L’Ottavo Cancello (Verità scomode di un medico pianista)
Genere: Narrativa non fiction
E' la storia vera di un ex medico del carcere di San Vittore, non di un eroe, ma semplicemente di un uomo giusto, che desiderava venisse garantito a tutti i detenuti il diritto di essere curati. Una vicenda disarmante che lo vede protagonista di un inganno perpetrato dallo Stato nei suoi confronti, mirato a escluderlo dal proprio ruolo di medico solo perché si era messo di traverso rispetto ai consolidati meccanismi del potere. Incarcerato per due mesi, sospeso dell'Ordine dei Medici, si vede costretto, per sopravvivere, a ricorrere al proprio talento naturale per la musica. L’odissea giudiziaria si trascina per quasi un decennio. In molti degli episodi narrati emerge, sin dal dopoguerra, la questione tuttora irrisolta delle condizioni disastrose in cui vivono la maggior parte dei detenuti nelle carceri italiane. Un dialogo scorrevole, ma pregno di verità, ricco di aneddoti originali su personaggi noti alla cronaca giudiziaria dagli anni ’60 agli anni ’80.
Ähnlich wie "L'Ottavo Cancello" (Verità scomode di un medico pianista) cap 1 2 3 di Fabio Pollachini la storia del dottor Salvatore Caminiti Youcanprint edizioni
Ähnlich wie "L'Ottavo Cancello" (Verità scomode di un medico pianista) cap 1 2 3 di Fabio Pollachini la storia del dottor Salvatore Caminiti Youcanprint edizioni (20)
3. 2
Non è vero che il ricercatore insegue la verità, è la
verità che insegue il ricercatore
(Robert Musil)
Salvatore Caminiti
4. 3
Prefazione
Questo libro tratta di verità ma non è un libro-verità.
Nella maggior parte dei casi, i cosiddetti libri-verità vanno alla
ricerca di una realtà celata. Il che comporta quasi sempre un costo
molto elevato, sia in termini di risorse che di rischi. La verità, per
tale tipo di visione, diviene una sorta di caccia spasmodica a una
preda ben nascosta nella propria tana, dopo averne accuratamente
occultato le tracce. Catturarla non sarà semplice. Ma una volta
carpita, si mostrerà circoscritta a un orizzonte limitato di realtà,
legata esclusivamente a valori relativi della natura umana.
Esiste invece un'altra verità, universale, la cui caratteristica
peculiare è quella di manifestarsi autonomamente nelle più svariate
e imprevedibili forme, per far sì che venga diffusa e compresa, senza
che non sia neppure necessario andarle incontro. Quasi fosse di
natura numinosa, può avere la facoltà di mostrarsi anche a chi non
la stia espressamente cercando, attraverso una logica non sempre
comprensibile razionalmente. In sostanza, come ci narra Alessandro
Manzoni, qualcosa di simile accadde ne ‘I Promessi Sposi’, grazie
alla Provvidenza che, mettendo in luce la verità, chiarì infine
dilemmi che sembravano irrisolvibili ai più.
Ovviamente Manzoni legò gli interventi soprannaturali a una visione
religiosa cristiano-cattolica. Tuttavia anche il lettore laico potrà
constatare come alcuni avvenimenti determinanti nella storia
dell’umanità appaiano circondati da un alone impalpabile di
sincronicità, apparentemente misteriosa e inspiegabile, che
preludono a una svolta risolutiva determinante, appartenente, se così
si può dire, a una realtà non ancora compresa. Basti pensare al
tragico tracollo di feroci dittature, apparentemente destinate a
durare secoli, alle guarigioni inspiegabili e ai cambiamenti repentini
di rotta nella propria vita. Ci si rende conto indirettamente di tale
5. 4
potenzialità di svolta, quando avvertiamo emozioni intense, a volte
fino alla commozione, senza che vi sia una motivazione
apparentemente logica, nutrendoci di una sensazione simile a quella
dell’infinito. Ed è quasi certamente questa natura di energia
impalpabile e sfuggente che ha permesso all’essere umano di
salvarsi più volte dall’autodistruzione, percorrendo senza errori
fatali il cammino dell’evoluzione. Una sensazione vivida che si
avverte, ad esempio, quando si leggono Gandhi, Buddha, Cristo, e
altre testi di Maestri spirituali.
E' innegabile che, come i liberi pensatori, pur non prendendo in
considerazione il senso del divino, rimane la percezione sottile ma
molto netta della piccola parte di verità che ci è data concepire.
Questo volume può costituire, al di là dei fatti narrati, un utile
ausilio anche per coloro che si dedicano a un percorso di ricerca
interiore.
A me personalmente, questa verità si è manifestata, in modo
apparentemente casuale, un giorno di fine dicembre 2010, attraverso
l’incontro con il dottor Salvatore Caminiti, (all’epoca dei fatti
medico del carcere di San Vittore) coinvolto suo malgrado in un
‘affaire’ giudiziario dalle tinte fosche, e la conoscenza delle vicende
e dei personaggi che ne fanno parte
Gli avvenimenti hanno avuto luogo in un periodo compreso tra gli
anni ’40 e ‘90, e si incrociano con alcuni protagonisti di una parte
ancora poco nota della storia recente d'Italia, tra cui quella della
realtà del mondo carcerario, per molti anni mistificata dalla
disinformazione. A trent'anni dagli eventi rimane purtroppo ancora
un argomento di attualità, e i problemi strutturali sono rimasti
irrisolti. Sembravano vicende dimenticate dal tempo, ridotte a un
plico polveroso di carte e di ricordi personali di Salvatore, di cui
erano rimasti a conoscenza, e non in modo esauriente, soltanto i suoi
familiari e pochi amici intimi. Ebbene, la verità in qualche modo
premeva per venire a galla, e la storia ha ripreso vita. Quelle
vicende dolorose e per certo versi eroiche, si sono rianimate con
6. 5
rinnovato vigore, spinte dalla necessità di essere conosciute da un
pubblico che le ignorava.
