I testi del libro ORTI DI PACE - Il lavoro della terra come via educativa, uscito per le edizioni EMI di Bologna.
Per ulteriori informazioni sulla rete Orti di Pace, consultare il sito http://www.ortidipace.org
3. A cura di Gianfranco Zavalloni
ORTI DI PACE
Il lavoro della terra
come via educativa
EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA
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5. INDICE
Presentazione ..................................................... Pag. 7
A scuola dai contadini di Gianfranco Zavalloni » 11
L’orto scolastico come giardino del nostro
tempo di Pia Pera ......................................... » 35
L’orto tra la foresta e la vigna: ri/coltivare il
selvaggio per la vita di Daniele Zavalloni .... » 41
Una lunga storia di scuola, di bambini e di orti
di Nadia Nicoletti ......................................... » 47
Il giardino come spazio di apprendimento
all’aperto di Alberto Rabitti .......................... » 57
Obbedire alla paura? di Andrea Magnolini ...... » 65
L’Orto in Condotta: l’esperienza di Slow Food
di Annalisa D’Onorio ................................... » 75
L’omaggio di Tonino Guerra: il manifesto
dell’orto di Gigi Mattei Gentili ..................... » 81
Suggerimenti per un piccolo orto biologico
a scuola ........................................................ » 83
Orti in rete. Siti internet dedicati a orti,
giardini e dintorni a cura di Chiara Spadaro » 103
Gli autori ............................................................ » 109
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7. PRESENTAZIONE
Un tempo sono esistiti gli orti di guerra. Ora è giunto
il momento di coltivare orti solo come esperienza di pace.
In tante parti della terra ci sono persone che in pace colti-
vano la terra. Abbiamo chiamato questo progetto e questa
rete Orti di Pace: una libera associazione, un movimento
di persone libere, che hanno a cuore orti e giardini di in-
teresse pubblico.
La Rete Orti di Pace offre la possibilità di condividere
le conoscenze sulla creazione di orti-giardini e gli sforzi
per promuovere questa attività. È rivolta a tutti coloro che
desiderano interessarsi alla cura di un orto.
Siamo partiti dagli orti didattici: un’iniziativa nata per
stimolare la consapevolezza ecologica. Gli orti degli sco-
lari sono un modo spontaneo, nella più completa libertà
interiore, per fare più che per discettare, prendendo come
maestra la stessa natura. Nell’orto scolastico gli studenti
uniscono «teoria e pratica», cioè il pensare e il ragionare
con il progettare e il fare. In un orto impariamo i modi,
i momenti adatti per seminare. Gli orti e giardini nelle
scuole contribuiscono a trasformare la scuola in qualcosa
di vivo di cui prenderci cura. In questi anni, usando una
sola frase, possiamo dire: abbiamo lanciato i semi.
Poi abbiamo riproposto la semplice esperienza degli
orti, ma anche quella dei giardini: in definitiva orti come
cuore dei giardini.
Le cose che vogliamo e possiamo fare sono tante: orti
e giardini didattici nelle scuole, orti terapeutici dove colti-
vare la pace interiore, orti per chiunque desideri coltivare
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8. fiori e ortaggi in uno spazio pubblico pur non possedendo
terra.
L’orto e il giardino in senso lato, quindi, come un luogo
ideale per intrecciare tutta una serie di scambi con la na-
tura, l’ambiente e la comunità.
Come far sì che si possano creare orti e giardini? Con-
tiamo sull’esperienza di chi lo ha fatto da sempre: i conta-
dini, gli agricoltori, gli ortolani. Ma vogliamo continuare
a coinvolgere insegnanti, dirigenti scolastici, giardinieri e
paesaggisti capaci di dare una mano nella progettazione di
un orto-giardino dove muovere i primi passi, emanciparsi
dall’analfabetismo di chi non sa nulla di come cresce il
cibo di cui ci nutriamo.
Se poi orti e giardini saranno pure «ecologici», tanto
meglio. Magari ispirati alla permacoltura, all’agricoltura
sinergica, a quella biologica o biodinamica; in una parola,
a qualsiasi forma di agricoltura che non danneggi il suolo,
ma contribuisca anzi a svilupparne la fertilità.
Impareremo a coltivare il cibo, a conoscere i cicli del-
le piante e delle stagioni, a vivere senza produrre rifiuti;
l’orto si troverà dentro un giardino che farà da fascia di
protezione, ma sarà concepito anche come luogo di bel-
lezza, un’esperienza adatta a sviluppare il senso del bello,
dell’armonia, della pace.
Quando coltiviamo un orto impariamo anche a rallen-
tare: è quindi sempre un’esperienza che ci educa. Quando
seminiamo e coltiviamo frutta e ortaggi mettiamo a frut-
to le abilità manuali, le conoscenze scientifiche, lo svilup-
po del pensiero logico-interdipendente. I tempi dell’orto
ci educano all’attesa, alla pazienza di veder germinare il
seme, maturare la pianta, produrre il frutto, riprodurre
semi fertili. Ci piace pensare a orti dove sono coinvolti i
bambini su cui vegliamo noi grandi (magari le nonne o i
nonni) e insieme ci prendiamo cura delle piante. Insieme
poi raccogliamo i frutti e i semi.
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9. Lavorare con la terra aiuta i bambini, i ragazzi e noi
adulti a riflettere sulle storie familiari, sulla vita delle co-
munità locali. Nella maggior parte delle famiglie c’è sicu-
ramente un papà, un nonno o un bisnonno che ha o che ha
avuto a che fare con la coltivazione della terra.
L’orto è un’esperienza di incontro fra popoli di tradi-
zioni e culture diverse. Popoli dell’Est Europa, popoli che
si affacciano sul Mediterraneo, popoli del Sud e dell’Ovest
del mondo: facciamo tutti parte di mondi ricchi di fami-
glie che lavorano la terra. Coltivare un orto può diventare
oggi un’eccellente esperienza di educazione alla multicul-
turalità.
Quando coltiviamo un orto entriamo a far parte di un
modello economico basato sulla «stabilità» e non sulla
crescita infinita o sulla rapina delle risorse finite. Consu-
miamo ciò che la natura ci offre in maniera ciclica.
Coltivare un orto è una piccola azione di pace, che ci
educa a immaginare una società che non sia solo per noi,
ma che duri nel tempo.
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11. A SCUOLA DAI CONTADINI
di Gianfranco Zavalloni
Una poesia scritta alcuni anni fa, in lingua romagnola,
dall’amico Fabio Molari (poeta, maestro di scuola prima-
ria e ora sindaco del più piccolo comune dell’Emilia-Ro-
magna) così recitava:
FURMAI FORMAGGIO
Blà… blà... blà... Bla... bla... bla...
tè t’scorr, t’scorr, t’scorr... tu parli, parli, parli...
te fat al scoli grandi hai fatto le scuole grandi
t’ lavour se compiuter lavori col computer
t’se ben l’ingloes conosci bene l’inglese
t’ ci stae in America... sei stato in America...
Mo t’ci bon ad fae un furmai!? Ma sei capace di fare
un formaggio!?
Ecco il senso del libro che andiamo ad aprire con que-
sta pagina: la scuola dovrebbe avere un rapporto stretto
con la terra. La terra è una grande maestra. Ci insegna ad
avere pazienza, a rispettare ritmi naturali. È poesia, arte,
scienza.
La terra ci obbliga a confrontarci con gli altri. È biodi-
versità ecologica, culturale e sociale. E quando penso alla
scuola penso al grande insegnamento dei contadini, senza
i quali non esisteremmo. Coltivare la terra è il mestiere più
importante per l’umanità, eppure è stato considerato da
sempre il più infimo.
Ancor oggi vengono usate parole che nel gergo comune
vogliono dire disprezzo, inferiorità, ignoranza. Pensiamo
a termini come contadino, villano, paesano, montanaro, bi-
folco.
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12. È un problema di carattere storico-culturale dell’intero
pianeta. In Brasile, ad esempio, si usano parole che poi
sono entrate nel linguaggio comune come termini dispre-
giativi: caipira, jeca, botavermelha. In italiano vogliono dire
«campagnolo», «ritardato», «stivali rossi» alludendo al fat-
to che un contadino ha sempre le scarpe sporche di terra
(in Brasile prevalentemente rossa). Jecatutù nel linguaggio
comune oggi significa una persona che arriva in città dalla
campagna e non può fare nulla.
Nella mia esperienza da dirigente scolastico, quando
entro in una classe – magari di campagna – e chiedo a tutti
gli studenti che sono «figli di contadini» di alzare la mano,
conto generalmente pochissime mani alzate. Dopo aver
spiegato loro la fondamentale importanza del mondo agri-
colo e della grande opportunità che hanno avuto nell’es-
sere figli di contadini (come lo sono io), ecco che le mani
alzate crescono. Fra gli argomenti a favore di ciò metto
in evidenza le innumerevoli opportunità che loro hanno
e che chi vive in città non ha. C’è anche chi all’ultimo mi-
nuto si aggiunge con la mano alzata dicendo di avere il
nonno o lo zio contadino. In sintesi: ci si vergogna di esse-
re figli di contadini, di venire dalla terra. Essere contadini
equivale – nel comune modo di pensare – ad essere igno-
ranti, a un lavoro squalificante, a una posizione sociale di
basso livello. Alcuni anni fa, ai primi di settembre, durante
un incontro fra dirigenti scolastici, un collega, parlando di
docenti della scuola secondaria, usò l’espressione «braccia
rubate all’agricoltura». Profondamente indignato da que-
sta espressione manifestai ad alta voce il mio totale dissen-
so… spiegando che questo pregiudizio siamo noi operato-
ri del mondo della scuola a perpetuarlo. A ben riflettere il
mestiere dei campi, dell’agricoltore, del coltivatore, è uno
dei mestieri più difficili al mondo, che richiede grandi abi-
lità, esperienze e competenze multiple. E la scuola può e
dovrebbe imparare dal mondo degli agricoltori.
