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ORTI DI PACE




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Collana «Strumenti»




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A cura di Gianfranco Zavalloni




                      ORTI DI PACE
                       Il lavoro della terra
                       come via educativa




                       EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA




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RETE ORTI DI PACE

               Segreteria: c/o Ecoistituto di Cesena
               Via Germazzo 189 - 47152 Cesena (FC)
               Tel./fax: 0547-323407
               www.tecnologieappropriate.it
               ecoistituto@tecnologieappropriate.it

               Sito ufficiale: www.ortidipace.org




               Consapevole delle problematiche ecologiche che il ciclo di pro-
               duzione del libro comporta, la EMI è impegnata in un progres-
               sivo attenuamento dell’impatto ambientale delle sue edizioni.
               In particolare, l’Editrice utilizza carta proveniente da gestione
               sostenibile delle foreste e non contenente tracce di cloro elemen-
               tare.




               Disegno di copertina e illustrazioni di VITTORIO BELLI
               (http://www.studiobelliebaldaro.com)
               Copertina di VALENTINA MONTEMEZZI

               © 2010 EMI della Coop. SERMIS
               Via di Corticella 179/4 – 40128 Bologna
               Tel. 051/32.60.27 – Fax 051/32.75.52
               www.emi.it
               sermis@emi.it

               N.A. 2748
               ISBN 978-88-307-1972-9




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INDICE




          Presentazione .....................................................       Pag.     7

          A scuola dai contadini di Gianfranco Zavalloni                             »      11
          L’orto scolastico come giardino del nostro
              tempo di Pia Pera .........................................            »      35
          L’orto tra la foresta e la vigna: ri/coltivare il
              selvaggio per la vita di Daniele Zavalloni ....                        »      41
          Una lunga storia di scuola, di bambini e di orti
              di Nadia Nicoletti .........................................           »      47
          Il giardino come spazio di apprendimento
              all’aperto di Alberto Rabitti ..........................               »      57
          Obbedire alla paura? di Andrea Magnolini ......                            »      65
          L’Orto in Condotta: l’esperienza di Slow Food
              di Annalisa D’Onorio ...................................               »      75
          L’omaggio di Tonino Guerra: il manifesto
              dell’orto di Gigi Mattei Gentili .....................                 »      81
          Suggerimenti per un piccolo orto biologico
              a scuola ........................................................      »      83
          Orti in rete. Siti internet dedicati a orti,
              giardini e dintorni a cura di Chiara Spadaro                           »     103

          Gli autori ............................................................    »     109




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PRESENTAZIONE




              Un tempo sono esistiti gli orti di guerra. Ora è giunto
          il momento di coltivare orti solo come esperienza di pace.
          In tante parti della terra ci sono persone che in pace colti-
          vano la terra. Abbiamo chiamato questo progetto e questa
          rete Orti di Pace: una libera associazione, un movimento
          di persone libere, che hanno a cuore orti e giardini di in-
          teresse pubblico.
              La Rete Orti di Pace offre la possibilità di condividere
          le conoscenze sulla creazione di orti-giardini e gli sforzi
          per promuovere questa attività. È rivolta a tutti coloro che
          desiderano interessarsi alla cura di un orto.
              Siamo partiti dagli orti didattici: un’iniziativa nata per
          stimolare la consapevolezza ecologica. Gli orti degli sco-
          lari sono un modo spontaneo, nella più completa libertà
          interiore, per fare più che per discettare, prendendo come
          maestra la stessa natura. Nell’orto scolastico gli studenti
          uniscono «teoria e pratica», cioè il pensare e il ragionare
          con il progettare e il fare. In un orto impariamo i modi,
          i momenti adatti per seminare. Gli orti e giardini nelle
          scuole contribuiscono a trasformare la scuola in qualcosa
          di vivo di cui prenderci cura. In questi anni, usando una
          sola frase, possiamo dire: abbiamo lanciato i semi.
              Poi abbiamo riproposto la semplice esperienza degli
          orti, ma anche quella dei giardini: in definitiva orti come
          cuore dei giardini.
              Le cose che vogliamo e possiamo fare sono tante: orti
          e giardini didattici nelle scuole, orti terapeutici dove colti-
          vare la pace interiore, orti per chiunque desideri coltivare


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fiori e ortaggi in uno spazio pubblico pur non possedendo
               terra.
                   L’orto e il giardino in senso lato, quindi, come un luogo
               ideale per intrecciare tutta una serie di scambi con la na-
               tura, l’ambiente e la comunità.
                   Come far sì che si possano creare orti e giardini? Con-
               tiamo sull’esperienza di chi lo ha fatto da sempre: i conta-
               dini, gli agricoltori, gli ortolani. Ma vogliamo continuare
               a coinvolgere insegnanti, dirigenti scolastici, giardinieri e
               paesaggisti capaci di dare una mano nella progettazione di
               un orto-giardino dove muovere i primi passi, emanciparsi
               dall’analfabetismo di chi non sa nulla di come cresce il
               cibo di cui ci nutriamo.
                   Se poi orti e giardini saranno pure «ecologici», tanto
               meglio. Magari ispirati alla permacoltura, all’agricoltura
               sinergica, a quella biologica o biodinamica; in una parola,
               a qualsiasi forma di agricoltura che non danneggi il suolo,
               ma contribuisca anzi a svilupparne la fertilità.
                   Impareremo a coltivare il cibo, a conoscere i cicli del-
               le piante e delle stagioni, a vivere senza produrre rifiuti;
               l’orto si troverà dentro un giardino che farà da fascia di
               protezione, ma sarà concepito anche come luogo di bel-
               lezza, un’esperienza adatta a sviluppare il senso del bello,
               dell’armonia, della pace.
                   Quando coltiviamo un orto impariamo anche a rallen-
               tare: è quindi sempre un’esperienza che ci educa. Quando
               seminiamo e coltiviamo frutta e ortaggi mettiamo a frut-
               to le abilità manuali, le conoscenze scientifiche, lo svilup-
               po del pensiero logico-interdipendente. I tempi dell’orto
               ci educano all’attesa, alla pazienza di veder germinare il
               seme, maturare la pianta, produrre il frutto, riprodurre
               semi fertili. Ci piace pensare a orti dove sono coinvolti i
               bambini su cui vegliamo noi grandi (magari le nonne o i
               nonni) e insieme ci prendiamo cura delle piante. Insieme
               poi raccogliamo i frutti e i semi.


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Lavorare con la terra aiuta i bambini, i ragazzi e noi
          adulti a riflettere sulle storie familiari, sulla vita delle co-
          munità locali. Nella maggior parte delle famiglie c’è sicu-
          ramente un papà, un nonno o un bisnonno che ha o che ha
          avuto a che fare con la coltivazione della terra.
              L’orto è un’esperienza di incontro fra popoli di tradi-
          zioni e culture diverse. Popoli dell’Est Europa, popoli che
          si affacciano sul Mediterraneo, popoli del Sud e dell’Ovest
          del mondo: facciamo tutti parte di mondi ricchi di fami-
          glie che lavorano la terra. Coltivare un orto può diventare
          oggi un’eccellente esperienza di educazione alla multicul-
          turalità.
              Quando coltiviamo un orto entriamo a far parte di un
          modello economico basato sulla «stabilità» e non sulla
          crescita infinita o sulla rapina delle risorse finite. Consu-
          miamo ciò che la natura ci offre in maniera ciclica.
              Coltivare un orto è una piccola azione di pace, che ci
          educa a immaginare una società che non sia solo per noi,
          ma che duri nel tempo.




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A SCUOLA DAI CONTADINI

                             di Gianfranco Zavalloni




              Una poesia scritta alcuni anni fa, in lingua romagnola,
          dall’amico Fabio Molari (poeta, maestro di scuola prima-
          ria e ora sindaco del più piccolo comune dell’Emilia-Ro-
          magna) così recitava:

          FURMAI                            FORMAGGIO
          Blà… blà... blà...                Bla... bla... bla...
          tè t’scorr, t’scorr, t’scorr...   tu parli, parli, parli...
          te fat al scoli grandi            hai fatto le scuole grandi
          t’ lavour se compiuter            lavori col computer
          t’se ben l’ingloes                conosci bene l’inglese
          t’ ci stae in America...          sei stato in America...
          Mo t’ci bon ad fae un furmai!?    Ma sei capace di fare
                                            un formaggio!?

              Ecco il senso del libro che andiamo ad aprire con que-
          sta pagina: la scuola dovrebbe avere un rapporto stretto
          con la terra. La terra è una grande maestra. Ci insegna ad
          avere pazienza, a rispettare ritmi naturali. È poesia, arte,
          scienza.
              La terra ci obbliga a confrontarci con gli altri. È biodi-
          versità ecologica, culturale e sociale. E quando penso alla
          scuola penso al grande insegnamento dei contadini, senza
          i quali non esisteremmo. Coltivare la terra è il mestiere più
          importante per l’umanità, eppure è stato considerato da
          sempre il più infimo.
              Ancor oggi vengono usate parole che nel gergo comune
          vogliono dire disprezzo, inferiorità, ignoranza. Pensiamo
          a termini come contadino, villano, paesano, montanaro, bi-
          folco.

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È un problema di carattere storico-culturale dell’intero
               pianeta. In Brasile, ad esempio, si usano parole che poi
               sono entrate nel linguaggio comune come termini dispre-
               giativi: caipira, jeca, botavermelha. In italiano vogliono dire
               «campagnolo», «ritardato», «stivali rossi» alludendo al fat-
               to che un contadino ha sempre le scarpe sporche di terra
               (in Brasile prevalentemente rossa). Jecatutù nel linguaggio
               comune oggi significa una persona che arriva in città dalla
               campagna e non può fare nulla.
                   Nella mia esperienza da dirigente scolastico, quando
               entro in una classe – magari di campagna – e chiedo a tutti
               gli studenti che sono «figli di contadini» di alzare la mano,
               conto generalmente pochissime mani alzate. Dopo aver
               spiegato loro la fondamentale importanza del mondo agri-
               colo e della grande opportunità che hanno avuto nell’es-
               sere figli di contadini (come lo sono io), ecco che le mani
               alzate crescono. Fra gli argomenti a favore di ciò metto
               in evidenza le innumerevoli opportunità che loro hanno
               e che chi vive in città non ha. C’è anche chi all’ultimo mi-
               nuto si aggiunge con la mano alzata dicendo di avere il
               nonno o lo zio contadino. In sintesi: ci si vergogna di esse-
               re figli di contadini, di venire dalla terra. Essere contadini
               equivale – nel comune modo di pensare – ad essere igno-
               ranti, a un lavoro squalificante, a una posizione sociale di
               basso livello. Alcuni anni fa, ai primi di settembre, durante
               un incontro fra dirigenti scolastici, un collega, parlando di
               docenti della scuola secondaria, usò l’espressione «braccia
               rubate all’agricoltura». Profondamente indignato da que-
               sta espressione manifestai ad alta voce il mio totale dissen-
               so… spiegando che questo pregiudizio siamo noi operato-
               ri del mondo della scuola a perpetuarlo. A ben riflettere il
               mestiere dei campi, dell’agricoltore, del coltivatore, è uno
               dei mestieri più difficili al mondo, che richiede grandi abi-
               lità, esperienze e competenze multiple. E la scuola può e
               dovrebbe imparare dal mondo degli agricoltori.


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Per il diritto alla contadinanza

              Da anni è pratica usare il concetto di «cittadinanza at-
          tiva». È tempo che iniziamo a usare anche quello di «con-
          tadinanza attiva». Dal Vocabolario della lingua italiana di
          Devoto-Oli leggo la definizione del sostantivo femminile
          cittadinanza: «Vincolo di appartenenza a uno stato, richie-
          sto e documentato per il godimento di diritti e l’assogget-
          tamento a particolari oneri». A livello culturale, a partire
          dalla Rivoluzione francese, la parola cittadino è diventata
          sinonimo di «persona con pari e pieni diritti». Cittadinan-
          za attiva è oggi sinonimo di un coinvolgimento nella vita
          della propria comunità di appartenenza, assumendo in
          questa un ruolo di responsabilità e facendo scelte di con-
          divisione.
              Nel vocabolario non esiste invece il termine contadi-
          nanza e quindi nessuno ha mai parlato di «contadinanza
          attiva». Esiste chiaramente il sostantivo maschile contadi-
          no, che sta per «chi lavora la terra, specificatamente per
          conto di un padrone. In termini spregiativi: persona rozza
          e goffa». Dobbiamo rovesciare questo clima culturale che,
          ancora oggi, è presente nel mondo scolastico. Essere abi-
          tanti o lavoratori della terra non è qualcosa di spregevo-
          le. Siamo tutti «contadini di questa terra» e abbiamo tutti
          «diritto alla contadinanza». Un vero capolavoro letterario,
          in questo senso, è sicuramente la pagina che i ragazzi della
          Scuola di Barbiana dedicano, in Lettera a una professores-
          sa, alla «cultura contadina».

               Sui monti non ci possiamo stare. Nei campi siamo troppi.
               Tutti gli economisti sono d’accordo su questo punto. E se
               anche non fossero? Si metta nei panni dei nostri genitori.
               Lei non permetterebbe che suo figlio restasse tagliato fuori.
               Dunque ci dovete accogliere. Ma non come cittadini di se-
               conda buoni solo per manovale. Ogni popolo ha la sua cul-


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tura e nessun popolo ce n’ha meno di un altro. La nostra è
                       un dono che vi portiamo. Un po’ di vita nell’arido dei vostri
                       libri scritti da gente che ha letto solo libri. Se si sfoglia un
                       sussidiario è tutto piante, animali, stagioni. Sembra che pos-
                       sa scriverlo soltanto un contadino. Invece gli autori escono
                       dalla vostra scuola. Basta guardare le figure: contadini man-
                       cini, vanghe tonde, zappe a uncinetto, fabbri con gli arnesi
                       dei Romani, ciliegi con le foglie di susini. La mia maestra di
                       prima elementare mi disse: – Monta su quell’albero e cogli-
                       mi due ciliegie –. Quando lo seppe la mia mamma disse: – O
                       chi le ha dato la patente?–. Avete dato l’abilitazione a lei e la
                       negate a me che d’albero non gliel’ho mai dato a nessuno in
                       vita mia. Li conosco per nome uno a uno. Conosco anche i
                       sormenti. Li ho potati, li ho raccolti, ci ho cotto il pane. Lei
                       su un compito m’ha segnato sormenti come errore. Sostiene
                       che si dice sarmenti perché lo dicevano i latini. Poi di nasco-
                       sto va a cercare sul vocabolario cosa sono.
                       Anche sugli uomini ne sapete meno di noi. L’ascensore è una
                       macchina per ignorare i coinquilini. L’automobile per igno-
                       rare la gente che va in tram. Il telefono per non vedere in fac-
                       cia e non entrare in casa. Forse lei no, ma i suoi ragazzi che
                       sanno Cicerone di quanti vivi conoscono la famiglia da vici-
                       no? Di quanti sono entrati in cucina? A quanti hanno fatto
                       nottata? Di quanti hanno portato in spalla i morti? Su quanti
                       possono far conto in caso di bisogno? Se non ci fosse stata
                       l’alluvione non saprebbero ancora quanti sono nella famiglia
                       al piano terreno. Io con quei compagni sono stato a scuola
                       un anno e della loro casa non so nulla. Eppure non si cheta-
                       no mai. Spesso sovrappongono le voci e seguitano a parlare
                       come se niente fosse. Tanto ognuno ascolta solo sé stesso. A
                       lei le rombano sotto le finestre mille motori al giorno. Non sa
                       chi sono né dove vanno. Io so leggere i suoni di questa valle
                       per chilometri intorno. Questo motore lontano è Nevio, che
                       va alla stazione un po’ in ritardo. Vuole che le dica tutto su
                       centinaia di creature, decine di famiglie, parentele, legami?
                       Lei se parla con un operaio sbaglia tutto: le parole, il tono,
                       gli scherzi. Io so cosa pensa un montanaro quando sta zitto
                       e so la cosa che pensa mentre ne dice un’altra.


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Questa è la cultura che avrebbero voluto avere i poeti che lei
               ama. Nove decimi del mondo l’hanno e nessuno è riuscito a
               scriverla, dipingerla, filmarla. Siate umili almeno. La vostra
               cultura ha lacune grandi come le nostre. Forse più grandi.
               Certo più dannose per un maestro elementare» (Lettera a
               una professoressa, Lef, Firenze).

              Fare un orto a scuola vuol dire andare in controtenden-
          za rispetto a tutto questo. Vuol dire imparare che il cibo è
          la più importante risorsa dell’umanità e saperla produrre
          da soli è un gesto di grande valore. E l’orto lo possono
          fare tutti, non ha bisogno di grandi risorse economiche.
          L’orto può essere l’aggancio per un sacco di attività didat-
          tiche, per sviluppare tanti aspetti delle discipline classiche
          della scuola: la letteratura, la storia, la geografia, l’arte, la
          matematica, la scienza, la religione, le lingue straniere e
          persino la musica. Ed essendo anche uno strumento che
          avvicina le diverse culture, possiamo a ragione definirlo
          «orto di pace». Quindi per me è scontato parlare sia di
          «orti di pace» che di «diritto alla contadinanza» o di «con-
          tadinanza attiva». Mi rendo conto che queste sono ormai
          considerazioni che do per acquisite in maniera scontata,
          forse proprio perché in questo mondo ci sono cresciuto e
          ci vivo da sempre. Su questo argomento, credo, infine, che
          sia giunto il tempo di cominciare a pensare alla «contadi-
          nanza onoraria». Un titolo da assegnare a chi si impegna
          in difesa della campagna, della montagna e di tutte le at-
          tività legate alla terra. Un gesto, una forma di riconosci-
          mento simbolico per chi si impegna concretamente e vede
          nella terra la vera fonte della vita.
              Perché senza i frutti della terra l’umanità non potrebbe
          esistere.




