaria al fine di potere delimitare l’area di “rischio consentito” nello svolgimento dell’attività d’impresa, rischiosa per definizione. Sul punto, è necessario richiamare alcuni principi giurisprudenziali ormai consolidati e formatisi, non a caso, proprio in tema di azioni di responsabilità svolte nei confronti di ex amministratori e sindaci di società poi fallite. Ora, la giurisprudenza, nel distinguere la sfera della funzione gestoria indubbiamente insindacabile -attinente al merito della scelta e che, come tale, è di esclusiva competenza dell’organo di amministrazione- dalla sfera suscettibile di essere sindacata, fa spesso riferimento al concetto di “legittimità sostanziale” dell’atto di gestione. Con tale locuzione si vuole intendere, non la convenienza dell’atto compiuto rispetto ad altre possibili scelte imprenditoriali, quanto piuttosto la “correttezza del procedimento decisionale” attraverso il quale la scelta gestionale è stata assunta. Ciò che può essere sindacato della scelta di gestione è, dunque, l’iter decisionale che vi ha condotto e che consente di distinguere una scelta “azzardata” e, quindi, censurabile, da una scelta ponderata (appunto, diligente) e in quanto tale, incensurabile: v “se è vero che l’opera di gestione ed amministrazione -discrezionale e finalizzata al raggiungimento dello scopo sociale- si dispiega nell’ambito del rischio d’impresa, non è meno vero che il rischio d’impresa debba essere sempre affrontato, “incontrato” con valutazione critica dei fatti improntata, guidata ed ispirata alla più ampia, profonda conoscenza dei possibili, prevedibili e pensabili fattori che influenzano il risultato sia sul versante positivo sia su quello negativo. Solo dalla ponderazione di tutti i dati conosciuti può sorgere -corretta e non sindacabile- la scelta imprenditoriale: in mancanza di una ragionata analisi e di una ponderata disamina, il risultato viene, invece, affidato alla pura sorte, alla irrazionalità di decisioni neppure sorrette da intuizioni verificabili”; “necessità di una coerenza giuridico-economica dell’attività di gestione con la direzione tracciata dallo scopo sociale”; “Se è accettato il principio metagiuridico (quasi il “concetto puro” del “conoscere come formula dell’agire”) del “prima fare luce e poi fare il passo” è chiaro che la conoscenza, l’apprezzamento critico di tutti i termini economici, finanziari e giuridici che definivano l’operazione avrebbero dovuto fornire il primo ed essenziale   supporto della decisione 2   negoziale assunta. La conoscenza e
  • 3. l’apprezzamento dei fondamenti dell’azione da intraprendere rappresentano -infattiil primo connotato della prudenza come categoria giuridica” (Trib. Milano, 26 giugno 1989); v “.. discrezionalità vuole dire libertà di identificare le scelte, senza esonerare l’amministratore dall’osservanza del dovere di diligenza. Pertanto, se anche il giudice non può sindacare la scelta in sé, deve però controllare il percorso attraverso il quale essa è stata preferita. Secondo un criterio fatto proprio da questa Corte il discrimine va individuato nel fatto che mentre la scelta tra il compiere o meno un atto di gestione, ovvero di compierlo in un certo modo o in determinate circostanze non è suscettibile di essere apprezzata in termini di responsabilità giuridica, al contrario, la responsabilità può essere generata dall’eventuale omissione, da parte dell’amministratore, di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle informazioni preventive normalmente richieste prima di procedere a quel tipo di scelta: in altre parole, il giudizio sulla diligenza non può investire le scelte di gestione ma il modo in cui sono compiute” (Cass. civ. 23.03.’04 n. 5718); v “il controllo giurisdizionale deve essere diretto a verificare la ragionevolezza della scelta dell’organo amministrativo tramite la verifica del procedimento di formazione della decisione” (da ultimo, Trib. Santa Maria Capua Vetere, III Sez. Civ., Ordinanza del 2 agosto 2012). L’iter decisionale che ha condotto alla scelta d’impresa consente, quindi, di distinguere una scelta “azzardata” e censurabile, da una scelta ponderata e, appunto, diligente 1 ; detto altrimenti, l’iter decisionale corretto e conforme a diligenza vale a delimitare l’area di rischio d’impresa “consentito”, il cui eventuale esito infausto non potrà essere addebitato agli amministratori e, ancor meno, ai sindaci. Va da sé che una scelta di gestione non è mai censurabile in astratto: essa si colloca sempre in un preciso contesto, delineato dalla situazione generale di mercato, dalla situazione economico-finanziaria della società, dalle caratteristiche delle eventuali controparti negoziali.                                                                                                                 1 Così, è stata ritenuta infondata l’azione di responsabilità esercitata nei confronti dell’organo di gestione che aveva deliberato un’operazione di acquisizione di un gruppo perché, a prescindere dall’esito infausto della scelta, quest’ultima era stata preceduta da un approfondito studio eseguito per verificare il quadro competitivo, la determinazione di sinergie, gli aspetti tecnico-contabili-finanziari dell’operazione. Pertanto, nessun profilo di negligenza è stato ritenuto sussistente e, quindi, nessuna responsabilità è stata ritenuta imputabile agli amministratori (Trib. Milano 1° ott. 1998, n. 13562). Al contrario, la responsabilità dell’organo di gestione è stata ravvisata in un caso in cui è stato possibile accertare che la commercializzazione di un prodotto era stata organizzata -in una situazione di saturazione del mercato- senza predisporre adeguati metodi di rilevazione al riguardo (Trib. Milano, 19 nov. ’98).   3  
  • 4. La correttezza dell’iter decisionale è ravvisabile proprio laddove la scelta di gestione appaia ben contestualizzata e assunta sulla base di una attenta valutazione e ponderazione delle anzidette circostanze e di tutto il materiale informativo a disposizione. * Dai principi appena illustrati, si capisce bene il motivo per cui l’addebito più frequentemente rivolto agli amministratori -soprattutto agli amministratori non delegati- consiste nella violazione dell’obbligo di informarsi, cui consegue la violazione dell’obbligo di vigilanza. Al riguardo, si consideri il riformato art. 2381 c.c., il quale -oltre a precisare e circostanziare la diversa posizione degli amministratori delegati da quella dei meri consiglieri- conferisce una importanza centrale alla corretta, sistematica e continua circolazione delle informazioni all’interno del consiglio. In particolare, da tale norma risulta: (i) il dovere di ciascun consigliere di “agire in modo informato”, conoscendo dunque tutte le informazioni funzionali a ponderare adeguatamente la questione su cui è necessario esprimersi; (ii) l’obbligo degli organi delegati di riferire periodicamente, almeno ogni sei mesi, all’intero consiglio delegante ed anche al collegio sindacale, “sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni e caratteristiche, effettuate dalla società e dalle sue controllate”; (iii) l’obbligo del consiglio di amministrazione di vigilare sulla base delle informazioni così ricevute e il potere, configurabile in capo a ciascun consigliere, di richiedere ai delegati “che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società”. * Strettamente connesso al dovere di agire informati, è il dovere -che in alcuni casi la legge specificamente impone agli amministratori- di motivare le scelte di gestione assunte: se, infatti, l’iter decisionale è sindacabile, ne consegue la necessità di renderlo manifesto e chiaro. Non è, dunque, un caso se gli obblighi di specifica e analitica motivazione siano imposti proprio laddove ci si trovi di fronte a un’operazione particolarmente delicata e/o in apparente o potenziale contrasto con l’interesse sociale e laddove, quindi, il procedimento decisionale si presti più facilmente ad essere sindacato e censurato (così, per citarne alcune, art. 2391 c.c., in tema di operazioni in conflitto d’interesse, art. 2497ter c.c. in tema di operazioni infragruppo, 2501ter ss. c.c. in tema di operazioni di LBO). Va da sé che tutti questi doveri di motivazione -a meno di volerli considerare (contro ogni logica e in contraddizione con quanto sino ad ora osservato) doveri di natura meramente   4  