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13. Per il diritto alla contadinanza
Da anni è pratica usare il concetto di «cittadinanza at-
tiva». È tempo che iniziamo a usare anche quello di «con-
tadinanza attiva». Dal Vocabolario della lingua italiana di
Devoto-Oli leggo la definizione del sostantivo femminile
cittadinanza: «Vincolo di appartenenza a uno stato, richie-
sto e documentato per il godimento di diritti e l’assogget-
tamento a particolari oneri». A livello culturale, a partire
dalla Rivoluzione francese, la parola cittadino è diventata
sinonimo di «persona con pari e pieni diritti». Cittadinan-
za attiva è oggi sinonimo di un coinvolgimento nella vita
della propria comunità di appartenenza, assumendo in
questa un ruolo di responsabilità e facendo scelte di con-
divisione.
Nel vocabolario non esiste invece il termine contadi-
nanza e quindi nessuno ha mai parlato di «contadinanza
attiva». Esiste chiaramente il sostantivo maschile contadi-
no, che sta per «chi lavora la terra, specificatamente per
conto di un padrone. In termini spregiativi: persona rozza
e goffa». Dobbiamo rovesciare questo clima culturale che,
ancora oggi, è presente nel mondo scolastico. Essere abi-
tanti o lavoratori della terra non è qualcosa di spregevo-
le. Siamo tutti «contadini di questa terra» e abbiamo tutti
«diritto alla contadinanza». Un vero capolavoro letterario,
in questo senso, è sicuramente la pagina che i ragazzi della
Scuola di Barbiana dedicano, in Lettera a una professores-
sa, alla «cultura contadina».
Sui monti non ci possiamo stare. Nei campi siamo troppi.
Tutti gli economisti sono d’accordo su questo punto. E se
anche non fossero? Si metta nei panni dei nostri genitori.
Lei non permetterebbe che suo figlio restasse tagliato fuori.
Dunque ci dovete accogliere. Ma non come cittadini di se-
conda buoni solo per manovale. Ogni popolo ha la sua cul-
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14. tura e nessun popolo ce n’ha meno di un altro. La nostra è
un dono che vi portiamo. Un po’ di vita nell’arido dei vostri
libri scritti da gente che ha letto solo libri. Se si sfoglia un
sussidiario è tutto piante, animali, stagioni. Sembra che pos-
sa scriverlo soltanto un contadino. Invece gli autori escono
dalla vostra scuola. Basta guardare le figure: contadini man-
cini, vanghe tonde, zappe a uncinetto, fabbri con gli arnesi
dei Romani, ciliegi con le foglie di susini. La mia maestra di
prima elementare mi disse: – Monta su quell’albero e cogli-
mi due ciliegie –. Quando lo seppe la mia mamma disse: – O
chi le ha dato la patente?–. Avete dato l’abilitazione a lei e la
negate a me che d’albero non gliel’ho mai dato a nessuno in
vita mia. Li conosco per nome uno a uno. Conosco anche i
sormenti. Li ho potati, li ho raccolti, ci ho cotto il pane. Lei
su un compito m’ha segnato sormenti come errore. Sostiene
che si dice sarmenti perché lo dicevano i latini. Poi di nasco-
sto va a cercare sul vocabolario cosa sono.
Anche sugli uomini ne sapete meno di noi. L’ascensore è una
macchina per ignorare i coinquilini. L’automobile per igno-
rare la gente che va in tram. Il telefono per non vedere in fac-
cia e non entrare in casa. Forse lei no, ma i suoi ragazzi che
sanno Cicerone di quanti vivi conoscono la famiglia da vici-
no? Di quanti sono entrati in cucina? A quanti hanno fatto
nottata? Di quanti hanno portato in spalla i morti? Su quanti
possono far conto in caso di bisogno? Se non ci fosse stata
l’alluvione non saprebbero ancora quanti sono nella famiglia
al piano terreno. Io con quei compagni sono stato a scuola
un anno e della loro casa non so nulla. Eppure non si cheta-
no mai. Spesso sovrappongono le voci e seguitano a parlare
come se niente fosse. Tanto ognuno ascolta solo sé stesso. A
lei le rombano sotto le finestre mille motori al giorno. Non sa
chi sono né dove vanno. Io so leggere i suoni di questa valle
per chilometri intorno. Questo motore lontano è Nevio, che
va alla stazione un po’ in ritardo. Vuole che le dica tutto su
centinaia di creature, decine di famiglie, parentele, legami?
Lei se parla con un operaio sbaglia tutto: le parole, il tono,
gli scherzi. Io so cosa pensa un montanaro quando sta zitto
e so la cosa che pensa mentre ne dice un’altra.
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15. Questa è la cultura che avrebbero voluto avere i poeti che lei
ama. Nove decimi del mondo l’hanno e nessuno è riuscito a
scriverla, dipingerla, filmarla. Siate umili almeno. La vostra
cultura ha lacune grandi come le nostre. Forse più grandi.
Certo più dannose per un maestro elementare» (Lettera a
una professoressa, Lef, Firenze).
Fare un orto a scuola vuol dire andare in controtenden-
za rispetto a tutto questo. Vuol dire imparare che il cibo è
la più importante risorsa dell’umanità e saperla produrre
da soli è un gesto di grande valore. E l’orto lo possono
fare tutti, non ha bisogno di grandi risorse economiche.
L’orto può essere l’aggancio per un sacco di attività didat-
tiche, per sviluppare tanti aspetti delle discipline classiche
della scuola: la letteratura, la storia, la geografia, l’arte, la
matematica, la scienza, la religione, le lingue straniere e
persino la musica. Ed essendo anche uno strumento che
avvicina le diverse culture, possiamo a ragione definirlo
«orto di pace». Quindi per me è scontato parlare sia di
«orti di pace» che di «diritto alla contadinanza» o di «con-
tadinanza attiva». Mi rendo conto che queste sono ormai
considerazioni che do per acquisite in maniera scontata,
forse proprio perché in questo mondo ci sono cresciuto e
ci vivo da sempre. Su questo argomento, credo, infine, che
sia giunto il tempo di cominciare a pensare alla «contadi-
nanza onoraria». Un titolo da assegnare a chi si impegna
in difesa della campagna, della montagna e di tutte le at-
tività legate alla terra. Un gesto, una forma di riconosci-
mento simbolico per chi si impegna concretamente e vede
nella terra la vera fonte della vita.
Perché senza i frutti della terra l’umanità non potrebbe
esistere.
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16. Un itinerario personale: iniziare da piccoli
Non so quale possa essere stata la vita di un bambino,
mio coetaneo, di città. Un bambino di città nasce, vive e
cresce in un appartamento. Il significato – fra l’altro – di
appartamento è proprio quello di «appartarsi», «isolarsi».
Credo che in città, fino a qualche decina di anni fa, abbiano
giocato un ruolo predominante la strada, il marciapiede,
la piazza, i portici, i giardini. La mia è stata invece la vita
di un bambino di campagna. Ho vissuto la maggior par-
te della mia vita in campagna. Solo in questi ultimi anni,
per lavoro, mi sono trasferito a Belo Horizonte, in Brasile,
e vivo al quindicesimo piano di un grattacielo. Con mia
moglie Stefania abbiamo lo stesso rinverdito con fiori, ver-
dure, piante officinale e da frutto, il grande terrazzo che
si affaccia sul centro della città. E comunque posso vera-
mente dire che sono nato in campagna: ora si va a nascere
all’ospedale. Allora veniva la levatrice e le donne vicine di
casa facevano da infermiere. Così è successo quando ho
visto nascere, sempre a casa dei miei genitori, anche mio
fratello Raffaele. Non sono esperienze da poco. È soprat-
tutto un buon inizio. E prima di noi ci sono stati i nostri
genitori, e prima dei nostri genitori c’erano i nonni... e così
via. Una catena, o meglio, un «ciclo».
Devo ammetterlo: ho trascorso un’infanzia felice. Pas-
sata soprattutto attorno alla mia casa. Ho giocato fin da
piccolo con la terra e l’acqua. Non è di tutti i bambini po-
tersi sporcare in mezzo ai canaletti d’acqua che portano da
bere, in luglio, ai peschi o ai fagiolini rampicanti. O avere
un «bancone» con gli attrezzi da falegname con cui potersi
costruire i giocattoli di legno. È così che questi attrezzi,
questi strumenti dei grandi, si trasformano – per noi bam-
bini – in macchine miracolose che trasformano la nostra
vita. Ci è stata in sostanza offerta la possibilità di farci da
soli i nostri giochi, di gestirci il nostro tempo. Forse è pro-
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17. prio per questo che ho voluto attrezzare la sezione della
scuola materna in cui ho lavorato per sedici anni con un
banco da falegname «vero», con seghe, chiodi, martelli,
raspe, pialle «veri».