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Un itinerario personale: iniziare da piccoli

                   Non so quale possa essere stata la vita di un bambino,
               mio coetaneo, di città. Un bambino di città nasce, vive e
               cresce in un appartamento. Il significato – fra l’altro – di
               appartamento è proprio quello di «appartarsi», «isolarsi».
               Credo che in città, fino a qualche decina di anni fa, abbiano
               giocato un ruolo predominante la strada, il marciapiede,
               la piazza, i portici, i giardini. La mia è stata invece la vita
               di un bambino di campagna. Ho vissuto la maggior par-
               te della mia vita in campagna. Solo in questi ultimi anni,
               per lavoro, mi sono trasferito a Belo Horizonte, in Brasile,
               e vivo al quindicesimo piano di un grattacielo. Con mia
               moglie Stefania abbiamo lo stesso rinverdito con fiori, ver-
               dure, piante officinale e da frutto, il grande terrazzo che
               si affaccia sul centro della città. E comunque posso vera-
               mente dire che sono nato in campagna: ora si va a nascere
               all’ospedale. Allora veniva la levatrice e le donne vicine di
               casa facevano da infermiere. Così è successo quando ho
               visto nascere, sempre a casa dei miei genitori, anche mio
               fratello Raffaele. Non sono esperienze da poco. È soprat-
               tutto un buon inizio. E prima di noi ci sono stati i nostri
               genitori, e prima dei nostri genitori c’erano i nonni... e così
               via. Una catena, o meglio, un «ciclo».
                   Devo ammetterlo: ho trascorso un’infanzia felice. Pas-
               sata soprattutto attorno alla mia casa. Ho giocato fin da
               piccolo con la terra e l’acqua. Non è di tutti i bambini po-
               tersi sporcare in mezzo ai canaletti d’acqua che portano da
               bere, in luglio, ai peschi o ai fagiolini rampicanti. O avere
               un «bancone» con gli attrezzi da falegname con cui potersi
               costruire i giocattoli di legno. È così che questi attrezzi,
               questi strumenti dei grandi, si trasformano – per noi bam-
               bini – in macchine miracolose che trasformano la nostra
               vita. Ci è stata in sostanza offerta la possibilità di farci da
               soli i nostri giochi, di gestirci il nostro tempo. Forse è pro-


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prio per questo che ho voluto attrezzare la sezione della
          scuola materna in cui ho lavorato per sedici anni con un
          banco da falegname «vero», con seghe, chiodi, martelli,
          raspe, pialle «veri».
              Non so quanti di noi abbiano provato l’esperienza di
          andare per i campi, sotto enormi meleti, durante una nevi-
          cata invernale o scorrazzare per la campagna con gli amici
          dopo un furibondo acquazzone, che trasforma tutti i cam-
          pi in un’enorme palude. Per noi, bambini di campagna,
          le strade, le piazze, i giardini, i portici, sono stati i campi
          coltivati e le aree incolte, i fossi, i filari d’uva, il fiume, il ca-
          nale. Non passava giorno in cui non si inventasse una nuo-
          va avventura. Il luogo ideale in cui rifugiarsi era e capanín
          (il capannino), costruito con legni, bastoni e juta. C’è un
          rapporto quotidiano, in questo stile di vita, con la terra,
          l’erba, l’acqua, i sassi, i frutti, gli animali della casa. È un
          rapporto carico di odori e di sapori. Ogni volta che sento
          gli odori e i sapori di queste esperienze, la memoria mi ri-
          porta a quegli anni. Sono gli odori, i sapori e i suoni di cui
          era carico il momento in cui, in estate, dopo il tramonto,
          si tornava a casa dai campi e ci si lavava il collo, la faccia
          e i piedi, con l’acqua scaldata nelle bacinelle messe al sole
          nell’aia. Allora non c’erano i pannelli solari, ma funziona-
          va lo stesso. Sono i sapori che emana la pelle frizionata
          dall’acqua e dal pezzo di sapone da bucato che si usava per
          questo vero e proprio rito. E poi il canto notturno dei grilli
          che pian piano sopravanza su quello giornaliero delle ci-
          cale e delle upupe, mentre le rondini in concerto cacciano
          gli insetti che nella sera sono attratti dal calore dei muri,
          accumulato durante il giorno. E il passaggio dal giorno
          alla notte era determinato dalla scomparsa delle rondini e
          dall’arrivo dei pipistrelli.
              Sono solo frammenti di un mondo che quotidianamen-
          te, nella sua apparente immobilità (agli occhi del cittadi-
          no), vive una miriade di esperienze. Ho visto mio padre


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(con l’aiuto di mia madre e dei miei zii) costruirsi da solo
               intere serre, smontare e rimontare la zappatrice, tirar su un
               enorme capannone, costruire per impianto di riscaldamen-
               to una stufa che potesse bruciare segatura, trucioli, semi di
               pesco e fascine di legna. E insieme ai vicini ho visto i miei
               genitori ripulire il canale pieno di «malta» per permettere
               a tutti i contadini della zona di irrigare i campi.
                   Non è retorica dire che fra la gente di campagna c’era
               (e forse ancora oggi in parte c’è) solidarietà, mutuo appog-
               gio. Forse è la stessa struttura della famiglia che predispo-
               ne a questo, oppure la struttura del podere o della casa.
               In casa, il camino della cucina non è qualcosa di cui far
               mostra: è il punto centrale, insieme alla stufa (la cucina
               economica). Nel camino si possono far la piadina, cuo-
               cere le castagne o fare grigliate usando sempre le fascine
               fatte dei residui delle potature degli alberi da frutta. Con
               la cucina economica si scalda l’ambiente, ma si può anche
               cuocere sulla piastra e nel forno, si possono tenere al cal-
               do le scarpe o i calzetti, si riscalda l’acqua ma si possono
               anche asciugare i panni, si prende il carbone per lo scalda-
               letto e si usa la cenere come concime. Quando si mangia,
               niente finisce nella spazzatura. Gli avanzi dei piatti (bucce,
               ossa...) finiscono nella scodella del cane o dei gatti, oppu-
               re nel letame insieme ai residui solidi degli animali (polli,
               conigli, maiali, pecore, mucche...). Gli scoli dei lavandini o
               dei bagni confluiscono (insieme ai liquami degli animali)
               nella fossa biologica. Dal letame e dalla fossa biologica ne
               uscirà fuori l’humus per l’anno dopo.
                   Nel momento in cui mi sono posto scientificamente, e
               non solo emotivamente, di fronte a queste tematiche, ho
               scoperto a quali leggi sottostà la vita della campagna, dei
               contadini e dell’agricoltura. La caratteristica principale che
               balza immediatamente agli occhi, nella vita e nel lavoro di
               campagna, è la «ciclicità». Ogni tipo di lavorazione, ogni
               processo di coltivazione ha un inizio legato a una fine, e


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una fine che si congiunge con un nuovo inizio. E tutto que-
          sto con un rendimento energetico massimo e dal minimo
          spreco. Anzi, direi col recupero, o meglio il «riciclo», di ciò
          che in apparenza è considerato «scarto». Non esiste infatti
          in campagna il concetto di «rifiuto», che si parli dei «vec-
          chi» della famiglia, o che si parli della «merda» dell’uomo
          e/o degli animali. Ogni cosa, ogni essere ha in sé un valore
          – al di là del fatto che si possa vendere o meno – per quello
          che è stato, per quello che è e per quello che sarà.


          Dal mondo contadino ai contadini del mondo
          Dalla terra madre alla scuola materna

              Un momento importante della mia esperienza con la
          terra è stata la mia permanenza di cinque mesi sulle Ande
          del Perù. Avevo ventiquattro anni. L’occasione me l’ha data
          una famiglia di amici che in quel periodo lavorava in un
          progetto di volontariato internazionale, con una Ong ita-
          liana, nei pressi del lago Titicaca, al confine con la Bolivia.
          La scusa: raccogliere i materiali per la mia tesi di laurea in
          Pianificazione territoriale presso la Facoltà di Economia e
          commercio. L’idea, progettata con il mio professore Carlo
          Doglio, era quella di confrontare le tecnologie (cioè tut-
          te quelle soluzioni ai bisogni fondamentali dell’uomo) del
          mondo contadino romagnolo con quello andino. Incontri
          quotidiani con chi lavora la terra, vivere di poche risorse,
          cercare le strategie più efficaci per conservare cibo là dove
          energia elettrica e quindi frigoriferi non erano ancora arri-
          vati. È lì che ho capito come esista un filo comune che uni-
          sce tutti i contadini della terra: quello che oggi, a trent’an-
          ni di distanza, è ben espresso dal lavoro di Carlo Petrini
          e dall’idea di Terra Madre. I contadini indigeni quechua
          della Cordigliera andina la chiamano Pacha Mama. E «ter-
          ra madre» ha qualcosa in comune con «scuola materna»,


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la scuola dove ho lavorato per sedici anni. Sono entrato di
               ruolo nel settembre del 1980 e già quell’anno cercai di se-
               minare qualche ortaggio sotto un pergolato d’uva dell’orto
               abbandonato, di fianco al cortile della scuola. Ma l’orto
               vero e proprio, con i bambini, l’ho realizzato per alcuni
               anni, dal 1988, nella scuola di Sorrivoli, un piccolo pae-
               se di collina che fa parte del comune di Roncofreddo, in
               provincia di Forlì-Cesena, dove poi sono anche andato a
               vivere. Quella esperienza ha permesso una ricucitura fra le
               mie origini familiari e il lavoro che avevo intrapreso come
               professione. Essere figlio di orticoltori, di contadini, prima
               ancora che maestro, e aver vissuto la quasi totalità della
               mia vita in campagna mi aveva (senza che io me ne accor-
               gessi) letteralmente formato, lasciando in me tracce pro-
               fonde. Posso dire di aver maturato, fin dalla mia infanzia,
               un modello di pedagogia contadina, cioè quella di «lavo-
               rare sul campo». La mia provenienza e le mie origini con-
               tadine si sono allora sposate con la mia pratica di lavoro
               quotidiano con bambini dai tre ai sei anni. In quella prima
               esperienza ho capito quanto valore poteva avere questo
               tipo di proposta didattica, che, di fatto, era anche parte del
               mio vissuto e del mio ambiente di vita. I disegni dell’amico
               Vittorio Belli che usiamo per commentare questo libro nel
               capitolo Suggerimenti per un piccolo orto biologico a scuola
               (pag. 83) sono tratti da foto di quell’esperienza.
                   Eravamo a metà degli anni Ottanta, in un periodo in cui
               non si usava ancora l’espressione «campi di esperienza» e
               i Nuovi orientamenti della scuola d’infanzia sembravano
               una meta lontana. In quegli anni pochi si azzardavano a
               proporre in maniera forte il tema dell’ecologia e dell’edu-
               cazione all’ambiente. Negli organi dirigenti della scuola e
               fra i colleghi c’era un certo scetticismo. Noi eravamo fra
               quelli che azzardavano in maniera puntigliosa e cercavano
               di esplorare – pur con grande fatica – sentieri nuovi. C’era
               in noi la consapevolezza e la prospettiva di tipo ecologico


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per cui la scuola è veramente tale solo se riconosce i propri
          limiti intrinseci e per questo apre all’esterno, all’ambiente
          a cui è riferita e di cui è parte. Apertura all’ambiente in un
          duplice significato:
              1. Ambiente naturale negli aspetti «selvaggi» e/o «colti-
          vati», modificati dall’uomo.
              2. Ambiente sociale, cioè la gente che qui è vissuta, vive
          in comunità, e si relaziona reciprocamente accogliendo
          chi viene da fuori.
              Quindi ambiente naturale e ambiente sociale: in una
          unica accezione, territorio. Tutto questo è avvenuto a
          Sorrivoli, un piccolo borgo di origine romana sviluppa-
          tosi in epoca medioevale. Un antico castello malatestiano
          domina dall’alto il paese e le vallate circostanti. Geografi-
          camente è posto sulle prime colline romagnole, a ridosso
          della Via Emilia con un’ampia veduta su tutta la riviera. Il
          nome, Sorrivoli, fa istintivamente pensare all’espressione
          «sui rivoli», a conferma del fatto che dai pendii della zona
          partono tantissimi fossi o rivoli. Questo è dovuto soprat-
          tutto alla ricca vegetazione che ancora esiste e permette
          così il trattenimento di masse di acqua che sono restituite
          lentamente nel corso dell’anno, riversandosi in questi ri-
          voli. Qualcuno invece pensa a Sorrivoli come «sorridoli»,
          cioè un nome che ricorda l’importanza del ridere. L’atti-
          vità prevalente della zona è l’agricoltura, la coltivazione
          dell’uva. Tanti sono i boschi. La «scuola materna statale»
          era – insieme alla parrocchia – l’unica istituzione sociale
          (e in questo caso pubblica) presente sul territorio. Le fami-
          glie sono sparse su un ampio territorio e spesso abitano in
          località isolate. In questo contesto noi insegnanti abbiamo
          sempre operato per far sì che la scuola offrisse innume-
          revoli occasioni di contatto con l’esterno, prima di tutto
          con le famiglie di contadini da cui provenivano i bambini
          e le bambine della scuola. Un solo ricordo emblematico
          di quegli anni. Uno dei bambini che frequentava la scuo-


                                                                     21



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la, uno dei più entusiasti – oggi trentenne – ha ereditato
               dai genitori la terra e ha trasformato il suo podere in una
               «fattoria didattica», una vera e propria «aula di ecologia
               all’aperto». La madre mi diceva preoccupata, alcuni anni
               fa: «È andato alle superiori, ma vuole fare il contadino!».
               E io, invece di condividere le sue preoccupazioni, le sugge-
               rii di condividere quella scelta. Oggi quel bimbo, di nome
               Werther, è una persona felice e appagata.


               Le motivazioni pedagogiche e storiche
               degli orti nelle scuole

                   Alcuni anni fa mi è capitato, quando dirigevo tre scuo-
               le medie, che un ragazzino di terza, nel periodo in cui
               si sceglie in quale scuola superiore proseguire gli studi,
               sia venuto nel mio ufficio e mi abbia chiesto: «Preside, io
               da grande voglio fare il giardiniere: a quale scuola devo
               iscrivermi?». Ecco una triste constatazione: non esistono
               oggi, praticamente, in Italia, quella che era l’orto-giardino
               d’Europa, «scuole per diventare contadini». Luoghi cioè
               in cui si insegna l’italiano, la storia e la cultura italiana e
               nel contempo si impara a coltivare un frutteto, un orto, a
               condurre un’azienda agricola. Esistono corsi professiona-
               li, ma non è una vera e propria scuola. Esistono gli istituti
               tecnici agrari… ma questi preparano tecnici, non coloro
               che mettono le mani nella terra.
                   Eppure lo abbiamo constatato in questi anni: per i ra-
               gazzi è importantissimo fare esperienze pratiche e non
               solo teoriche: uscire dall’aula e «fare» concretamente, in
               maniera pratica. Qualsiasi esperienza si faccia a scuola
               con gli studenti è legata a tutte le altre. Noi possiamo spez-
               zare anche in 30, 40, 50 tessere il mosaico della scuola, la
               settimana, il mese, l’anno, però dobbiamo ricordarci che
               tutto è collegato. È un po’ come la legge che ci dice che in


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natura tutto è collegato! Lo stesso avviene nell’educazione:
          non c’è nell’educazione qualcosa che non sia collegata a
          un’altra.
              Ma proviamo a contestualizzare la realtà scolastica ita-
          liana. Oggi la scuola è sempre più scuola di città. C’è sta-
          to in questi ultimi vent’anni un processo di chiusura delle
          scuole nelle realtà periferiche, nelle campagne, nelle mon-
          tagne e colline. Il cosiddetto processo di razionalizzazione
          ha portato all’urbanizzazione della scuola. È un processo
          che è stato ancor più eclatante negli anni Cinquanta quan-
          do dalla campagna, dalla montagna, la gente se n’è anda-
          ta. In Romagna, ad esempio, abbiamo avuto il boom nella
          riviera e tutte le nostre colline si sono spopolate: comuni
          come quello di Sogliano, dove ho lavorato per tanti anni
          come maestro e dove oggi sono titolare come dirigente sco-
          lastico, è passato nell’arco di pochi anni da 10.000 a circa
          2.500 abitanti. È un processo di impoverimento di realtà
          che sono state per centinaia di anni la struttura dell’Italia.
          Pedagogicamente parlando, ora ci sono bambini che pro-
          vengono da quelle realtà ma non le conoscono. Il contesto
          in cui il mondo scolastico si trova a operare è un contesto
          urbano, dove i bambini vivono sempre meno l’esperienza
          di contatto non solo con l’ambiente naturale ma anche con
          il mondo della produzione da cui vengono il pane, il cibo
          e tutto ciò di cui ogni giorno abbiamo bisogno. Nelle no-
          stre scuole, inoltre, perdiamo quotidianamente occasioni
          per creare questo legame. Due falsi miti imperano: l’igiene
          e il risparmio. Nelle scuole sta venendo meno l’esperien-
          za della mensa e della cucina. E là dove ancora esiste la
          mensa, la tendenza è quella del cibo già precotto. E poi
          si centralizzano i luoghi preposti alla cottura dei cibi. Il
          pasto è così trasportato a scuola e consumato in vaschette
          di plastica o di alluminio. Un’operazione ecologicamente
          molto poco corretta, visto che si producono grandi quanti-
          tà di rifiuti e nello stesso tempo diseduchiamo gli studenti


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all’apprendere la provenienza del cibo quotidiano. Questo
               spesso accade anche in famiglia: è tanto il cibo che com-
               priamo e tanto poco quello che prepariamo nella cucina di
               casa. Il mito è quello di «non perdere tempo». Ecco dove si
               inserisce la nostra proposta: oggi che tutto è di fretta, col-
               tivare un orto a scuola significa imparare a «rallentare». È
               un’esperienza estremamente educativa. Seminare e colti-
               vare frutta e ortaggi sono attività che mettono a frutto le
               abilità manuali, le conoscenze scientifiche, lo sviluppo del
               pensiero logico-interdipendente. Ma significa soprattutto
               attenzione ai tempi dell’attesa, pazienza, maturazione di
               capacità previsionali. Lavorare con la terra aiuta i ragazzi
               a riflettere sulle proprie storie locali e familiari. La mag-
               gior parte degli studenti italiani ha sicuramente un papà,
               un nonno o un bisnonno che ha o che ha avuto a che fare
               con la coltivazione della terra. Nell’orto i ragazzi uniscono
               «teoria e pratica», cioè il pensare, il ragionare con il pro-
               gettare e il fare. In un orto s’imparano i modi e i momenti
               adatti per seminare. Prima di far questo si deve preparare
               e concimare il terreno. È necessario poi seguire con cura
               i prodotti, attendendo ai bisogni d’acqua e al controllo dei
               parassiti. Si possono conoscere, infine, le combinazioni e
               le rotazioni giuste fra le varie piante. Lo ripeto: il mestiere
               dei campi, quello dell’agricoltore, del coltivatore, è uno dei
               mestieri più difficili al mondo, che richiede grandi abilità,
               esperienze e competenze multiple. Ed è anche per questo
               un mestiere «maestro», che può insegnare.


               Da esperienza singola alla rete di scuole
               con un orto nel cortile

                   Nel 2000, come dirigente scolastico, lavorando nelle
               scuole delle Marche, ho partecipato, con l’istituto che di-
               rigevo, al progetto promosso dall’assessorato all’Agricoltu-


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ra della regione: «Un orto biologico a scuola». La regione
          Marche iniziò da quell’anno a finanziare la nascita degli
          orti nelle scuole: fu un successo. È nata così spontanea-
          mente una realtà di un centinaio di scuole che dedicava-
          no parte del loro tempo scolastico ai lavori dei campi. Ho
          cercato di capire, da quel momento, cosa si faceva nelle
          altre regioni d’Italia e nel mondo. E poiché dell’esperienza
          di «orto biologico a scuola» ne avevo parlato nel mio libro
          La scuola ecologica, ogni tanto venivo contattato da scuole
          che avevano messo in campo questa esperienza didattica.
          Senza volerlo e senza saperlo sono diventato in Italia un
          punto di riferimento. Visto che da un po’ di anni rivesto la
          funzione di dirigente scolastico, spesso i docenti che vo-
          gliono fare un orto a scuola mi cercano per avere un soste-
          gno nei confronti dei genitori, dei colleghi o dei superiori.
              Sono stato in questi anni in giro per l’Italia, per l’Euro-
          pa e ho visto esperienze oltreoceano. Una delle esperienze
          più belle è sicuramente quella olandese. Ne avevo sentito
          parlare in un convegno sugli orti scolastici nella regione
          Marche, all’abbazia di Fiastra. Sono così andato personal-
          mente a conoscerli. L’origine degli orti scolastici olandesi
          risale agli anni Venti, dopo la prima guerra mondiale. Rea-
          lizzare orti in città era, in particolare per la municipalità di
          Amsterdam, l’occasione per migliorare la qualità del cibo
          delle famiglie olandesi. All’inizio si trattava di doposcuola.
          Poi le attività sono entrate a far parte dell’orario e dei pro-
          grammi scolastici e così dal 1930 l’attività degli orti è parte
          integrante del programma delle scuole di base. Oggi nella
          sola capitale olandese ci sono dodici aree in cui vengono
          coltivati centinaia di orti individuali. Ogni area è di circa
          4.000-6.000 metri quadrati. Sono aree collocate all’inter-
          no della città e spesso si trovano presso parchi cittadini
          dove è possibile trovare percorsi naturali, sentieri, giardini
          per le farfalle, alveari, serre o vivai. In ogni area ci sono
          una o più aule e una residenza ufficiale per gli educatori.