Non si tratta di un atto di accusa nei confronti di coloro che lo
hanno ingiustamente e in malafede condannato, né di un tentativo
postumo di contestare l'azione svolta da soggetti e autorità, che, pur
avendo avuto a vario titolo, responsabilità dirette o morali nello
svolgimento dei fatti, non rappresentano l’obiettivo del libro. Il testo
si propone piuttosto di mettere in luce i preziosi insegnamenti di
umanità, abnegazione, onestà intellettuale di Salvatore Caminiti, in
modo particolare per quanto concerne l'integrità piscofisica, la
dignità, il diritto alla salute di ogni essere umano, e in fondo la
modestia e il coraggio da lui lasciati in eredità.
7. 6
Ringraziamenti
Un grazie di cuore a Salvatore Caminiti per la disponibilità e la
pazienza dimostrate durante i nostri incontri e a Davide Rota
per la preziosa e fattiva collaborazione alla stesura di questo
testo.
a Serenella
8. 7
Nota dell'autore
I nomi di alcuni personaggi menzionati nel testo sono stati
sostituiti, in quanto relativi a persone coinvolte e in qualche
caso ancora attive, nel sistema politico-giudiziario italiano.
In altri casi la sostituzione è avvenuta semplicemente per
motivi di tutela della privacy.
Le vicende e le circostanze descritte, al contrario, non sono
state in alcun modo manipolate e corrispondono pertanto alla
realtà dei fatti.
9. 8
Capitolo 1
L’incontro
Natale 2010,
sembra un Natale come tanti altri, luci, alberi addobbati, regali,
cene luculliane, parenti, amici, giochi.
Con Serenella sono ospite per qualche giorno a casa di sua
sorella, in un paese non lontano da Bellagio. Da un lato
montagne non molto elevate, dall’altro, in basso, il lago di
Como.
Mi ricorda non poco i luoghi dove ora abito, ormai potrei
definirmi uomo di lago di adozione.
Vivo da un po’ di tempo in un borgo affacciato sulla riva
lombarda del lago Maggiore, detta 'sponda magra'. Il paesaggio
prealpino è praticamente identico.
Fin qui niente di nuovo, le due zone sono molto belle, meritano
di essere visitate, e tutto finirebbe lì, se non fosse che per me,
non so per quale motivo, proprio questa armonia di paesaggio
favorisce l'ispirazione, origina nuove sensazioni e, parrebbe
incredibile, genera nuovi scenari.
Non per nulla, il romanzo precedente ha visto la luce ed è stato,
se così si può dire, battezzato nelle acque del Verbano (forse
non è una coincidenza il fatto che mi trovo nella terra di autori
geniali quali Piero Chiara, Dario Fo, Vittorio Sereni nonché del
mio amico scrittore Davide Rota).
Tornando al Natale, Serenella, il giorno successivo, mi propone
di andare a fare una salutare passeggiata per incontrare i
Caminiti, che si trovano lungo il percorso.
Lì per lì, evidentemente ancora stordito dell’accesso di cibo e
brindisi, non riesco a realizzare, e penso alle cose più strane.
Chissà per quale motivo, mi convinco che i Caminiti siano gli
10. 9
eredi di un antico ordine religioso. “Forse – penso - c’è un
presepe, magari vivente, da vedere”.
Chiedo delucidazioni “I Caminiti? Non ho visto altre chiese nei
paraggi, oltre alla parrocchia in centro paese”.
“Ma cos’hai capito, non ti ricordi di Salvatore Caminiti, quel
bravo medico, disponibile con tutti, che suonava
meravigliosamente il piano, e la cui vita è stata stravolta da un
inverosimile caso giudiziario?”.
“Ah adesso ricordo, scusami ma è l’effetto the day after, dopo
le ripetute trasgressioni eno-gastronomiche, è piuttosto
difficoltoso riprendere la lucidità di tutti i giorni.”
“Ci aspettano, gli abbiamo parlato di te, vuole conoscerti, mi
ha confessato spiritosamente che se devi essere il mio
compagno, ritiene necessaria la sua approvazione”.
“Va bene andiamo, a quanto pare siete amici da molti anni?”.
“Moltissimi, non ricordo quanti”.
Ci incamminiamo, giunti davanti alla villa, premo il tasto del
campanello, che diffonde uno strano ma gradevole tintinnio
acuto. Caminiti apre la porta e ci appare sulla soglia. Serenella
si prodiga nelle presentazioni, mentre arriva anche sua moglie
Antonella. Salvatore è un uomo anziano un po' provato.
Avanza leggermente ingobbito, a piccoli passi, strascicando
leggermente i piedi.
Ci fanno accomodare, i loro sguardi benevoli sono accompa-
gnati da sorrisi spontanei, non di circostanza.
Capisco immediatamente di essere stato, sin dal primo istante,
bene accolto, prima ancora di aver pronunciato verbo.
Mi trovo seduto su un divano in un ampio salone a elle, dove,
dietro un biliardo, e un frigorifero vintage rosso con il marchio
della Coca-Cola, si scorge un pianoforte verticale.
Pur essendo la prima volta che incontro Salvatore e sua moglie,
l’atmosfera si fa subito molto cordiale.
Salvatore si siede su una poltrona di fronte a me, mentre
Antonella si accomoda vicino a Serenella, che resta leggermen-
11. 10
mente più distante. Esordisce informandolo della nostra
passione comune per la musica pop-jazz e della mia grande
competenza, in realtà non così approfondita.