  • 5. formale/documentale- valgono a identificare dei sottostanti doveri di carattere sostanziale e delimitano i confini entro i quali le operazioni cui essi si riferiscono possono essere sindacate sotto il profilo della legittimità sostanziale. Ne consegue che l’assolvimento di tali obblighi motivazionali rileva anche e innanzi tutto nell’interesse degli amministratori; questi ultimi, ove chiamati a rispondere giudizialmente degli esiti infausti di determinate operazioni, potranno più facilmente sostenere la ragionevolezza delle proprie scelte, ricostruendo –anche a distanza di tempo- l’iter logico a suo tempo seguito e dimostrando che, in un’ottica ex ante, le scelte medesime erano state diligentemente ricostruite e ponderate. Tutte le considerazioni sopra illustrate in merito alla diligenza richiesta all’organo di gestione e alla rilevanza dei doveri di informazione e trasparenza valgono a fortiori nei contesti di turnaround, vale a dire nei contesti volti a un risanamento e a un rilancio delle imprese in crisi o in declino (non è un caso se, come già evidenziato, gli obblighi specifici di motivazione riguardino operazioni spesso eseguite in questi contesti). Si consideri, in particolare, come in tali contesti agli amministratori sia richiesto, in primo luogo, di rilevare tempestivamente i segnali di crisi; il che rappresenta, evidentemente, una specificazione di quel dovere di informazione sopra illustrato. Invero, una delle contestazioni più frequentemente sollevate nei confronti degli amministratori è proprio quella di avere preso atto con ritardo della crisi, per colpevole inerzia o per l’inesistenza degli strumenti atti a monitorare efficacemente l’andamento aziendale e sulla cui adeguatezza sono chiamati a vigilare tutti gli amministratori (cfr. Trib. Verbania, 13.07.04, ove è stata addebitata agli amministratori la mancata vigilanza sulla “concreta capacità della società di offrire rappresentazioni attendibili della propria situazione economica”). Aggiungo che, non appena colti i primi segnali di crisi, lo stesso dovere di informazione non potrà che accentuarsi: l’attività dell’organo di gestione dovrà intensificarsi, le riunioni del Consiglio dovranno avvenire più frequentemente, la esatta situazione patrimoniale dovrà essere continuamente aggiornata, attraverso la redazione di situazioni infra-annuali. Una volta accertata e a approfondita l’esatta entità della crisi, si tratterà di valutare se, come e con quali strumenti sia possibile superarla. Come noto, le profonde modifiche al diritto concorsuale sono senz’altro intervenute con l’intento di agevolare le prospettive e le scelte volte ad un risanamento e ad un superamento della crisi d’impresa, delineando tre diversi istituti finalizzati alla risoluzione delle “crisi d’impresa”; il tutto nel dichiarato intento di fornire agli organi di gestione degli strumenti con cui fronteggiare tempestivamente le patologie dell’impresa prima che degenerino in situazioni di dissesto irrimediabili.   5  
  • 6. Precisamente e in estrema sintesi, ricordo che tali strumenti sono: - la nuova procedura di concordato preventivo ex art. 160 l. fall. (cui si aggiunge la peculiare declinazione del concordato con continuità aziendale ex art 186bis l. fall.) e gli accordi di ristrutturazione ex art. 182bis l. fall., che hanno entrambi, quale espresso presupposto, l’esistenza di un vero e proprio “stato di crisi”; - il piano attestato ex art. 67, co. 3° lett. d) l. fall. che, invece, almeno secondo l’interpretazione che io ritengo di sostenere2, ha quale presupposto una situazione non già di vera e propria ‘crisi’, bensì di mera tensione finanziaria. Al riguardo, la prassi mostra come spesso si faccia ricorso, in maniera pressoché indifferente, ai piani attestati ex art. 67, comma 3, lett. d, l. fall. e agli accordi di ristrutturazione ex art. 182bis l. fall.. Tuttavia, sarebbe bene tenere presente i diversi presupposti, non fungibili e/o alternativi tra loro. Senza qui potere soffermarsi al riguardo, mi limito a evidenziare come, almeno a mio avviso, il ricorso ai piani attestati ex art. 67 l. fall. dovrebbe tendenzialmente essere riservato ai contesti di tensione finanziaria transitoria, quali le semplici “crisi di liquidità”, o comunque a tutte quelle situazioni di crisi in cui la cui soluzione non comporta, necessariamente, interventi significativi sulla struttura dell’impresa. Viceversa, ogni qual volta l’azienda versi in uno stato di incapacità di sostenere, in una prospettiva di medio-lungo periodo, il proprio modello di business in condizioni di economicità e di equilibrio patrimoniale e finanziario, l’imprenditore, dovendo rivedere in sostanza le fondamenta e la struttura della propria attività, dovrà inevitabilmente ricorrere agli accordi di ristrutturazione o, nei casi in cui gli interventi siano ancora più massicci, addirittura alla procedura concordataria. Va poi considerata e ponderata la diversa “tenuta” dei piani laddove l’esito sia infausto: a fronte, cioè, di un tentativo di risanamento finito male, ai fini delle responsabilità di amministratori e sindaci, ben diverso sarà il vaglio giudiziale in presenza di un piano attestato ex art. 67 l. fall. rispetto a quello in presenza di un concordato omologato. Non vi è dubbio, infatti, che, nel primo caso, l’autorità giudiziaria bene avrà il potere di valutare e approfondire, seppure in un’ottica ex ante, la ragionevolezza dei criteri utilizzati                                                                                                                 2 Sul punto, segnalo l’esistenza di pareri contrastanti: secondo alcuni interpreti, anche il piano attestato ex art. 67 l. fall. rappresenterebbe uno strumento utilizzabile nelle situazioni di crisi d’impresa in senso stretto, in alternativa quindi con lo strumento dell’accordo di ristrutturazione previsto dall’art. 182bis cit.. Tale impostazione non è da me ritenuta condivisibile in ragione del fatto che i due istituti in considerazione si fondano su presupposti oggettivi del tutto differenti fra loro.   6  
  • 7. per la redazione del piano e, dunque, valutarne la “legittimità sostanziale”, secondo i principi sopra citati (in quella sede, cioè, l’autorità giudiziaria tornerà a chiedersi se le previsioni contenute nel piano fossero l’esito di un iter decisionale corretto, precedute da adeguate indagini, conformi alle prospettive di mercato, etc.). Il criterio con cui l’autorità giudiziaria svolgerà tale sindacato sarà quello della c.d. prognosi postuma (ponendosi cioè in un’ottica ex ante); trattasi, evidentemente, di un criterio di giudizio assai delicato e difficile da applicare (pur in presenza delle migliori intenzioni). In sostanza, è intuitivo che l’intervenuto fallimento del piano -soprattutto laddove le dimensioni del fallimento siano significative- potrà sviare il sindacato e/o comunque influenzarne l’esito. Diverso il caso degli accordi di ristrutturazione o dei concordati: in questi casi, infatti, essendovi già stato un intervento dell’autorità giudiziaria ex ante (realmente ex ante), è chiaro che proprio tale intervento e il sindacato già svolto rappresenteranno ostacoli allo svolgimento di un nuovo e diverso sindacato. Si badi che è ormai pacifico che il controllo spettante all’autorità giudiziaria tanto sugli accordi di ristrutturazione ex art. 182bis l. fall., quanto sui concordati preventivi sia un controllo di “legittimità sostanziale”. Sul punto sono intervenute recentemente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Sent. n. 1521/2013)3, chiarendo che al Tribunale, oltre al compito di supervisione generale diretto a verificare la regolarità della procedura, spetterà anche analizzare la fattibilità giuridica della procedura prescelta, vagliando se la proposta concordataria (o, di nuovo, mutatis mutandis, l’accordo di ristrutturazione) sia effettivamente in grado di adempiere alla causa della procedura prescelta, ossia se sia idonea ad assolvere la propria funzione economica (id est, il superamento della crisi, con soddisfazione in qualsiasi percentuale dei creditori per la procedura di concordato e con “ristrutturazione del debito” per gli accordi ex art. 182bis). Ciò significa che il controllo del giudice può (e deve) spingersi a verificare la coerenza e la razionalità delle argomentazioni dell’attestazione del professionista posta alla base della procedura di concordato (o, mutatis mutandis, dell’accordo di ristrutturazione), tale per cui le conseguenze “previste” nel programma di risanamento risultino logicamente consequenziali rispetto alle premesse4. «Ogni qualvolta detta razionalità dovesse mancare (…) il tribunale                                                                                                                 3 E’ doveroso precisare che la Suprema Corte è intervenuta, nello specifico, sui poteri del giudice civile nell’ambito della procedura di concordato preventivo; riteniamo che i principi raggiunti siano, mutatis mutandis, comunque applicabili anche per delineare i confini dell’intervento giudiziale sugli accordi di ristrutturazione in sede di omologa. Si veda, anche, Cass. Civ., Sez. I, Sent. 27 maggio 2013, n. 13083. 