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Spesso c’è anche una stalla, un laboratorio per gli attrezzi
               da lavoro e una serra. I docenti, da un minimo di uno a
               un massimo di tre per area-orti, si interessano delle lezio-
               ni settimanali dei bambini. In totale ci sono più di ven-
               ti maestri che si occupano degli orti didattici. Poi c’è un
               tecnico-guardiano per ogni area, che si prende cura della
               manutenzione. L’esperienza dell’orto personale (10 metri
               quadrati per ogni studente), ha inizio in autunno, nell’au-
               la, al chiuso. Si svolgono alcune lezioni: per imparare a
               distinguere i differenti tipi di terreni, per capire cos’è la
               fotosintesi, per distinguere i semi. Poi da marzo-aprile si
               va all’aperto, fino a ottobre, quando, per concludere il ciclo
               annuale, l’attività prevista diviene quella delle composizio-
               ni con i fiori essiccati. I bambini vanno nell’area degli orti
               singolarmente, in bici, o in autobus. Oppure con tutta la
               classe. Sono attività che si svolgono al pomeriggio. Quella
               dell’orto è un’esperienza che fanno tutti i bambini di Am-
               sterdam, per almeno un anno, durante il periodo della loro
               esperienza didattica del cosiddetto obbligo. Ogni anno
               sono circa 6.000 a farla. D’estate ci sono, poi, dei momenti
               di festa, in cui sono coinvolte tutte le famiglie, e si mangia
               tutti assieme, consumando così anche i prodotti dell’orto.
               Questo olandese è sicuramente un esempio storico da usa-
               re come modello.


               Un incontro annuale, una rete nazionale di scuole,
               un portale internet

                   Il 13 novembre 2004 si è svolto presso l’Ecoistituto a
               Cesena il primo convegno nazionale sulle esperienze di
               orti didattici. Il titolo è emblematico del percorso intrapre-
               so: «Orti scolastici biologici, giardini della biodiversità».
               In quell’occasione, come dirigente scolastico, ho lanciato
               l’idea di un progetto di rete nazionale sugli orti scolastici


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biologici. In sostanza un impegno che ogni scuola poteva
          prendere aderendo a un accordo di rete ai sensi dell’art. 7
          del Dpr n. 275/1999 (il decreto sulla cosiddetta «autono-
          mia scolastica»). In sintesi le finalità di questo «accordo di
          rete» sono espresse nell’articolo 3, in cui si dice: «Le scuole
          aderenti alla rete condividono l’idea di fondo di riconosce-
          re il ruolo fondamentale dell’agricoltura nella società. In
          particolare si evidenzia la necessità storica di attribuire
          nuovamente al mondo agricolo il ruolo di promotore di
          educazione all’ambiente attraverso la conservazione della
          biodiversità». Da quel primo incontro, nel corso di ogni
          anno scolastico si svolge un convegno nazionale che i par-
          tecipanti apprezzano per alcune caratteristiche peculiari.
          Non esistono relazioni teoriche, ma racconti di esperienze
          concrete, sulle quali, semmai, si fanno riflessioni pedago-
          giche. Un metodo che può decisamente essere definito in-
          duttivo. Gli interventi sono sintetici, 15-20 minuti al mas-
          simo. Non vengono distribuite fotocopie, ma si consegna,
          all’inizio del convegno, un piccolo «quadernetto di campa-
          gna» e i partecipanti vengono invitati a prendere appunti,
          segnarsi indirizzi, disegnare. Non esistono impianti di am-
          plificazione e dopo le relazioni, nel momento conviviale
          pomeridiano, ci si scambia idee e – chi vuole – semi o ma-
          teriali di documentazione prodotti dalle scuole. L’indiriz-
          zario delle persone che partecipano all’incontro, distribui-
          to poi agli stessi partecipanti, permette lo scambio e il con-
          tatto fra le varie scuole, in una logica di «rete dal basso».
          Un lavoro, tutto questo, che dal 2006 ha visto un punto di
          forza e di riferimento nel sito internet www.ortidipace.org,
          voluto e sostenuto quotidianamente dalla scrittrice, gior-
          nalista, nonché ortolana Pia Pera. L’invito che lei stessa fa
          è semplice: il sito è a disposizione di chiunque consideri
          l’orto, e il giardino in senso lato, un luogo ideale per in-
          trecciare tutta una serie di scambi con la natura, l’ambien-
          te e la comunità. Il portale è concepito in modo da dare


                                                                      27



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ma anche ricevere informazioni, in uno spirito di servizio
               per chi avverta il desiderio di passare «dalla voglia di fare
               al fare». Le cose da fare sono tante: orti e giardini didattici
               nelle scuole, orti terapeutici dove coltivare la pace interio-
               re, orti per chiunque, pur non possedendo terra, desideri
               coltivare fiori e ortaggi in uno spazio pubblico.


               Dalla rete di scuole alla Rete di Orti di Pace

                   Il quinto convegno, tenutosi nel marzo del 2009, segna
               una svolta. Si passa dall’idea di collegare le esperienze di
               orti didattici scolastici alla necessità di collegare tutte le
               esperienze di orti, che abbiamo chiamato in maniera sin-
               tetica Orti di Pace.
                   L’idea di una rete incentiva la nascita di orti. La rete
               conta sull’esperienza di chi lo ha fatto da sempre, i con-
               tadini, gli agricoltori, gli ortolani. È una realtà in cui i
               bambini, le bambine e i grandi (molte volte le nonne e i
               nonni) «insieme» si prendono cura delle piante. E ancora:
               l’orto è un’esperienza di incontro fra popoli di tradizio-
               ni e culture diverse. Popoli dell’Est Europa, popoli che si
               affacciano sul Mediterraneo, popoli del Sud del mondo:
               mondi ricchi di famiglie che lavorano la terra. Coltiva-
               re un orto può diventare, oggi, un’eccellente esperienza
               di educazione alla multiculturalità e alla pace, ma non
               solo. Da alcuni anni c’è chi ha preso coscienza che l’orto
               è un eccellente «medico» per chi vive l’esperienza delle
               difficoltà di salute fisica e mentale, per chi deve ricostru-
               ire armonia nella propria esperienza di vita. Ecco che si
               scopre che l’attività dell’orto e/o del piccolo allevamento è
               utilizzata in diverse carceri (significativa in questo senso
               l’esperienza della Casa di reclusione dell’Isola di Gorgo-
               na) e che quasi tutte le comunità terapeutiche sono col-
               locate in ampi spazi agricoli e usano inserire l’orto fra le


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attività quotidiane. L’orto richiede, in questo senso, rigo-
          re, adesione a leggi naturali, perseveranza. È quello che
          una persona, all’interno di una comunità terapeutica, ha
          bisogno per sé. E poi ci sono gli orti dei conventi (spesso
          destinati alla conservazione della biodiversità) e la gran-
          de tradizione degli orti sociali, generalmente definiti «orti
          degli anziani».
               Oggi, infine, si parla molto di orti urbani, orti di con-
          dominio e sono nate le esperienze di orti negli ospedali.
          Ho proposto questa esperienza in un articolo che pubblicai
          pochi mesi dopo la degenza in ospedale, conclusasi con la
          morte di mio padre, avvenuta alcuni anni fa. In quell’oc-
          casione una infermiera rasserenò mio padre valorizzando
          con buone parole il suo lavoro di contadino. Proposi allora
          all’ospedale di Cesena, e ad ogni ospedale, di organizzarsi
          per realizzare un proprio orto ben curato, con tanti vialetti
          e tante aiuole di verdure, ortaggi e fiori. Un orto che abbia
          una zona dedita al compost, elemento essenziale per cibare
          il terreno. Un orto ricco di erbe officinali, da sempre chia-
          mate anche medicinali, e con zone dedite alla coltivazione
          di piante ospiti delle farfalle. Un orto con tanti alberi che
          producano frutti per tutti i mesi dell’anno. Un orto all’ospe-
          dale vorrebbe dire per tanti pazienti riconoscersi nella pro-
          pria terra, cioè nel luogo in cui viviamo, un luogo fatto di
          storia, di tradizioni, di cultura, di memoria. Un luogo che
          anche noi, ogni giorno, contribuiamo a rendere più bello
          e vivibile. E così, quando siamo costretti a passare alcuni
          giorni della nostra vita in ospedale, possiamo beneficiarne
          sia dal semplice vedere questo piccolo «paradiso terrestre»,
          sia dal fare alcuni dei tanti piccoli lavori che ogni giorno si
          fanno nell’orto. Forse avremmo bisogno di meno medicine
          e certamente guariremmo prima.
               Tutto questo movimento culturale e colturale è ben sin-
          tetizzato nel documento presentato durante il quinto con-
          vegno della rete che ha avuto per titolo: «Orti negli ospe-


                                                                      29



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dali, nei conventi, nelle carceri, nelle città, nelle scuole». È
               da quel momento che è nata la «Rete Orti di Pace», aperta
               al contributo di chiunque voglia rendere più bello questo
               grande orto-giardino chiamato mondo.




                                        MANIFESTO PER UNA RETE DI ORTI DI PACE

                            Chiunque, nel rispetto dell’ambiente, coltivi la terra la-
                       vora anche per la pace. Anche quando i conflitti mettono a
                       repentaglio la sopravvivenza, e li chiamano per questo orti di
                       guerra, sono sempre e comunque orti di pace.
                            In questo momento storico, in cui i fondamenti stessi
                       dell’economia vengono rimessi in discussione, e il concetto
                       di cosa abbia valore cambia al punto che i terreni agricoli
                       cominciano a venire considerati un bene rifugio, è arrivato il
                       momento di annodare una rete tra tutti noi che crediamo che
                       lavorare la terra in modo organico sia cosa bella e buona.
                            Occorre imparare di nuovo l’abbiccì del rapporto con la
                       Natura. Per questo siamo partiti dagli orti scolastici: aule
                       all’aperto dove apprendere un modo di stare al mondo per
                       cui, anziché semplici consumatori, diventiamo creatori di
                       vita, e nella pratica di una possibile autosufficienza appren-
                       diamo il respiro della libertà interiore. Un giardino, un bo-
                       sco, un orto trasformano la scuola in qualcosa di vivo di cui
                       prendersi cura.
                            Partiti dalla scuola, abbiamo poi esteso la nostra atten-
                       zione agli orti terapeutici, carcerari, sociali: spazi dove ci si
                       prende cura di fiori e ortaggi scoprendo al contempo nell’or-
                       to un luogo ideale dove intrecciare tutta una serie di scambi
                       con la natura, l’ambiente e la comunità, coltivando intanto
                       la pace interiore.


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L’orto resta tuttavia il modello privilegiato da noi pro-
               posto: perché permette di optare per un modello economi-
               co meno instabile, meno fondato sulla rapina di risorse non
               rinnovabili e quindi limitate. Coltivare un orto è una piccola
               azione di pace.
                   Proponiamo la costituzione di una Rete di Orti di Pace
               nell’intento di tenerci in contatto, scambiare informazioni
               sulle varie iniziative. E anche, non ultimo, renderci conto
               di quanto poco siamo isolati nel gesto di coltivare il nostro
               comune giardino dall’umile nome di terra.

                       Cesena, il 14 marzo 2009



                                                       LA RETE ORTI DI PACE

                   L’idea di promuovere la realizzazione di orti a scuola, i
               cosiddetti orti didattici, è nata dalla mia esperienza di mae-
               stro prima (negli anni Ottanta) e dirigente scolastico poi (da
               metà degli anni Novanta).
                   Questa idea è stata subito sostenuta dall’Ecoistituto
               di Cesena che nel 2001 è entrato a far parte, come socio,
               dell’Associazione Civiltà Contadina. Daniele Zavalloni, che
               nel frattempo ne era divenuto vicepresidente, suggerì l’idea
               che Risea, la Rete italiana scuole di ecologia all’aperto (nata
               alcuni anni prima) entrasse a far parte dell’associazione. Si
               è così dato vita al progetto «Orti di Pace, sentieri della bio-
               diversità, contadini custodi». La collaborazione con il presi-
               dente di Civiltà Contadina (ma non con suoi singoli membri)
               è venuta meno nel 2006. Nello stesso anno, l’Ecoistituto ha
               firmato una convenzione con Slow Food, offrendo la propria
               esperienza allo sviluppo del progetto «Orto in Condotta».
                   Risea ha avuto per alcuni anni una sua organizzazione
               di tipo formale, ai sensi del decreto legge sulla cosiddetta
               autonomia scolastica). Riuniva tra loro un insieme di scuole


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accomunate dal fatto di coltivare un orto a scuola. La scuola
                       che dirigevo ne era capofila. Allo scadere formale della con-
                       venzione (31 agosto 2008) Risea non è stata re-istituita, pre-
                       ferendo una forma di collaborazione più libera attraverso la
                       condivisione del sito internet www.ortidipace.org
                           Durante il quinto convegno degli Orti di Pace, tenutosi
                       il 14 marzo 2009, è stato presentato un manifesto che è di-
                       ventato il riferimento ideale di tutti coloro che nella pratica
                       dell’orto si sentono in sintonia tra loro. Non si tratta quindi
                       più soltanto di orti didattici, ma anche di orti comunitari,
                       orti sociali, orti terapeutici, orti carcerari, e così via. La rete
                       quindi è libera, a maglie larghe. Possono aderire tutti coloro
                       che si riconoscono nel manifesto.

                           Pertanto i punti cardine sono:

                           1. Il manifesto «Per una Rete di Orti di Pace». È il rife-
                       rimento ideale-culturale di tutte le realtà che, riconoscendo
                       l’importanza di trasmettere i saperi legati alla cura dell’orto,
                       intendono collaborare tra loro.

                           2. Il convegno. È l’appuntamento annuale in cui si affron-
                       ta un tema di fondo e si condividono esperienze concrete.
                       Lo stile di base è quello di trarre dall’esperienza, in modo
                       induttivo, idee e pratiche comuni.

                           3. I siti internet. Un portale (www.ortidipace.org), ideato
                       e curato da Pia Pera, come punto di riferimento della rete.
                       Vera e propria rivista online, pubblica testi inviati da tutti
                       coloro che condividono lo spirito del manifesto. Esiste inol-
                       tre un gruppo Facebook di Orti di Pace, come ponte tra gli
                       utenti di Facebook e ortidipace.org.
                           Nelle pagine web www.flickr.com/photos/ortidipace è in-
                       vece possibile trovare immagini di orti, disegni e altro.
                           Dal sito www.tecnologieappropriate.it è poi possibile ac-
                       cedere alle schede dei libri sugli orti, presenti nella bibliote-
                       ca dell’Ecoistituto di Cesena.


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4. Le pubblicazioni. Il manifesto Per una Rete di Orti di
               Pace è condiviso dai seguenti libri, e in essi pubblicato in
               appendice: L’insalata era nell’orto di Nadia Nicoletti (Salani),
               Giardino & Orto Terapia di Pia Pera (Salani) e La pedagogia
               della lumaca e Ortidipace (Emi) a cura di Gianfranco Zaval-
               loni.
                   È disponibile un poster dal titolo Orti di Pace, stampato
               a cura dell’Ecoistituto, disponibile a colori oppure in bianco
               e nero.

                   Sono inoltre in cantiere le seguenti iniziative:
                   – Un censimento delle realtà che, nella coltivazione di un
               orto, vedono anche un gesto di condivisione del manifesto
               Per una Rete di Orti di Pace.

                   – Un indirizzario di persone competenti e disponibili a
               promuovere, insegnare, consigliare, aiutare in ogni genere di
               lavoro legato all’orto: da quelli prettamente agricoli fino alla
               realizzazione di un recinto, di un bancale di legno, di una
               capanna di salici, di un forno in terra crudo, l’intreccio di un
               canestro, la realizzazione di utensili e via discorrendo.

               Segreteria tecnica della Rete Orti di Pace:

               Ecoistituto di Cesena
               via Germazzo 189
               47521 Cesena (FC)
               www.tecnologieappropriate.it
               ecoistituto@tecnologieappropriate.it
               telefono e fax: 0547-323407




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L’ORTO SCOLASTICO COME GIARDINO
                               DEL NOSTRO TEMPO

                                       di Pia Pera



             Lev Nikolaeviˇ Tolstoj, per molti versi considerato
                            c
          un profeta della sensibilità del nostro tempo, non amava
          particolarmente i panorami perché preferiva sentirsi im-
          merso nella natura.

               Sono rimasto del tutto freddo alla vista del gelido panorama
               del monte Jaman; non mi è passato neanche per la testa di
               fermarmi un solo momento ad ammirarlo. Io amo la natura
               quando mi circonda da tutte le parti e poi si svolge in lonta-
               nanza fino all’infinito, e mi ci sento dentro. Mi piace quando
               da tutte le parti mi circonda l’aria calda, e la stessa aria si
               perde avvolgendosi nell’infinita lontananza; quando questi
               fili d’erba succosi, che ho schiacciato sedendomici sopra,
               richiamano il verde di infiniti campi; quando queste stesse
               foglie che, mosse dal vento, spostano l’ombra sul mio viso,
               compongono la linea del bosco lontano; quando l’aria stes-
               sa che respiriamo richiama la profondità dell’azzurro cielo
               infinito; quando non sei solo a esaltarti e a gioire della natu-
               ra; quando vicino a te ronzano e sciamano miriadi d’insetti,
               strisciano le coccinelle, e gli uccelli riempiono l’aria col loro
               canto. E qui, invece (nel panorama distante): una superficie
               fredda, nuda, umida e deserta, e da qualche parte qualcosa
               di bello, che s’intravede velato dalla lontananza. Ma questo
               qualcosa è così lontano che io non provo il piacere per me più
               grande che possa venirmi dalla natura, non mi sento parte di
               quest’infinito e bellissimo intero. E non m’importa niente di
               questa lontananza. Il paesaggio dello Jaman è per gli inglesi
               (maggio 1857, durante la gita col ragazzino Sasha).