Non so quanti di noi abbiano provato l’esperienza di
andare per i campi, sotto enormi meleti, durante una nevi-
cata invernale o scorrazzare per la campagna con gli amici
dopo un furibondo acquazzone, che trasforma tutti i cam-
pi in un’enorme palude. Per noi, bambini di campagna,
le strade, le piazze, i giardini, i portici, sono stati i campi
coltivati e le aree incolte, i fossi, i filari d’uva, il fiume, il ca-
nale. Non passava giorno in cui non si inventasse una nuo-
va avventura. Il luogo ideale in cui rifugiarsi era e capanín
(il capannino), costruito con legni, bastoni e juta. C’è un
rapporto quotidiano, in questo stile di vita, con la terra,
l’erba, l’acqua, i sassi, i frutti, gli animali della casa. È un
rapporto carico di odori e di sapori. Ogni volta che sento
gli odori e i sapori di queste esperienze, la memoria mi ri-
porta a quegli anni. Sono gli odori, i sapori e i suoni di cui
era carico il momento in cui, in estate, dopo il tramonto,
si tornava a casa dai campi e ci si lavava il collo, la faccia
e i piedi, con l’acqua scaldata nelle bacinelle messe al sole
nell’aia. Allora non c’erano i pannelli solari, ma funziona-
va lo stesso. Sono i sapori che emana la pelle frizionata
dall’acqua e dal pezzo di sapone da bucato che si usava per
questo vero e proprio rito. E poi il canto notturno dei grilli
che pian piano sopravanza su quello giornaliero delle ci-
cale e delle upupe, mentre le rondini in concerto cacciano
gli insetti che nella sera sono attratti dal calore dei muri,
accumulato durante il giorno. E il passaggio dal giorno
alla notte era determinato dalla scomparsa delle rondini e
dall’arrivo dei pipistrelli.
Sono solo frammenti di un mondo che quotidianamen-
te, nella sua apparente immobilità (agli occhi del cittadi-
no), vive una miriade di esperienze. Ho visto mio padre
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18. (con l’aiuto di mia madre e dei miei zii) costruirsi da solo
intere serre, smontare e rimontare la zappatrice, tirar su un
enorme capannone, costruire per impianto di riscaldamen-
to una stufa che potesse bruciare segatura, trucioli, semi di
pesco e fascine di legna. E insieme ai vicini ho visto i miei
genitori ripulire il canale pieno di «malta» per permettere
a tutti i contadini della zona di irrigare i campi.
Non è retorica dire che fra la gente di campagna c’era
(e forse ancora oggi in parte c’è) solidarietà, mutuo appog-
gio. Forse è la stessa struttura della famiglia che predispo-
ne a questo, oppure la struttura del podere o della casa.
In casa, il camino della cucina non è qualcosa di cui far
mostra: è il punto centrale, insieme alla stufa (la cucina
economica). Nel camino si possono far la piadina, cuo-
cere le castagne o fare grigliate usando sempre le fascine
fatte dei residui delle potature degli alberi da frutta. Con
la cucina economica si scalda l’ambiente, ma si può anche
cuocere sulla piastra e nel forno, si possono tenere al cal-
do le scarpe o i calzetti, si riscalda l’acqua ma si possono
anche asciugare i panni, si prende il carbone per lo scalda-
letto e si usa la cenere come concime. Quando si mangia,
niente finisce nella spazzatura. Gli avanzi dei piatti (bucce,
ossa...) finiscono nella scodella del cane o dei gatti, oppu-
re nel letame insieme ai residui solidi degli animali (polli,
conigli, maiali, pecore, mucche...). Gli scoli dei lavandini o
dei bagni confluiscono (insieme ai liquami degli animali)
nella fossa biologica. Dal letame e dalla fossa biologica ne
uscirà fuori l’humus per l’anno dopo.
Nel momento in cui mi sono posto scientificamente, e
non solo emotivamente, di fronte a queste tematiche, ho
scoperto a quali leggi sottostà la vita della campagna, dei
contadini e dell’agricoltura. La caratteristica principale che
balza immediatamente agli occhi, nella vita e nel lavoro di
campagna, è la «ciclicità». Ogni tipo di lavorazione, ogni
processo di coltivazione ha un inizio legato a una fine, e
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19. una fine che si congiunge con un nuovo inizio. E tutto que-
sto con un rendimento energetico massimo e dal minimo
spreco. Anzi, direi col recupero, o meglio il «riciclo», di ciò
che in apparenza è considerato «scarto». Non esiste infatti
in campagna il concetto di «rifiuto», che si parli dei «vec-
chi» della famiglia, o che si parli della «merda» dell’uomo
e/o degli animali. Ogni cosa, ogni essere ha in sé un valore
– al di là del fatto che si possa vendere o meno – per quello
che è stato, per quello che è e per quello che sarà.
Dal mondo contadino ai contadini del mondo
Dalla terra madre alla scuola materna
Un momento importante della mia esperienza con la
terra è stata la mia permanenza di cinque mesi sulle Ande
del Perù. Avevo ventiquattro anni. L’occasione me l’ha data
una famiglia di amici che in quel periodo lavorava in un
progetto di volontariato internazionale, con una Ong ita-
liana, nei pressi del lago Titicaca, al confine con la Bolivia.
La scusa: raccogliere i materiali per la mia tesi di laurea in
Pianificazione territoriale presso la Facoltà di Economia e
commercio. L’idea, progettata con il mio professore Carlo
Doglio, era quella di confrontare le tecnologie (cioè tut-
te quelle soluzioni ai bisogni fondamentali dell’uomo) del
mondo contadino romagnolo con quello andino. Incontri
quotidiani con chi lavora la terra, vivere di poche risorse,
cercare le strategie più efficaci per conservare cibo là dove
energia elettrica e quindi frigoriferi non erano ancora arri-
vati. È lì che ho capito come esista un filo comune che uni-
sce tutti i contadini della terra: quello che oggi, a trent’an-
ni di distanza, è ben espresso dal lavoro di Carlo Petrini
e dall’idea di Terra Madre. I contadini indigeni quechua
della Cordigliera andina la chiamano Pacha Mama. E «ter-
ra madre» ha qualcosa in comune con «scuola materna»,
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20. la scuola dove ho lavorato per sedici anni. Sono entrato di
ruolo nel settembre del 1980 e già quell’anno cercai di se-
minare qualche ortaggio sotto un pergolato d’uva dell’orto
abbandonato, di fianco al cortile della scuola. Ma l’orto
vero e proprio, con i bambini, l’ho realizzato per alcuni
anni, dal 1988, nella scuola di Sorrivoli, un piccolo pae-
se di collina che fa parte del comune di Roncofreddo, in
provincia di Forlì-Cesena, dove poi sono anche andato a
vivere. Quella esperienza ha permesso una ricucitura fra le
mie origini familiari e il lavoro che avevo intrapreso come
professione. Essere figlio di orticoltori, di contadini, prima
ancora che maestro, e aver vissuto la quasi totalità della
mia vita in campagna mi aveva (senza che io me ne accor-
gessi) letteralmente formato, lasciando in me tracce pro-
fonde. Posso dire di aver maturato, fin dalla mia infanzia,
un modello di pedagogia contadina, cioè quella di «lavo-
rare sul campo». La mia provenienza e le mie origini con-
tadine si sono allora sposate con la mia pratica di lavoro
quotidiano con bambini dai tre ai sei anni. In quella prima
esperienza ho capito quanto valore poteva avere questo
tipo di proposta didattica, che, di fatto, era anche parte del
mio vissuto e del mio ambiente di vita. I disegni dell’amico
Vittorio Belli che usiamo per commentare questo libro nel
capitolo Suggerimenti per un piccolo orto biologico a scuola
(pag. 83) sono tratti da foto di quell’esperienza.
Eravamo a metà degli anni Ottanta, in un periodo in cui
non si usava ancora l’espressione «campi di esperienza» e
i Nuovi orientamenti della scuola d’infanzia sembravano
una meta lontana. In quegli anni pochi si azzardavano a
proporre in maniera forte il tema dell’ecologia e dell’edu-
cazione all’ambiente. Negli organi dirigenti della scuola e
fra i colleghi c’era un certo scetticismo. Noi eravamo fra
quelli che azzardavano in maniera puntigliosa e cercavano
di esplorare – pur con grande fatica – sentieri nuovi. C’era
in noi la consapevolezza e la prospettiva di tipo ecologico
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21. per cui la scuola è veramente tale solo se riconosce i propri
limiti intrinseci e per questo apre all’esterno, all’ambiente
a cui è riferita e di cui è parte. Apertura all’ambiente in un
duplice significato:
1. Ambiente naturale negli aspetti «selvaggi» e/o «colti-
vati», modificati dall’uomo.
2. Ambiente sociale, cioè la gente che qui è vissuta, vive
in comunità, e si relaziona reciprocamente accogliendo
chi viene da fuori.
Quindi ambiente naturale e ambiente sociale: in una
unica accezione, territorio. Tutto questo è avvenuto a
Sorrivoli, un piccolo borgo di origine romana sviluppa-
tosi in epoca medioevale. Un antico castello malatestiano
domina dall’alto il paese e le vallate circostanti. Geografi-
camente è posto sulle prime colline romagnole, a ridosso
della Via Emilia con un’ampia veduta su tutta la riviera. Il
nome, Sorrivoli, fa istintivamente pensare all’espressione
«sui rivoli», a conferma del fatto che dai pendii della zona
partono tantissimi fossi o rivoli. Questo è dovuto soprat-
tutto alla ricca vegetazione che ancora esiste e permette
così il trattenimento di masse di acqua che sono restituite
lentamente nel corso dell’anno, riversandosi in questi ri-
voli. Qualcuno invece pensa a Sorrivoli come «sorridoli»,
cioè un nome che ricorda l’importanza del ridere. L’atti-
vità prevalente della zona è l’agricoltura, la coltivazione
dell’uva. Tanti sono i boschi. La «scuola materna statale»
era – insieme alla parrocchia – l’unica istituzione sociale
(e in questo caso pubblica) presente sul territorio. Le fami-
glie sono sparse su un ampio territorio e spesso abitano in
località isolate. In questo contesto noi insegnanti abbiamo
sempre operato per far sì che la scuola offrisse innume-
revoli occasioni di contatto con l’esterno, prima di tutto
con le famiglie di contadini da cui provenivano i bambini
e le bambine della scuola. Un solo ricordo emblematico
di quegli anni. Uno dei bambini che frequentava la scuo-
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22. la, uno dei più entusiasti – oggi trentenne – ha ereditato
dai genitori la terra e ha trasformato il suo podere in una
«fattoria didattica», una vera e propria «aula di ecologia
all’aperto». La madre mi diceva preoccupata, alcuni anni
fa: «È andato alle superiori, ma vuole fare il contadino!».