4 «Ne discende che, ogni qual volta il tribunale dovesse individuare, nella relazione attestatrice, un iter argomentativo non compatibile con i contenuti o con i dati del piano, si evidenzierebbe un aspetto di irrazionalità rilevante sotto il profilo dell’ammissibilità della proposta e della fattibilità del piano»,   7  
  • 8. avrebbe il potere-dovere di arrestare la procedura»5. * Parlando di responsabilità degli amministratori (e sindaci) nei contesti di crisi di impresa, non può omettersi un breve cenno alle conseguenze pratiche che discendono dal riconoscimento della responsabilità degli amministratori per i danni cagionati dall’improvvido tentativo di risanamento poi colposamente sfociato nel dissesto. E’ noto che il curatore fallimentare, ex art. 146 l.fall., può essere autorizzato ad esercitare – in sede civile – l’azione di responsabilità contro gli amministratori della società fallita per le violazioni dagli stessi commesse rispetto ai doveri del loro ufficio. Il punto è, adesso, il seguente: di quanto potrà essere chiamato a rispondere, in concreto, l’amministratore? Il tema della quantificazione del danno da addebitare agli amministratori e ai sindaci che abbiano determinato o aggravato, mediante il compimento di atti di mala gestio, la perdita del capitale sociale è stato affrontato da pratici e teorici del diritto soprattutto con riferimento all’ipotesi di violazione, da parte degli amministratori, di quel dovere di astensione dal compimento di nuove operazioni che viene sancito anche dopo la riforma, mediante la previsione di un generale obbligo di gestione conservativa ex art. 2486 c.c., in caso di scioglimento della società. Questa fattispecie rappresenta, infatti, la censura che più frequentemente viene sollevata nei confronti degli organi sociali della società poi fallita. Sul punto, la dottrina e la giurisprudenza hanno enucleato, nel tempo, tre diversi criteri: 1. un primo orientamento giurisprudenziale riteneva ammissibile, sia in caso di vera e propria determinazione del dissesto che di aggravamento, una liquidazione commisurata alla differenza tra l’entità dell’attivo e quella del passivo del fallimento6. In sostanza, si semplificava l’onere della prova gravante sull’attore utilizzando il criterio “matematico” del c.d. “deficit fallimentare”. Non sono mancate, in dottrina come in giurisprudenza, le critiche all'impiego di tale principio in quanto lo stesso: a. anzitutto, presenta un eccessivo grado di approssimazione, non arrivando a fornire una quantificazione effettiva dei danni cagionati dall’inadempimento dell’amministratore, potendo «risultare addirittura limitativo nei confronti della società, perché il danno può per quest’ultima essere superiore allo stesso deficit fallimentare» (Trib. Napoli, Sent. 27 novembre 1993);                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           M. VITIELLO, Il problema dei limiti del controllo del tribunale sulla fattibilità del piano come risolto dalle Sezioni Unite, (in) Il Fallimentarista, 2013. 5 M. VITIELLO, Il problema dei limiti del controllo del tribunale sulla fattibilità del piano come risolto dalle Sezioni Unite, Op. Cit. 6 Così, tra le tante, Trib. Roma, Sent. 5 dicembre 1986; App. Bologna, Sent. 5 febbraio 1997; Trib. Genova, Sent. 19 settembre 1988; Trib. Catania Sent. 30 agosto 1986.   8  
  • 9. b. è concettualmente inaccettabile, perché oggettivizza la responsabilità degli amministratori, ponendosi in contrasto «con i principi, da cui è retto il risarcimento del danno civile, che impongono l’individuazione di un preciso nesso di causalità tra il comportamento illegittimo di cui taluno è chiamato a rispondere e le conseguenze che ne siano derivate nell’altrui sfera giuridica» (Cass. Civ., Sent. 24 luglio 2013, n. 12966) c. non considera che: a) alla formazione del passivo possano avere contribuito anche cause ed operazioni pregresse rispetto alla causa di scioglimento; b) il deficit fallimentare ottenuto potrebbe essere inferiore all’effettivo danno provocato (per es. nel caso di rinuncia di alcuni creditori ad insinuarsi al passivo); c) le nuove operazioni, anche se illecitamente intraprese, potrebbero avere realizzato delle sopravvenienze attive. 2. Dal ripudio di ogni automatismo risarcitorio basato sullo squilibrio fallimentare, il Tribunale di Milano era giunto all’individuazione di un secondo e diverso criterio, definito della “differenza dei netti patrimoniali”: il danno imputabile all’amministratore infedele dovrebbe essere, più correttamente, individuato nella differenza tra la situazione patrimoniale della società al momento del verificarsi della causa di scioglimento e la situazione patrimoniale al momento della dichiarazione di fallimento. Anche questo criterio non ha ricevuto l’avallo della giurisprudenza di legittimità, la quale ha sottolineato che: a. anche il metodo della “differenza dei netti patrimoniali” approda, in sostanza, ad una quantificazione in via meramente presuntiva; b. non solo non si tiene conto del necessario rapporto di causalità che deve legare l’atto di mala gestio e il danno denunziato, ma, inoltre, imputando sic et simpliciter agli amministratori la perdita incrementale successiva alla causa di scioglimento, non si prende nella dovuta considerazione che una parte di essa si sarebbe potuta produrre anche in caso di immediata liquidazione o (addirittura) in caso di tempestiva istanza di fallimento7. 3. Dal superamento dei metodi finora citati, un terzo criterio, che riceve ad oggi i maggiori consensi, impone una quantificazione del danno da effettuarsi “in concreto”, compiuta cioè in                                                                                                                 7 In questi termini, Cass., 23 giugno 2008, n. 17033, in Giust. Civ. 2009, I, 2437. La Corte, con riferimento alla violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni, ha osservato che non è giustificata, in mancanza di uno specifico accertamento in proposito, l’applicazione del criterio della differenza dei netti patrimoniali, in quanto non tutta la perdita accertata dopo la causa di scioglimento può essere considerata derivante dalla prosecuzione indebita, potendo tale perdita essere dovuta, ad es., alla svalutazione dei cespiti aziendali in dipendenza del venire meno del going concern, dell’operatività dell’impresa.   9  