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Ho riportato questa lunga citazione perché trovo espri-
               ma al meglio quello che per la sensibilità contemporanea è
               diventato il senso del fare giardino: entrare a sentirsi parte
               di qualcosa di mutevole – la natura – avere la sensazione
               di ristabilire un contatto con la rete della vita, e non più di
               ammirare dall’esterno come in un panorama.
                   Ristabilire un rapporto con la natura, sentirsene parte,
               tornare a comprendere il nostro rapporto di interdipen-
               denza con le altre specie animali e vegetali ma anche con
               la comunità umana: ecco l’urgenza, ecco l’interrogativo
               del fare giardino oggi.
                   Che diventa anche fare paesaggio, vedere paesaggio,
               intervenire sul paesaggio, agreste o urbano o silvestre.
                   In questa sensibilità di Tolstoj, quanto vale per il pae-
               saggio vale anche per il giardino. Che non sarà un par-
               terre elegante da contemplare dalla loggia di casa o dalle
               finestre del piano nobile, statico e meramente formale, ma
               uno spazio, una dimensione che ci ingloba. Un giardino
               in cui entreremo anche con le nostre mani, gli attrezzi, i
               semi che vi introdurremo, le buche che scaveremo. Robert
               Pogue Harrison ha scritto un libro bellissimo sul giardino
               come luogo in cui prendersi cura, realizzare la vocazione
               umana alla Sorge. Acutamente, scrive che la cacciata dal
               giardino dell’Eden ha coinciso, per l’inquieto uomo occi-
               dentale, con un ritorno nella sua autentica patria, quella
               del prendersi cura, la heideggeriana Sorge. Dalla leggiadra
               giardinesca malia, di regola, i nostri eroi fuggono a gambe
               levate: da Circe come da Alcina o da Logistilla. Karl Ca-
               pek, in L’anno del giardiniere, ha raccontato la stessa cosa
               in modo arguto e divertente: il giardiniere è colui che è
               soddisfatto quando ha le mani occupate (et l’esprit libre,
               aggiungerebbe Gilles Clément). Noi che facciamo i giardi-
               nieri lo sappiamo: nulla ci rallegra di più di avere appena
               messo a dimora una piantina, avere appena tagliato un
               ramo secco, avere accatastato la legna… Insomma, avere


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partecipato alla vita intorno a noi. La felicità del giardino è
          nella relazione, fattiva, non solo contemplativa. Pensiamo
          allora a quel tipo particolare di giardino del nostro tempo
          che è l’orto scolastico, un genere molto particolare di orto
          sociale. Che, se vogliamo, è un giardino che entrerà dentro
          di noi attraverso ciò che ne mangeremo. Un giardino con
          cui entrare più che mai in simbiosi?
              Credo, del resto, che questa sensazione di simbiosi con
          la natura costituisca per i giardinieri appassionati il senso
          più profondo del loro fare.
              Cosa possiamo chiedere a un giardino? Di riconnetter-
          ci alla vita, quindi anche al nostro nutrimento, non solo
          all’esperienza estetico-filosofica. Il giardino del nostro
          tempo, cioè il giardino di cui il nostro tempo ha bisogno,
          deve prima di tutto sanare una ferita: riconnettere l’uomo
          alla natura nel senso primario del termine, di corpo a cor-
          po in cui l’uomo coltiva le piante da cui trae nutrimento,
          in tutti i sensi.
              Aggiungo: il giardino non avrà futuro a meno di far sì
          che fin da piccoli i bambini conoscano questa esperienza
          formativa fondamentale. Pertanto il giardino capace di ri-
          spondere a questo bisogno urgente del tempo in cui vivia-
          mo sarà un giardino semipubblico, il giardino nel cortile
          della scuola, tenuto non solo dai bambini e dai maestri ma
          anche dai nonni, dai bidelli, dai genitori specie quando le
          scuole sono chiuse. Un orto che sia anche un giardino, che
          abbia alberi fiori e cespugli ed erbe spontanee, in modo
          da essere un luogo dove si impara a conoscere la natura,
          dove soprattutto si fa esperienza di quella tranquilla feli-
          cità che solo la natura può trasmettere. Perché l’interesse
          per i giardini si trasformi in qualcosa di profondo, qualco-
          sa che formi veri giardinieri, ma non solo: persone con un
          interesse non superficiale per la natura, per l’ambiente.
              Alleviamo allora piccoli giardinieri, persone che sappia-
          no dove andare a cercare quella felicità tanto speciale: una


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felicità a portata di mano! Una felicità che non abbiamo
               bisogno di andare a chiedere ad altri o ad altro. Nell’orto,
               nel giardino, o anche nel pezzetto di natura lasciato indi-
               sturbato nel cortile di scuola – è di moda chiamarlo wild
               zone – un bambino imparerà ad attingere alle energie della
               terra, a vivere l’esperienza, cruciale per lo sviluppo della
               creatività non importa in quale ambito, del libero scorrere
               delle energie. Sperimentare quella concentrazione che na-
               sce dal lavoro manuale a contatto con la natura, e con le
               energie naturali quando riusciamo ad avvertirle in armo-
               nia con le nostre. La conoscenza di questa gioia, di que-
               sta felicità, fonda la possibilità stessa della libertà, della
               non dipendenza coatta dalle gratificazioni esterne. Privi
               di questa conoscenza, si rischia di diventare null’altro che
               consumatori passivi di merci, di sensazioni, di relazioni
               sociali.
                   Ai bambini, dunque, bisogna lasciar comprendere che
               la natura può essere una risorsa inesauribile di forza e fe-
               licità. Nell’orto non si va solo per ricavare del cibo, ma per
               prendere coscienza della bellezza del cielo, delle nuvole,
               dell’emozione dei mutamenti climatici. Ad ascoltare gli uc-
               celli, osservare gli insetti, conoscere la pienezza della vita.
               Solo se l’avremo assaporata, ci sarà possibile cercarla. I
               bambini, e i ragazzi, non sono ancora così cinici da con-
               siderare ingenua questa domanda: che senso ha la vita?
               Perché non suggerire che siamo qui per celebrare la gioia
               di essere uomini e godere del nostro essere nella natura?
               Deus sive Natura, e viceversa: Natura sive Deus.
                   Anni fa ebbi la fortuna di partecipare al seminario
               tenuto da Masanobu Fukuoka in India, nella fattoria di
               Vandana Shiva, dal titolo «Nature as teacher», la natura
               come maestra. Nel corso di due indimenticabili settimane,
               l’anziano agronomo giapponese, autore della Rivoluzione
               del filo di paglia, cercò di insegnarci a coltivare un senso
               di unione con la natura, mantenendo un atteggiamento di


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attenzione amorevole e mai di sfruttamento. Una mattina
          srotolò un foglio su cui aveva disegnato l’origine della no-
          stra civiltà, ovvero l’Albero della conoscenza del Bene e del
          Male, col serpente attorcigliato intorno al tronco. «Sapete
          cosa ha insegnato il serpente ad Adamo?». Silenzio. «Sono
          anni che ci penso, l’ho capito questa mattina. Com’è il cor-
          po del serpente? Ricoperto di scaglie, per questo si muove
          in una sola direzione. Può insegnare ad andare avanti, ma
          non a tornare indietro». Gli uomini non sono mai progre-
          diti oltre la sapienza del serpente: sanno dividere ma non
          riunire, trasformare il petrolio in plastica ma non la pla-
          stica in petrolio, consumare risorse ma non crearle. È la
          direzione a senso unico, irreversibile, dello sviluppo o pro-
          gresso che dir si voglia.
              E se invece fosse possibile aggiustare la rotta di questo
          percorso tutto monodirezionale? Imparare ad agire tenen-
          do conto dell’andamento ciclico, mai lineare, della natura?
          Imparare anche a ridurre la nostra impronta ecologica sul
          mondo?
              Il giardino del nostro tempo non può essere qualco-
          sa di statico. Può fondarsi solo sulla consapevolezza e la
          valorizzazione di un processo. Merita inventare giardini
          a patto che non siano cose, luoghi e basta, ma entrino a
          fare parte della nostra esperienza, della nostra evoluzione,
          inneschino un percorso, una rete di relazioni col mondo e
          la natura.
              Si muovono in questo senso i paesaggisti più innovativi,
          ma anche i guerrilla gardeners o i propugnatori delle wild
          zones, come Karen Payne, David Hawkins, da noi Paolo
          Tasini. L’idea è di azioni relazionali e significative, di inter-
          venti anche soltanto temporanei sul paesaggio campestre
          ma soprattutto urbano. Il giardino del nostro tempo non è
          un luogo circoscritto – ormai, lo ha detto Gilles Clément,
          il giardino è planetario, non ha confini. Ma allora cos’è
          il giardino? Forse qualcosa che ci portiamo dentro come


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atteggiamento, visione, attenzione, capacità di rispondere
               agli stimoli alle proposte e anche alle richieste di aiuto del-
               la cosiddetta Natura. Un modo di non perdere il contatto
               con la vita. È un fare giardino che diventa anche cura della
               nostra anima all’interno del mondo e con il mondo.
                   Con il mondo: quindi anche con il paesaggio. È consa-
               pevolezza del giardino all’interno del paesaggio. E anche
               della necessità di conservare all’interno del giardino, oltre
               alla relazione col paesaggio, qualcosa della selvatichezza.
               Cito queste parole a me care di Oliva di Collobiano: «Il
               giardino vero è l’unione tra la persona e la natura ricreata:
               mondo accurato fatto di grazia. Il buon giardino è l’equili-
               brio tra la quiete della domesticità e la vibrazione del mon-
               do selvatico.»
                   Aggiungo: è gentile non dimenticare che la nostra pre-
               senza è imposta a un paesaggio preesistente. Bellezza e
               armonia nascono spesso dall’occultamento di una simile
               violenza. Il «mondo fluttuante» del vero giardino non ha
               nulla a che spartire con certi scenari che lasciavano freddo
               Tolstoj.




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L’ORTO TRA LA FORESTA E LA VIGNA:
                 RI/COLTIVARE IL SELVAGGIO PER LA VITA

                              di Daniele Zavalloni



          La foresta

              Etimologicamente, la parola foresta deriva dal termine
          latino forestis, probabilmente un neologismo del VII secolo
          d.C., che potrebbe avere origini dal latino foris, «all’ester-
          no».
              La parola orto deriva dal latino hòrtum che significa
          «recinto, luogo chiuso».
              Il 7 ottobre 2009 si sono celebrati i cinquant’anni
          dall’istituzione della Riserva integrale naturale di Sasso
          Fratino.
              Per chi non è del mestiere, Sasso Fratino è la prima
          riserva integrale naturale italiana: fu istituita nel 1959
          dall’allora Azienda di stato per le Foreste Demaniali; in
          quegli anni era l’unica Azienda di stato con un bilancio
          attivo grazie al taglio dei boschi.
              La Riserva di Sasso Fratino è anche la prima riser-
          va integrale istituita in Italia secondo la classificazione
          dell’Uicn (Unione internazionale per la conservazione del-
          la natura), che concepisce la protezione della natura nella
          sua totalità: specie vegetali e animali, rocce, suolo, acque,
          atmosfera locale.
              L’istituzione della riserva fu una grande novità nel
          campo della protezione ambientale. Fabio Clauser, che a
          quel tempo era l’amministratore delle Foreste casentinesi,
          per conto dell’Azienda di stato per le Foreste Demaniali,
          decise di escludere dal taglio degli alberi una superficie
          di appena cento ettari: le Foreste casentinesi occupano


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una porzione di 10.000 ettari del territorio dell’Appennino
               tosco-romagnolo all’interno della quale si trova la riser-
               va. Questa scelta di non tagliare fu definito un «intervento
               abusivo» (come cambiano i modi di pensare e di agire).
                   Attualmente la Riserva integrale di Sasso Fratino occu-
               pa una superficie di 764 ettari.
                   Istituire una riserva integrale significa delimitare una
               porzione di territorio all’interno della quale non sono svol-
               te le attività proprie dell’uomo, ad eccezione della ricerca
               scientifica. Non vi sono quindi interventi di alcun genere,
               non vi sono attività volte all’utilizzo delle risorse, non vi
               sono neppure interventi di sistemazione o di tutela dei ver-
               santi e delle pendici.
                   È luogo comune pensare che le foreste siano l’emblema
               della naturalità: purtroppo, per molte foreste del mondo,
               non è più così da diverse centinaia di anni.
                   Ma come ha fatto l’uomo a passare dalla foresta all’or-
               to? L’uomo ha potuto modificare i propri comportamenti
               di vita grazie al comportamento di alcune piante che sono
               alla base della sua alimentazione.


               La vita

                   Sappiamo che l’ape, durante il suo vagare da un fiore
               all’altro per raccogliere il nettare, svolge anche l’importan-
               te, e insostituibile, compito di impollinare i fiori. Molto
               probabilmente è stato il fiore che nel suo percorso evoluti-
               vo ha inventato questo espediente per farsi impollinare.
                   Possiamo dire che le piante sono una sintesi di raffina-
               tezza e di complessità, in grado di inventare strategie di
               sopravvivenza: la ricerca di queste modalità di permanen-
               za della specie è chiamata evoluzione.
                   Troppo spesso ci dimentichiamo che le piante sono gli
               unici esseri viventi in grado di trasformare, con la parteci-


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pazione della luce solare, i sali minerali disciolti nell’acqua
          in zuccheri e amido. Questo processo chimico si chiama
          fotosintesi.
               I composti chimici sintetizzati dalle piante hanno la
          capacità di nutrire, di curare, di eccitare e di influenzare le
          nostre menti, ma in molti casi ancora oggi non conoscia-
          mo questi composti chimici o non siamo capaci di utiliz-
          zarli.
               È chiaro che le piante svolgono queste attività chimi-
          che per ragioni precise e cioè per difendersi (lo fanno sin-
          tetizzando tossine, veleni, sapori disgustosi) ma anche per
          l’effetto contrario, per attrarre.


          Attrarre chi?

               Ciò che caratterizza maggiormente le piante è l’immo-
          bilità, ma a pensarci bene questa affermazione non è pro-
          prio vera… Anche se certamente sono in balia dei predato-
          ri, le piante possono spostarsi. Vediamo come!
               Di fatto per spostarsi hanno escogitato diverse strate-
          gie: ci sono semi che hanno un uncino per agganciarsi alle
          pellicce degli animali e iniziare così il loro autotrasporto.
          In seguito, questi uncini sono stati imitati dall’uomo che
          ha inventato il velcro.
               Ci sono semi che hanno un rivestimento duro come le
          ghiande delle querce e vengono trasportati dai ghiri, dagli
          scoiattoli, dalle ghiandaie, dalle nocciolaie velocemente e
          anche per lunghe distanze da un territorio ad un altro.
               Poi, in tempi più recenti (in riferimento alla storia del-
          la Terra), un gruppo di piante della famiglia delle Grami-
          nacee pensò di utilizzare l’uomo come veicolo di traspor-
          to: si tratta dei semi commestibili come il mais, il grano,
          il riso.


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Appena l’uomo ha fatto questa scoperta non si è rispar-
               miato nelle sue azioni, ha iniziato ad abbattere le foreste
               per fare spazio a queste piante.
                   Da 10.000 anni le Graminacee occupano la foresta.
                   E siamo giunti ai giorni nostri: è sempre più difficile
               distinguere un giardino o un orto dalla natura incontami-
               nata, è difficile perché l’uomo ha invertito i ruoli; origina-
               riamente l’adattamento e l’evoluzione di una specie erano
               originati da una concatenazione di casualità, ora stiamo
               assistendo al fenomeno contrario: è l’uomo che forza e
               condiziona l’evoluzione delle specie.
                   Ciò che caratterizza attualmente la storia della natura
               è la pratica della selezione artificiale, la manipolazione ge-
               netica che viene condotta a tutti i costi e che tra l’altro ha
               dei costi anche molto alti, in termini energetici e quindi
               economici. Non abbiamo più uno spazio incontaminato e
               vediamo la conseguenza delle nostre azioni in questi ulti-
               mi anni e in modo evidente ogni giorno che passa. Sono il
               manifestarsi di cicloni, sono l’aumento della temperatura,
               sono l’espandersi del buco dell’ozono.


               L’orto, luogo di «selvaggità»

                   A questo punto si inserisce l’orto che è stato in tempi
               lontani luogo di sperimentazione e di selezione, ma oggi
               può essere luogo di «selvaggità»: è un’occasione (l’ultima?)
               perché l’uomo trovi il coraggio di ritornare nella rete della
               vita della Terra.
                   Siamo convinti più che mai che la Natura non si tro-
               va solo «fuori = la foresta» ma è anche «dentro = l’orto».
               Nell’orto, ma anche nel giardino; dobbiamo essere capaci
               di percepire la Natura come la vediamo, come la percepia-
               mo negli spazi più selvaggi per antonomasia e cioè nella
               foresta.


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Solo allora potremo dire di aver compreso qual é il no-
          stro posto sulla Terra.
              L’orto è anche luogo di apprendimento in quanto è
          occasione di colloquio con l’ambiente esterno, in quanto
          coltivare significa anche sapere quanta acqua abbiamo di-
          sponibile, a che altitudine ci troviamo, qual’è la pedologia,
          in quale esposizione ci troviamo.
              Realizzare un orto significa imparare a integrarsi con i
          processi che regolano la vita dell’ambiente naturale, saper
          leggere questi vincoli significa comprendere l’importanza
          dell’origine delle molte specie vegetali che ci nutrono e poi
          degli animali selvatici che ci stanno attorno.
              Quasi sicuramente furono i Celti e, successivamente, i
          Romani a inserire le coltivazioni di ortaggi e di piante da
          frutto in mezzo all’immensa superficie coperta dalla fore-
          sta che fino a diversi secoli fa copriva l’intera Italia.
              Carlo Magno e il figlio Pio dettarono le regole per col-
          tivare l’orto.
              Poi i monaci, nel medioevo, fecero dell’orto il punto
          centrale della vita del chiostro: era previsto che una por-
          zione di terra fosse destinata alla coltivazione di ortaggi
          da usare in cucina, alla coltivazione di piante officinali, di
          erbe aromatiche e di fiori per l’altare.
              Sempre in questo periodo gli orti si trasferiscono den-
          tro le mura delle città o in prossimità di esse per poter nu-
          trire gli abitanti nei periodi di assedio. Gli Arabi, durante
          i loro assedi, diffusero ortaggi esotici come gli spinaci e le
          melanzane.
              Successivamente, nel rinascimento, furono seleziona-
          te varietà orticole come il finocchio, il sedano, il carciofo
          (con il ricettacolo carnoso e privo di spine del capolino).
              Ma la grande rivoluzione nell’orto arriva con il ritorno
          degli esploratori dalle Americhe, che portarono pomodori
          (originariamente dal colore oro), peperoni, zucche e pa-
          tate. All’inizio queste piante erano coltivate solo negli orti


                                                                     45



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botanici, successivamente (dalla fine del XVII secolo circa
               fino all’inizio del XIX per il pomodoro) entrano negli orti
               per l’alimentazione della popolazione.
                   E ancora diverse piante coltivate arrivarono nei nostri
               orti grazie ai pellegrini che andavano in terre lontane e
               alcune piante migrarono in terre lontane portate dai pel-
               legrini.
                   Le piante che possiamo trovare nell’orto hanno dei
               progenitori selvatici, che costituiscono una ricchezza ine-
               stimabile perché conservano nel loro patrimonio genetico
               una potenzialità che non sarà più recuperabile, una volta
               persa.
                   Conservare e tutelare queste piante selvatiche significa
               avere la possibilità di selezionare varietà orticole con ca-
               pacità di resistenza alle avversità climatiche, parassitolo-
               giche, pedologiche.
                   Mettiamoci allora alla ricerca della pianta selvatica.
                   L’orto è un luogo di biodiversità (esattamente l’oppo-
               sto della monocoltura): ben venga l’orto come luogo in
               cui si seminano e quindi si conservano i geni delle spe-
               cie di piante selvatiche che non sono soggette a brevetti.
               Adottare questo approccio significa assicurarci un futuro
               migliore. L’orto può essere una Sasso Fratino; recintata,
               purtroppo!




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UNA LUNGA STORIA
                       DI SCUOLA, DI BAMBINI E DI ORTI

                               di Nadia Nicoletti



          Maestra alla scuola primaria

              Insegno da molti anni, più di trenta, e ho insegnato
          sempre in Trentino, dove abito. Per alcuni anni ho inse-
          gnato in paesi della provincia, ma da circa vent’anni inse-
          gno in città, a Trento.
              La mia esperienza con gli orti didattici è partita pro-
          prio nelle scuole della città.
              La prima scuola era una scuola del centro, la «Raffael-
          lo Sanzio», poi la scuola del quartiere di Madonna Bianca
          e ora la scuola di Villazzano.
              La grande fortuna che ho avuto è stata quella di trovare,
          in tutte e tre le scuole, uno spazio predisposto per l’orto. È
          una cosa piuttosto rara che una scuola abbia uno spazio
          per questa attività e le scuole dove sono stata lo hanno
          tutte. Poi ho sempre trovato colleghi che hanno condiviso
          con me questa esperienza, e non è poco.
              In particolare la scuola dove insegno ora, quella di Vil-
          lazzano, ha uno spazio piuttosto grande adibito a questo
          scopo, dove ci sono tutte le attrezzature che servono per
          l’attività: rubinetto dell’acqua, cumulo di compostaggio,
          piccolo deposito per gli attrezzi dei bambini ecc.
              Dunque il mio approccio con l’attività di orto didattico
          è stato, sempre, con i bambini di città. Nel corso degli anni
          non ho notato differenze molto sostanziali fra i bambini,
          nel senso di più o meno ricettività. Ho notato sempre un
          grande entusiasmo verso questo tipo di esperienza, anche
          se è vero che ci sono bambini che si appassionano più di


                                                                     47



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altri e poi vogliono continuare con questa attività anche a
               casa, coinvolgendo le famiglie e in particolare i nonni.
                   Nel corso degli anni ho avuto un’utenza piuttosto va-
               ria, ma direi che non ho notato differenze significative.
                   Spesso mi chiedono perché faccio l’orto a scuola. Esi-
               ste una forte motivazione di tipo pedagogico, ma devo dire
               subito che lo faccio soprattutto perché mi piace.
                   Io sono convinta che sia un’attività che porta con sé
               moltissimi spunti, che dia modo di ampliare altre cono-
               scenze. Facendo un orto si possono avere moltissime rica-
               dute, un po’ in tutti gli ambiti disciplinari.
                   Per fare un esempio, quando faccio un orto posso mi-
               surarlo, per dividerne gli spazi e questa è geometria che
               farò con i bambini più grandi. Ma posso osservare il ciclo
               di una pianta dalla semina al raccolto dei frutti e questo
               è un contenuto scientifico. Poi, se voglio posso scrivere e
               raccontare le varie esperienze, tenere un giornalino e que-
               sto rientra nella linguistica. Ma posso fare molto altro.
               Diciamo che è una bellissima attività di tipo trasversale.
               Questo non è poco, se pensiamo che spesso, per far amare
               le attività ai bambini, noi insegnanti dobbiamo lavorare
               molto con la fantasia.
                   Personalmente sono convinta che nella scuola elemen-
               tare i bambini abbiano bisogno anche di imparare a «sa-
               per fare», proprio come competenza.
                   Troppo spesso nella scuola si propongono attività sle-
               gate dall’esperienza diretta, che i bambini difficilmente rie-
               scono ad amare.
                   L’orto è una delle attività che in genere piacciono, forse
               perché è legata alla terra e conseguentemente al cibo che
               mangiamo. I miei bambini hanno sempre avuto una gran-
               de simpatia per queste attività.
                   Io sono nata in un paese del Trentino, a Vigolo Vattaro,
               nel 1957. In quegli anni le famiglie contadine, qui in paese,
               erano ancora molte. Non come adesso.