E io, invece di condividere le sue preoccupazioni, le sugge-
rii di condividere quella scelta. Oggi quel bimbo, di nome
Werther, è una persona felice e appagata.
Le motivazioni pedagogiche e storiche
degli orti nelle scuole
Alcuni anni fa mi è capitato, quando dirigevo tre scuo-
le medie, che un ragazzino di terza, nel periodo in cui
si sceglie in quale scuola superiore proseguire gli studi,
sia venuto nel mio ufficio e mi abbia chiesto: «Preside, io
da grande voglio fare il giardiniere: a quale scuola devo
iscrivermi?». Ecco una triste constatazione: non esistono
oggi, praticamente, in Italia, quella che era l’orto-giardino
d’Europa, «scuole per diventare contadini». Luoghi cioè
in cui si insegna l’italiano, la storia e la cultura italiana e
nel contempo si impara a coltivare un frutteto, un orto, a
condurre un’azienda agricola. Esistono corsi professiona-
li, ma non è una vera e propria scuola. Esistono gli istituti
tecnici agrari… ma questi preparano tecnici, non coloro
che mettono le mani nella terra.
Eppure lo abbiamo constatato in questi anni: per i ra-
gazzi è importantissimo fare esperienze pratiche e non
solo teoriche: uscire dall’aula e «fare» concretamente, in
maniera pratica. Qualsiasi esperienza si faccia a scuola
con gli studenti è legata a tutte le altre. Noi possiamo spez-
zare anche in 30, 40, 50 tessere il mosaico della scuola, la
settimana, il mese, l’anno, però dobbiamo ricordarci che
tutto è collegato. È un po’ come la legge che ci dice che in
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23. natura tutto è collegato! Lo stesso avviene nell’educazione:
non c’è nell’educazione qualcosa che non sia collegata a
un’altra.
Ma proviamo a contestualizzare la realtà scolastica ita-
liana. Oggi la scuola è sempre più scuola di città. C’è sta-
to in questi ultimi vent’anni un processo di chiusura delle
scuole nelle realtà periferiche, nelle campagne, nelle mon-
tagne e colline. Il cosiddetto processo di razionalizzazione
ha portato all’urbanizzazione della scuola. È un processo
che è stato ancor più eclatante negli anni Cinquanta quan-
do dalla campagna, dalla montagna, la gente se n’è anda-
ta. In Romagna, ad esempio, abbiamo avuto il boom nella
riviera e tutte le nostre colline si sono spopolate: comuni
come quello di Sogliano, dove ho lavorato per tanti anni
come maestro e dove oggi sono titolare come dirigente sco-
lastico, è passato nell’arco di pochi anni da 10.000 a circa
2.500 abitanti. È un processo di impoverimento di realtà
che sono state per centinaia di anni la struttura dell’Italia.
Pedagogicamente parlando, ora ci sono bambini che pro-
vengono da quelle realtà ma non le conoscono. Il contesto
in cui il mondo scolastico si trova a operare è un contesto
urbano, dove i bambini vivono sempre meno l’esperienza
di contatto non solo con l’ambiente naturale ma anche con
il mondo della produzione da cui vengono il pane, il cibo
e tutto ciò di cui ogni giorno abbiamo bisogno. Nelle no-
stre scuole, inoltre, perdiamo quotidianamente occasioni
per creare questo legame. Due falsi miti imperano: l’igiene
e il risparmio. Nelle scuole sta venendo meno l’esperien-
za della mensa e della cucina. E là dove ancora esiste la
mensa, la tendenza è quella del cibo già precotto. E poi
si centralizzano i luoghi preposti alla cottura dei cibi. Il
pasto è così trasportato a scuola e consumato in vaschette
di plastica o di alluminio. Un’operazione ecologicamente
molto poco corretta, visto che si producono grandi quanti-
tà di rifiuti e nello stesso tempo diseduchiamo gli studenti
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24. all’apprendere la provenienza del cibo quotidiano. Questo
spesso accade anche in famiglia: è tanto il cibo che com-
priamo e tanto poco quello che prepariamo nella cucina di
casa. Il mito è quello di «non perdere tempo». Ecco dove si
inserisce la nostra proposta: oggi che tutto è di fretta, col-
tivare un orto a scuola significa imparare a «rallentare». È
un’esperienza estremamente educativa. Seminare e colti-
vare frutta e ortaggi sono attività che mettono a frutto le
abilità manuali, le conoscenze scientifiche, lo sviluppo del
pensiero logico-interdipendente. Ma significa soprattutto
attenzione ai tempi dell’attesa, pazienza, maturazione di
capacità previsionali. Lavorare con la terra aiuta i ragazzi
a riflettere sulle proprie storie locali e familiari. La mag-
gior parte degli studenti italiani ha sicuramente un papà,
un nonno o un bisnonno che ha o che ha avuto a che fare
con la coltivazione della terra. Nell’orto i ragazzi uniscono
«teoria e pratica», cioè il pensare, il ragionare con il pro-
gettare e il fare. In un orto s’imparano i modi e i momenti
adatti per seminare. Prima di far questo si deve preparare
e concimare il terreno. È necessario poi seguire con cura
i prodotti, attendendo ai bisogni d’acqua e al controllo dei
parassiti. Si possono conoscere, infine, le combinazioni e
le rotazioni giuste fra le varie piante. Lo ripeto: il mestiere
dei campi, quello dell’agricoltore, del coltivatore, è uno dei
mestieri più difficili al mondo, che richiede grandi abilità,
esperienze e competenze multiple. Ed è anche per questo
un mestiere «maestro», che può insegnare.
Da esperienza singola alla rete di scuole
con un orto nel cortile
Nel 2000, come dirigente scolastico, lavorando nelle
scuole delle Marche, ho partecipato, con l’istituto che di-
rigevo, al progetto promosso dall’assessorato all’Agricoltu-
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25. ra della regione: «Un orto biologico a scuola». La regione
Marche iniziò da quell’anno a finanziare la nascita degli
orti nelle scuole: fu un successo. È nata così spontanea-
mente una realtà di un centinaio di scuole che dedicava-
no parte del loro tempo scolastico ai lavori dei campi. Ho
cercato di capire, da quel momento, cosa si faceva nelle
altre regioni d’Italia e nel mondo. E poiché dell’esperienza
di «orto biologico a scuola» ne avevo parlato nel mio libro
La scuola ecologica, ogni tanto venivo contattato da scuole
che avevano messo in campo questa esperienza didattica.
Senza volerlo e senza saperlo sono diventato in Italia un
punto di riferimento. Visto che da un po’ di anni rivesto la
funzione di dirigente scolastico, spesso i docenti che vo-
gliono fare un orto a scuola mi cercano per avere un soste-
gno nei confronti dei genitori, dei colleghi o dei superiori.
Sono stato in questi anni in giro per l’Italia, per l’Euro-
pa e ho visto esperienze oltreoceano. Una delle esperienze
più belle è sicuramente quella olandese. Ne avevo sentito
parlare in un convegno sugli orti scolastici nella regione
Marche, all’abbazia di Fiastra. Sono così andato personal-
mente a conoscerli. L’origine degli orti scolastici olandesi
risale agli anni Venti, dopo la prima guerra mondiale. Rea-
lizzare orti in città era, in particolare per la municipalità di
Amsterdam, l’occasione per migliorare la qualità del cibo
delle famiglie olandesi. All’inizio si trattava di doposcuola.
Poi le attività sono entrate a far parte dell’orario e dei pro-
grammi scolastici e così dal 1930 l’attività degli orti è parte
integrante del programma delle scuole di base. Oggi nella
sola capitale olandese ci sono dodici aree in cui vengono
coltivati centinaia di orti individuali. Ogni area è di circa
4.000-6.000 metri quadrati. Sono aree collocate all’inter-
no della città e spesso si trovano presso parchi cittadini
dove è possibile trovare percorsi naturali, sentieri, giardini
per le farfalle, alveari, serre o vivai. In ogni area ci sono
una o più aule e una residenza ufficiale per gli educatori.
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26. Spesso c’è anche una stalla, un laboratorio per gli attrezzi
da lavoro e una serra. I docenti, da un minimo di uno a
un massimo di tre per area-orti, si interessano delle lezio-
ni settimanali dei bambini. In totale ci sono più di ven-
ti maestri che si occupano degli orti didattici. Poi c’è un
tecnico-guardiano per ogni area, che si prende cura della
manutenzione. L’esperienza dell’orto personale (10 metri
quadrati per ogni studente), ha inizio in autunno, nell’au-
la, al chiuso. Si svolgono alcune lezioni: per imparare a
distinguere i differenti tipi di terreni, per capire cos’è la
fotosintesi, per distinguere i semi. Poi da marzo-aprile si
va all’aperto, fino a ottobre, quando, per concludere il ciclo
annuale, l’attività prevista diviene quella delle composizio-
ni con i fiori essiccati. I bambini vanno nell’area degli orti
singolarmente, in bici, o in autobus. Oppure con tutta la
classe. Sono attività che si svolgono al pomeriggio. Quella
dell’orto è un’esperienza che fanno tutti i bambini di Am-
sterdam, per almeno un anno, durante il periodo della loro
esperienza didattica del cosiddetto obbligo. Ogni anno
sono circa 6.000 a farla. D’estate ci sono, poi, dei momenti
di festa, in cui sono coinvolte tutte le famiglie, e si mangia
tutti assieme, consumando così anche i prodotti dell’orto.