  • 10. base al concreto accertamento del nesso di causalità tra le singole condotte e i singoli effetti dannosi e che porti alla esatta determinazione di ogni singolo pregiudizio. Si tratta di un’indagine caso per caso delle conseguenze imputabili alle specifiche operazioni compiute dagli amministratori dopo la causa di scioglimento, con particolare attenzione alla natura di tali operazioni, dal momento che rilevano, ai fini della quantificazione del danno, solo quelle idonee a generare nuovi rischi per la società. Da qui l’onere del curatore di indicare i singoli atti gestori aventi una finalità non conservativa e/o liquidatoria, adottati dagli amministratori in violazione del divieto di cui all’art. 2486, comma 1, c.c. Pertanto, ai fini della quantificazione del danno occorre sottrarre dallo sbilancio patrimoniale: i. le passività derivanti da quelle scelte gestionali precedenti alla causa di scioglimento e che avevano logorato il capitale; ii. quel deficit patrimoniale derivante da operazioni successive alla perdita ma in sé legittime poiché, se pur concretamente pregiudizievoli, risultano astrattamente conformi ad un’ottica liquidatoria/conservativa (cfr., da ultimo, Cass. Civ., Sent. 24 luglio 2013, n. 12966)8. 4. Infine, solo nei casi di impossibilità (debitamente motivata dal giudice) nel ricostruire la precisa determinazione del danno, che deve comunque essere provato insieme alla individuazione delle operazioni di mala gestio, potranno soccorrere i criteri di liquidazione in via equitativa9. * La banca e il finanziamento dell’impresa in crisi: tra «concessione abusiva» e «interruzione brutale» del credito Premessa: il rapporto banca-impresa. Esaurito l’esame dei profili di responsabilità dell’intraneus (ossia, l’amministratore ed, eventualmente, il sindaco) dell’impresa in crisi, mi occuperò delle possibili responsabilità dell’extraneus, trattando una tematica particolarmente delicata: il difficile rapporto tra il creditore bancario, da una parte, e un imprenditore non più in bonis, dall’altra.                                                                                                                 8 Trib. Napoli, Sent. 27 novembre 1993; Trib. Milano, Sent. 22 settembre 1988; Cass. Civ., Sent. 22 ottobre 1998, n. 10488; Trib. Padova, Sent. 16 luglio 1999; Trib. Roma, Sent. 7 maggio 2002; App. Milano, Sent. 6 giugno 2007; Cass. Civ., Sent. 8 febbraio 2005, n. 2538; Cass. Civ., Sent. 22 aprile 2009, n. 9619. 9 Al riguardo, è doveroso ricordare anche che il criterio del c.d. “deficit fallimentare” non è stato totalmente abbandonato dalla Cassazione, potendo essere attribuito allo stesso un ruolo sussidiario: tale criterio, infatti, «può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via equitativa qualora sia stata accertata l’impossibilità di ricostruire i dati con la analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili al comportamento dei sindaci (o degli amministratori), ma, in tal caso, il giudice del merito deve indicare le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli riconducibili alla condotta di costoro» (Cass. 22 aprile 2009, n. 9619; nello stesso senso Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538).   10  
  • 11. Difficile perché nel corso della fase calante della vita dell’impresa la banca è attraversata da istinti diametralmente opposti, da spinte centripete e centrifughe: da un lato, essa sa bene che il suo appoggio finanziario è determinante perché l’imprenditore possa anche solo pensare di superare la crisi; dall’altro, l’imprenditore in dissesto è un soggetto il cui merito creditizio risulta essere, inevitabilmente, compromesso. Ed allora ecco la posizione ambigua della banca: mantenere le linee di credito o revocare gli affidamenti pregressi? Concedere nuovi finanziamenti o rifiutarne l’erogazione? Rigore o flessibilità? Per quanto riguarda, in particolare, la responsabilità civile, il rapporto con il cliente in crisi costringe la banca tra la “interruzione brutale di credito”, da una parte, e la “concessione abusiva del credito”, dall’altra: «da un lato si accusa la banca di essere eccessivamente restrittiva, rigida, avara nella concessione del credito, dall’altro lato antinomicamente, si accusa la banca di essere eccessivamente larga, corriva, generosa nell’accordare credito che l’affidato non meriterebbe»10. Qual è, dunque, l’atteggiamento che una banca accorta dovrà tenere, nell’ambito della crisi d’impresa, per evitare di incorrere in responsabilità risarcitorie? * La responsabilità civile della banca per “concessione abusiva di credito” all’impresa in stato di decozione. 1. Passato vs. presente. Volgendo lo sguardo al passato, si può agevolmente porre in evidenza come, prima della riforma del diritto fallimentare, fosse difficile – per non dire quasi impossibile – trovare un finanziatore professionale (e penso, ovviamente, alle banche) propenso a concedere credito ad un’impresa in crisi che attraversasse una fase di ristrutturazione stragiudiziale. Qualora infatti il tentativo di “salvataggio” dell’impresa sovvenuta non fosse andato in porto e fosse, dunque, sopravvenuto il fallimento, l’inquietante spettro della responsabilità civile per “concessione abusiva di credito”, nonché dell’incriminazione per fatti di bancarotta si sarebbe aggirato dietro l’angolo. Senza contare, oltre a ciò, il rischio delle revocatorie ed il loro regime probatorio schiettamente favorevole alla curatela; e senza contare, ancora, che un eventuale credito sorto nei confronti dell’impresa finanziata sarebbe quasi certamente finito nel mare magnum dei crediti concorsuali e, come tale, inesorabilmente assoggettato all’impietosa falcidia fallimentare. Oggi, il panorama sembra (almeno in parte) meno inquietante del passato: le esenzioni dalla revocatoria previste all’art. 67 l. fall., la nuova disciplina della prededuzione di cui agli artt.                                                                                                                 10   V. ROPPO, Responsabilità delle banche nell’insolvenza dell’impresa, (in) Il Fall., 1997/IX/870. 11  
  • 12. 111 e 182-quater l. fall., nonché l’esenzione dai reati di bancarotta del nuovo art. 217-bis l. fall., consentono ai finanziatori, in specie a quelli professionali, di avvicinarsi con meno timore alle imprese in crisi che intendano far “decollare” un tentativo di ristrutturazione. Qui si tratta di vedere se ed in quale misura detti finanziatori possano stare più tranquilli e sereni con riferimento al rischio di incorrere in responsabilità d’ordine civile e penale. 2. La responsabilità civile della banca erogatrice di credito: la c.d. “concessione abusiva di credito”. Principiando dalle responsabilità d’ordine civile – cioè, per esser chiari, dalla probabilità che venga contestata la c.d. “concessione abusiva di credito” – diciamo subito (è, a mio modo di vedere, un’utile osservazione empirica!) che, nei confronti delle banche, le intenzioni dei curatori fallimentari non sembrano essere fra le più miti: sotto questo profilo, non è certo un mistero – e lo sostengono gli interpreti più autorevoli – che siffatta, atipica ed incerta forma di responsabilità sia « destinata a costituire una sorta di nuova frontiera per i curatori, i quali, ‘orfani’ ormai della revocatoria fallimentare » cercheranno giocoforza di « ripiegare proprio su que[sta] figura per tentare di rimpinguare gli attivi delle procedure »11. Diciamo, allora, che promette “mal tempo” per le banche! Ma è il caso di chiedersi: sopraggiunto il fallimento, può il curatore esperire un’azione per “concessione abusiva di credito” nei confronti della banca finanziatrice? E se può esperirla, quali sono le sue chance di vittoria? 2.1. La questione di diritto processuale. Se il curatore fallimentare possa esperire l’azione in discorso – ovvero, in termini eminentemente processuali, se abbia la c.d. legittimazione ad agire – è tema ancora lungamente e fortemente dibattuto; ciò nondimeno, in proposito, lo stato attuale della giurisprudenza e della dottrina sembra suggerire di distinguere fra tre ipotesi. La prima ipotesi è quella in cui il “nostro” “Aulo Agerio” deduca il danno che la “concessione abusiva di credito” avrebbe cagionato ai creditori dell’impresa sovvenuta; ipotesi, questa, rispetto alla quale la Suprema Corte – con le tre note sentenze “gemelle” della sua più autorevole composizione – ha recisamente negato la legittimazione attiva dell’organo della procedura; con ciò consolidando un indirizzo già propugnato dalla                                                                                                                 11 Così, testualmente, NIGRO, La responsabilità della banca nell’erogazione del credito, in Soc., 2007, p. 438.   12  