               48



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ORTI DI PACE
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ORTI DI PACE

  • 1. ORTI DI PACE ORTI DI PACE.indd 1 30-11-2010 10:53:21
  • 2. Collana «Strumenti» ORTI DI PACE.indd 2 30-11-2010 10:53:21
  • 3. A cura di Gianfranco Zavalloni ORTI DI PACE Il lavoro della terra come via educativa EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA ORTI DI PACE.indd 3 30-11-2010 10:53:21
  • 4. RETE ORTI DI PACE Segreteria: c/o Ecoistituto di Cesena Via Germazzo 189 - 47152 Cesena (FC) Tel./fax: 0547-323407 www.tecnologieappropriate.it ecoistituto@tecnologieappropriate.it Sito ufficiale: www.ortidipace.org Consapevole delle problematiche ecologiche che il ciclo di pro- duzione del libro comporta, la EMI è impegnata in un progres- sivo attenuamento dell’impatto ambientale delle sue edizioni. In particolare, l’Editrice utilizza carta proveniente da gestione sostenibile delle foreste e non contenente tracce di cloro elemen- tare. Disegno di copertina e illustrazioni di VITTORIO BELLI (http://www.studiobelliebaldaro.com) Copertina di VALENTINA MONTEMEZZI © 2010 EMI della Coop. SERMIS Via di Corticella 179/4 – 40128 Bologna Tel. 051/32.60.27 – Fax 051/32.75.52 www.emi.it sermis@emi.it N.A. 2748 ISBN 978-88-307-1972-9 ORTI DI PACE.indd 4 30-11-2010 10:53:21
  • 5. INDICE Presentazione ..................................................... Pag. 7 A scuola dai contadini di Gianfranco Zavalloni » 11 L’orto scolastico come giardino del nostro tempo di Pia Pera ......................................... » 35 L’orto tra la foresta e la vigna: ri/coltivare il selvaggio per la vita di Daniele Zavalloni .... » 41 Una lunga storia di scuola, di bambini e di orti di Nadia Nicoletti ......................................... » 47 Il giardino come spazio di apprendimento all’aperto di Alberto Rabitti .......................... » 57 Obbedire alla paura? di Andrea Magnolini ...... » 65 L’Orto in Condotta: l’esperienza di Slow Food di Annalisa D’Onorio ................................... » 75 L’omaggio di Tonino Guerra: il manifesto dell’orto di Gigi Mattei Gentili ..................... » 81 Suggerimenti per un piccolo orto biologico a scuola ........................................................ » 83 Orti in rete. Siti internet dedicati a orti, giardini e dintorni a cura di Chiara Spadaro » 103 Gli autori ............................................................ » 109 5 ORTI DI PACE.indd 5 30-11-2010 10:53:21
  • 6. ORTI DI PACE.indd 6 30-11-2010 10:53:21
  • 7. PRESENTAZIONE Un tempo sono esistiti gli orti di guerra. Ora è giunto il momento di coltivare orti solo come esperienza di pace. In tante parti della terra ci sono persone che in pace colti- vano la terra. Abbiamo chiamato questo progetto e questa rete Orti di Pace: una libera associazione, un movimento di persone libere, che hanno a cuore orti e giardini di in- teresse pubblico. La Rete Orti di Pace offre la possibilità di condividere le conoscenze sulla creazione di orti-giardini e gli sforzi per promuovere questa attività. È rivolta a tutti coloro che desiderano interessarsi alla cura di un orto. Siamo partiti dagli orti didattici: un’iniziativa nata per stimolare la consapevolezza ecologica. Gli orti degli sco- lari sono un modo spontaneo, nella più completa libertà interiore, per fare più che per discettare, prendendo come maestra la stessa natura. Nell’orto scolastico gli studenti uniscono «teoria e pratica», cioè il pensare e il ragionare con il progettare e il fare. In un orto impariamo i modi, i momenti adatti per seminare. Gli orti e giardini nelle scuole contribuiscono a trasformare la scuola in qualcosa di vivo di cui prenderci cura. In questi anni, usando una sola frase, possiamo dire: abbiamo lanciato i semi. Poi abbiamo riproposto la semplice esperienza degli orti, ma anche quella dei giardini: in definitiva orti come cuore dei giardini. Le cose che vogliamo e possiamo fare sono tante: orti e giardini didattici nelle scuole, orti terapeutici dove colti- vare la pace interiore, orti per chiunque desideri coltivare 7 ORTI DI PACE.indd 7 30-11-2010 10:53:21
  • 8. fiori e ortaggi in uno spazio pubblico pur non possedendo terra. L’orto e il giardino in senso lato, quindi, come un luogo ideale per intrecciare tutta una serie di scambi con la na- tura, l’ambiente e la comunità. Come far sì che si possano creare orti e giardini? Con- tiamo sull’esperienza di chi lo ha fatto da sempre: i conta- dini, gli agricoltori, gli ortolani. Ma vogliamo continuare a coinvolgere insegnanti, dirigenti scolastici, giardinieri e paesaggisti capaci di dare una mano nella progettazione di un orto-giardino dove muovere i primi passi, emanciparsi dall’analfabetismo di chi non sa nulla di come cresce il cibo di cui ci nutriamo. Se poi orti e giardini saranno pure «ecologici», tanto meglio. Magari ispirati alla permacoltura, all’agricoltura sinergica, a quella biologica o biodinamica; in una parola, a qualsiasi forma di agricoltura che non danneggi il suolo, ma contribuisca anzi a svilupparne la fertilità. Impareremo a coltivare il cibo, a conoscere i cicli del- le piante e delle stagioni, a vivere senza produrre rifiuti; l’orto si troverà dentro un giardino che farà da fascia di protezione, ma sarà concepito anche come luogo di bel- lezza, un’esperienza adatta a sviluppare il senso del bello, dell’armonia, della pace. Quando coltiviamo un orto impariamo anche a rallen- tare: è quindi sempre un’esperienza che ci educa. Quando seminiamo e coltiviamo frutta e ortaggi mettiamo a frut- to le abilità manuali, le conoscenze scientifiche, lo svilup- po del pensiero logico-interdipendente. I tempi dell’orto ci educano all’attesa, alla pazienza di veder germinare il seme, maturare la pianta, produrre il frutto, riprodurre semi fertili. Ci piace pensare a orti dove sono coinvolti i bambini su cui vegliamo noi grandi (magari le nonne o i nonni) e insieme ci prendiamo cura delle piante. Insieme poi raccogliamo i frutti e i semi. 8 ORTI DI PACE.indd 8 30-11-2010 10:53:21
  • 9. Lavorare con la terra aiuta i bambini, i ragazzi e noi adulti a riflettere sulle storie familiari, sulla vita delle co- munità locali. Nella maggior parte delle famiglie c’è sicu- ramente un papà, un nonno o un bisnonno che ha o che ha avuto a che fare con la coltivazione della terra. L’orto è un’esperienza di incontro fra popoli di tradi- zioni e culture diverse. Popoli dell’Est Europa, popoli che si affacciano sul Mediterraneo, popoli del Sud e dell’Ovest del mondo: facciamo tutti parte di mondi ricchi di fami- glie che lavorano la terra. Coltivare un orto può diventare oggi un’eccellente esperienza di educazione alla multicul- turalità. Quando coltiviamo un orto entriamo a far parte di un modello economico basato sulla «stabilità» e non sulla crescita infinita o sulla rapina delle risorse finite. Consu- miamo ciò che la natura ci offre in maniera ciclica. Coltivare un orto è una piccola azione di pace, che ci educa a immaginare una società che non sia solo per noi, ma che duri nel tempo. 9 ORTI DI PACE.indd 9 30-11-2010 10:53:22
  • 10. ORTI DI PACE.indd 10 30-11-2010 10:53:22
  • 11. A SCUOLA DAI CONTADINI di Gianfranco Zavalloni Una poesia scritta alcuni anni fa, in lingua romagnola, dall’amico Fabio Molari (poeta, maestro di scuola prima- ria e ora sindaco del più piccolo comune dell’Emilia-Ro- magna) così recitava: FURMAI FORMAGGIO Blà… blà... blà... Bla... bla... bla... tè t’scorr, t’scorr, t’scorr... tu parli, parli, parli... te fat al scoli grandi hai fatto le scuole grandi t’ lavour se compiuter lavori col computer t’se ben l’ingloes conosci bene l’inglese t’ ci stae in America... sei stato in America... Mo t’ci bon ad fae un furmai!? Ma sei capace di fare un formaggio!? Ecco il senso del libro che andiamo ad aprire con que- sta pagina: la scuola dovrebbe avere un rapporto stretto con la terra. La terra è una grande maestra. Ci insegna ad avere pazienza, a rispettare ritmi naturali. È poesia, arte, scienza. La terra ci obbliga a confrontarci con gli altri. È biodi- versità ecologica, culturale e sociale. E quando penso alla scuola penso al grande insegnamento dei contadini, senza i quali non esisteremmo. Coltivare la terra è il mestiere più importante per l’umanità, eppure è stato considerato da sempre il più infimo. Ancor oggi vengono usate parole che nel gergo comune vogliono dire disprezzo, inferiorità, ignoranza. Pensiamo a termini come contadino, villano, paesano, montanaro, bi- folco. 11 ORTI DI PACE.indd 11 30-11-2010 10:53:22
  • 12. È un problema di carattere storico-culturale dell’intero pianeta. In Brasile, ad esempio, si usano parole che poi sono entrate nel linguaggio comune come termini dispre- giativi: caipira, jeca, botavermelha. In italiano vogliono dire «campagnolo», «ritardato», «stivali rossi» alludendo al fat- to che un contadino ha sempre le scarpe sporche di terra (in Brasile prevalentemente rossa). Jecatutù nel linguaggio comune oggi significa una persona che arriva in città dalla campagna e non può fare nulla. Nella mia esperienza da dirigente scolastico, quando entro in una classe – magari di campagna – e chiedo a tutti gli studenti che sono «figli di contadini» di alzare la mano, conto generalmente pochissime mani alzate. Dopo aver spiegato loro la fondamentale importanza del mondo agri- colo e della grande opportunità che hanno avuto nell’es- sere figli di contadini (come lo sono io), ecco che le mani alzate crescono. Fra gli argomenti a favore di ciò metto in evidenza le innumerevoli opportunità che loro hanno e che chi vive in città non ha. C’è anche chi all’ultimo mi- nuto si aggiunge con la mano alzata dicendo di avere il nonno o lo zio contadino. In sintesi: ci si vergogna di esse- re figli di contadini, di venire dalla terra. Essere contadini equivale – nel comune modo di pensare – ad essere igno- ranti, a un lavoro squalificante, a una posizione sociale di basso livello. Alcuni anni fa, ai primi di settembre, durante un incontro fra dirigenti scolastici, un collega, parlando di docenti della scuola secondaria, usò l’espressione «braccia rubate all’agricoltura». Profondamente indignato da que- sta espressione manifestai ad alta voce il mio totale dissen- so… spiegando che questo pregiudizio siamo noi operato- ri del mondo della scuola a perpetuarlo. A ben riflettere il mestiere dei campi, dell’agricoltore, del coltivatore, è uno dei mestieri più difficili al mondo, che richiede grandi abi- lità, esperienze e competenze multiple. E la scuola può e dovrebbe imparare dal mondo degli agricoltori. 12 ORTI DI PACE.indd 12 30-11-2010 10:53:22
  • 13. Per il diritto alla contadinanza Da anni è pratica usare il concetto di «cittadinanza at- tiva». È tempo che iniziamo a usare anche quello di «con- tadinanza attiva». Dal Vocabolario della lingua italiana di Devoto-Oli leggo la definizione del sostantivo femminile cittadinanza: «Vincolo di appartenenza a uno stato, richie- sto e documentato per il godimento di diritti e l’assogget- tamento a particolari oneri». A livello culturale, a partire dalla Rivoluzione francese, la parola cittadino è diventata sinonimo di «persona con pari e pieni diritti». Cittadinan- za attiva è oggi sinonimo di un coinvolgimento nella vita della propria comunità di appartenenza, assumendo in questa un ruolo di responsabilità e facendo scelte di con- divisione. Nel vocabolario non esiste invece il termine contadi- nanza e quindi nessuno ha mai parlato di «contadinanza attiva». Esiste chiaramente il sostantivo maschile contadi- no, che sta per «chi lavora la terra, specificatamente per conto di un padrone. In termini spregiativi: persona rozza e goffa». Dobbiamo rovesciare questo clima culturale che, ancora oggi, è presente nel mondo scolastico. Essere abi- tanti o lavoratori della terra non è qualcosa di spregevo- le. Siamo tutti «contadini di questa terra» e abbiamo tutti «diritto alla contadinanza». Un vero capolavoro letterario, in questo senso, è sicuramente la pagina che i ragazzi della Scuola di Barbiana dedicano, in Lettera a una professores- sa, alla «cultura contadina». Sui monti non ci possiamo stare. Nei campi siamo troppi. Tutti gli economisti sono d’accordo su questo punto. E se anche non fossero? Si metta nei panni dei nostri genitori. Lei non permetterebbe che suo figlio restasse tagliato fuori. Dunque ci dovete accogliere. Ma non come cittadini di se- conda buoni solo per manovale. Ogni popolo ha la sua cul- 13 ORTI DI PACE.indd 13 30-11-2010 10:53:22
  • 14. tura e nessun popolo ce n’ha meno di un altro. La nostra è un dono che vi portiamo. Un po’ di vita nell’arido dei vostri libri scritti da gente che ha letto solo libri. Se si sfoglia un sussidiario è tutto piante, animali, stagioni. Sembra che pos- sa scriverlo soltanto un contadino. Invece gli autori escono dalla vostra scuola. Basta guardare le figure: contadini man- cini, vanghe tonde, zappe a uncinetto, fabbri con gli arnesi dei Romani, ciliegi con le foglie di susini. La mia maestra di prima elementare mi disse: – Monta su quell’albero e cogli- mi due ciliegie –. Quando lo seppe la mia mamma disse: – O chi le ha dato la patente?–. Avete dato l’abilitazione a lei e la negate a me che d’albero non gliel’ho mai dato a nessuno in vita mia. Li conosco per nome uno a uno. Conosco anche i sormenti. Li ho potati, li ho raccolti, ci ho cotto il pane. Lei su un compito m’ha segnato sormenti come errore. Sostiene che si dice sarmenti perché lo dicevano i latini. Poi di nasco- sto va a cercare sul vocabolario cosa sono. Anche sugli uomini ne sapete meno di noi. L’ascensore è una macchina per ignorare i coinquilini. L’automobile per igno- rare la gente che va in tram. Il telefono per non vedere in fac- cia e non entrare in casa. Forse lei no, ma i suoi ragazzi che sanno Cicerone di quanti vivi conoscono la famiglia da vici- no? Di quanti sono entrati in cucina? A quanti hanno fatto nottata? Di quanti hanno portato in spalla i morti? Su quanti possono far conto in caso di bisogno? Se non ci fosse stata l’alluvione non saprebbero ancora quanti sono nella famiglia al piano terreno. Io con quei compagni sono stato a scuola un anno e della loro casa non so nulla. Eppure non si cheta- no mai. Spesso sovrappongono le voci e seguitano a parlare come se niente fosse. Tanto ognuno ascolta solo sé stesso. A lei le rombano sotto le finestre mille motori al giorno. Non sa chi sono né dove vanno. Io so leggere i suoni di questa valle per chilometri intorno. Questo motore lontano è Nevio, che va alla stazione un po’ in ritardo. Vuole che le dica tutto su centinaia di creature, decine di famiglie, parentele, legami? Lei se parla con un operaio sbaglia tutto: le parole, il tono, gli scherzi. Io so cosa pensa un montanaro quando sta zitto e so la cosa che pensa mentre ne dice un’altra. 14 ORTI DI PACE.indd 14 30-11-2010 10:53:22
  • 15. Questa è la cultura che avrebbero voluto avere i poeti che lei ama. Nove decimi del mondo l’hanno e nessuno è riuscito a scriverla, dipingerla, filmarla. Siate umili almeno. La vostra cultura ha lacune grandi come le nostre. Forse più grandi. Certo più dannose per un maestro elementare» (Lettera a una professoressa, Lef, Firenze). Fare un orto a scuola vuol dire andare in controtenden- za rispetto a tutto questo. Vuol dire imparare che il cibo è la più importante risorsa dell’umanità e saperla produrre da soli è un gesto di grande valore. E l’orto lo possono fare tutti, non ha bisogno di grandi risorse economiche. L’orto può essere l’aggancio per un sacco di attività didat- tiche, per sviluppare tanti aspetti delle discipline classiche della scuola: la letteratura, la storia, la geografia, l’arte, la matematica, la scienza, la religione, le lingue straniere e persino la musica. Ed essendo anche uno strumento che avvicina le diverse culture, possiamo a ragione definirlo «orto di pace». Quindi per me è scontato parlare sia di «orti di pace» che di «diritto alla contadinanza» o di «con- tadinanza attiva». Mi rendo conto che queste sono ormai considerazioni che do per acquisite in maniera scontata, forse proprio perché in questo mondo ci sono cresciuto e ci vivo da sempre. Su questo argomento, credo, infine, che sia giunto il tempo di cominciare a pensare alla «contadi- nanza onoraria». Un titolo da assegnare a chi si impegna in difesa della campagna, della montagna e di tutte le at- tività legate alla terra. Un gesto, una forma di riconosci- mento simbolico per chi si impegna concretamente e vede nella terra la vera fonte della vita. Perché senza i frutti della terra l’umanità non potrebbe esistere. 15 ORTI DI PACE.indd 15 30-11-2010 10:53:22
  • 16. Un itinerario personale: iniziare da piccoli Non so quale possa essere stata la vita di un bambino, mio coetaneo, di città. Un bambino di città nasce, vive e cresce in un appartamento. Il significato – fra l’altro – di appartamento è proprio quello di «appartarsi», «isolarsi». Credo che in città, fino a qualche decina di anni fa, abbiano giocato un ruolo predominante la strada, il marciapiede, la piazza, i portici, i giardini. La mia è stata invece la vita di un bambino di campagna. Ho vissuto la maggior par- te della mia vita in campagna. Solo in questi ultimi anni, per lavoro, mi sono trasferito a Belo Horizonte, in Brasile, e vivo al quindicesimo piano di un grattacielo. Con mia moglie Stefania abbiamo lo stesso rinverdito con fiori, ver- dure, piante officinale e da frutto, il grande terrazzo che si affaccia sul centro della città. E comunque posso vera- mente dire che sono nato in campagna: ora si va a nascere all’ospedale. Allora veniva la levatrice e le donne vicine di casa facevano da infermiere. Così è successo quando ho visto nascere, sempre a casa dei miei genitori, anche mio fratello Raffaele. Non sono esperienze da poco. È soprat- tutto un buon inizio. E prima di noi ci sono stati i nostri genitori, e prima dei nostri genitori c’erano i nonni... e così via. Una catena, o meglio, un «ciclo». Devo ammetterlo: ho trascorso un’infanzia felice. Pas- sata soprattutto attorno alla mia casa. Ho giocato fin da piccolo con la terra e l’acqua. Non è di tutti i bambini po- tersi sporcare in mezzo ai canaletti d’acqua che portano da bere, in luglio, ai peschi o ai fagiolini rampicanti. O avere un «bancone» con gli attrezzi da falegname con cui potersi costruire i giocattoli di legno. È così che questi attrezzi, questi strumenti dei grandi, si trasformano – per noi bam- bini – in macchine miracolose che trasformano la nostra vita. Ci è stata in sostanza offerta la possibilità di farci da soli i nostri giochi, di gestirci il nostro tempo. Forse è pro- 16 ORTI DI PACE.indd 16 30-11-2010 10:53:22