Un po’ imbarazzato cerco di minimizzare. Chiedo a Salvatore
dei generi e degli interpreti da lui preferiti. Tutto sembra
scorrere tranquillamente, ben presto tuttavia il discorso si
sposta, quasi automaticamente, sul suo passato.
Non desidero ridurre la conversazione a due parlando solo
brani, artisti e generi musicali. Mi ritornano alla mente quei
vaghi cenni delle vicende sulle false accuse per le quali aveva
dovuto pagare duramente.
Nonostante la frammentarietà dei dati a mia conoscenza, me li
ritrovo già così radicati nei miei pensieri che non posso fare a
meno in qualche modo di cominciare a porgli delle domande.
La mia non è semplice curiosità, sento che è molto di più.
A sua volta Salvatore, come se si fosse già instaurato tra di noi
un rapporto di empatia, si predispone a rispondere prima
ancora che gli venga formulata la domanda.
In proposito a quelle circostanze, che risultano difficili da
spiegare con linearità, ci ritroviamo a parlare delle sue
vicissitudini come se fossimo in confidenza da tempo
immemorabile. Ulteriormente spronato da Serenella, Salvatore
inizia a raccontare. Antonella ascolta in silenzio; forse si
aspetta di venire a conoscenza di qualcosa di nuovo, mai
narrato prima.
In una ventina di minuti riesce a condensare i fatti principali
della sua vita, accaduti tra gli anni ’40 e ’90.
Un breve ma efficace excursus che suscita in tutti noi un
susseguirsi di emozioni e sentimenti, tanto da spingermi a dire:
“Ci potresti scrivere un libro...”
“Un libro? Non ci ho mai pensato, non so scrivere” risponde.
Insisto “Ma dai, non è vero, se vuoi, puoi scriverlo benissimo”.
“Non fa per me scrivere, lasciamo a ciascuno il proprio
mestiere”.
12. 11
Mi rendo conto come Salvatore sia una persona modesta. Lo
osservo. La sua postura manifesta una stanchezza non solo
fisica, ma proveniente da un passato che chiede non più una
giustizia fondata sulle leggi dell'uomo, ma un risarcimento
morale. Scruto il suo volto. Sono i lineamenti consumati di un
vecchio saggio, in possesso di verità da tramandare, ma di cui
quasi certamente non ha piena consapevolezza.
Indugio un attimo e penso che quel racconto breve ma
illuminante non può restare lettera morta. Mi rendo conto che
sarebbe di fondamentale importanza. Si fonde con la storia
recente d’Italia e racchiude in sé valori universali da
trasmettere. Pertanto non merita di finire nel dimenticatoio,
anzi avverto che questa verità vuole emergere con tutta la
propria spinta propulsiva. Propongo quindi, esprimendola come
una battuta: “Allora te lo scrivo io il libro!” e, notandolo per
niente stupito aggiungo: “Sei disposto a dedicarmi tutto il
tempo necessario per gli incontri?”.
Salvatore, con una lieve smorfia di soddisfazione, come se
questo fosse un momento atteso da tempo, risponde deciso:
“Certamente, ma avrai anche bisogno di carte, articoli, atti
processuali e via discorrendo, tutto materiale che conservo
accuratamente in un cassetto”.
“Va bene, quando cominciamo?” domando entusiasta, tra il
serio e il faceto.
“Quando vuoi, dopo le vacanze di Natale”.
Trascorso qualche giorno realizzo che probabilmente non si è
trattato di una semplice coincidenza, chissà.
Forse una parte di Salvatore chiedeva da anni di ritornare alla
luce, ed è possibile che io abbia favorito questa opportunità.
E così mi ritrovo a Milano in un tiepido pomeriggio di gennaio
pronto a iniziare quello che si tradurrà in una serie di lunghe,
stimolanti conversazioni con Salvatore, nella sua casa di città.
Pensando all’incontro tanto desiderato, mi accorgo tuttavia di
13. 12
aver perso l’autocontrollo. Sono catturato dall’emozione, temo
di non essere all’altezza del compito.
Nonostante il sole in fronte e il riscaldamento dell’auto le mie
mani non riescono a scaldarsi, il volante continua a sembrarmi
troppo freddo.
Avverto brividi lungo la schiena, dallo specchietto retrovisore
mi accorgo di essere impallidito.
Mi immagino impacciato, balbettante. Non sono un giornalista,
non sono pratico di interviste, servizi o cose simili.
Malgrado ciò mi rendo conto che sarebbe controproducente
presentarmi all’appuntamento in preda all'ansia.
Cerco pertanto di distrarmi, ascolto dall’autoradio musica ad
alto volume, mi metto a canticchiare. Ma penso al clima
amichevole, alla modestia e giovialità del personaggio che
incontrerò, finché giunge fortunatamente una forza interiore,
un raggio di consapevolezza, che mi rasserena e mi fa superare
quel momento di impaccio. Ho come la sensazione di essere un
bambino condotto per mano da una creatura, sconosciuta ma
allo stesso tempo tranquillizzante, verso una meta inesplorata.
Mi sento meglio, trovo pure da parcheggiare l’auto senza
difficoltà sotto l’abitazione di Salvatore, cosa che, visto il
traffico, mi stupisce alquanto.
Mi accoglie Antonella, cerca subito di mettermi a mio agio,
salutandomi con un caloroso abbraccio.
Mi conduce nel salone, dove c’è Salvatore, che mi attende
sorridente. Ci salutiamo e ci abbracciamo. Mi fa accomodare
su una poltrona. Ora mi sento effettivamente a mio agio.
Salvatore si alza, mi chiede di aspettarlo qualche minuto e si
reca nel suo studio.
Mentre attendo, non posso fare a meno di notare un pianoforte
a mezza coda Steinway in un angolo del salone.
Nel medesimo istante Antonella mi porta un caffè espresso dal
profumo invitante.