  • 13. giurisprudenza milanese12 e poi condiviso nei più recenti arresti di quella successiva, tanto di legittimità13, quanto di merito14. Il ragionamento della Cassazione è senz’altro ispirato ad una logica ferrea; ed infatti: § la premessa maggiore del sillogismo, è che « la legittimazione del curatore ad agire in rappresentanza dei creditori è limitata alle azioni c.d. di massa », ossia a quelle azioni « finalizzate alla ricostituzione del patrimonio del debitore nella sua funzione di garanzia generica ed aventi carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del loro esito positivo »; § la premessa minore del sillogismo è che a tale tipologia di azioni (i.e., alla tipologia delle « azioni c.d. di massa ») non afferisce quella per “concessione abusiva di credito”, in quanto tale azione, « analogamente a quella prevista dall’art. 2395 cod. civ., costituisce strumento di reintegrazione del patrimonio del singolo creditore »; § la conclusione del sillogismo è, inevitabilmente, che la legittimazione del curatore non sussiste con riferimento all’azione volta a contestare la “concessione abusiva di credito” 15 . In altri termini, la Corte non nega che la “concessione abusiva di credito” possa produrre un danno in capo al singolo creditore preesistente al finanziamento abusivo, il quale – per effetto di quest’ultimo e dell’aggravarsi del dissesto – abbia visto diminuite le proprie possibilità di soddisfacimento; così come, ancora, la Corte non nega che dalla medesima “concessione abusiva” possa discendere un danno in capo al singolo creditore successivo al finanziamento abusivo, il quale – evidentemente – non avrebbe instaurato un rapporto contrattuale con l’impresa sovvenuta se non fosse stato tratto in inganno dall’apparenza di solvibilità ingenerata dall’erogazione abusiva di credito. Tuttavia, la Corte è dell’avviso che un danno di tal fatta – proprio perché si produce direttamente sul patrimonio di ciascun singolo creditore ed è diverso da caso a caso – potrà essere fatto valere soltanto dal singolo creditore ipoteticamente danneggiato, e non già dal                                                                                                                 12 Cort. App. Milano, Sent. 11 maggio2004, in Banca borsa tit. credito, 2004, p. 643; Trib. Milano, Sent. 21 maggio 2001, in Dir. banca e mercato fin., 2002, p. 259. 13 «Le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato i seguenti principi: 1) il curatore fallimentare non è legittimato a proporre, nei confronti del finanziatore responsabile, l’azione da illecito aquiliano per il risarcimento dei danni causati ai creditori dall’abusiva concessione di credito diretta a mantenere artificiosamente in vita una impresa decotta, suscitando così nel mercato la falsa impressione che si tratti di impresa economicamente valida (…) Dal principio di cui alla prima massima - al quale il collegio, pienamente condividendo, intende dare anche in questa occasione, integrale continuità - discende l’infondatezza delle censure miranti all’affermazione della legittimazione del curatore a promuovere l’azione per abusiva concessione di credito quale rappresentante della massa dei creditori» (Cass. Civ., Sez. I, Sent. del 1 giugno 2010, n. 13413; cfr. anche, Cass. Civ., Sent. 23 luglio 2010, n. 17284). 14 Trib. Monza 8.2.2011, n. 317, (in) Riv. dott. comm., 2011, p. 440. 15 Cass. Civ., Sez. Un., Sentt. 28 marzo 2006, nn. 7029, 7030 e 7031.   13  
  • 14. curatore fallimentare, il quale, altrimenti, sarebbe inspiegabilmente legittimato, contro il disposto dell’art. 81 cod. proc. civ., a far valere in nome proprio un diritto altrui, per tale intendendosi il diritto dei singoli creditori asseritamente danneggiati. E può essere giusto osservare che autorevole dottrina giudica l’opinione espressa dalla Corte come « assolutamente ineccepibile »16. Veniamo ora alla seconda ipotesi: quella in cui il curatore agisca deducendo il danno che “la concessione abusiva di credito” avrebbe cagionato (non già ai creditori dell’impresa sovvenuta, bensì) al patrimonio della medesima impresa sovvenuta. Qui le Sezioni Unite, con una motivazione a tratti sibillina17, non hanno escluso una volta per tutte la legittimazione attiva: esse si sono semplicemente limitate ad affermare, con riferimento alle vicende loro sottoposte, che la domanda era stata formulata solo in grado di cassazione ed era pertanto inammissibile. Nelle tre sentenze “gemelle”, insomma, non si è detto che il curatore è privo di legittimazione ad agire per l’ipotesi in cui alleghi il danno dalla “concessione abusiva di credito” asseritamente cagionato all’impresa sovvenuta, ma soltanto che egli deve proporre una simile domanda tempestivamente, cioè a dire senza incorrere nelle preclusioni dell’ordinario processo di cognizione18. Vediamo infine la terza ipotesi: quella in cui l’impresa sovvenuta sia una società di capitali ed il curatore agisca deducendo (non già il danno che la “concessione abusiva di credito” avrebbe cagionato ai creditori dell’impresa, e nemmeno il nocumento che la stessa “concessione” avrebbe cagionato al patrimonio dell’impresa, bensì) un inadempimento degli amministratori nei confronti della società ed il concorso della banca erogatrice del credito in siffatto inadempimento. Ebbene, anche a questo riguardo la Cassazione19 – come chiosa reputata dottrina20 – sembra aver riconosciuto la legittimazione ad agire del curatore: sembra cioè che là dove quest’ultimo affermi che gli amministratori, differendo l’apertura della procedura concorsuale, si sono resi inadempienti verso la società, il finanziatore possa essere convenuto come concorrente                                                                                                                 16 NIGRO, La responsabilità delle banche nell’erogazione del credito, (in) Giur. comm., 2011, p. 312. Le Sezioni Unite hanno evidenziato che la società fallita (abusivamente finanziata), «partecipò al contratto che dette luogo alla abusiva concessione del credito. Essa dunque da quel contratto non trasse un credito nei confronti della banca, oggi rivendicabile dal curatore. Piuttosto dette luogo, nella stessa costruzione della curatela, all’illecito di cui si discute (…) Nella vicenda in esame si ha che l’abuso del credito affermato si è perfezionato mediante la conclusione di un contratto al quale la s.r.l. partecipò con i suoi organi, a tanto legittimati dai statuti» (Cass. Civ., Sez. Un., Sent. n. 7029 del 28 marzo 2006). 18 Per quest’osservazione cfr. anche F. BONELLI, « Concessione abusiva » di credito e « interruzione abusiva » di credito, in ID. (a cura di), Crisi di imprese: casi e materiali, Milano, 2011, p. 259 e ss. 19 Cass. Civ., Sez. I, Sent. 1 giugno 2010, n. 13413. 20 Cfr. NIGRO, La responsabilità delle banche nell’erogazione del credito, cit., p. 317. 17   14  
  • 15. nell’inadempimento (e ciò, va da sé, secondo il comodo regime dell’obbligazione risarcitoria solidale di cui all’art. 2055 cod. civ. che, come risaputo, non implica il litisconsorzio necessario fra i concorrenti). In tal contesto, il curatore agirebbe secondo il combinato disposto degli artt. 2393 cod. civ. (che disciplina la responsabilità degli amministratori verso la società) e 146 l. fall. (che attribuisce allo stesso curatore la legittimazione ad agire ex art. 2393 cod. civ.). In definitiva, «se un unico evento dannoso» (nel caso di specie, l’aggravamento del dissesto in virtù del finanziamento abusivo) «è imputabile a più persone» (ossia, agli amministratori in primis che hanno richiesto il finanziamento illegittimo e alla banca che ha provveduto ad erogarlo) «al fine di ritenere la responsabilità di tutte nell’obbligo risarcitorio è sufficiente, in base ai principi che regolano il nesso di causalità e il concorso di più cause efficienti nella produzione dell’evento, che le azioni od omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrlo, configurandosi a carico dei responsabili del danno un’obbligazione solidale» (Cass. Civ., Sez. I, Sent. 1° giugno 2010, n. 13413). I principi di diritto affermati dalla Suprema Corte nella sentenza n. 13413 del 2010 appena citata hanno trovato accoglimento nelle corti di merito con la sentenza n. 25 del 10 gennaio 2013 del Tribunale di Parma: il Tribunale ha infatti riconosciuto la legittimazione del commissario straordinario (ma la statuizione è valida, mutatis mutandis, per il curatore fallimentare) a far valere processualmente la responsabilità della banca, che abbia continuato illegittimamente a concedere credito ad un’impresa ormai in grave stato di decozione, per i danni cagionati al patrimonio dell’impresa abusivamente finanziata in concorso con gli amministratori dell’impresa medesima: «nel caso in esame invece è stata allegata dalle attrici un’azione risarcitoria promossa contro il terzo che concorrendo con i propri amministratori abbia cagionato un danno al patrimonio della società aggravandone il dissesto. Ciò determina la titolarità del rapporto dal punto di vista passivo sia degli amministratori in forza dell’art. 2393 c.c., sia di coloro che abbiano concorso nell’illecito ai sensi dell’art. 2055 c.c.» (Tribunale di Parma, Sent. del 10 gennaio 2013 n. 25). In sostanza, la possibilità di far valere la responsabilità civile della banca in sede fallimentare è stata espulsa dalla finestra e fatta rientrare dalla porta (sic!), in quanto si è negata la legittimazione attiva del curatore a far valere un danno dei (singoli) creditori per concessione abusiva di credito, ma se ne è affermata la legittimazione (in via decisamente “principale”) a far valere un danno della società fallita per concorso/complicità nell’illecito degli amministratori.   15  