  • 17. prio per questo che ho voluto attrezzare la sezione della scuola materna in cui ho lavorato per sedici anni con un banco da falegname «vero», con seghe, chiodi, martelli, raspe, pialle «veri». Non so quanti di noi abbiano provato l’esperienza di andare per i campi, sotto enormi meleti, durante una nevi- cata invernale o scorrazzare per la campagna con gli amici dopo un furibondo acquazzone, che trasforma tutti i cam- pi in un’enorme palude. Per noi, bambini di campagna, le strade, le piazze, i giardini, i portici, sono stati i campi coltivati e le aree incolte, i fossi, i filari d’uva, il fiume, il ca- nale. Non passava giorno in cui non si inventasse una nuo- va avventura. Il luogo ideale in cui rifugiarsi era e capanín (il capannino), costruito con legni, bastoni e juta. C’è un rapporto quotidiano, in questo stile di vita, con la terra, l’erba, l’acqua, i sassi, i frutti, gli animali della casa. È un rapporto carico di odori e di sapori. Ogni volta che sento gli odori e i sapori di queste esperienze, la memoria mi ri- porta a quegli anni. Sono gli odori, i sapori e i suoni di cui era carico il momento in cui, in estate, dopo il tramonto, si tornava a casa dai campi e ci si lavava il collo, la faccia e i piedi, con l’acqua scaldata nelle bacinelle messe al sole nell’aia. Allora non c’erano i pannelli solari, ma funziona- va lo stesso. Sono i sapori che emana la pelle frizionata dall’acqua e dal pezzo di sapone da bucato che si usava per questo vero e proprio rito. E poi il canto notturno dei grilli che pian piano sopravanza su quello giornaliero delle ci- cale e delle upupe, mentre le rondini in concerto cacciano gli insetti che nella sera sono attratti dal calore dei muri, accumulato durante il giorno. E il passaggio dal giorno alla notte era determinato dalla scomparsa delle rondini e dall’arrivo dei pipistrelli. Sono solo frammenti di un mondo che quotidianamen- te, nella sua apparente immobilità (agli occhi del cittadi- no), vive una miriade di esperienze. Ho visto mio padre 17 ORTI DI PACE.indd 17 30-11-2010 10:53:22
  • 18. (con l’aiuto di mia madre e dei miei zii) costruirsi da solo intere serre, smontare e rimontare la zappatrice, tirar su un enorme capannone, costruire per impianto di riscaldamen- to una stufa che potesse bruciare segatura, trucioli, semi di pesco e fascine di legna. E insieme ai vicini ho visto i miei genitori ripulire il canale pieno di «malta» per permettere a tutti i contadini della zona di irrigare i campi. Non è retorica dire che fra la gente di campagna c’era (e forse ancora oggi in parte c’è) solidarietà, mutuo appog- gio. Forse è la stessa struttura della famiglia che predispo- ne a questo, oppure la struttura del podere o della casa. In casa, il camino della cucina non è qualcosa di cui far mostra: è il punto centrale, insieme alla stufa (la cucina economica). Nel camino si possono far la piadina, cuo- cere le castagne o fare grigliate usando sempre le fascine fatte dei residui delle potature degli alberi da frutta. Con la cucina economica si scalda l’ambiente, ma si può anche cuocere sulla piastra e nel forno, si possono tenere al cal- do le scarpe o i calzetti, si riscalda l’acqua ma si possono anche asciugare i panni, si prende il carbone per lo scalda- letto e si usa la cenere come concime. Quando si mangia, niente finisce nella spazzatura. Gli avanzi dei piatti (bucce, ossa...) finiscono nella scodella del cane o dei gatti, oppu- re nel letame insieme ai residui solidi degli animali (polli, conigli, maiali, pecore, mucche...). Gli scoli dei lavandini o dei bagni confluiscono (insieme ai liquami degli animali) nella fossa biologica. Dal letame e dalla fossa biologica ne uscirà fuori l’humus per l’anno dopo. Nel momento in cui mi sono posto scientificamente, e non solo emotivamente, di fronte a queste tematiche, ho scoperto a quali leggi sottostà la vita della campagna, dei contadini e dell’agricoltura. La caratteristica principale che balza immediatamente agli occhi, nella vita e nel lavoro di campagna, è la «ciclicità». Ogni tipo di lavorazione, ogni processo di coltivazione ha un inizio legato a una fine, e 18 ORTI DI PACE.indd 18 30-11-2010 10:53:22
  • 19. una fine che si congiunge con un nuovo inizio. E tutto que- sto con un rendimento energetico massimo e dal minimo spreco. Anzi, direi col recupero, o meglio il «riciclo», di ciò che in apparenza è considerato «scarto». Non esiste infatti in campagna il concetto di «rifiuto», che si parli dei «vec- chi» della famiglia, o che si parli della «merda» dell’uomo e/o degli animali. Ogni cosa, ogni essere ha in sé un valore – al di là del fatto che si possa vendere o meno – per quello che è stato, per quello che è e per quello che sarà. Dal mondo contadino ai contadini del mondo Dalla terra madre alla scuola materna Un momento importante della mia esperienza con la terra è stata la mia permanenza di cinque mesi sulle Ande del Perù. Avevo ventiquattro anni. L’occasione me l’ha data una famiglia di amici che in quel periodo lavorava in un progetto di volontariato internazionale, con una Ong ita- liana, nei pressi del lago Titicaca, al confine con la Bolivia. La scusa: raccogliere i materiali per la mia tesi di laurea in Pianificazione territoriale presso la Facoltà di Economia e commercio. L’idea, progettata con il mio professore Carlo Doglio, era quella di confrontare le tecnologie (cioè tut- te quelle soluzioni ai bisogni fondamentali dell’uomo) del mondo contadino romagnolo con quello andino. Incontri quotidiani con chi lavora la terra, vivere di poche risorse, cercare le strategie più efficaci per conservare cibo là dove energia elettrica e quindi frigoriferi non erano ancora arri- vati. È lì che ho capito come esista un filo comune che uni- sce tutti i contadini della terra: quello che oggi, a trent’an- ni di distanza, è ben espresso dal lavoro di Carlo Petrini e dall’idea di Terra Madre. I contadini indigeni quechua della Cordigliera andina la chiamano Pacha Mama. E «ter- ra madre» ha qualcosa in comune con «scuola materna», 19 ORTI DI PACE.indd 19 30-11-2010 10:53:22
  • 20. la scuola dove ho lavorato per sedici anni. Sono entrato di ruolo nel settembre del 1980 e già quell’anno cercai di se- minare qualche ortaggio sotto un pergolato d’uva dell’orto abbandonato, di fianco al cortile della scuola. Ma l’orto vero e proprio, con i bambini, l’ho realizzato per alcuni anni, dal 1988, nella scuola di Sorrivoli, un piccolo pae- se di collina che fa parte del comune di Roncofreddo, in provincia di Forlì-Cesena, dove poi sono anche andato a vivere. Quella esperienza ha permesso una ricucitura fra le mie origini familiari e il lavoro che avevo intrapreso come professione. Essere figlio di orticoltori, di contadini, prima ancora che maestro, e aver vissuto la quasi totalità della mia vita in campagna mi aveva (senza che io me ne accor- gessi) letteralmente formato, lasciando in me tracce pro- fonde. Posso dire di aver maturato, fin dalla mia infanzia, un modello di pedagogia contadina, cioè quella di «lavo- rare sul campo». La mia provenienza e le mie origini con- tadine si sono allora sposate con la mia pratica di lavoro quotidiano con bambini dai tre ai sei anni. In quella prima esperienza ho capito quanto valore poteva avere questo tipo di proposta didattica, che, di fatto, era anche parte del mio vissuto e del mio ambiente di vita. I disegni dell’amico Vittorio Belli che usiamo per commentare questo libro nel capitolo Suggerimenti per un piccolo orto biologico a scuola (pag. 83) sono tratti da foto di quell’esperienza. Eravamo a metà degli anni Ottanta, in un periodo in cui non si usava ancora l’espressione «campi di esperienza» e i Nuovi orientamenti della scuola d’infanzia sembravano una meta lontana. In quegli anni pochi si azzardavano a proporre in maniera forte il tema dell’ecologia e dell’edu- cazione all’ambiente. Negli organi dirigenti della scuola e fra i colleghi c’era un certo scetticismo. Noi eravamo fra quelli che azzardavano in maniera puntigliosa e cercavano di esplorare – pur con grande fatica – sentieri nuovi. C’era in noi la consapevolezza e la prospettiva di tipo ecologico 20 ORTI DI PACE.indd 20 30-11-2010 10:53:22
  • 21. per cui la scuola è veramente tale solo se riconosce i propri limiti intrinseci e per questo apre all’esterno, all’ambiente a cui è riferita e di cui è parte. Apertura all’ambiente in un duplice significato: 1. Ambiente naturale negli aspetti «selvaggi» e/o «colti- vati», modificati dall’uomo. 2. Ambiente sociale, cioè la gente che qui è vissuta, vive in comunità, e si relaziona reciprocamente accogliendo chi viene da fuori. Quindi ambiente naturale e ambiente sociale: in una unica accezione, territorio. Tutto questo è avvenuto a Sorrivoli, un piccolo borgo di origine romana sviluppa- tosi in epoca medioevale. Un antico castello malatestiano domina dall’alto il paese e le vallate circostanti. Geografi- camente è posto sulle prime colline romagnole, a ridosso della Via Emilia con un’ampia veduta su tutta la riviera. Il nome, Sorrivoli, fa istintivamente pensare all’espressione «sui rivoli», a conferma del fatto che dai pendii della zona partono tantissimi fossi o rivoli. Questo è dovuto soprat- tutto alla ricca vegetazione che ancora esiste e permette così il trattenimento di masse di acqua che sono restituite lentamente nel corso dell’anno, riversandosi in questi ri- voli. Qualcuno invece pensa a Sorrivoli come «sorridoli», cioè un nome che ricorda l’importanza del ridere. L’atti- vità prevalente della zona è l’agricoltura, la coltivazione dell’uva. Tanti sono i boschi. La «scuola materna statale» era – insieme alla parrocchia – l’unica istituzione sociale (e in questo caso pubblica) presente sul territorio. Le fami- glie sono sparse su un ampio territorio e spesso abitano in località isolate. In questo contesto noi insegnanti abbiamo sempre operato per far sì che la scuola offrisse innume- revoli occasioni di contatto con l’esterno, prima di tutto con le famiglie di contadini da cui provenivano i bambini e le bambine della scuola. Un solo ricordo emblematico di quegli anni. Uno dei bambini che frequentava la scuo- 21 ORTI DI PACE.indd 21 30-11-2010 10:53:22
  • 22. la, uno dei più entusiasti – oggi trentenne – ha ereditato dai genitori la terra e ha trasformato il suo podere in una «fattoria didattica», una vera e propria «aula di ecologia all’aperto». La madre mi diceva preoccupata, alcuni anni fa: «È andato alle superiori, ma vuole fare il contadino!». E io, invece di condividere le sue preoccupazioni, le sugge- rii di condividere quella scelta. Oggi quel bimbo, di nome Werther, è una persona felice e appagata. Le motivazioni pedagogiche e storiche degli orti nelle scuole Alcuni anni fa mi è capitato, quando dirigevo tre scuo- le medie, che un ragazzino di terza, nel periodo in cui si sceglie in quale scuola superiore proseguire gli studi, sia venuto nel mio ufficio e mi abbia chiesto: «Preside, io da grande voglio fare il giardiniere: a quale scuola devo iscrivermi?». Ecco una triste constatazione: non esistono oggi, praticamente, in Italia, quella che era l’orto-giardino d’Europa, «scuole per diventare contadini». Luoghi cioè in cui si insegna l’italiano, la storia e la cultura italiana e nel contempo si impara a coltivare un frutteto, un orto, a condurre un’azienda agricola. Esistono corsi professiona- li, ma non è una vera e propria scuola. Esistono gli istituti tecnici agrari… ma questi preparano tecnici, non coloro che mettono le mani nella terra. Eppure lo abbiamo constatato in questi anni: per i ra- gazzi è importantissimo fare esperienze pratiche e non solo teoriche: uscire dall’aula e «fare» concretamente, in maniera pratica. Qualsiasi esperienza si faccia a scuola con gli studenti è legata a tutte le altre. Noi possiamo spez- zare anche in 30, 40, 50 tessere il mosaico della scuola, la settimana, il mese, l’anno, però dobbiamo ricordarci che tutto è collegato. È un po’ come la legge che ci dice che in 22 ORTI DI PACE.indd 22 30-11-2010 10:53:22
  • 23. natura tutto è collegato! Lo stesso avviene nell’educazione: non c’è nell’educazione qualcosa che non sia collegata a un’altra. Ma proviamo a contestualizzare la realtà scolastica ita- liana. Oggi la scuola è sempre più scuola di città. C’è sta- to in questi ultimi vent’anni un processo di chiusura delle scuole nelle realtà periferiche, nelle campagne, nelle mon- tagne e colline. Il cosiddetto processo di razionalizzazione ha portato all’urbanizzazione della scuola. È un processo che è stato ancor più eclatante negli anni Cinquanta quan- do dalla campagna, dalla montagna, la gente se n’è anda- ta. In Romagna, ad esempio, abbiamo avuto il boom nella riviera e tutte le nostre colline si sono spopolate: comuni come quello di Sogliano, dove ho lavorato per tanti anni come maestro e dove oggi sono titolare come dirigente sco- lastico, è passato nell’arco di pochi anni da 10.000 a circa 2.500 abitanti. È un processo di impoverimento di realtà che sono state per centinaia di anni la struttura dell’Italia. Pedagogicamente parlando, ora ci sono bambini che pro- vengono da quelle realtà ma non le conoscono. Il contesto in cui il mondo scolastico si trova a operare è un contesto urbano, dove i bambini vivono sempre meno l’esperienza di contatto non solo con l’ambiente naturale ma anche con il mondo della produzione da cui vengono il pane, il cibo e tutto ciò di cui ogni giorno abbiamo bisogno. Nelle no- stre scuole, inoltre, perdiamo quotidianamente occasioni per creare questo legame. Due falsi miti imperano: l’igiene e il risparmio. Nelle scuole sta venendo meno l’esperien- za della mensa e della cucina. E là dove ancora esiste la mensa, la tendenza è quella del cibo già precotto. E poi si centralizzano i luoghi preposti alla cottura dei cibi. Il pasto è così trasportato a scuola e consumato in vaschette di plastica o di alluminio. Un’operazione ecologicamente molto poco corretta, visto che si producono grandi quanti- tà di rifiuti e nello stesso tempo diseduchiamo gli studenti 23 ORTI DI PACE.indd 23 30-11-2010 10:53:22
  • 24. all’apprendere la provenienza del cibo quotidiano. Questo spesso accade anche in famiglia: è tanto il cibo che com- priamo e tanto poco quello che prepariamo nella cucina di casa. Il mito è quello di «non perdere tempo». Ecco dove si inserisce la nostra proposta: oggi che tutto è di fretta, col- tivare un orto a scuola significa imparare a «rallentare». È un’esperienza estremamente educativa. Seminare e colti- vare frutta e ortaggi sono attività che mettono a frutto le abilità manuali, le conoscenze scientifiche, lo sviluppo del pensiero logico-interdipendente. Ma significa soprattutto attenzione ai tempi dell’attesa, pazienza, maturazione di capacità previsionali. Lavorare con la terra aiuta i ragazzi a riflettere sulle proprie storie locali e familiari. La mag- gior parte degli studenti italiani ha sicuramente un papà, un nonno o un bisnonno che ha o che ha avuto a che fare con la coltivazione della terra. Nell’orto i ragazzi uniscono «teoria e pratica», cioè il pensare, il ragionare con il pro- gettare e il fare. In un orto s’imparano i modi e i momenti adatti per seminare. Prima di far questo si deve preparare e concimare il terreno. È necessario poi seguire con cura i prodotti, attendendo ai bisogni d’acqua e al controllo dei parassiti. Si possono conoscere, infine, le combinazioni e le rotazioni giuste fra le varie piante. Lo ripeto: il mestiere dei campi, quello dell’agricoltore, del coltivatore, è uno dei mestieri più difficili al mondo, che richiede grandi abilità, esperienze e competenze multiple. Ed è anche per questo un mestiere «maestro», che può insegnare. Da esperienza singola alla rete di scuole con un orto nel cortile Nel 2000, come dirigente scolastico, lavorando nelle scuole delle Marche, ho partecipato, con l’istituto che di- rigevo, al progetto promosso dall’assessorato all’Agricoltu- 24 ORTI DI PACE.indd 24 30-11-2010 10:53:22
  • 25. ra della regione: «Un orto biologico a scuola». La regione Marche iniziò da quell’anno a finanziare la nascita degli orti nelle scuole: fu un successo. È nata così spontanea- mente una realtà di un centinaio di scuole che dedicava- no parte del loro tempo scolastico ai lavori dei campi. Ho cercato di capire, da quel momento, cosa si faceva nelle altre regioni d’Italia e nel mondo. E poiché dell’esperienza di «orto biologico a scuola» ne avevo parlato nel mio libro La scuola ecologica, ogni tanto venivo contattato da scuole che avevano messo in campo questa esperienza didattica. Senza volerlo e senza saperlo sono diventato in Italia un punto di riferimento. Visto che da un po’ di anni rivesto la funzione di dirigente scolastico, spesso i docenti che vo- gliono fare un orto a scuola mi cercano per avere un soste- gno nei confronti dei genitori, dei colleghi o dei superiori. Sono stato in questi anni in giro per l’Italia, per l’Euro- pa e ho visto esperienze oltreoceano. Una delle esperienze più belle è sicuramente quella olandese. Ne avevo sentito parlare in un convegno sugli orti scolastici nella regione Marche, all’abbazia di Fiastra. Sono così andato personal- mente a conoscerli. L’origine degli orti scolastici olandesi risale agli anni Venti, dopo la prima guerra mondiale. Rea- lizzare orti in città era, in particolare per la municipalità di Amsterdam, l’occasione per migliorare la qualità del cibo delle famiglie olandesi. All’inizio si trattava di doposcuola. Poi le attività sono entrate a far parte dell’orario e dei pro- grammi scolastici e così dal 1930 l’attività degli orti è parte integrante del programma delle scuole di base. Oggi nella sola capitale olandese ci sono dodici aree in cui vengono coltivati centinaia di orti individuali. Ogni area è di circa 4.000-6.000 metri quadrati. Sono aree collocate all’inter- no della città e spesso si trovano presso parchi cittadini dove è possibile trovare percorsi naturali, sentieri, giardini per le farfalle, alveari, serre o vivai. In ogni area ci sono una o più aule e una residenza ufficiale per gli educatori. 25 ORTI DI PACE.indd 25 30-11-2010 10:53:22