14. 13
Poco dopo Salvatore ritorna con un plico di ritagli di giornale,
lettere e documenti.
15. 14
Capitolo 2
Dagli anni ’40 agli anni ’60
Il padre di Salvatore
“Prima di tutto ti voglio spiegare perché ti ho portato questi
documenti. - comincia a raccontare - Mio padre era del ’900, si
chiamava Santi, anche lui medico durante la seconda guerra
mondiale. Nel ’42 fu richiamato al servizio militare.
In quanto ultraquarantenne venne considerato vecchio, per cui
destinato, in qualità di ufficiale medico, a Milano, presso il
carcere di San Vittore.
Conservo tra l’altro un ritaglio di giornale, eccolo. E' un
articolo di Indro Montanelli relativo alla propria detenzione.
Parla di un medico che lo curò dopo le percosse ricevute dalle
SS e fece in modo di sottrarlo all'isolamento e consentirgli un
regime carcerario meno duro.
Ritengo con certezza che si riferisse proprio a mio padre, visto
che allora era l’unico medico presente nel carcere.
In pieno periodo bellico quindi era lui che curava i detenuti e di
conseguenza i partigiani della Brigata Garibaldi, della quale
egli stesso fece parte, catturati dai tedeschi e dai repubblichini.
Non solo cercava di curarli nel migliore dei modi, con le scarse
risorse a disposizione in quel periodo, ma si prodigava in tutti
modi per far loro evitare un trattamento o un destino peggiori.
Terminata la guerra, per i meriti riconosciuti nel proprio lavoro,
venne contattato dal Ministero di Grazia e Giustizia, dove gli
proposero di creare e gestire il nuovo centro clinico all’interno
16. 15
Corriere della Sera 22/07/2005. Lettera in cui Montanelli menziona il
medico del carcere di San Vittore
del carcere.
Mio padre accettò ed esercitò fino alla sua morte, avvenuta nel
1969, il ruolo il direttore sanitario nonché chirurgo ufficiale
della struttura, insieme a un equipe di altri medici.
Per la sue competenze professionali divenne nel contempo
anche presidente all’ospedale Fatebenefratelli di Milano”.
“Sei di origine siciliana, giusto?”
“Sì, mio padre era messinese. Un Caminiti nel 1819 fondò
Santa Teresa di Riva, vicino a Catania, in pratica non c’è
17. 16
nessuno più terrone di me!
Ho fatto una ricerca in internet, dove ho trovato la storia dei
miei antenati. C’è anche un libro su un certo Angelo Caminiti,
che si ribellò contro un comune di montagna che dominava su
quelli circostanti. Allora i comuni erano arroccati sulla
sommità dei colli, per poter avvistare e proteggersi dalle
invasioni via mare di barbari e pirati. Sulla battigia non c’erano
case. Quando si cominciò a costruire sul litorale, i suddetti
Signori dei comuni, pretesero le tasse sui terreni e gli immobili
a mare, applicando gli stessi criteri imposti nei borghi arroccati
sulle alture. Angelo Caminiti fu il primo a ribellarsi. Cambiò le
regole e ottenne molte concessioni, tra cui l’autonomia
amministrativa di diverse località. Mia nonna materna invece
era una contessa De Leiva, casata famosa per la monaca di
Monza. Antonio de Leyva, generalissimo dell’armata di Carlo
V, nel 1550 dalla Spagna venne in Italia. Era al comando di
una zona del Nord che comprendeva Milano e Monza. Sposò
una Marino, appartenente alla casata che edificò Palazzo
Marino, attuale sede del Comune di Milano, tanto per
intenderci.
Ebbe due figli, un maschio e una femmina. Il maschio
scomparve ancor giovane, mentre la femmina divenne la
celebre monaca di Monza. Francamente non credo di essere
suo discendente, in quanto lei ebbe una bambina, che morì
all’età di 5-6 anni. In proposito venne realizzata, dallo scrittore
Mario Mazzucchelli, una ricerca presso l’archivio
dell’Arcivescovado di Milano 50 anni fa. Vi sono riportati tutti
i documenti relativi al processo risalenti al 1590, e descritte
persino le torture a lei inflitte, con particolari a dir poco
raccapriccianti.
18. 17
Quando la madre della Monaca di Monza morì, il generale de
Leyva tornò in Spagna e si sposò nuovamente con una donna
iberica, da cui ebbe quattro figli. Due di questi tornarono in
Italia con il mandato di governare Monza e Cusano Milanino.
E’ probabile che la mia famiglia derivi da questo ramo. I loro
discendenti vissero per lungo tempo a Trieste, dove il cognome
della casata perse la y greca.
Ma, tornando a mio papà, ricordo che nel 1946 si scatenò una
rivolta dei detenuti all’interno del carcere. Per tre giorni i
rivoltosi rimasero rinchiusi con alcuni ostaggi, e vi furono dei
morti.
In quei momenti concitati mio padre poté entrare nel
penitenziario. I carcerati ribelli si fidavano solo di lui.
Mi raccontava che i reclusi erano esasperati dalle condizioni
disumane in cui stavano ammassati in celle fatiscenti.
Grazie al suo impegno e al suo coraggio mio papà divenne in
quei momenti cruenti l’unico canale di comunicazione con
l’esterno.
Milano fu avvolta in un’atmosfera cupa. I tre giorni della
rivolta dell’aprile 1946 vennero chiamati Pasqua di sangue.
Le richieste dei detenuti non furono accolte, prevalse la linea
dura e le autorità decisero di intervenire con un blitz di esercito
e polizia, talmente schiacciante da costringere i rivoltosi alla
resa”.