  • 16. 2.2. La questione di diritto sostanziale. A conti fatti, nella concreta dimensione processuale, la legittimazione attiva del curatore rispetto all’azione per “concessione abusiva di credito” sembra essere ormai destinata a divenire una realtà: una realtà che il finanziatore professionale che si accinga a far credito ad imprese in situazione di difficoltà dovrà inevitabilmente tener presente, poiché un giorno (a fallimento dichiarato) un qualche “Aulo Augerio” potrebbe agire contro di lui. Sennonché, si tratta di vedere, nel merito, quali margini di vittoria abbia quell’“Aulo Agerio”; e cioè quali siano i presupposti sostanziali in forza dei quali il giudice potrebbe porre in carico alla banca l’obbligo risarcitorio. Ora – nell’ambito delle riflessioni che da anni, anzi da svariati decenni, la letteratura va facendo (anche e soprattutto sulla scia della giurisprudenza d’oltralpe) sul fenomeno della “concessione abusiva di credito” – sembra potersi affermare che l’azione in discorso, riconducibile al paradigma dell’illecito extra-contrattuale, possa dal curatore essere vittoriosamente esperita solo ove quest’ultimo fornisca in giudizio una rigorosa prova: ovvero, la dimostrazione che la banca ha erogato il credito ad un impresa che, al momento della concessione dello stesso, versava in una situation désespérée, per tale intendendosi una crisi definitiva ed irreversibile che, se esteriorizzata, legittimerebbe ed anzi renderebbe doverosa la dichiarazione di fallimento; situation désespérée che la banca conosceva o, con l’esigibile diligenza, avrebbe dovuto conoscere21. Ebbene, potrebbe prima facie ritenersi che il “nostro” curatore abbia, per così dire, la “strada spianata”: non è chi non veda come, in effetti, l’erogazione del credito “in funzione” od “in esecuzione” di una ristrutturazione dell’impresa in difficoltà sempre presupponga – per definizione – la conoscenza, da parte dell’ente finanziatore, della situazione precaria dell’impresa (e magari, proprio, di … una situation désespérée)22. Tuttavia, per l’attore in responsabilità il “gioco” è meno facile di quanto possa apparire. Sul tema che ci occupa risulta decisivo osservare che la giurisprudenza francese – il cui esame (va ancora rammentato) ha da sempre costituito la “pietra di paragone” per la letteratura italiana – non esita ad escludere la responsabilità della banca là dove esista un « piano di risanamento credibile »23. Ricalcando il modello transalpino, la dottrina italiana più accorta non ha mai mancato di sottolineare come la banca, là dove il credito sia stato concesso ad un’impresa in situazione di                                                                                                                 21 In senso sostanzialmente analogo cfr., per tutti, ARATO, La responsabilità della banca nelle crisi di impresa, in Fall., 2007, p. 255 e ss. Cfr., per la necessità che si tratti di un’insolvenza attuale (e non già soltanto potenziale), App. Milano 11.5.2004, in Banca borsa tit. cred., 2004, II, p. 643. 22 Ciò che coglie acutamente anche BONELLI, « Concessione abusiva » di credito, cit., p. 268. 23 Cass. Com. 15.6.1993, in JCP, 1993, p. 253; App. Paris, 15.12.1995, in D., 1996, inf. rap., p. 65.   16  
  • 17. crisi definitiva e irreversibile, possa ben andare esente da responsabilità se dimostra di aver escluso l’esistenza della situation désespérée in forza, giustappunto, di un « credibile piano di risanamento »24, ossia sulla base di un progetto « oggettivamente serio, vale a dire dotato di comprovate ed obiettive possibilità di realizzazione »25. In analogo ordine di idee, il brillante Autore che testé citavo ha affermato che « chi concede finanziamenti » nell’ottica di un « tentativo serio di soluzione della crisi » non può essere ritenuto responsabile se il tentativo non ha successo » ; nel senso che « solo quando si opera in condizioni, non di semplice incertezza sul vantaggio per i creditori, ma di ragionevole certezza circa l’assenza di un vantaggio per costoro può esservi la reazione sanzionatoria dell’ordinamento »; sicché la responsabilità del finanziatore potrebbe sorgere solo là dove quest’ultimo avesse attribuito nuove risorse ad un’impresa in difficoltà « consapevole dell’inutilità del finanziamento per gli interessi dei creditori »26. Se così è, non pare allora revocabile in dubbio che – alla pretesa del curatore – la banca possa ragionevolmente contrapporre il proprio affidamento su di un “fattibile” piano di risanamento, cioè a dire la propria convinzione circa l’utilità dello stesso per i creditori; e qui si apriranno, come è subito intuibile, vari “scenari”: perché differenti sono gli strumenti che la prassi e la vigente legislazione fallimentare conoscono per evitare il fallimento e consentire la ristrutturazione. 2.3. Segue: gli “scenari” possibili. Orbene, sono a mio avviso logicamente distinguibili, in un’ideale “griglia” di analisi (forse, a prima impressione, un po’ cervellotica), i seguenti “scenari”. Il primo “scenario” è quello della banca che eroga credito in esecuzione di un piano di risanamento non attestato o non ancora attestato; “scenario” che mi sembra logicamente assimilabile a quello in cui la banca eroga credito in vista della presentazione della domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l. fall., ovvero della domanda di concordato preventivo senza che siano state ancora redatte, rispettivamente, la relazione del professionista sull’« attuabilità » dell’accordo e sulla « fattibilità » del piano allegato alla domanda di concordato. Il secondo “scenario” è quello della banca che eroga credito in esecuzione di un piano di risanamento attestato; “scenario” che mi pare affine a quello (attualmente disciplinato dall’art. 182quater l.fall.) in cui la banca eroga credito in vista della domanda di concordato                                                                                                                 24 Così testualmente, per tutti, ARATO, La responsabilità della banca, cit., p. 256. Così testualmente, già prima della riforma, CASTIELLO D’ANTONIO, Il rischio delle banche nel finanziamento delle imprese in difficoltà: la concessione abusiva di credito, in Dir. fall., 1995, p. 254 26 Così, testualmente, STANGHELLINI, Finanziamenti-ponte e finanziamenti alla ristrutturazione, in Fall., 2010, pp. 1361-1362. 25   17  