  • 26. Spesso c’è anche una stalla, un laboratorio per gli attrezzi da lavoro e una serra. I docenti, da un minimo di uno a un massimo di tre per area-orti, si interessano delle lezio- ni settimanali dei bambini. In totale ci sono più di ven- ti maestri che si occupano degli orti didattici. Poi c’è un tecnico-guardiano per ogni area, che si prende cura della manutenzione. L’esperienza dell’orto personale (10 metri quadrati per ogni studente), ha inizio in autunno, nell’au- la, al chiuso. Si svolgono alcune lezioni: per imparare a distinguere i differenti tipi di terreni, per capire cos’è la fotosintesi, per distinguere i semi. Poi da marzo-aprile si va all’aperto, fino a ottobre, quando, per concludere il ciclo annuale, l’attività prevista diviene quella delle composizio- ni con i fiori essiccati. I bambini vanno nell’area degli orti singolarmente, in bici, o in autobus. Oppure con tutta la classe. Sono attività che si svolgono al pomeriggio. Quella dell’orto è un’esperienza che fanno tutti i bambini di Am- sterdam, per almeno un anno, durante il periodo della loro esperienza didattica del cosiddetto obbligo. Ogni anno sono circa 6.000 a farla. D’estate ci sono, poi, dei momenti di festa, in cui sono coinvolte tutte le famiglie, e si mangia tutti assieme, consumando così anche i prodotti dell’orto. Questo olandese è sicuramente un esempio storico da usa- re come modello. Un incontro annuale, una rete nazionale di scuole, un portale internet Il 13 novembre 2004 si è svolto presso l’Ecoistituto a Cesena il primo convegno nazionale sulle esperienze di orti didattici. Il titolo è emblematico del percorso intrapre- so: «Orti scolastici biologici, giardini della biodiversità». In quell’occasione, come dirigente scolastico, ho lanciato l’idea di un progetto di rete nazionale sugli orti scolastici 26 ORTI DI PACE.indd 26 30-11-2010 10:53:22
  • 27. biologici. In sostanza un impegno che ogni scuola poteva prendere aderendo a un accordo di rete ai sensi dell’art. 7 del Dpr n. 275/1999 (il decreto sulla cosiddetta «autono- mia scolastica»). In sintesi le finalità di questo «accordo di rete» sono espresse nell’articolo 3, in cui si dice: «Le scuole aderenti alla rete condividono l’idea di fondo di riconosce- re il ruolo fondamentale dell’agricoltura nella società. In particolare si evidenzia la necessità storica di attribuire nuovamente al mondo agricolo il ruolo di promotore di educazione all’ambiente attraverso la conservazione della biodiversità». Da quel primo incontro, nel corso di ogni anno scolastico si svolge un convegno nazionale che i par- tecipanti apprezzano per alcune caratteristiche peculiari. Non esistono relazioni teoriche, ma racconti di esperienze concrete, sulle quali, semmai, si fanno riflessioni pedago- giche. Un metodo che può decisamente essere definito in- duttivo. Gli interventi sono sintetici, 15-20 minuti al mas- simo. Non vengono distribuite fotocopie, ma si consegna, all’inizio del convegno, un piccolo «quadernetto di campa- gna» e i partecipanti vengono invitati a prendere appunti, segnarsi indirizzi, disegnare. Non esistono impianti di am- plificazione e dopo le relazioni, nel momento conviviale pomeridiano, ci si scambia idee e – chi vuole – semi o ma- teriali di documentazione prodotti dalle scuole. L’indiriz- zario delle persone che partecipano all’incontro, distribui- to poi agli stessi partecipanti, permette lo scambio e il con- tatto fra le varie scuole, in una logica di «rete dal basso». Un lavoro, tutto questo, che dal 2006 ha visto un punto di forza e di riferimento nel sito internet www.ortidipace.org, voluto e sostenuto quotidianamente dalla scrittrice, gior- nalista, nonché ortolana Pia Pera. L’invito che lei stessa fa è semplice: il sito è a disposizione di chiunque consideri l’orto, e il giardino in senso lato, un luogo ideale per in- trecciare tutta una serie di scambi con la natura, l’ambien- te e la comunità. Il portale è concepito in modo da dare 27 ORTI DI PACE.indd 27 30-11-2010 10:53:22
  • 28. ma anche ricevere informazioni, in uno spirito di servizio per chi avverta il desiderio di passare «dalla voglia di fare al fare». Le cose da fare sono tante: orti e giardini didattici nelle scuole, orti terapeutici dove coltivare la pace interio- re, orti per chiunque, pur non possedendo terra, desideri coltivare fiori e ortaggi in uno spazio pubblico. Dalla rete di scuole alla Rete di Orti di Pace Il quinto convegno, tenutosi nel marzo del 2009, segna una svolta. Si passa dall’idea di collegare le esperienze di orti didattici scolastici alla necessità di collegare tutte le esperienze di orti, che abbiamo chiamato in maniera sin- tetica Orti di Pace. L’idea di una rete incentiva la nascita di orti. La rete conta sull’esperienza di chi lo ha fatto da sempre, i con- tadini, gli agricoltori, gli ortolani. È una realtà in cui i bambini, le bambine e i grandi (molte volte le nonne e i nonni) «insieme» si prendono cura delle piante. E ancora: l’orto è un’esperienza di incontro fra popoli di tradizio- ni e culture diverse. Popoli dell’Est Europa, popoli che si affacciano sul Mediterraneo, popoli del Sud del mondo: mondi ricchi di famiglie che lavorano la terra. Coltiva- re un orto può diventare, oggi, un’eccellente esperienza di educazione alla multiculturalità e alla pace, ma non solo. Da alcuni anni c’è chi ha preso coscienza che l’orto è un eccellente «medico» per chi vive l’esperienza delle difficoltà di salute fisica e mentale, per chi deve ricostru- ire armonia nella propria esperienza di vita. Ecco che si scopre che l’attività dell’orto e/o del piccolo allevamento è utilizzata in diverse carceri (significativa in questo senso l’esperienza della Casa di reclusione dell’Isola di Gorgo- na) e che quasi tutte le comunità terapeutiche sono col- locate in ampi spazi agricoli e usano inserire l’orto fra le 28 ORTI DI PACE.indd 28 30-11-2010 10:53:22
  • 29. attività quotidiane. L’orto richiede, in questo senso, rigo- re, adesione a leggi naturali, perseveranza. È quello che una persona, all’interno di una comunità terapeutica, ha bisogno per sé. E poi ci sono gli orti dei conventi (spesso destinati alla conservazione della biodiversità) e la gran- de tradizione degli orti sociali, generalmente definiti «orti degli anziani». Oggi, infine, si parla molto di orti urbani, orti di con- dominio e sono nate le esperienze di orti negli ospedali. Ho proposto questa esperienza in un articolo che pubblicai pochi mesi dopo la degenza in ospedale, conclusasi con la morte di mio padre, avvenuta alcuni anni fa. In quell’oc- casione una infermiera rasserenò mio padre valorizzando con buone parole il suo lavoro di contadino. Proposi allora all’ospedale di Cesena, e ad ogni ospedale, di organizzarsi per realizzare un proprio orto ben curato, con tanti vialetti e tante aiuole di verdure, ortaggi e fiori. Un orto che abbia una zona dedita al compost, elemento essenziale per cibare il terreno. Un orto ricco di erbe officinali, da sempre chia- mate anche medicinali, e con zone dedite alla coltivazione di piante ospiti delle farfalle. Un orto con tanti alberi che producano frutti per tutti i mesi dell’anno. Un orto all’ospe- dale vorrebbe dire per tanti pazienti riconoscersi nella pro- pria terra, cioè nel luogo in cui viviamo, un luogo fatto di storia, di tradizioni, di cultura, di memoria. Un luogo che anche noi, ogni giorno, contribuiamo a rendere più bello e vivibile. E così, quando siamo costretti a passare alcuni giorni della nostra vita in ospedale, possiamo beneficiarne sia dal semplice vedere questo piccolo «paradiso terrestre», sia dal fare alcuni dei tanti piccoli lavori che ogni giorno si fanno nell’orto. Forse avremmo bisogno di meno medicine e certamente guariremmo prima. Tutto questo movimento culturale e colturale è ben sin- tetizzato nel documento presentato durante il quinto con- vegno della rete che ha avuto per titolo: «Orti negli ospe- 29 ORTI DI PACE.indd 29 30-11-2010 10:53:22
  • 30. dali, nei conventi, nelle carceri, nelle città, nelle scuole». È da quel momento che è nata la «Rete Orti di Pace», aperta al contributo di chiunque voglia rendere più bello questo grande orto-giardino chiamato mondo. MANIFESTO PER UNA RETE DI ORTI DI PACE Chiunque, nel rispetto dell’ambiente, coltivi la terra la- vora anche per la pace. Anche quando i conflitti mettono a repentaglio la sopravvivenza, e li chiamano per questo orti di guerra, sono sempre e comunque orti di pace. In questo momento storico, in cui i fondamenti stessi dell’economia vengono rimessi in discussione, e il concetto di cosa abbia valore cambia al punto che i terreni agricoli cominciano a venire considerati un bene rifugio, è arrivato il momento di annodare una rete tra tutti noi che crediamo che lavorare la terra in modo organico sia cosa bella e buona. Occorre imparare di nuovo l’abbiccì del rapporto con la Natura. Per questo siamo partiti dagli orti scolastici: aule all’aperto dove apprendere un modo di stare al mondo per cui, anziché semplici consumatori, diventiamo creatori di vita, e nella pratica di una possibile autosufficienza appren- diamo il respiro della libertà interiore. Un giardino, un bo- sco, un orto trasformano la scuola in qualcosa di vivo di cui prendersi cura. Partiti dalla scuola, abbiamo poi esteso la nostra atten- zione agli orti terapeutici, carcerari, sociali: spazi dove ci si prende cura di fiori e ortaggi scoprendo al contempo nell’or- to un luogo ideale dove intrecciare tutta una serie di scambi con la natura, l’ambiente e la comunità, coltivando intanto la pace interiore. 30 ORTI DI PACE.indd 30 30-11-2010 10:53:22
  • 31. L’orto resta tuttavia il modello privilegiato da noi pro- posto: perché permette di optare per un modello economi- co meno instabile, meno fondato sulla rapina di risorse non rinnovabili e quindi limitate. Coltivare un orto è una piccola azione di pace. Proponiamo la costituzione di una Rete di Orti di Pace nell’intento di tenerci in contatto, scambiare informazioni sulle varie iniziative. E anche, non ultimo, renderci conto di quanto poco siamo isolati nel gesto di coltivare il nostro comune giardino dall’umile nome di terra. Cesena, il 14 marzo 2009 LA RETE ORTI DI PACE L’idea di promuovere la realizzazione di orti a scuola, i cosiddetti orti didattici, è nata dalla mia esperienza di mae- stro prima (negli anni Ottanta) e dirigente scolastico poi (da metà degli anni Novanta). Questa idea è stata subito sostenuta dall’Ecoistituto di Cesena che nel 2001 è entrato a far parte, come socio, dell’Associazione Civiltà Contadina. Daniele Zavalloni, che nel frattempo ne era divenuto vicepresidente, suggerì l’idea che Risea, la Rete italiana scuole di ecologia all’aperto (nata alcuni anni prima) entrasse a far parte dell’associazione. Si è così dato vita al progetto «Orti di Pace, sentieri della bio- diversità, contadini custodi». La collaborazione con il presi- dente di Civiltà Contadina (ma non con suoi singoli membri) è venuta meno nel 2006. Nello stesso anno, l’Ecoistituto ha firmato una convenzione con Slow Food, offrendo la propria esperienza allo sviluppo del progetto «Orto in Condotta». Risea ha avuto per alcuni anni una sua organizzazione di tipo formale, ai sensi del decreto legge sulla cosiddetta autonomia scolastica). Riuniva tra loro un insieme di scuole 31 ORTI DI PACE.indd 31 30-11-2010 10:53:22
  • 32. accomunate dal fatto di coltivare un orto a scuola. La scuola che dirigevo ne era capofila. Allo scadere formale della con- venzione (31 agosto 2008) Risea non è stata re-istituita, pre- ferendo una forma di collaborazione più libera attraverso la condivisione del sito internet www.ortidipace.org Durante il quinto convegno degli Orti di Pace, tenutosi il 14 marzo 2009, è stato presentato un manifesto che è di- ventato il riferimento ideale di tutti coloro che nella pratica dell’orto si sentono in sintonia tra loro. Non si tratta quindi più soltanto di orti didattici, ma anche di orti comunitari, orti sociali, orti terapeutici, orti carcerari, e così via. La rete quindi è libera, a maglie larghe. Possono aderire tutti coloro che si riconoscono nel manifesto. Pertanto i punti cardine sono: 1. Il manifesto «Per una Rete di Orti di Pace». È il rife- rimento ideale-culturale di tutte le realtà che, riconoscendo l’importanza di trasmettere i saperi legati alla cura dell’orto, intendono collaborare tra loro. 2. Il convegno. È l’appuntamento annuale in cui si affron- ta un tema di fondo e si condividono esperienze concrete. Lo stile di base è quello di trarre dall’esperienza, in modo induttivo, idee e pratiche comuni. 3. I siti internet. Un portale (www.ortidipace.org), ideato e curato da Pia Pera, come punto di riferimento della rete. Vera e propria rivista online, pubblica testi inviati da tutti coloro che condividono lo spirito del manifesto. Esiste inol- tre un gruppo Facebook di Orti di Pace, come ponte tra gli utenti di Facebook e ortidipace.org. Nelle pagine web www.flickr.com/photos/ortidipace è in- vece possibile trovare immagini di orti, disegni e altro. Dal sito www.tecnologieappropriate.it è poi possibile ac- cedere alle schede dei libri sugli orti, presenti nella bibliote- ca dell’Ecoistituto di Cesena. 32 ORTI DI PACE.indd 32 30-11-2010 10:53:22
  • 33. 4. Le pubblicazioni. Il manifesto Per una Rete di Orti di Pace è condiviso dai seguenti libri, e in essi pubblicato in appendice: L’insalata era nell’orto di Nadia Nicoletti (Salani), Giardino & Orto Terapia di Pia Pera (Salani) e La pedagogia della lumaca e Ortidipace (Emi) a cura di Gianfranco Zaval- loni. È disponibile un poster dal titolo Orti di Pace, stampato a cura dell’Ecoistituto, disponibile a colori oppure in bianco e nero. Sono inoltre in cantiere le seguenti iniziative: – Un censimento delle realtà che, nella coltivazione di un orto, vedono anche un gesto di condivisione del manifesto Per una Rete di Orti di Pace. – Un indirizzario di persone competenti e disponibili a promuovere, insegnare, consigliare, aiutare in ogni genere di lavoro legato all’orto: da quelli prettamente agricoli fino alla realizzazione di un recinto, di un bancale di legno, di una capanna di salici, di un forno in terra crudo, l’intreccio di un canestro, la realizzazione di utensili e via discorrendo. Segreteria tecnica della Rete Orti di Pace: Ecoistituto di Cesena via Germazzo 189 47521 Cesena (FC) www.tecnologieappropriate.it ecoistituto@tecnologieappropriate.it telefono e fax: 0547-323407 33 ORTI DI PACE.indd 33 30-11-2010 10:53:22
  • 34. ORTI DI PACE.indd 34 30-11-2010 10:53:22
  • 35. L’ORTO SCOLASTICO COME GIARDINO DEL NOSTRO TEMPO di Pia Pera Lev Nikolaeviˇ Tolstoj, per molti versi considerato c un profeta della sensibilità del nostro tempo, non amava particolarmente i panorami perché preferiva sentirsi im- merso nella natura. Sono rimasto del tutto freddo alla vista del gelido panorama del monte Jaman; non mi è passato neanche per la testa di fermarmi un solo momento ad ammirarlo. Io amo la natura quando mi circonda da tutte le parti e poi si svolge in lonta- nanza fino all’infinito, e mi ci sento dentro. Mi piace quando da tutte le parti mi circonda l’aria calda, e la stessa aria si perde avvolgendosi nell’infinita lontananza; quando questi fili d’erba succosi, che ho schiacciato sedendomici sopra, richiamano il verde di infiniti campi; quando queste stesse foglie che, mosse dal vento, spostano l’ombra sul mio viso, compongono la linea del bosco lontano; quando l’aria stes- sa che respiriamo richiama la profondità dell’azzurro cielo infinito; quando non sei solo a esaltarti e a gioire della natu- ra; quando vicino a te ronzano e sciamano miriadi d’insetti, strisciano le coccinelle, e gli uccelli riempiono l’aria col loro canto. E qui, invece (nel panorama distante): una superficie fredda, nuda, umida e deserta, e da qualche parte qualcosa di bello, che s’intravede velato dalla lontananza. Ma questo qualcosa è così lontano che io non provo il piacere per me più grande che possa venirmi dalla natura, non mi sento parte di quest’infinito e bellissimo intero. E non m’importa niente di questa lontananza. Il paesaggio dello Jaman è per gli inglesi (maggio 1857, durante la gita col ragazzino Sasha). 35 ORTI DI PACE.indd 35 30-11-2010 10:53:22
  • 36. Ho riportato questa lunga citazione perché trovo espri- ma al meglio quello che per la sensibilità contemporanea è diventato il senso del fare giardino: entrare a sentirsi parte di qualcosa di mutevole – la natura – avere la sensazione di ristabilire un contatto con la rete della vita, e non più di ammirare dall’esterno come in un panorama. Ristabilire un rapporto con la natura, sentirsene parte, tornare a comprendere il nostro rapporto di interdipen- denza con le altre specie animali e vegetali ma anche con la comunità umana: ecco l’urgenza, ecco l’interrogativo del fare giardino oggi. Che diventa anche fare paesaggio, vedere paesaggio, intervenire sul paesaggio, agreste o urbano o silvestre. In questa sensibilità di Tolstoj, quanto vale per il pae- saggio vale anche per il giardino. Che non sarà un par- terre elegante da contemplare dalla loggia di casa o dalle finestre del piano nobile, statico e meramente formale, ma uno spazio, una dimensione che ci ingloba. Un giardino in cui entreremo anche con le nostre mani, gli attrezzi, i semi che vi introdurremo, le buche che scaveremo. Robert Pogue Harrison ha scritto un libro bellissimo sul giardino come luogo in cui prendersi cura, realizzare la vocazione umana alla Sorge. Acutamente, scrive che la cacciata dal giardino dell’Eden ha coinciso, per l’inquieto uomo occi- dentale, con un ritorno nella sua autentica patria, quella del prendersi cura, la heideggeriana Sorge. Dalla leggiadra giardinesca malia, di regola, i nostri eroi fuggono a gambe levate: da Circe come da Alcina o da Logistilla. Karl Ca- pek, in L’anno del giardiniere, ha raccontato la stessa cosa in modo arguto e divertente: il giardiniere è colui che è soddisfatto quando ha le mani occupate (et l’esprit libre, aggiungerebbe Gilles Clément). Noi che facciamo i giardi- nieri lo sappiamo: nulla ci rallegra di più di avere appena messo a dimora una piantina, avere appena tagliato un ramo secco, avere accatastato la legna… Insomma, avere 36 ORTI DI PACE.indd 36 30-11-2010 10:53:22
  • 37. partecipato alla vita intorno a noi. La felicità del giardino è nella relazione, fattiva, non solo contemplativa. Pensiamo allora a quel tipo particolare di giardino del nostro tempo che è l’orto scolastico, un genere molto particolare di orto sociale. Che, se vogliamo, è un giardino che entrerà dentro di noi attraverso ciò che ne mangeremo. Un giardino con cui entrare più che mai in simbiosi? Credo, del resto, che questa sensazione di simbiosi con la natura costituisca per i giardinieri appassionati il senso più profondo del loro fare. Cosa possiamo chiedere a un giardino? Di riconnetter- ci alla vita, quindi anche al nostro nutrimento, non solo all’esperienza estetico-filosofica. Il giardino del nostro tempo, cioè il giardino di cui il nostro tempo ha bisogno, deve prima di tutto sanare una ferita: riconnettere l’uomo alla natura nel senso primario del termine, di corpo a cor- po in cui l’uomo coltiva le piante da cui trae nutrimento, in tutti i sensi. Aggiungo: il giardino non avrà futuro a meno di far sì che fin da piccoli i bambini conoscano questa esperienza formativa fondamentale. Pertanto il giardino capace di ri- spondere a questo bisogno urgente del tempo in cui vivia- mo sarà un giardino semipubblico, il giardino nel cortile della scuola, tenuto non solo dai bambini e dai maestri ma anche dai nonni, dai bidelli, dai genitori specie quando le scuole sono chiuse. Un orto che sia anche un giardino, che abbia alberi fiori e cespugli ed erbe spontanee, in modo da essere un luogo dove si impara a conoscere la natura, dove soprattutto si fa esperienza di quella tranquilla feli- cità che solo la natura può trasmettere. Perché l’interesse per i giardini si trasformi in qualcosa di profondo, qualco- sa che formi veri giardinieri, ma non solo: persone con un interesse non superficiale per la natura, per l’ambiente. Alleviamo allora piccoli giardinieri, persone che sappia- no dove andare a cercare quella felicità tanto speciale: una 37 ORTI DI PACE.indd 37 30-11-2010 10:53:22