Finisco di sorseggiare il caffè. Come immaginavo, il racconto
si fa avvincente sin dalle prime battute. Non ero al corrente di
quella sanguinosa rivolta. Quindi mi riprometto di effettuare
ricerche in proposito. Da una verifica successiva all’incontro,
riesco a reperire agevolmente su internet articoli, informazioni
e un video di un vecchio cinegiornale dell’Istituto Luce
19. 18
sull'episodio. Lo visiono. Mi rendo subito conto della
scandalosa manipolazione della notizia, volutamente falsata per
nascondere il vero motivo della rivolta, ossia le disastrose
condizioni in cui si trovava il carcere di San Vittore nei mesi
successivi al secondo conflitto mondiale. Vi erano reclusi,
letteralmente stipati, il triplo dei detenuti previsti, in una
struttura invivibile, seriamente danneggiata dalla guerra finita
da poco. Mi consola il fatto di essere riuscito a reperire un gran
numero di articoli che rivelano con maggiore obiettività e
veridicità i fatti accaduti, nonché la storia e la personalità dei
principali personaggi coinvolti. Ignoravo inoltre che persino lo
scrittore Bevilacqua avesse scritto un romanzo ispirato a quella
sommossa.
Link http://provinciadiroma.archivioluce.com/provincia-
roma/scheda/video/IL5000008818/2/Cronaca-nera-Rivolta-al-S-Vittore-di-
Milano.html
20. 19
Articolo di Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 11/11/2003
Peccato che in nessuna delle ricerche da me attuate compaia la
figura di Caminiti-padre, che in realtà ebbe un ruolo importante
di mediazione, al fine di evitare ulteriori spargimenti di sangue.
Pensando alle ricerche da effettuare, dopo qualche istante di
astrazione, riprendo a concentrarmi sul racconto di Salvatore.
“In qualche modo San Vittore era diventato un po’ come casa
mia - riprende -. Sentivo a tavola i discorsi di mio padre che
parlava a mia madre vuoi di quello che era successo dietro le
sbarre, o dei personaggi finiti sui giornali per fatti delittuosi e
con i quali mio padre dialogava di persona. Ah, dimenticavo di
dirti che nel medesimo periodo in cui fu incarcerato
Montanelli, papà ebbe modo di conoscere anche il
giovanissimo partigiano Mike Bongiorno, suo compagno di
cella, scampato alla fucilazione della Gestapo solo perché
aveva il passaporto americano.
21. 20
Alla radio italiana in USA, rubrica di cucina
Da: La versione di Mike di Mike Bongiorno ed. Mondadori
Nel ’46 mio padre fu tra i soci fondatori della clinica Santa
Rita, all’inizio una struttura molto piccola, dotata di soli 5 posti
letto”.
“Quanti soci erano, e qual era il ruolo di tuo padre?”.
“Gli altri soci erano 43 medici. Mio padre deteneva il maggior
numero di azioni, il 20 percento”.
“Quindi, scusa se sono indiscreto, visto che oggi la clinica
occupa in pratica un intero isolato, immagino abbia portato
molti profitti negli anni in cui continuava ad espandersi?”.
“Non è così, anzi l’opposto, anche se è vero che nel corso degli
22. 21
anni continuava a ingrandirsi. Mi ricordo che con mio padre
andavamo a vedere le ville da inglobare nella struttura. Come
sai, le vie Ampere e Jommelli si trovano in una zona
residenziale ricca di splendide residenze, giardini ed edifici di
pochi piani.
Tutti gli utili in realtà venivano reinvestiti per ampliamenti e
ammodernamenti, come ad esempio l’acquisizione della
confinante piccola casa di cura Sanatrix, dove fu ricoverato
l’ex presidente della repubblica Segni.
Tant’è che la società si trovò oberata di debiti e nel 1976 si
decise di venderla. Io non volevo, desideravo che comunque
continuasse a operare con un management costituito da soli
medici: la consideravo la formula più idonea. Credevo in un
possibile ripianamento dei debiti, ma con il 20 percento di
quote ereditate insieme ai miei fratelli da nostro padre, non
potevo oppormi alla decisione. Fu svenduta per pochi soldi, a
un prezzo praticamente fallimentare, a un personaggio strano,
commerciante di rottami, il quale a sua volta la rivendette nel
1982 al notaio Francesco Pipitone.
Così, come vedi, le dimensioni della Santa Rita oggi,
ridenominata Istituto Clinico Città Studi, sembrano soffocare
le case circostanti. E' il risultato della gestione Pipitone, che ha
enormemente aumentato la volumetria dell’ospedale.
Il che ha creato non poche proteste da parte degli abitanti della
zona, che considerano la struttura un complesso sproporzionato
tale da congestionare l’intera area”.
“E riguardo ai recenti fatti, alla cosiddetta clinica degli orrori?”
“Non ho più rapporti con la Santa Rita da oltre vent'anni ma mi
dispiace che questi fatti abbiano infangato, per colpa di pochi,
il nome, la professionalità e il sacrifico di tanti anni di lavoro di
23. 22
personale medico altamente specializzato. Ti devo illustrare
diversi dettagli a proposito di queste vicende. Se vuoi possiamo
farlo durante un prossimo incontro. Ora risulterebbe troppo
lungo e fuorviante”.
“Ok”
“Ma riprendiamo il discorso di mio padre. Per me sentire
parlare di quello che accadeva in carcere era diventata
un’abitudine, mio papà trattava bene i detenuti. Non solo,
quando uscivano dal penitenziario, venivano a farsi visitare
gratuitamente nel suo studio. Si vede che era una persona
migliore di me, molto dolce, estremamente buono”.
Su quest’ultima frase rimango un po’ perplesso: come mai
Salvatore si sminuisce così tanto rispetto alla figura di suo
padre? Eppure tutti quelli che lo conoscono parlano sempre in
modo molto positivo di lui, sia sotto l’aspetto professionale che
umano. Modestia o non completa coscienza dei ruoli sociali
ricoperti in passato? Non riesco a darmi una risposta
convincente. Salvatore continua a parlare, per cui non mi
rimane altro che riprendere a seguirlo con attenzione.