  • 18. preventivo, allorché sia stata già redatta la relazione del professionista sulla «fattibilità» del piano allegato che verrà accluso alla domanda medesima; “scenario” che, ancora, mi sembra somigliante a quello in cui la banca eroga credito in vista della domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l. fall. là dove si sia già in presenza della relazione sull’«attuabilità». Il terzo “scenario” è rappresentato dall’erogazione di credito, sulla base dell’autorizzazione del Tribunale , ex art. 182quinquies, comma 1, l. fall., al debitore che abbia presentato: a. una domanda (anche “prenotativa” o “in bianco” ai sensi del nuovo sesto comma dell’art. 161 l. fall.) di concordato, b. oppure, domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione ex art. 182bis, comma 1, l. fall., c. oppure ancora una «proposta di accordo di ristrutturazione» ai sensi del sesto comma dell’art. 182bis; a patto che, in ogni caso, vi sia l’attestazione del professionista che comprovi la funzionalità del finanziamento richiesto al miglior soddisfacimento dei creditori, una volta verificato l’effettivo fabbisogno finanziario dell’impresa sino al momento dell’omologazione del concordato o dell’accordo di ristrutturazione. In presenza delle condizioni appena citate, il credito della banca, in virtù del finanziamento erogato, sarà dotato, in caso di eventuale fallimento del beneficiario, del carattere della prededucibilità ai sensi dell’art. 111 l. fall. Il quarto ed ultimo scenario, infine, è quello della banca che eroga credito in esecuzione di un accordo di ristrutturazione omologato, ovvero di un concordato preventivo. Non sarà eccessivamente arduo afferrare il criterio logico-giuridico che presiede alla classificazione dianzi proposta. Difatti: § il primo “scenario” corrisponde alle ipotesi nelle quali il credito è dalla banca concesso in assenza della certificazione di un soggetto terzo, ossia del professionista che – iscritto nell’albo dei revisori contabili ed in possesso dei requisiti richiesti per lo svolgimento dell’incarico di curatore – attesta la “fattibilità” (o “credibilità”, “attuabilità” … che dir si voglia!) del piano di risanamento; § il secondo “scenario” corrisponde alle ipotesi nelle quali il credito è dalla banca concesso in presenza della certificazione del professionista in ordine alla “fattibilità” (variamente denominabile) del piano;   18  
  • 19. § il terzo “scenario” si verifica laddove il credito è erogato dalla banca in presenza di un particolare atto del professionista che attesti, sulla base del complessivo bisogno finanziario dell’impresa fino all’omologa, la funzionalità del finanziamento medesimo alla “migliore soddisfazione dei creditori” nonché in presenza dell’autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria. § il quarto “scenario”, infine, corrisponde alle ipotesi nelle quali il credito è dalla banca concesso in presenza sia della certificazione del professionista sulla “fattibilità” del piano, sia di un controllo giudiziale espletato dal Tribunale in sede di omologazione dell’accordo di ristrutturazione o del concordato preventivo. Proviamo adesso a “misurare” ciascuno di tali scenari con la premessa da cui siamo partiti, vale a dire con la premessa che la banca potrà e dovrà andare esente da responsabilità per “concessione abusiva di credito” là dove esista un “fattibile” (o “credibile”, “attuabile” … che dir si voglia!) piano di risanamento. Ne risulteranno – a mio sommesso avviso – le seguenti, lineari conseguenze: § quanto al primo “scenario”, la banca – mancando la certificazione di un soggetto terzo sulla “fattibilità” del piano – potrà sì andare esente da responsabilità, ma solo se avrà dimostrato di aver erogato il finanziamento in presenza di un piano che, pur non attestato, era degno – in una prospettiva ex ante – di essere creduto, in quanto la situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’impresa dava adito, con ragionevole sicurezza, a concrete prospettive di ristrutturazione; § quanto al secondo “scenario”, la banca – mancando un controllo giudiziale sulla fattibilità del piano – andrà esente da responsabilità se avrà dimostrato la bontà e la correttezza, in altre parole la plausibilità, della certificazione rilasciata dal professionista, in una prospettiva che chiaramente dovrà essere anche qui e rigorosamente ex ante, dal momento che – bene insegnava il Manzoni – « del senno di poi son piene le fosse »27; § quanto al terzo “scenario”, in presenza dell’atto certificativo del professionista che attesta la funzionalità dei finanziamenti erogati “alla migliore soddisfazione dei creditori”, per un verso, e l’autorizzazione del Tribunale, per l’altro, non vi è spazio per riconoscere eventuali profili di responsabilità della banca, trattandosi di concessione di credito tutt’altro che “abusiva” in quanto specificamente autorizzata dall’Autorità Giudiziaria;                                                                                                                 27 Cfr. sul punto, si vis, IANNACCONE, La crisi d’impresa, in Atti del Convegno Paradigma - Milano 16-17 dicembre 2010, pp. 28-29, ove rilevavo che – nell’ambito di un piano di risanamento attestato ex art. 67 l. fall. – le banche, al fine di evitare contestazioni, dovrebbero procedere, prima di concedere il finanziamento, ad una puntuale « verifica di logicità e coerenza dell’attestazione rilasciata dal perito e di fattibilità del piano ».   19  
  • 20. § nell’ultimo “scenario”, infine, la banca – essendo presente un controllo giudiziale sulla fattibilità del piano – andrà esente da responsabilità per definizione, avendo fatto credito all’impresa in crisi in forza di un piano che gode dell’“imprimatur” dell’autorità giudiziaria; ciò perché, come saggiamente evidenzia un Autore, «sarebbe (…) contraddittorio che il Tribunale dapprima (in sede di omologa…) affermi che l’insolvenza è reversibile, sicché la nuova finanza prevista nel piano era legittima, e poi, dopo il fallimento, affermi invece che malgrado l’omologa e malgrado il piano di ristrutturazione, la società era rimasta insolvente, sicché la nuova finanza era illegittima»28. E sarà appena il caso di notare – con un poco di esprit de geometrie – come tale conclusione collimi pressoché perfettamente, mutatis mutandis, con il regime di stabilità (i.e., irrevocabilità) contemplato, anche per i finanziamenti (e le eventuali garanzie), dall’art. 67, comma 3°, lett. d), l. fall.: quando il finanziamento viene concesso « in esecuzione » di un piano attestato, la revocabilità è esclusa solo se il giudice conferma la plausibilità delle valutazioni operate dal professionista in punto di “fattibilità” del progetto; diversamente, quando il finanziamento è concesso « in esecuzione » di un accordo di ristrutturazione omologato o di un concordato preventivo, la revocabilità è esclusa, per dir così, automaticamente29. * La responsabilità civile della banca per interruzione “brutale” del credito nell’ambito della crisi d’impresa. Sempre sulla scorta della giurisprudenza francese, le Corti italiane sono giunte a delineare una ulteriore tipologia di responsabilità civile gravante sugli operatori bancari che interviene sulla base di condizioni (per certi versi) opposte rispetto alla responsabilità per abusiva concessione di credito: si tratta, come anticipato all’inizio del mio intervento, della responsabilità per interruzione “brutale” di credito. Tale fenomeno generatore di responsabilità, delineato dalla giurisprudenza francese ed espressamente codificato dalla legislazione d’oltralpe (art. 442-6, comma 5, Code de                                                                                                                 28 Così, testualmente, BONELLI, « Concessione abusiva » di credito, cit., p. 274. Cfr., in senso convergente, VITIELLO, Responsabilità delle banche per concessione abusiva di credito e risanamento, in Il Fallimentarista, p. 7. 29 Cfr. sul punto, per l’apprezzabile chiarezza, ROPPO, Profili strutturali e funzionali dei contratti « di salvataggio » (o di ristrutturazione dei debiti d’impresa), in Dir. fall., 2008, p. 391, che sottolinea come « col sigillo dell’omologa, l’accordo di ristrutturazione [come il concordato preventivo] dà certezza formale che sussiste il presupposto per l’esonero da revocatoria; non così per il piano di risanamento, la cui adeguatezza e ragionevolezza, e quindi idoneità a produrre l’effetto esonero, in mancanza di accertamento previo sono soggette all’alea di un giudizio ex post »; cfr. anche D’AMBROSIO, Sub art. 67 l. fall., in JORIO (diretto da), Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2006, p. 992.   20  