Questo olandese è sicuramente un esempio storico da usa-
re come modello.
Un incontro annuale, una rete nazionale di scuole,
un portale internet
Il 13 novembre 2004 si è svolto presso l’Ecoistituto a
Cesena il primo convegno nazionale sulle esperienze di
orti didattici. Il titolo è emblematico del percorso intrapre-
so: «Orti scolastici biologici, giardini della biodiversità».
In quell’occasione, come dirigente scolastico, ho lanciato
l’idea di un progetto di rete nazionale sugli orti scolastici
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27. biologici. In sostanza un impegno che ogni scuola poteva
prendere aderendo a un accordo di rete ai sensi dell’art. 7
del Dpr n. 275/1999 (il decreto sulla cosiddetta «autono-
mia scolastica»). In sintesi le finalità di questo «accordo di
rete» sono espresse nell’articolo 3, in cui si dice: «Le scuole
aderenti alla rete condividono l’idea di fondo di riconosce-
re il ruolo fondamentale dell’agricoltura nella società. In
particolare si evidenzia la necessità storica di attribuire
nuovamente al mondo agricolo il ruolo di promotore di
educazione all’ambiente attraverso la conservazione della
biodiversità». Da quel primo incontro, nel corso di ogni
anno scolastico si svolge un convegno nazionale che i par-
tecipanti apprezzano per alcune caratteristiche peculiari.
Non esistono relazioni teoriche, ma racconti di esperienze
concrete, sulle quali, semmai, si fanno riflessioni pedago-
giche. Un metodo che può decisamente essere definito in-
duttivo. Gli interventi sono sintetici, 15-20 minuti al mas-
simo. Non vengono distribuite fotocopie, ma si consegna,
all’inizio del convegno, un piccolo «quadernetto di campa-
gna» e i partecipanti vengono invitati a prendere appunti,
segnarsi indirizzi, disegnare. Non esistono impianti di am-
plificazione e dopo le relazioni, nel momento conviviale
pomeridiano, ci si scambia idee e – chi vuole – semi o ma-
teriali di documentazione prodotti dalle scuole. L’indiriz-
zario delle persone che partecipano all’incontro, distribui-
to poi agli stessi partecipanti, permette lo scambio e il con-
tatto fra le varie scuole, in una logica di «rete dal basso».
Un lavoro, tutto questo, che dal 2006 ha visto un punto di
forza e di riferimento nel sito internet www.ortidipace.org,
voluto e sostenuto quotidianamente dalla scrittrice, gior-
nalista, nonché ortolana Pia Pera. L’invito che lei stessa fa
è semplice: il sito è a disposizione di chiunque consideri
l’orto, e il giardino in senso lato, un luogo ideale per in-
trecciare tutta una serie di scambi con la natura, l’ambien-
te e la comunità. Il portale è concepito in modo da dare
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28. ma anche ricevere informazioni, in uno spirito di servizio
per chi avverta il desiderio di passare «dalla voglia di fare
al fare». Le cose da fare sono tante: orti e giardini didattici
nelle scuole, orti terapeutici dove coltivare la pace interio-
re, orti per chiunque, pur non possedendo terra, desideri
coltivare fiori e ortaggi in uno spazio pubblico.
Dalla rete di scuole alla Rete di Orti di Pace
Il quinto convegno, tenutosi nel marzo del 2009, segna
una svolta. Si passa dall’idea di collegare le esperienze di
orti didattici scolastici alla necessità di collegare tutte le
esperienze di orti, che abbiamo chiamato in maniera sin-
tetica Orti di Pace.
L’idea di una rete incentiva la nascita di orti. La rete
conta sull’esperienza di chi lo ha fatto da sempre, i con-
tadini, gli agricoltori, gli ortolani. È una realtà in cui i
bambini, le bambine e i grandi (molte volte le nonne e i
nonni) «insieme» si prendono cura delle piante. E ancora:
l’orto è un’esperienza di incontro fra popoli di tradizio-
ni e culture diverse. Popoli dell’Est Europa, popoli che si
affacciano sul Mediterraneo, popoli del Sud del mondo:
mondi ricchi di famiglie che lavorano la terra. Coltiva-
re un orto può diventare, oggi, un’eccellente esperienza
di educazione alla multiculturalità e alla pace, ma non
solo. Da alcuni anni c’è chi ha preso coscienza che l’orto
è un eccellente «medico» per chi vive l’esperienza delle
difficoltà di salute fisica e mentale, per chi deve ricostru-
ire armonia nella propria esperienza di vita. Ecco che si
scopre che l’attività dell’orto e/o del piccolo allevamento è
utilizzata in diverse carceri (significativa in questo senso
l’esperienza della Casa di reclusione dell’Isola di Gorgo-
na) e che quasi tutte le comunità terapeutiche sono col-
locate in ampi spazi agricoli e usano inserire l’orto fra le
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29. attività quotidiane. L’orto richiede, in questo senso, rigo-
re, adesione a leggi naturali, perseveranza. È quello che
una persona, all’interno di una comunità terapeutica, ha
bisogno per sé. E poi ci sono gli orti dei conventi (spesso
destinati alla conservazione della biodiversità) e la gran-
de tradizione degli orti sociali, generalmente definiti «orti
degli anziani».
Oggi, infine, si parla molto di orti urbani, orti di con-
dominio e sono nate le esperienze di orti negli ospedali.
Ho proposto questa esperienza in un articolo che pubblicai
pochi mesi dopo la degenza in ospedale, conclusasi con la
morte di mio padre, avvenuta alcuni anni fa. In quell’oc-
casione una infermiera rasserenò mio padre valorizzando
con buone parole il suo lavoro di contadino. Proposi allora
all’ospedale di Cesena, e ad ogni ospedale, di organizzarsi
per realizzare un proprio orto ben curato, con tanti vialetti
e tante aiuole di verdure, ortaggi e fiori. Un orto che abbia
una zona dedita al compost, elemento essenziale per cibare
il terreno. Un orto ricco di erbe officinali, da sempre chia-
mate anche medicinali, e con zone dedite alla coltivazione
di piante ospiti delle farfalle. Un orto con tanti alberi che
producano frutti per tutti i mesi dell’anno. Un orto all’ospe-
dale vorrebbe dire per tanti pazienti riconoscersi nella pro-
pria terra, cioè nel luogo in cui viviamo, un luogo fatto di
storia, di tradizioni, di cultura, di memoria. Un luogo che
anche noi, ogni giorno, contribuiamo a rendere più bello
e vivibile. E così, quando siamo costretti a passare alcuni
giorni della nostra vita in ospedale, possiamo beneficiarne
sia dal semplice vedere questo piccolo «paradiso terrestre»,
sia dal fare alcuni dei tanti piccoli lavori che ogni giorno si
fanno nell’orto. Forse avremmo bisogno di meno medicine
e certamente guariremmo prima.
Tutto questo movimento culturale e colturale è ben sin-
tetizzato nel documento presentato durante il quinto con-
vegno della rete che ha avuto per titolo: «Orti negli ospe-
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30. dali, nei conventi, nelle carceri, nelle città, nelle scuole». È
da quel momento che è nata la «Rete Orti di Pace», aperta
al contributo di chiunque voglia rendere più bello questo
grande orto-giardino chiamato mondo.
MANIFESTO PER UNA RETE DI ORTI DI PACE
Chiunque, nel rispetto dell’ambiente, coltivi la terra la-
vora anche per la pace. Anche quando i conflitti mettono a
repentaglio la sopravvivenza, e li chiamano per questo orti di
guerra, sono sempre e comunque orti di pace.
In questo momento storico, in cui i fondamenti stessi
dell’economia vengono rimessi in discussione, e il concetto
di cosa abbia valore cambia al punto che i terreni agricoli
cominciano a venire considerati un bene rifugio, è arrivato il
momento di annodare una rete tra tutti noi che crediamo che
lavorare la terra in modo organico sia cosa bella e buona.
Occorre imparare di nuovo l’abbiccì del rapporto con la
Natura. Per questo siamo partiti dagli orti scolastici: aule
all’aperto dove apprendere un modo di stare al mondo per
cui, anziché semplici consumatori, diventiamo creatori di
vita, e nella pratica di una possibile autosufficienza appren-
diamo il respiro della libertà interiore. Un giardino, un bo-
sco, un orto trasformano la scuola in qualcosa di vivo di cui
prendersi cura.
Partiti dalla scuola, abbiamo poi esteso la nostra atten-
zione agli orti terapeutici, carcerari, sociali: spazi dove ci si
prende cura di fiori e ortaggi scoprendo al contempo nell’or-
to un luogo ideale dove intrecciare tutta una serie di scambi
con la natura, l’ambiente e la comunità, coltivando intanto
la pace interiore.
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31. L’orto resta tuttavia il modello privilegiato da noi pro-
posto: perché permette di optare per un modello economi-
co meno instabile, meno fondato sulla rapina di risorse non
rinnovabili e quindi limitate. Coltivare un orto è una piccola
azione di pace.
Proponiamo la costituzione di una Rete di Orti di Pace
nell’intento di tenerci in contatto, scambiare informazioni
sulle varie iniziative. E anche, non ultimo, renderci conto
di quanto poco siamo isolati nel gesto di coltivare il nostro
comune giardino dall’umile nome di terra.
Cesena, il 14 marzo 2009
LA RETE ORTI DI PACE
L’idea di promuovere la realizzazione di orti a scuola, i
cosiddetti orti didattici, è nata dalla mia esperienza di mae-
stro prima (negli anni Ottanta) e dirigente scolastico poi (da
metà degli anni Novanta).