“Mi ricordo – prosegue - di avere conosciuto personaggi come
il famoso pugile che aveva ucciso a Villa d’Este una vecchia
signora straniera, per portarle via i gioielli. Quel fatto allora mi
impressionò molto. E qui la storia si fa interessante, perché in
seguito a questo caso a mio padre successe un casino”.
“Ma come, anche tuo padre ebbe dei guai?” Chiedo sorridendo.
“Sì, dev’essere un vizio di famiglia”. Accenna una breve risata.
“A quel pugile dal fisico molto robusto fu comminato, credo,
l’ergastolo, per una rapina conclusa tragicamente con
l’uccisione della donna. Dopo quindici anni di detenzione a un
certo punto manifestò disturbi intestinali e fu operato
24. 23
all’interno del carcere. Mio padre gli aprì l’addome. Lo vide
invaso di noduli di ogni genere e riconobbe la conformazione
tipica delle metastasi. Gli fu prelevato un nodulo e analizzato:
era un tumore. L’avvocato del detenuto, di conseguenza,
presentò istanza di grazia, perché un recluso alla stadio
terminale di una malattia, può ottenerla per legge. Trascorsero
sei mesi, un anno, ma il pugile non moriva. Qualcuno cominciò
a sospettare della diagnosi, e intervenne la magistratura. Si
fecero accertamenti e risultò che l’omicida era guarito. Ogni
tanto può capitare. Le difese immunitarie di quell’uomo erano
riuscite a sconfiggere il male.
Dopo vent’anni stava benone e mio padre venne indagato e
rischiò di subire un processo per presunta falsificazione di
diagnosi. Era spaventatissimo, ma per fortuna esistevano le
carte con tutti i referti e gli esami istologici, per cui non ebbe
ulteriori complicazioni in relazione a questa vicenda”.
“Anche perché, se non sbaglio, la scienza contempla una certa
percentuale di guarigioni spontanee.” Intervengo io, da
profano.
“Sì però c’era sempre un sospetto dal punto di vista della
Procura, capisci… Un giorno, di pomeriggio, mio padre mi
portò con lui in carcere. Da allora cominciai a conoscere i
detenuti, ma a parte un’esigua minoranza, come il direttore e
gli esperti in materia, nessuno si rendeva conto del fatto che,
quando si parlava, per esempio, di Luciano Liggio, il grande
capo della mafia, si pensava chissà a chi.
Invece era uno come te, comprendi? Quando parlava, quando
rideva, quando scherzava, era identico a te.
La gente si chiedeva e si chiede anche ora come sono i
detenuti: uguali a noi, anche se hanno agito contro la legge.
25. 24
Mentre accadeva tutto questo, proseguivo gli studi di medicina.
Mi laureai, poco dopo la cerimonia di consegna dei diplomi
mio padre mi propose -Vuoi lavorare anche tu a San Vittore?
Se ti va, cominci come medico di guardia.- Senza indugio, gli
risposi di sì”.
Milano. Agitazione di detenuti nel carcere di San Vittore. Passanti.
Museo di Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo (MI)
26. 25
Capitolo 3
Gli inizi della carriera
“Era il 1963, da quell’anno diventai medico di guardia nel
carcere di via Filangieri. Ero di turno dalle due alle cinque del
pomeriggio. Lo stipendio, se non sbaglio, si aggirava sulle
quarantamila lire al mese. Non era molto, però era interessante
perché, come medico di guardia, nelle tre ore in cui curavo i
detenuti, nessuno mi avrebbe denunciato per gli eventuali
errori, come per esempio suturare un taglio al dito, pur non
essendo certi del buon esito dell’operazione. Da allora appresi
sul campo la pratica della chirurgia e la mia carriera nel carcere
proseguì. Qualche tempo più tardi fui trasferito al reparto di
chirurgia, dove mio padre operava insieme ad altri colleghi.
Qualche anno dopo papà venne a mancare, e mi assegnarono
al reparto femminile.”
“Quando tuo padre morì era ancora in piena attività?” chiedo.
“Sì. Morì improvvisamente, in soli due giorni, di leucemia
acuta, tanto che dovetti spuntare (nda, togliere i punti di sutura)
io gli ammalati che aveva operato la settimana precedente. La
leucemia è una malattia che non si sa da dove venga. Aveva 69
anni, poteva andare avanti ancora, va be’… (attimo di
commozione). Dicevo del reparto femminile. Ci rimasi, come
responsabile, per due anni. Per cui mi capitò anche di far
nascere qualche bambino. Io non avevo mai eseguito
direttamente un parto, ma la teoria ti serve, eccome” comincia
a sorridere con l’aria di un vecchio maestro divertito.
“Tiri di qua, tiri di là, e i bambini vengono al mondo.
27. 26
Il carcere di San Vittore (ViviMilano)
Ah… dimenticavo. Vorrei raccontarti un episodio curioso
avvenuto quando ero ancora in chirurgia. Il reparto maschile
era diviso da quello femminile da una porta. Chirurgia e reparto
femminile erano gestiti di fatto dalle suore, quelle coi
cappelloni, che aiutavano a operare e a preparare i ferri.
C’erano due suore, avranno avuto sui 55 anni: minute e non
particolarmente attraenti. Mio padre, in qualità di primario,
operava in carcere una volta la settimana, e io fungevo da
assistente agli interventi e visitavo i malati quotidianamente.
Un giorno mi fermò il medico analista, che si occupava degli
esami di laboratorio e che lavorava anche alla clinica Santa
Rita. Un tipo molto meticoloso e bigotto. Pensava di restare
28. 27
eternamente celibe, poi ebbe la fortuna di incontrare una donna
colta, che sposò, a da cui ebbe due figli.