  • 38. felicità a portata di mano! Una felicità che non abbiamo bisogno di andare a chiedere ad altri o ad altro. Nell’orto, nel giardino, o anche nel pezzetto di natura lasciato indi- sturbato nel cortile di scuola – è di moda chiamarlo wild zone – un bambino imparerà ad attingere alle energie della terra, a vivere l’esperienza, cruciale per lo sviluppo della creatività non importa in quale ambito, del libero scorrere delle energie. Sperimentare quella concentrazione che na- sce dal lavoro manuale a contatto con la natura, e con le energie naturali quando riusciamo ad avvertirle in armo- nia con le nostre. La conoscenza di questa gioia, di que- sta felicità, fonda la possibilità stessa della libertà, della non dipendenza coatta dalle gratificazioni esterne. Privi di questa conoscenza, si rischia di diventare null’altro che consumatori passivi di merci, di sensazioni, di relazioni sociali. Ai bambini, dunque, bisogna lasciar comprendere che la natura può essere una risorsa inesauribile di forza e fe- licità. Nell’orto non si va solo per ricavare del cibo, ma per prendere coscienza della bellezza del cielo, delle nuvole, dell’emozione dei mutamenti climatici. Ad ascoltare gli uc- celli, osservare gli insetti, conoscere la pienezza della vita. Solo se l’avremo assaporata, ci sarà possibile cercarla. I bambini, e i ragazzi, non sono ancora così cinici da con- siderare ingenua questa domanda: che senso ha la vita? Perché non suggerire che siamo qui per celebrare la gioia di essere uomini e godere del nostro essere nella natura? Deus sive Natura, e viceversa: Natura sive Deus. Anni fa ebbi la fortuna di partecipare al seminario tenuto da Masanobu Fukuoka in India, nella fattoria di Vandana Shiva, dal titolo «Nature as teacher», la natura come maestra. Nel corso di due indimenticabili settimane, l’anziano agronomo giapponese, autore della Rivoluzione del filo di paglia, cercò di insegnarci a coltivare un senso di unione con la natura, mantenendo un atteggiamento di 38 ORTI DI PACE.indd 38 30-11-2010 10:53:22
  • 39. attenzione amorevole e mai di sfruttamento. Una mattina srotolò un foglio su cui aveva disegnato l’origine della no- stra civiltà, ovvero l’Albero della conoscenza del Bene e del Male, col serpente attorcigliato intorno al tronco. «Sapete cosa ha insegnato il serpente ad Adamo?». Silenzio. «Sono anni che ci penso, l’ho capito questa mattina. Com’è il cor- po del serpente? Ricoperto di scaglie, per questo si muove in una sola direzione. Può insegnare ad andare avanti, ma non a tornare indietro». Gli uomini non sono mai progre- diti oltre la sapienza del serpente: sanno dividere ma non riunire, trasformare il petrolio in plastica ma non la pla- stica in petrolio, consumare risorse ma non crearle. È la direzione a senso unico, irreversibile, dello sviluppo o pro- gresso che dir si voglia. E se invece fosse possibile aggiustare la rotta di questo percorso tutto monodirezionale? Imparare ad agire tenen- do conto dell’andamento ciclico, mai lineare, della natura? Imparare anche a ridurre la nostra impronta ecologica sul mondo? Il giardino del nostro tempo non può essere qualco- sa di statico. Può fondarsi solo sulla consapevolezza e la valorizzazione di un processo. Merita inventare giardini a patto che non siano cose, luoghi e basta, ma entrino a fare parte della nostra esperienza, della nostra evoluzione, inneschino un percorso, una rete di relazioni col mondo e la natura. Si muovono in questo senso i paesaggisti più innovativi, ma anche i guerrilla gardeners o i propugnatori delle wild zones, come Karen Payne, David Hawkins, da noi Paolo Tasini. L’idea è di azioni relazionali e significative, di inter- venti anche soltanto temporanei sul paesaggio campestre ma soprattutto urbano. Il giardino del nostro tempo non è un luogo circoscritto – ormai, lo ha detto Gilles Clément, il giardino è planetario, non ha confini. Ma allora cos’è il giardino? Forse qualcosa che ci portiamo dentro come 39 ORTI DI PACE.indd 39 30-11-2010 10:53:22
  • 40. atteggiamento, visione, attenzione, capacità di rispondere agli stimoli alle proposte e anche alle richieste di aiuto del- la cosiddetta Natura. Un modo di non perdere il contatto con la vita. È un fare giardino che diventa anche cura della nostra anima all’interno del mondo e con il mondo. Con il mondo: quindi anche con il paesaggio. È consa- pevolezza del giardino all’interno del paesaggio. E anche della necessità di conservare all’interno del giardino, oltre alla relazione col paesaggio, qualcosa della selvatichezza. Cito queste parole a me care di Oliva di Collobiano: «Il giardino vero è l’unione tra la persona e la natura ricreata: mondo accurato fatto di grazia. Il buon giardino è l’equili- brio tra la quiete della domesticità e la vibrazione del mon- do selvatico.» Aggiungo: è gentile non dimenticare che la nostra pre- senza è imposta a un paesaggio preesistente. Bellezza e armonia nascono spesso dall’occultamento di una simile violenza. Il «mondo fluttuante» del vero giardino non ha nulla a che spartire con certi scenari che lasciavano freddo Tolstoj. 40 ORTI DI PACE.indd 40 30-11-2010 10:53:23
  • 41. L’ORTO TRA LA FORESTA E LA VIGNA: RI/COLTIVARE IL SELVAGGIO PER LA VITA di Daniele Zavalloni La foresta Etimologicamente, la parola foresta deriva dal termine latino forestis, probabilmente un neologismo del VII secolo d.C., che potrebbe avere origini dal latino foris, «all’ester- no». La parola orto deriva dal latino hòrtum che significa «recinto, luogo chiuso». Il 7 ottobre 2009 si sono celebrati i cinquant’anni dall’istituzione della Riserva integrale naturale di Sasso Fratino. Per chi non è del mestiere, Sasso Fratino è la prima riserva integrale naturale italiana: fu istituita nel 1959 dall’allora Azienda di stato per le Foreste Demaniali; in quegli anni era l’unica Azienda di stato con un bilancio attivo grazie al taglio dei boschi. La Riserva di Sasso Fratino è anche la prima riser- va integrale istituita in Italia secondo la classificazione dell’Uicn (Unione internazionale per la conservazione del- la natura), che concepisce la protezione della natura nella sua totalità: specie vegetali e animali, rocce, suolo, acque, atmosfera locale. L’istituzione della riserva fu una grande novità nel campo della protezione ambientale. Fabio Clauser, che a quel tempo era l’amministratore delle Foreste casentinesi, per conto dell’Azienda di stato per le Foreste Demaniali, decise di escludere dal taglio degli alberi una superficie di appena cento ettari: le Foreste casentinesi occupano 41 ORTI DI PACE.indd 41 30-11-2010 10:53:23
  • 42. una porzione di 10.000 ettari del territorio dell’Appennino tosco-romagnolo all’interno della quale si trova la riser- va. Questa scelta di non tagliare fu definito un «intervento abusivo» (come cambiano i modi di pensare e di agire). Attualmente la Riserva integrale di Sasso Fratino occu- pa una superficie di 764 ettari. Istituire una riserva integrale significa delimitare una porzione di territorio all’interno della quale non sono svol- te le attività proprie dell’uomo, ad eccezione della ricerca scientifica. Non vi sono quindi interventi di alcun genere, non vi sono attività volte all’utilizzo delle risorse, non vi sono neppure interventi di sistemazione o di tutela dei ver- santi e delle pendici. È luogo comune pensare che le foreste siano l’emblema della naturalità: purtroppo, per molte foreste del mondo, non è più così da diverse centinaia di anni. Ma come ha fatto l’uomo a passare dalla foresta all’or- to? L’uomo ha potuto modificare i propri comportamenti di vita grazie al comportamento di alcune piante che sono alla base della sua alimentazione. La vita Sappiamo che l’ape, durante il suo vagare da un fiore all’altro per raccogliere il nettare, svolge anche l’importan- te, e insostituibile, compito di impollinare i fiori. Molto probabilmente è stato il fiore che nel suo percorso evoluti- vo ha inventato questo espediente per farsi impollinare. Possiamo dire che le piante sono una sintesi di raffina- tezza e di complessità, in grado di inventare strategie di sopravvivenza: la ricerca di queste modalità di permanen- za della specie è chiamata evoluzione. Troppo spesso ci dimentichiamo che le piante sono gli unici esseri viventi in grado di trasformare, con la parteci- 42 ORTI DI PACE.indd 42 30-11-2010 10:53:23
  • 43. pazione della luce solare, i sali minerali disciolti nell’acqua in zuccheri e amido. Questo processo chimico si chiama fotosintesi. I composti chimici sintetizzati dalle piante hanno la capacità di nutrire, di curare, di eccitare e di influenzare le nostre menti, ma in molti casi ancora oggi non conoscia- mo questi composti chimici o non siamo capaci di utiliz- zarli. È chiaro che le piante svolgono queste attività chimi- che per ragioni precise e cioè per difendersi (lo fanno sin- tetizzando tossine, veleni, sapori disgustosi) ma anche per l’effetto contrario, per attrarre. Attrarre chi? Ciò che caratterizza maggiormente le piante è l’immo- bilità, ma a pensarci bene questa affermazione non è pro- prio vera… Anche se certamente sono in balia dei predato- ri, le piante possono spostarsi. Vediamo come! Di fatto per spostarsi hanno escogitato diverse strate- gie: ci sono semi che hanno un uncino per agganciarsi alle pellicce degli animali e iniziare così il loro autotrasporto. In seguito, questi uncini sono stati imitati dall’uomo che ha inventato il velcro. Ci sono semi che hanno un rivestimento duro come le ghiande delle querce e vengono trasportati dai ghiri, dagli scoiattoli, dalle ghiandaie, dalle nocciolaie velocemente e anche per lunghe distanze da un territorio ad un altro. Poi, in tempi più recenti (in riferimento alla storia del- la Terra), un gruppo di piante della famiglia delle Grami- nacee pensò di utilizzare l’uomo come veicolo di traspor- to: si tratta dei semi commestibili come il mais, il grano, il riso. 43 ORTI DI PACE.indd 43 30-11-2010 10:53:23
  • 44. Appena l’uomo ha fatto questa scoperta non si è rispar- miato nelle sue azioni, ha iniziato ad abbattere le foreste per fare spazio a queste piante. Da 10.000 anni le Graminacee occupano la foresta. E siamo giunti ai giorni nostri: è sempre più difficile distinguere un giardino o un orto dalla natura incontami- nata, è difficile perché l’uomo ha invertito i ruoli; origina- riamente l’adattamento e l’evoluzione di una specie erano originati da una concatenazione di casualità, ora stiamo assistendo al fenomeno contrario: è l’uomo che forza e condiziona l’evoluzione delle specie. Ciò che caratterizza attualmente la storia della natura è la pratica della selezione artificiale, la manipolazione ge- netica che viene condotta a tutti i costi e che tra l’altro ha dei costi anche molto alti, in termini energetici e quindi economici. Non abbiamo più uno spazio incontaminato e vediamo la conseguenza delle nostre azioni in questi ulti- mi anni e in modo evidente ogni giorno che passa. Sono il manifestarsi di cicloni, sono l’aumento della temperatura, sono l’espandersi del buco dell’ozono. L’orto, luogo di «selvaggità» A questo punto si inserisce l’orto che è stato in tempi lontani luogo di sperimentazione e di selezione, ma oggi può essere luogo di «selvaggità»: è un’occasione (l’ultima?) perché l’uomo trovi il coraggio di ritornare nella rete della vita della Terra. Siamo convinti più che mai che la Natura non si tro- va solo «fuori = la foresta» ma è anche «dentro = l’orto». Nell’orto, ma anche nel giardino; dobbiamo essere capaci di percepire la Natura come la vediamo, come la percepia- mo negli spazi più selvaggi per antonomasia e cioè nella foresta. 44 ORTI DI PACE.indd 44 30-11-2010 10:53:23
  • 45. Solo allora potremo dire di aver compreso qual é il no- stro posto sulla Terra. L’orto è anche luogo di apprendimento in quanto è occasione di colloquio con l’ambiente esterno, in quanto coltivare significa anche sapere quanta acqua abbiamo di- sponibile, a che altitudine ci troviamo, qual’è la pedologia, in quale esposizione ci troviamo. Realizzare un orto significa imparare a integrarsi con i processi che regolano la vita dell’ambiente naturale, saper leggere questi vincoli significa comprendere l’importanza dell’origine delle molte specie vegetali che ci nutrono e poi degli animali selvatici che ci stanno attorno. Quasi sicuramente furono i Celti e, successivamente, i Romani a inserire le coltivazioni di ortaggi e di piante da frutto in mezzo all’immensa superficie coperta dalla fore- sta che fino a diversi secoli fa copriva l’intera Italia. Carlo Magno e il figlio Pio dettarono le regole per col- tivare l’orto. Poi i monaci, nel medioevo, fecero dell’orto il punto centrale della vita del chiostro: era previsto che una por- zione di terra fosse destinata alla coltivazione di ortaggi da usare in cucina, alla coltivazione di piante officinali, di erbe aromatiche e di fiori per l’altare. Sempre in questo periodo gli orti si trasferiscono den- tro le mura delle città o in prossimità di esse per poter nu- trire gli abitanti nei periodi di assedio. Gli Arabi, durante i loro assedi, diffusero ortaggi esotici come gli spinaci e le melanzane. Successivamente, nel rinascimento, furono seleziona- te varietà orticole come il finocchio, il sedano, il carciofo (con il ricettacolo carnoso e privo di spine del capolino). Ma la grande rivoluzione nell’orto arriva con il ritorno degli esploratori dalle Americhe, che portarono pomodori (originariamente dal colore oro), peperoni, zucche e pa- tate. All’inizio queste piante erano coltivate solo negli orti 45 ORTI DI PACE.indd 45 30-11-2010 10:53:23
  • 46. botanici, successivamente (dalla fine del XVII secolo circa fino all’inizio del XIX per il pomodoro) entrano negli orti per l’alimentazione della popolazione. E ancora diverse piante coltivate arrivarono nei nostri orti grazie ai pellegrini che andavano in terre lontane e alcune piante migrarono in terre lontane portate dai pel- legrini. Le piante che possiamo trovare nell’orto hanno dei progenitori selvatici, che costituiscono una ricchezza ine- stimabile perché conservano nel loro patrimonio genetico una potenzialità che non sarà più recuperabile, una volta persa. Conservare e tutelare queste piante selvatiche significa avere la possibilità di selezionare varietà orticole con ca- pacità di resistenza alle avversità climatiche, parassitolo- giche, pedologiche. Mettiamoci allora alla ricerca della pianta selvatica. L’orto è un luogo di biodiversità (esattamente l’oppo- sto della monocoltura): ben venga l’orto come luogo in cui si seminano e quindi si conservano i geni delle spe- cie di piante selvatiche che non sono soggette a brevetti. Adottare questo approccio significa assicurarci un futuro migliore. L’orto può essere una Sasso Fratino; recintata, purtroppo! 46 ORTI DI PACE.indd 46 30-11-2010 10:53:23
  • 47. UNA LUNGA STORIA DI SCUOLA, DI BAMBINI E DI ORTI di Nadia Nicoletti Maestra alla scuola primaria Insegno da molti anni, più di trenta, e ho insegnato sempre in Trentino, dove abito. Per alcuni anni ho inse- gnato in paesi della provincia, ma da circa vent’anni inse- gno in città, a Trento. La mia esperienza con gli orti didattici è partita pro- prio nelle scuole della città. La prima scuola era una scuola del centro, la «Raffael- lo Sanzio», poi la scuola del quartiere di Madonna Bianca e ora la scuola di Villazzano. La grande fortuna che ho avuto è stata quella di trovare, in tutte e tre le scuole, uno spazio predisposto per l’orto. È una cosa piuttosto rara che una scuola abbia uno spazio per questa attività e le scuole dove sono stata lo hanno tutte. Poi ho sempre trovato colleghi che hanno condiviso con me questa esperienza, e non è poco. In particolare la scuola dove insegno ora, quella di Vil- lazzano, ha uno spazio piuttosto grande adibito a questo scopo, dove ci sono tutte le attrezzature che servono per l’attività: rubinetto dell’acqua, cumulo di compostaggio, piccolo deposito per gli attrezzi dei bambini ecc. Dunque il mio approccio con l’attività di orto didattico è stato, sempre, con i bambini di città. Nel corso degli anni non ho notato differenze molto sostanziali fra i bambini, nel senso di più o meno ricettività. Ho notato sempre un grande entusiasmo verso questo tipo di esperienza, anche se è vero che ci sono bambini che si appassionano più di 47 ORTI DI PACE.indd 47 30-11-2010 10:53:23
  • 48. altri e poi vogliono continuare con questa attività anche a casa, coinvolgendo le famiglie e in particolare i nonni. Nel corso degli anni ho avuto un’utenza piuttosto va- ria, ma direi che non ho notato differenze significative. Spesso mi chiedono perché faccio l’orto a scuola. Esi- ste una forte motivazione di tipo pedagogico, ma devo dire subito che lo faccio soprattutto perché mi piace. Io sono convinta che sia un’attività che porta con sé moltissimi spunti, che dia modo di ampliare altre cono- scenze. Facendo un orto si possono avere moltissime rica- dute, un po’ in tutti gli ambiti disciplinari. Per fare un esempio, quando faccio un orto posso mi- surarlo, per dividerne gli spazi e questa è geometria che farò con i bambini più grandi. Ma posso osservare il ciclo di una pianta dalla semina al raccolto dei frutti e questo è un contenuto scientifico. Poi, se voglio posso scrivere e raccontare le varie esperienze, tenere un giornalino e que- sto rientra nella linguistica. Ma posso fare molto altro. Diciamo che è una bellissima attività di tipo trasversale. Questo non è poco, se pensiamo che spesso, per far amare le attività ai bambini, noi insegnanti dobbiamo lavorare molto con la fantasia. Personalmente sono convinta che nella scuola elemen- tare i bambini abbiano bisogno anche di imparare a «sa- per fare», proprio come competenza. Troppo spesso nella scuola si propongono attività sle- gate dall’esperienza diretta, che i bambini difficilmente rie- scono ad amare. L’orto è una delle attività che in genere piacciono, forse perché è legata alla terra e conseguentemente al cibo che mangiamo. I miei bambini hanno sempre avuto una gran- de simpatia per queste attività. Io sono nata in un paese del Trentino, a Vigolo Vattaro, nel 1957. In quegli anni le famiglie contadine, qui in paese, erano ancora molte. Non come adesso. 48 ORTI DI PACE.indd 48 30-11-2010 10:53:23