Questa idea è stata subito sostenuta dall’Ecoistituto
di Cesena che nel 2001 è entrato a far parte, come socio,
dell’Associazione Civiltà Contadina. Daniele Zavalloni, che
nel frattempo ne era divenuto vicepresidente, suggerì l’idea
che Risea, la Rete italiana scuole di ecologia all’aperto (nata
alcuni anni prima) entrasse a far parte dell’associazione. Si
è così dato vita al progetto «Orti di Pace, sentieri della bio-
diversità, contadini custodi». La collaborazione con il presi-
dente di Civiltà Contadina (ma non con suoi singoli membri)
è venuta meno nel 2006. Nello stesso anno, l’Ecoistituto ha
firmato una convenzione con Slow Food, offrendo la propria
esperienza allo sviluppo del progetto «Orto in Condotta».
Risea ha avuto per alcuni anni una sua organizzazione
di tipo formale, ai sensi del decreto legge sulla cosiddetta
autonomia scolastica). Riuniva tra loro un insieme di scuole
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32. accomunate dal fatto di coltivare un orto a scuola. La scuola
che dirigevo ne era capofila. Allo scadere formale della con-
venzione (31 agosto 2008) Risea non è stata re-istituita, pre-
ferendo una forma di collaborazione più libera attraverso la
condivisione del sito internet www.ortidipace.org
Durante il quinto convegno degli Orti di Pace, tenutosi
il 14 marzo 2009, è stato presentato un manifesto che è di-
ventato il riferimento ideale di tutti coloro che nella pratica
dell’orto si sentono in sintonia tra loro. Non si tratta quindi
più soltanto di orti didattici, ma anche di orti comunitari,
orti sociali, orti terapeutici, orti carcerari, e così via. La rete
quindi è libera, a maglie larghe. Possono aderire tutti coloro
che si riconoscono nel manifesto.
Pertanto i punti cardine sono:
1. Il manifesto «Per una Rete di Orti di Pace». È il rife-
rimento ideale-culturale di tutte le realtà che, riconoscendo
l’importanza di trasmettere i saperi legati alla cura dell’orto,
intendono collaborare tra loro.
2. Il convegno. È l’appuntamento annuale in cui si affron-
ta un tema di fondo e si condividono esperienze concrete.
Lo stile di base è quello di trarre dall’esperienza, in modo
induttivo, idee e pratiche comuni.
3. I siti internet. Un portale (www.ortidipace.org), ideato
e curato da Pia Pera, come punto di riferimento della rete.
Vera e propria rivista online, pubblica testi inviati da tutti
coloro che condividono lo spirito del manifesto. Esiste inol-
tre un gruppo Facebook di Orti di Pace, come ponte tra gli
utenti di Facebook e ortidipace.org.
Nelle pagine web www.flickr.com/photos/ortidipace è in-
vece possibile trovare immagini di orti, disegni e altro.
Dal sito www.tecnologieappropriate.it è poi possibile ac-
cedere alle schede dei libri sugli orti, presenti nella bibliote-
ca dell’Ecoistituto di Cesena.
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33. 4. Le pubblicazioni. Il manifesto Per una Rete di Orti di
Pace è condiviso dai seguenti libri, e in essi pubblicato in
appendice: L’insalata era nell’orto di Nadia Nicoletti (Salani),
Giardino & Orto Terapia di Pia Pera (Salani) e La pedagogia
della lumaca e Ortidipace (Emi) a cura di Gianfranco Zaval-
loni.
È disponibile un poster dal titolo Orti di Pace, stampato
a cura dell’Ecoistituto, disponibile a colori oppure in bianco
e nero.
Sono inoltre in cantiere le seguenti iniziative:
– Un censimento delle realtà che, nella coltivazione di un
orto, vedono anche un gesto di condivisione del manifesto
Per una Rete di Orti di Pace.
– Un indirizzario di persone competenti e disponibili a
promuovere, insegnare, consigliare, aiutare in ogni genere di
lavoro legato all’orto: da quelli prettamente agricoli fino alla
realizzazione di un recinto, di un bancale di legno, di una
capanna di salici, di un forno in terra crudo, l’intreccio di un
canestro, la realizzazione di utensili e via discorrendo.
Segreteria tecnica della Rete Orti di Pace:
Ecoistituto di Cesena
via Germazzo 189
47521 Cesena (FC)
www.tecnologieappropriate.it
ecoistituto@tecnologieappropriate.it
telefono e fax: 0547-323407
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35. L’ORTO SCOLASTICO COME GIARDINO
DEL NOSTRO TEMPO
di Pia Pera
Lev Nikolaeviˇ Tolstoj, per molti versi considerato
c
un profeta della sensibilità del nostro tempo, non amava
particolarmente i panorami perché preferiva sentirsi im-
merso nella natura.
Sono rimasto del tutto freddo alla vista del gelido panorama
del monte Jaman; non mi è passato neanche per la testa di
fermarmi un solo momento ad ammirarlo. Io amo la natura
quando mi circonda da tutte le parti e poi si svolge in lonta-
nanza fino all’infinito, e mi ci sento dentro. Mi piace quando
da tutte le parti mi circonda l’aria calda, e la stessa aria si
perde avvolgendosi nell’infinita lontananza; quando questi
fili d’erba succosi, che ho schiacciato sedendomici sopra,
richiamano il verde di infiniti campi; quando queste stesse
foglie che, mosse dal vento, spostano l’ombra sul mio viso,
compongono la linea del bosco lontano; quando l’aria stes-
sa che respiriamo richiama la profondità dell’azzurro cielo
infinito; quando non sei solo a esaltarti e a gioire della natu-
ra; quando vicino a te ronzano e sciamano miriadi d’insetti,
strisciano le coccinelle, e gli uccelli riempiono l’aria col loro
canto. E qui, invece (nel panorama distante): una superficie
fredda, nuda, umida e deserta, e da qualche parte qualcosa
di bello, che s’intravede velato dalla lontananza. Ma questo
qualcosa è così lontano che io non provo il piacere per me più
grande che possa venirmi dalla natura, non mi sento parte di
quest’infinito e bellissimo intero. E non m’importa niente di
questa lontananza. Il paesaggio dello Jaman è per gli inglesi
(maggio 1857, durante la gita col ragazzino Sasha).
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36. Ho riportato questa lunga citazione perché trovo espri-
ma al meglio quello che per la sensibilità contemporanea è
diventato il senso del fare giardino: entrare a sentirsi parte
di qualcosa di mutevole – la natura – avere la sensazione
di ristabilire un contatto con la rete della vita, e non più di
ammirare dall’esterno come in un panorama.
Ristabilire un rapporto con la natura, sentirsene parte,
tornare a comprendere il nostro rapporto di interdipen-
denza con le altre specie animali e vegetali ma anche con
la comunità umana: ecco l’urgenza, ecco l’interrogativo
del fare giardino oggi.
Che diventa anche fare paesaggio, vedere paesaggio,
intervenire sul paesaggio, agreste o urbano o silvestre.
In questa sensibilità di Tolstoj, quanto vale per il pae-
saggio vale anche per il giardino. Che non sarà un par-
terre elegante da contemplare dalla loggia di casa o dalle
finestre del piano nobile, statico e meramente formale, ma
uno spazio, una dimensione che ci ingloba. Un giardino
in cui entreremo anche con le nostre mani, gli attrezzi, i
semi che vi introdurremo, le buche che scaveremo. Robert
Pogue Harrison ha scritto un libro bellissimo sul giardino
come luogo in cui prendersi cura, realizzare la vocazione
umana alla Sorge. Acutamente, scrive che la cacciata dal
giardino dell’Eden ha coinciso, per l’inquieto uomo occi-
dentale, con un ritorno nella sua autentica patria, quella
del prendersi cura, la heideggeriana Sorge. Dalla leggiadra
giardinesca malia, di regola, i nostri eroi fuggono a gambe
levate: da Circe come da Alcina o da Logistilla. Karl Ca-
pek, in L’anno del giardiniere, ha raccontato la stessa cosa
in modo arguto e divertente: il giardiniere è colui che è
soddisfatto quando ha le mani occupate (et l’esprit libre,
aggiungerebbe Gilles Clément). Noi che facciamo i giardi-
nieri lo sappiamo: nulla ci rallegra di più di avere appena
messo a dimora una piantina, avere appena tagliato un
ramo secco, avere accatastato la legna… Insomma, avere
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37. partecipato alla vita intorno a noi. La felicità del giardino è
nella relazione, fattiva, non solo contemplativa. Pensiamo
allora a quel tipo particolare di giardino del nostro tempo
che è l’orto scolastico, un genere molto particolare di orto
sociale. Che, se vogliamo, è un giardino che entrerà dentro
di noi attraverso ciò che ne mangeremo. Un giardino con
cui entrare più che mai in simbiosi?
Credo, del resto, che questa sensazione di simbiosi con
la natura costituisca per i giardinieri appassionati il senso
più profondo del loro fare.
Cosa possiamo chiedere a un giardino? Di riconnetter-
ci alla vita, quindi anche al nostro nutrimento, non solo
all’esperienza estetico-filosofica. Il giardino del nostro
tempo, cioè il giardino di cui il nostro tempo ha bisogno,
deve prima di tutto sanare una ferita: riconnettere l’uomo
alla natura nel senso primario del termine, di corpo a cor-
po in cui l’uomo coltiva le piante da cui trae nutrimento,
in tutti i sensi.
Aggiungo: il giardino non avrà futuro a meno di far sì
che fin da piccoli i bambini conoscano questa esperienza
formativa fondamentale. Pertanto il giardino capace di ri-
spondere a questo bisogno urgente del tempo in cui vivia-
mo sarà un giardino semipubblico, il giardino nel cortile
della scuola, tenuto non solo dai bambini e dai maestri ma
anche dai nonni, dai bidelli, dai genitori specie quando le
scuole sono chiuse. Un orto che sia anche un giardino, che
abbia alberi fiori e cespugli ed erbe spontanee, in modo
da essere un luogo dove si impara a conoscere la natura,
dove soprattutto si fa esperienza di quella tranquilla feli-
cità che solo la natura può trasmettere. Perché l’interesse
per i giardini si trasformi in qualcosa di profondo, qualco-
sa che formi veri giardinieri, ma non solo: persone con un
interesse non superficiale per la natura, per l’ambiente.