Mi prese in disparte, confidandomi preoccupato – Sai
Salvatore, non so come dirtelo. Ho l’esito delle analisi delle
urine di suor Giovanna… sono piene di spermatozoi… -
‘O Madonna!’ mi sono detto tra me e me.
Io ero solo un assistente, per cui decisi di aspettare un po’ a
dirlo a mio padre, perché se l’avesse saputo sarebbe stato
obbligato a fare una denuncia in qualità di direttore sanitario.
Chissà che casino sarebbe successo a quel tempo.
Dopo due o tre giorni pensai che sarebbe stato meglio parlare
direttamente alla suora, considerato che la vedevo tutti i giorni
ed ero in un rapporto di confidenza con lei. Oltretutto le suore
mi coccolavano. Allora soffrivo di nevralgia al trigemino. Mi
lasciavano in infermeria per 2 o tre ore... brave persone. Quindi
presi il coraggio a quattro mani e la convocai.- Suor Giovanna
senta, ho visto il suo esame di laboratorio, c’è qualcosa che non
va.-
La Sorella assunse un’espressione preoccupata. Avrà pensato a
chissà quale malattia. Con un certo imbarazzo cercai di
illustrarle con tatto e discrezione il problema -Sa- le dissi,
quasi mormorando - hanno trovato degli spermatozoi nelle sue
urine-
Questa stette zitta un momento, poi si riprese e si mise a ridere
– No dottore, questo è l’esame delle urine di mia sorella, che
ho richiesto a nome mio…- Accettai la sua versione dei fatti e
non dissi niente a nessuno. La riferii solo all’analista e la cosa
finì lì.
Sono trascorsi circa quarant’anni da allora. Mi ricordo che
questa suora era originaria di un paesino del Piemonte, nei
29. 28
pressi di Borgosesia, dove, combinazione, io passavo con
l’auto piuttosto spesso. Salivo verso il paese di cui era
originario mio suocero e venni a sapere che la sorella della
suora abitava da quelle parti. La religiosa mi aveva chiesto di
andare a trovarla.
Infatti mi ricordo che una volta io e Antonella ci fermammo a
casa loro e andammo a salutarle.
Detto per inciso, la sorella della monaca non ebbe mai figli.
E ancora oggi mi chiedo: se un esame delle urine lo si porta fin
dal Piemonte a San Vittore, è lecito nutrire qualche sospetto?”.
“Effettivamente non ha molto senso…” dico io.
“La suora non brillava certo per il suo fascino, ripeto, ma sai,
considerando oltretutto la mentalità maschilista dell’epoca, in
carcere, con qualche detenuto… non so se la storia sia
interessante da riportare, comunque si tratta di un episodio
curioso. Così si potrà anche capire a quali dubbi e scelte vada
incontro un povero medico nell’ambito della propria
professione. C’è chi la vede in un modo e chi in un altro.
L’analista, quel moralista, quasi piangeva. Non riusciva a darsi
pace al solo dubbio che la suora fosse stata capace di
macchiarsi di una simile azione peccaminosa”. Sorridiamo
“E io che pensavo alle conseguenze… a mio padre che avrebbe
dovuto denunciare il fatto. Anche se, conoscendo la sua
benevolenza, si sarebbe impegnato per sistemare le cose ed
evitare ogni inutile clamore.
Alla fine, nel prendere talune decisioni, conta molto il fattore
‘simpatia’. Non ne abbiamo ancora parlato. Ho incontrato
persone simpatiche o antipatiche. Per esempio ebbi modo di
conoscere un uomo che trovavo affabile. Solo successivamente
seppi che si trattava del boss mafioso Luciano Liggio.
30. 29
Zamparelli, che fu questore a Napoli e capo della Squadra
Mobile di Milano negli anni ‘50, famoso per avere fatto
arrestare i componenti della banda di via Osoppo, mi rivelò
dell’esistenza di prove certe relative a ben 13 omicidi compiuti
da Liggio, e di molti altri delitti di cui mancavano ancora
riscontri definitivi. Io Liggio lo conobbi bene. Contrariamente
a quanto si possa pensare, era una persona piacevole. Parlavo
abitualmente con lui così come sto parlando con te. Cosa vuoi
che ti dica, più o meno tutti abbiamo personalità sfaccettate.
Quindi puoi capire come ci sia anche un conflitto interiore
nell’animo di un medico che opera dietro le sbarre. Io
comunque ho curato chiunque ne avesse bisogno, che fosse
cittadino libero o detenuto, ladro o mafioso, simpatico o meno.
Sempre negli anni ‘70, per i misteri della burocrazia statale,
che non faceva alcun distinguo tra le varie specializzazioni
mediche, fui trasferito senza preavviso al reparto medicina di
San Vittore, in qualità di internista. Io ero specializzato in
chirurgia, più che in medicina. Il dirigente medico, che era una
brava persona, comprese il problema e mi volle come suo
assistente.
Mi rimisi a studiare medicina. Con la morte di mio padre avevo
quasi abbandonato la chirurgia.
Avevo la sensazione di essere diventato un chirurgo mediocre.
Ero partito bene, lavorando con mio papà per cinque anni, ma
era come se operassi da 10, grazie ai suoi consigli pratici.
Però, con la sua scomparsa, non trovai un collega che
proseguisse sulla sua linea. Mi fermai, smisi di perfezionarmi,
e compresi che, senza esercitarsi con assiduità era inevitabile
perdere progressivamente dimestichezza. A causa di ciò ebbe
fine la mia carriera di chirurgo.
31. 30
D’altronde ero arrivato a operare da solo la colecisti e lo
stomaco, ma non altri organi. Conosco i miei limiti, al di là dei
quali non sono mai andato.