  • 21. Commerce: «determina la responsabilità dell’autore e lo costringe a riparare i pregiudizi causati, il commerciante, l’industriale o la persona iscritta nei registri dell’industria e artigianato (…) che interrompe brutalmente, anche solo in parte, una relazione commerciale stabile senza preavviso scritto tenendo conto della durata della relazione commerciale e rispettando la durata minima di preavviso, determinata sulla base della prassi commerciale e degli accordi professionali»), è ammesso anche dalla giurisprudenza italiana (ricondotto, in particolare, al fenomeno dell’abuso del diritto), sebbene sia, come anche quello della concessione abusiva, tutt’ora ignorato dal nostro legislatore. Ciò significa che, sebbene non sussista, allo stato, alcun obbligo in capo alla banca di fare necessariamente credito (considerando che la stessa esercita pur sempre un’attività d’impresa, come tale improntata ai criteri di economicità ed efficienza), l’interruzione (consentita in via normativa o pattizia) del rapporto di finanziamento con il beneficiario, qualora assuma i connotati della arbitrarietà e della imprevedibilità, può dare luogo a responsabilità civile. La Suprema Corte ha infatti più volte affermato quanto segue: «l’interruzione brutale del credito bancario (…) può essere causa di risarcimento del danno ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari» (da ultimo, Cass. Civ., Sent. 7 giugno 2012, n. 9253). Invero, nella gestione del rapporto creditizio con il cliente, la banca deve pur sempre improntare la propria condotta al rispetto dei principi generalissimi di correttezza e buona fede come “sacralizzati” nell’art. 1175 c.c. che solennemente afferma: “il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza”. Ebbene, come la trasgressione del dogma della buona fede in sede di instaurazione del rapporto contrattuale (i.e., delle trattative) può dare luogo a responsabilità civile c.d. pre-contrattuale, allo stesso modo la violazione del paradigma della buona fede nel corso dell’esecuzione del contratto può costituire il fondamento di una affine forma di responsabilità civile. La giurisprudenza della Cassazione è costante nell’affermare quanto segue: «il principio della buona fede oggettiva, intesa come reciproca lealtà di condotta delle parti, deve accompagnare il contratto in tutte le sue fasi, da quella della formazione a quella della interpretazione e della esecuzione, comportano, quale ineludibile corollario (…) il dovere di agire, anche nella fase di patologia del rapporto, in modo da preservare, per quanto possibile, gli interessi della controparte, e quindi, primo tra tutti, l’interesse alla conservazione del vincolo. Peraltro, l’assenza nel nostro codice di una norma che sanzioni, in via generale l’abuso del diritto (…) non ha impedito, a una giurisprudenza attenta alle posizioni giuridiche in sofferenza, di sanzionare con l’illegittimità la cosiddetta interruzione brutale del credito, e cioè il recesso di una banca da un rapporto di apertura di credito tutte   21  
  • 22. le volte in cui, benché pattiziamente consentito, esso assuma connotati di arbitrarietà» (Cass. Civ., Sent. 31 maggio 2010, n. 13208). In applicazione di tali principi (e in particolare del divieto di abuso del diritto), il comportamento della banca che come un “fulmine a ciel sereno” “chiuda i rubinetti” del credito, con modalità del tutto impreviste e (soprattutto) arbitrarie ed abusando così della propria facoltà di interrompere il rapporto contrattuale pur in astratto prevista (da disposizioni contrattuali o finanche da disposizioni normative)30, cagionerà alla controparte un danno che può essere qualificato ingiusto e che darà luogo alla propria responsabilità risarcitoria, trattandosi di una condotta contraria all’affidamento che ragionevolmente il beneficiario aveva riposto nella corretta esecuzione (e prosecuzione) del contratto da parte del creditore bancario. E’ doveroso sottolineare che, a differenza della responsabilità civile per “concessione abusiva”, la responsabilità per “revoca brutale” del credito assume natura contrattuale, sicché all’eventuale attore basterebbe denunciare la violazione del rapporto obbligatorio preesistente (di regola di finanziamento), dovendo invece la banca concretamente dimostrare che la propria condotta non contrastava con il principio della buona fede, costituendo al contrario legittimo esercizio di un diritto nonché delle facoltà di autotutela delle proprie posizioni giuridiche soggettive. Come si pone, dunque, la “revoca brutale” del credito rispetto all’impresa in crisi? In altre parole, potrà la banca essere ritenuta responsabile, nei confronti di un’impresa non più in bonis, per la revoca dei finanziamenti in precedenza erogati? Riteniamo che, in assenza di alcun dovere giuridicamente vincolante per l’istituto bancario (così come per nessun altro creditore) di supportare (o, meglio, continuare a supportare) un proprio cliente entrato in crisi, la banca non possa essere condannata sulla base del semplice rifiuto di proseguire nel rapporto contrattuale, trovando lo stesso motivazione e giustificazione più che ragionevole nella mutata condizione economica, finanziaria e                                                                                                                 30 «La Corte di Cassazione ha ritenuto configurabile un abuso del diritto nel comportamento del contraente che esercita verso l'altro i diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto per realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati. In tema di recesso, in particolare, con riferimento alla c.d. interruzione brutale del credito, la S.C. ha avuto modo di affermare che il giudice non deve limitarsi al riscontro obiettivo della sussistenza o meno dell'ipotesi di giusta causa di recesso prevista in un contratto di apertura di credito per un tempo determinato, ma, alla stregua del principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede, deve accertare che il recesso non sia esercitato con modalità impreviste ed arbitrarie, tali da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai rapporti usualmente tenuti dalla banca ed all'assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista redditizia per il tempo previsto e che non può pretendersi essere pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate (Cass., I, 16 ottobre 2003 n. 15482)», Consiglio di Stato, Sez. III, Sent. 17 maggio 2012, n. 2857.   22  
  • 23. patrimoniale della controparte (a patto, ovviamente, che tale comportamento sia pur sempre improntato ai criteri di buona fede e correttezza e non sia meramente pretestuoso). Quid iuris, invece, quando l’imprenditore in crisi presenti alla banca un piano di risanamento (per tale intendendosi, indistintamente, un piano di concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione dei debiti o un piano attestato ex art. 67 l. fall.) che appaia sin da subito come serio, credibile e realizzabile? Sussiste, in tal caso, un dovere della banca di aderire al tentativo di ristrutturazione aziendale, pena la sua eventuale responsabilità civile per aver “brutalmente” revocato i propri affidamenti? Anche qui, riteniamo che non sia giuridicamente corretto imporre alla banca di aderire ad un progetto di risanamento in cui la stessa non creda, quand’anche lo stesso sia fattibile. E’ vero, le modifiche del diritto concorsuale hanno voluto incoraggiare il finanziamento e l’ausilio dell’imprenditore in crisi, ma per l’appunto si tratta di modifiche, di carattere premiale, volte ad incentivare, e non a “costringere”, il supporto ai tentativi di risanamento aziendale. Profili di responsabilità della banca potranno residuare laddove questa abbia inizialmente mostrato di aderire ad un tentativo di risanamento, ingenerando un ragionevole affidamento nell’imprenditore in crisi, e poi abbia, senza idonei motivi sopravvenuti, revocato il proprio appoggio finanziario; il distacco della banca dal tentativo di ristrutturazione non potrà, invece, essere considerato illegittimo al mutare in esecuzione dello status quo, tale per cui il programma di risanamento non risulti più, per circostanze endogene o esogene, essere fattibile. E’ evidente, in conclusione, come la sopravvenuta irrealizzabilità del risanamento dell’impresa costituisca motivo (o «causa di giustificazione»)31 più che valido per la banca a revocare i propri affidamenti (sempre, ovviamente, sulla base di specifiche disposizioni contrattuali che glielo consentano e nel rispetto della buona fede). Anzi, è noto che proprio continuare a sostenere una ristrutturazione aziendale ormai priva di ragionevoli chances di successo può dare luogo alla responsabilità civile della banca per concessione abusiva di credito.                                                                                                                 31 A. CASTIELLO D’ANTONIO, Crisi d’impresa e responsabilità della banca: «revoca brutale» del fido, concessione abusiva di credito, (in) Il Dir. Fall., 2009/I/300.   23