Alleviamo allora piccoli giardinieri, persone che sappia-
no dove andare a cercare quella felicità tanto speciale: una
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38. felicità a portata di mano! Una felicità che non abbiamo
bisogno di andare a chiedere ad altri o ad altro. Nell’orto,
nel giardino, o anche nel pezzetto di natura lasciato indi-
sturbato nel cortile di scuola – è di moda chiamarlo wild
zone – un bambino imparerà ad attingere alle energie della
terra, a vivere l’esperienza, cruciale per lo sviluppo della
creatività non importa in quale ambito, del libero scorrere
delle energie. Sperimentare quella concentrazione che na-
sce dal lavoro manuale a contatto con la natura, e con le
energie naturali quando riusciamo ad avvertirle in armo-
nia con le nostre. La conoscenza di questa gioia, di que-
sta felicità, fonda la possibilità stessa della libertà, della
non dipendenza coatta dalle gratificazioni esterne. Privi
di questa conoscenza, si rischia di diventare null’altro che
consumatori passivi di merci, di sensazioni, di relazioni
sociali.
Ai bambini, dunque, bisogna lasciar comprendere che
la natura può essere una risorsa inesauribile di forza e fe-
licità. Nell’orto non si va solo per ricavare del cibo, ma per
prendere coscienza della bellezza del cielo, delle nuvole,
dell’emozione dei mutamenti climatici. Ad ascoltare gli uc-
celli, osservare gli insetti, conoscere la pienezza della vita.
Solo se l’avremo assaporata, ci sarà possibile cercarla. I
bambini, e i ragazzi, non sono ancora così cinici da con-
siderare ingenua questa domanda: che senso ha la vita?
Perché non suggerire che siamo qui per celebrare la gioia
di essere uomini e godere del nostro essere nella natura?
Deus sive Natura, e viceversa: Natura sive Deus.
Anni fa ebbi la fortuna di partecipare al seminario
tenuto da Masanobu Fukuoka in India, nella fattoria di
Vandana Shiva, dal titolo «Nature as teacher», la natura
come maestra. Nel corso di due indimenticabili settimane,
l’anziano agronomo giapponese, autore della Rivoluzione
del filo di paglia, cercò di insegnarci a coltivare un senso
di unione con la natura, mantenendo un atteggiamento di
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39. attenzione amorevole e mai di sfruttamento. Una mattina
srotolò un foglio su cui aveva disegnato l’origine della no-
stra civiltà, ovvero l’Albero della conoscenza del Bene e del
Male, col serpente attorcigliato intorno al tronco. «Sapete
cosa ha insegnato il serpente ad Adamo?». Silenzio. «Sono
anni che ci penso, l’ho capito questa mattina. Com’è il cor-
po del serpente? Ricoperto di scaglie, per questo si muove
in una sola direzione. Può insegnare ad andare avanti, ma
non a tornare indietro». Gli uomini non sono mai progre-
diti oltre la sapienza del serpente: sanno dividere ma non
riunire, trasformare il petrolio in plastica ma non la pla-
stica in petrolio, consumare risorse ma non crearle. È la
direzione a senso unico, irreversibile, dello sviluppo o pro-
gresso che dir si voglia.
E se invece fosse possibile aggiustare la rotta di questo
percorso tutto monodirezionale? Imparare ad agire tenen-
do conto dell’andamento ciclico, mai lineare, della natura?
Imparare anche a ridurre la nostra impronta ecologica sul
mondo?
Il giardino del nostro tempo non può essere qualco-
sa di statico. Può fondarsi solo sulla consapevolezza e la
valorizzazione di un processo. Merita inventare giardini
a patto che non siano cose, luoghi e basta, ma entrino a
fare parte della nostra esperienza, della nostra evoluzione,
inneschino un percorso, una rete di relazioni col mondo e
la natura.
Si muovono in questo senso i paesaggisti più innovativi,
ma anche i guerrilla gardeners o i propugnatori delle wild
zones, come Karen Payne, David Hawkins, da noi Paolo
Tasini. L’idea è di azioni relazionali e significative, di inter-
venti anche soltanto temporanei sul paesaggio campestre
ma soprattutto urbano. Il giardino del nostro tempo non è
un luogo circoscritto – ormai, lo ha detto Gilles Clément,
il giardino è planetario, non ha confini. Ma allora cos’è
il giardino? Forse qualcosa che ci portiamo dentro come
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40. atteggiamento, visione, attenzione, capacità di rispondere
agli stimoli alle proposte e anche alle richieste di aiuto del-
la cosiddetta Natura. Un modo di non perdere il contatto
con la vita. È un fare giardino che diventa anche cura della
nostra anima all’interno del mondo e con il mondo.
Con il mondo: quindi anche con il paesaggio. È consa-
pevolezza del giardino all’interno del paesaggio. E anche
della necessità di conservare all’interno del giardino, oltre
alla relazione col paesaggio, qualcosa della selvatichezza.
Cito queste parole a me care di Oliva di Collobiano: «Il
giardino vero è l’unione tra la persona e la natura ricreata:
mondo accurato fatto di grazia. Il buon giardino è l’equili-
brio tra la quiete della domesticità e la vibrazione del mon-
do selvatico.»
Aggiungo: è gentile non dimenticare che la nostra pre-
senza è imposta a un paesaggio preesistente. Bellezza e
armonia nascono spesso dall’occultamento di una simile
violenza. Il «mondo fluttuante» del vero giardino non ha
nulla a che spartire con certi scenari che lasciavano freddo
Tolstoj.
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41. L’ORTO TRA LA FORESTA E LA VIGNA:
RI/COLTIVARE IL SELVAGGIO PER LA VITA
di Daniele Zavalloni
La foresta
Etimologicamente, la parola foresta deriva dal termine
latino forestis, probabilmente un neologismo del VII secolo
d.C., che potrebbe avere origini dal latino foris, «all’ester-
no».
La parola orto deriva dal latino hòrtum che significa
«recinto, luogo chiuso».
Il 7 ottobre 2009 si sono celebrati i cinquant’anni
dall’istituzione della Riserva integrale naturale di Sasso
Fratino.
Per chi non è del mestiere, Sasso Fratino è la prima
riserva integrale naturale italiana: fu istituita nel 1959
dall’allora Azienda di stato per le Foreste Demaniali; in
quegli anni era l’unica Azienda di stato con un bilancio
attivo grazie al taglio dei boschi.
La Riserva di Sasso Fratino è anche la prima riser-
va integrale istituita in Italia secondo la classificazione
dell’Uicn (Unione internazionale per la conservazione del-
la natura), che concepisce la protezione della natura nella
sua totalità: specie vegetali e animali, rocce, suolo, acque,
atmosfera locale.
L’istituzione della riserva fu una grande novità nel
campo della protezione ambientale. Fabio Clauser, che a
quel tempo era l’amministratore delle Foreste casentinesi,
per conto dell’Azienda di stato per le Foreste Demaniali,
decise di escludere dal taglio degli alberi una superficie
di appena cento ettari: le Foreste casentinesi occupano
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42. una porzione di 10.000 ettari del territorio dell’Appennino
tosco-romagnolo all’interno della quale si trova la riser-
va. Questa scelta di non tagliare fu definito un «intervento
abusivo» (come cambiano i modi di pensare e di agire).
Attualmente la Riserva integrale di Sasso Fratino occu-
pa una superficie di 764 ettari.
Istituire una riserva integrale significa delimitare una
porzione di territorio all’interno della quale non sono svol-
te le attività proprie dell’uomo, ad eccezione della ricerca
scientifica. Non vi sono quindi interventi di alcun genere,
non vi sono attività volte all’utilizzo delle risorse, non vi
sono neppure interventi di sistemazione o di tutela dei ver-
santi e delle pendici.
È luogo comune pensare che le foreste siano l’emblema
della naturalità: purtroppo, per molte foreste del mondo,
non è più così da diverse centinaia di anni.
Ma come ha fatto l’uomo a passare dalla foresta all’or-
to? L’uomo ha potuto modificare i propri comportamenti
di vita grazie al comportamento di alcune piante che sono
alla base della sua alimentazione.
La vita
Sappiamo che l’ape, durante il suo vagare da un fiore
all’altro per raccogliere il nettare, svolge anche l’importan-
te, e insostituibile, compito di impollinare i fiori. Molto
probabilmente è stato il fiore che nel suo percorso evoluti-
vo ha inventato questo espediente per farsi impollinare.
Possiamo dire che le piante sono una sintesi di raffina-
tezza e di complessità, in grado di inventare strategie di
sopravvivenza: la ricerca di queste modalità di permanen-
za della specie è chiamata evoluzione.
Troppo spesso ci dimentichiamo che le piante sono gli
unici esseri viventi in grado di trasformare, con la parteci-
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43. pazione della luce solare, i sali minerali disciolti nell’acqua
in zuccheri e amido. Questo processo chimico si chiama
fotosintesi.
I composti chimici sintetizzati dalle piante hanno la
capacità di nutrire, di curare, di eccitare e di influenzare le
nostre menti, ma in molti casi ancora oggi non conoscia-
mo questi composti chimici o non siamo capaci di utiliz-
zarli.
È chiaro che le piante svolgono queste attività chimi-
che per ragioni precise e cioè per difendersi (lo fanno sin-
tetizzando tossine, veleni, sapori disgustosi) ma anche per
l’effetto contrario, per attrarre.