Come dicevo, mi stavo interessando sempre di più all’
internistica, in cui occorre un po’ di genio, di intuizione. E’
necessario vedere, immaginare tutto dall’esterno, utilizzando
gli scarsi referti a disposizione. Mentre la chirurgia si può
definire più propriamente ‘tecnica’.
Hai tutto sotto gli occhi, è più facile. Invece in internistica devi
fare la diagnosi guardandoti in faccia così - mi fissa con
sguardo clinico – per vedere se hai qualcosa di strano”.
Feci un paio di errori all’inizio della mia carriera, per
inesperienza. Ero appena laureato. Per fortuna non provocai
danni irreparabili. Mi era capitato di visitare una povera
donnina meridionale, me la ricorderò sempre. Abitava in via
Pacini. Suo marito venne da me dicendomi -Mia moglie non
sta bene, ha febbre alta.- Andai da lei, la visitai da cima a
fondo, non riscontrai nulla di anomalo, ma, trovandosi in un
ambiente al pian terreno, piuttosto buio, non le controllai il
colore degli occhi. Dopo qualche giorno arrivò suo marito
dicendomi –Dottore, mia moglie sta morendo-
-Come sta morendo?- Domandai. Allora lui rispose – Ha
un’epatite fulminante, ma non si preoccupi, lei non ne è
responsabile. Mi hanno detto che in ogni caso, non c’era niente
da fare.-
Ora, dopo quell’errore, la prima cosa che guardo in una
persona sono gli occhi… perché nella sintomatologia contano
molto. Poi mi ricordo di un giovane studente che mi aveva
chiamato. Non stava bene, non avevo notato il suo pallore.
Aveva un’emorragia interna, ma non manifestava alcun
32. 31
disturbo. Venne ricoverato in ospedale e si salvò.
San Vittore era tranquillo, basti dire che l’unica auto
parcheggiata davanti al portone era la mia. Parliamo degli anni
’65-’68, e qui conobbi la prima parte dei detenuti.
Non c’era una grande delinquenza, eccezion fatta per i membri
della celebre banda di via Osoppo, arrestati nel ’58. Per il resto
erano solo ladri e piccoli truffatori. Probabilmente saprai che
da quel colpo fu tratto il soggetto della pellicola L’audace
colpo dei soliti ignoti di Nanni Loi, uscito un anno dopo il
successo del celebre film I soliti ignoti”.
Rapina di via Osoppo, 1958
33. 32
“Non c’era ancora la criminalità organizzata?”
“No”.
“Si trattava sempre di gesti individuali, giusto?”
“Sì, però fammi pensare, il delitto Fenaroli avvenne dopo, se
non sbaglio. E questa situazione relativamente ‘tranquilla’
perdurò fino al termine degli anni ’60. Poi all’inizio dei ’70
ebbe origine il fenomeno delle brigate rosse.”
Con quest’ultima frase termina il mio primo incontro con
Salvatore. Mi sento soddisfatto del lavoro svolto, trattandosi
del primo approccio, e sono felice di avergli fatto una buona
impressione.
Con l’esperienza odierna si può dire che lo sento non solo
come una persona cordiale ma anche come un amico.
Ora non ho più incertezze o paure, tutti i miei sforzi si
concentreranno nella ricerca di trasmettere al lettore, nel modo
migliore possibile, il patrimonio di umanità, insegnamenti e
valori, che le sue vicende personali ci possono trasmettere.
Forse Salvatore non lo sa, ma il suo punto di osservazione è
stato unico, si potrebbe dire privilegiato. Appare come una
visione in grado di completare le tessere mancanti di un
mosaico, consentendoci di meglio comprendere, senza
giustificare, la logica oscura che aveva mosso la mano degli
autori dei più atroci delitti di quegli anni.
Indagando nell’animo umano, mentre prestava le sue cure con
umiltà e spirito altruistico ai reclusi, inconsapevolmente ha
chiarito taluni aspetti non correttamente interpretati della storia
recente del nostro Paese.
Dopo l’incontro odierno, sono convinto che egli, più di
chiunque altro, grazie al suo impegno, sia venuto a conoscenza
34. 33
di talune verità, senza necessariamente cercarle, molto più
autentiche di quelle che si trovano nei libri di storia.
Alcuni giorni dopo, passeggiando lungo la spiaggetta poco
distante da casa, osservo la superficie del lago, è quasi uno
specchio.
Si direbbe che, se non fosse per le piccole increspature appena
percettibili e il lieve sciabordio di minuscole onde che
lambiscono la riva ghiaiosa, l’acqua non sembrerebbe così
fluida come la conosciamo.
In alcuni momenti la totale assenza di vento crea questo effetto
di apparente staticità.
…‘L' odore dell'acqua e quasi di luce che ha sempre il vento al
mio paese…’ Sono le parole che mi vengono in mente, dal
romanzo Ti sento Giuditta, di Piero Chiara.
Nella simbologia del racconto il vento quindi non porta con sé
soltanto gli odori della vita e degli avvenimenti, come la
fragranza del pane appena sfornato nel paese dell’altra sponda
del lago, ma è soprattutto portatore del profumo della luce,
ovvero della consapevolezza. Afferro un sasso piatto e rosa
dalla battigia, lo scaglio con vigore sulla superficie del lago. La
pietra saltella diverse volte prima di affondare. Ora l’acqua si è
mossa.
E' bastato un solo sasso per smuovere acque immobili solo
all'apparenza. e mi domando se quanto mi accingo a scrivere
sarà la "pietra scagliata" in grado di far riemergere e dare
nuovo slancio a vicende rimaste chiuse nel cassetto per
decenni. In ogni caso, grazie all'originale punto di vista che
Salvatore ha messo a disposizione nell'esporre dati e vicende
non si tratterà di un "buco nell'acqua".