Attrarre chi?
Ciò che caratterizza maggiormente le piante è l’immo-
bilità, ma a pensarci bene questa affermazione non è pro-
prio vera… Anche se certamente sono in balia dei predato-
ri, le piante possono spostarsi. Vediamo come!
Di fatto per spostarsi hanno escogitato diverse strate-
gie: ci sono semi che hanno un uncino per agganciarsi alle
pellicce degli animali e iniziare così il loro autotrasporto.
In seguito, questi uncini sono stati imitati dall’uomo che
ha inventato il velcro.
Ci sono semi che hanno un rivestimento duro come le
ghiande delle querce e vengono trasportati dai ghiri, dagli
scoiattoli, dalle ghiandaie, dalle nocciolaie velocemente e
anche per lunghe distanze da un territorio ad un altro.
Poi, in tempi più recenti (in riferimento alla storia del-
la Terra), un gruppo di piante della famiglia delle Grami-
nacee pensò di utilizzare l’uomo come veicolo di traspor-
to: si tratta dei semi commestibili come il mais, il grano,
il riso.
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44. Appena l’uomo ha fatto questa scoperta non si è rispar-
miato nelle sue azioni, ha iniziato ad abbattere le foreste
per fare spazio a queste piante.
Da 10.000 anni le Graminacee occupano la foresta.
E siamo giunti ai giorni nostri: è sempre più difficile
distinguere un giardino o un orto dalla natura incontami-
nata, è difficile perché l’uomo ha invertito i ruoli; origina-
riamente l’adattamento e l’evoluzione di una specie erano
originati da una concatenazione di casualità, ora stiamo
assistendo al fenomeno contrario: è l’uomo che forza e
condiziona l’evoluzione delle specie.
Ciò che caratterizza attualmente la storia della natura
è la pratica della selezione artificiale, la manipolazione ge-
netica che viene condotta a tutti i costi e che tra l’altro ha
dei costi anche molto alti, in termini energetici e quindi
economici. Non abbiamo più uno spazio incontaminato e
vediamo la conseguenza delle nostre azioni in questi ulti-
mi anni e in modo evidente ogni giorno che passa. Sono il
manifestarsi di cicloni, sono l’aumento della temperatura,
sono l’espandersi del buco dell’ozono.
L’orto, luogo di «selvaggità»
A questo punto si inserisce l’orto che è stato in tempi
lontani luogo di sperimentazione e di selezione, ma oggi
può essere luogo di «selvaggità»: è un’occasione (l’ultima?)
perché l’uomo trovi il coraggio di ritornare nella rete della
vita della Terra.
Siamo convinti più che mai che la Natura non si tro-
va solo «fuori = la foresta» ma è anche «dentro = l’orto».
Nell’orto, ma anche nel giardino; dobbiamo essere capaci
di percepire la Natura come la vediamo, come la percepia-
mo negli spazi più selvaggi per antonomasia e cioè nella
foresta.
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45. Solo allora potremo dire di aver compreso qual é il no-
stro posto sulla Terra.
L’orto è anche luogo di apprendimento in quanto è
occasione di colloquio con l’ambiente esterno, in quanto
coltivare significa anche sapere quanta acqua abbiamo di-
sponibile, a che altitudine ci troviamo, qual’è la pedologia,
in quale esposizione ci troviamo.
Realizzare un orto significa imparare a integrarsi con i
processi che regolano la vita dell’ambiente naturale, saper
leggere questi vincoli significa comprendere l’importanza
dell’origine delle molte specie vegetali che ci nutrono e poi
degli animali selvatici che ci stanno attorno.
Quasi sicuramente furono i Celti e, successivamente, i
Romani a inserire le coltivazioni di ortaggi e di piante da
frutto in mezzo all’immensa superficie coperta dalla fore-
sta che fino a diversi secoli fa copriva l’intera Italia.
Carlo Magno e il figlio Pio dettarono le regole per col-
tivare l’orto.
Poi i monaci, nel medioevo, fecero dell’orto il punto
centrale della vita del chiostro: era previsto che una por-
zione di terra fosse destinata alla coltivazione di ortaggi
da usare in cucina, alla coltivazione di piante officinali, di
erbe aromatiche e di fiori per l’altare.
Sempre in questo periodo gli orti si trasferiscono den-
tro le mura delle città o in prossimità di esse per poter nu-
trire gli abitanti nei periodi di assedio. Gli Arabi, durante
i loro assedi, diffusero ortaggi esotici come gli spinaci e le
melanzane.
Successivamente, nel rinascimento, furono seleziona-
te varietà orticole come il finocchio, il sedano, il carciofo
(con il ricettacolo carnoso e privo di spine del capolino).
Ma la grande rivoluzione nell’orto arriva con il ritorno
degli esploratori dalle Americhe, che portarono pomodori
(originariamente dal colore oro), peperoni, zucche e pa-
tate. All’inizio queste piante erano coltivate solo negli orti
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46. botanici, successivamente (dalla fine del XVII secolo circa
fino all’inizio del XIX per il pomodoro) entrano negli orti
per l’alimentazione della popolazione.
E ancora diverse piante coltivate arrivarono nei nostri
orti grazie ai pellegrini che andavano in terre lontane e
alcune piante migrarono in terre lontane portate dai pel-
legrini.
Le piante che possiamo trovare nell’orto hanno dei
progenitori selvatici, che costituiscono una ricchezza ine-
stimabile perché conservano nel loro patrimonio genetico
una potenzialità che non sarà più recuperabile, una volta
persa.
Conservare e tutelare queste piante selvatiche significa
avere la possibilità di selezionare varietà orticole con ca-
pacità di resistenza alle avversità climatiche, parassitolo-
giche, pedologiche.
Mettiamoci allora alla ricerca della pianta selvatica.
L’orto è un luogo di biodiversità (esattamente l’oppo-
sto della monocoltura): ben venga l’orto come luogo in
cui si seminano e quindi si conservano i geni delle spe-
cie di piante selvatiche che non sono soggette a brevetti.
Adottare questo approccio significa assicurarci un futuro
migliore. L’orto può essere una Sasso Fratino; recintata,
purtroppo!
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47. UNA LUNGA STORIA
DI SCUOLA, DI BAMBINI E DI ORTI
di Nadia Nicoletti
Maestra alla scuola primaria
Insegno da molti anni, più di trenta, e ho insegnato
sempre in Trentino, dove abito. Per alcuni anni ho inse-
gnato in paesi della provincia, ma da circa vent’anni inse-
gno in città, a Trento.
La mia esperienza con gli orti didattici è partita pro-
prio nelle scuole della città.
La prima scuola era una scuola del centro, la «Raffael-
lo Sanzio», poi la scuola del quartiere di Madonna Bianca
e ora la scuola di Villazzano.
La grande fortuna che ho avuto è stata quella di trovare,
in tutte e tre le scuole, uno spazio predisposto per l’orto. È
una cosa piuttosto rara che una scuola abbia uno spazio
per questa attività e le scuole dove sono stata lo hanno
tutte. Poi ho sempre trovato colleghi che hanno condiviso
con me questa esperienza, e non è poco.
In particolare la scuola dove insegno ora, quella di Vil-
lazzano, ha uno spazio piuttosto grande adibito a questo
scopo, dove ci sono tutte le attrezzature che servono per
l’attività: rubinetto dell’acqua, cumulo di compostaggio,
piccolo deposito per gli attrezzi dei bambini ecc.
Dunque il mio approccio con l’attività di orto didattico
è stato, sempre, con i bambini di città. Nel corso degli anni
non ho notato differenze molto sostanziali fra i bambini,
nel senso di più o meno ricettività. Ho notato sempre un
grande entusiasmo verso questo tipo di esperienza, anche
se è vero che ci sono bambini che si appassionano più di
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48. altri e poi vogliono continuare con questa attività anche a
casa, coinvolgendo le famiglie e in particolare i nonni.
Nel corso degli anni ho avuto un’utenza piuttosto va-
ria, ma direi che non ho notato differenze significative.
Spesso mi chiedono perché faccio l’orto a scuola. Esi-
ste una forte motivazione di tipo pedagogico, ma devo dire
subito che lo faccio soprattutto perché mi piace.
Io sono convinta che sia un’attività che porta con sé
moltissimi spunti, che dia modo di ampliare altre cono-
scenze. Facendo un orto si possono avere moltissime rica-
dute, un po’ in tutti gli ambiti disciplinari.
Per fare un esempio, quando faccio un orto posso mi-
surarlo, per dividerne gli spazi e questa è geometria che
farò con i bambini più grandi. Ma posso osservare il ciclo
di una pianta dalla semina al raccolto dei frutti e questo
è un contenuto scientifico. Poi, se voglio posso scrivere e
raccontare le varie esperienze, tenere un giornalino e que-
sto rientra nella linguistica. Ma posso fare molto altro.
Diciamo che è una bellissima attività di tipo trasversale.
Questo non è poco, se pensiamo che spesso, per far amare
le attività ai bambini, noi insegnanti dobbiamo lavorare
molto con la fantasia.
Personalmente sono convinta che nella scuola elemen-
tare i bambini abbiano bisogno anche di imparare a «sa-
per fare», proprio come competenza.
Troppo spesso nella scuola si propongono attività sle-
gate dall’esperienza diretta, che i bambini difficilmente rie-
scono ad amare.
L’orto è una delle attività che in genere piacciono, forse
perché è legata alla terra e conseguentemente al cibo che
mangiamo. I miei bambini hanno sempre avuto una gran-
de simpatia per queste attività.
Io sono nata in un paese del Trentino, a Vigolo Vattaro,
nel 1957. In quegli anni le famiglie contadine, qui in paese,
erano ancora molte. Non come adesso.
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