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Fare i racCONTI
con il cambiamento
Edizione 2013
pubblicazione realizzata da
INAIL
Sede di Torino centro
A cura di
Alessia Congia, Valeria Grotto, Serena Peyron, Lucia Portis, Roberto Sciarra
Testi di
Adrian, Aldo, Beatrice, Consolazione, Dino, Emilia, Francesco, Franco, Issa, Luciano,
Marie Jeanne, Marinela, Mario, Maurizio, Norberto, Patrizia, Pietro, Refit, Rita, Sergiu
info
Inail
Sede di Torino Centro
Corso Galileo Ferraris 1 - Torino
torinocentro@inail.it
torinocentro@postacert.inail.it
La pubblicazione viene distribuita gratuitamente e ne è quindi vietata la vendita nonché la
riproduzione con qualsiasi mezzo. È consentita solo la citazione con l’indicazione della fonte.
Tipolitografia Inail Milano, dicembre 2013
Dedicato a Mario
motore fondamentale
di questa bellissima esperienza
“Quando l’uomo ha vissuto e imparato
va in pensione
e si siede su una panchina,
è a perdere.
Invece bisogna chiedere ai vecchi
cosa hanno imparato;
si ricicla l’immondizia,
bisogna riciclare l’esperienza”
Fare i racCONTI con il cambiamento
[5]
Indice:
Prefazione
Tommaso Montrucchio
Commento al progetto
Padre Antonio Menegon
Introduzione al progetto
Introduzione metodologica al laboratorio
Introduzione alle monografie
Monografie
Adrian
Aldo
Beatrice
Consolazione
Dino
Emilia
Francesco
Franco
Rita
Issa
Luciano
Patrizia
Marinela
Mario
Marie Jeanne
Maurizio
Norberto
Pietro
Refit
Sergiu
Riflessioni degli operatori
Introduzione alle salienze
Salienze
Trauma e cambiamento
Le risorse
Gratitudine
Cosa non ha funzionato
Prevenzione
Ricominciare
Consigli
Messaggio ai lettori
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[7]
PREFAZIONE
Tommaso Montrucchio
Direttore della Sede Inail di Torino Centro
Me lo ricordo ancora quel signore tranquillo che parlava fitto, fitto, con un
sorriso grande così stampato sul viso, gli occhi che brillavano.
Ci raccontava della sua grande passione a gironzolare per il mondo su una nave.
Era il suo lavoro, era un tecnico di grande esperienza. Io, assorto, ascoltavo in
silenzio, ero ammirato. Come i miei colleghi. Quell’uomo stava per morire.
E infatti è morto.
Ma non è morta la sua passione per il lavoro, la stessa che hanno i protagonisti
di questo libro.
Grazie a loro è nata quest’avventura che li ha portati a raccontare e a raccontarsi
in queste venti storie. Io all’inizio ero scettico, dicevo ai colleghi “noi non
facciamo gli editori, ma i funzionari del parastato”, ma loro sono testardi e non
mi hanno dato retta più di tanto.
E in combutta coi titolari di queste venti storie e col “concorso esterno” della
Professoressa Portis hanno prodotto questa “cosa”.
Io adesso lascio la parola ai veri protagonisti e non aggiungo altro.
Anzi no, una cosa la voglio dire:
LEGGETELO QUESTO LIBRO, NE VALE SEMPLICEMENTE LA PENA.
[9]
COMMENTO
Padre Antonio Menegon - Comunità Madian di Torino
Vivere è incontrare volti, storie, esperienze che ti coinvolgono se ti lasci
catturare dall’importanza che nella vita hanno le persone.
Noi siamo gli altri, e più condividiamo la nostra vita con la vita degli altri, più
riusciamo a dare un senso ai nostri giorni. Tante sono le persone che ho
incontrato nella mia vita, le più diverse, le più lontane, ma anche le più vicine,
tutte con il loro bagaglio di vita e le loro storie, alle volte fatte di sofferenza,
privazione, povertà, malattia, indifferenza.
Fermarsi e saper ascoltare, accogliere, entrare dentro il dramma vissuto ed
esprimere partecipazione, coinvolgimento, far sentire una presenza attenta,
premurosa, è il primo passo per ridare forza e fiducia nella vita, per risollevarsi
e riprendere il cammino.
Nella nostra comunità arrivano persone profondamente provate dalla vita, con
vissuti di disperazione, persone arrivate in Italia per lavorare e sostenere la
famiglia lasciata nel paese di origine; si ritrovano ammalate e incapaci di
sovvenire alle necessità dei loro famigliari perché loro stessi privi della prima
grande risorsa che è la salute.
La comunità accoglie non solo le persone ammalate e bisognose di cure, ma
tutto quel subbuglio di sentimenti, frustrazioni, ansie, fallimenti che rendono
ancor più impotenti e incapaci di sperare in un possibile futuro.
Si vincono lo scoraggiamento e la disperazione non solo dando delle cose, un
alloggio, cure mediche, ma soprattutto trasmettendo il messaggio rassicurante
che i pesi e le sofferenze vengono portati insieme, che quelli che sono i bisogni,
le attese e le speranze sono totalmente condivisi, cosicché la persona non è più
sola, isolata, ma rinvigorita dalla certezza che altre persone sono sintonizzate e
partecipi.
In una parola, occorre saper scaldare il cuore perché l’altro possa abbandonarsi
fiducioso, come un bambino in braccio a sua madre, e, così rinfrancato,
riprendere vigore per lottare e superare le difficoltà della vita.
Tanti hanno vinto la loro battaglia, altri non ce l’hanno fatta, ma, sia chi ha
vinto, sia chi non è riuscito, ha lasciato una traccia, una storia da raccontare,
un’esperienza che può essere di aiuto, non solo ad altre persone ammalate, ma
anche a tanti altri che, venendo a contatto con questa storia, hanno saputo trarre
insegnamento per potere vedere la vita con altri occhi e cambiare la loro visione
del mondo e delle cose.
Questa è l’importanza di questo libro, che aiuta a non dissipare esperienze di
vita preziose; e nulla come la sofferenza ci aiuta a dare il giusto posto alle cose
e alle persone e fissare sugli assoluti della vita i punti fermi per non vivere
invano.
[11]
INTRODUZIONE AL PROGETTO
Gli operatori
Innanzitutto ci presentiamo: siamo funzionari dell’Inail della sede di Torino
Centro, l’Istituto pubblico che si occupa degli infortuni sul lavoro e delle
malattie professionali.
Per raccontarvi di questo progetto, è importante ritornare con la mente alle sue
origini e ai bisogni da cui ha preso avvio.
Nel nostro lavoro incontriamo quotidianamente persone che hanno vissuto o
stanno vivendo l’esperienza dell’infortunio o della malattia professionale, in
prima persona o come famigliare.
Più volte abbiamo osservato l’emergere di un bisogno delle persone di parlare,
di sentirsi ascoltate, di raccontare quello che stavano attraversando; perché in
queste occasioni si è in tre: l’operatore, la persona colpita dall’evento (o un suo
famigliare) e la sofferenza portata.
Questa alcune volte viene esplicitata, altre volte viene trattenuta.
Se il dolore non rimane chiuso all’interno della persona ma fluisce all’esterno e
viene riconosciuto, diventa forse più leggero e rende un po’ più semplice
continuare a conviverci; in alcuni casi, il parlarne addirittura cambia il proprio
modo di vivere l’esperienza di vita.
Molte delle persone incontrate in questi anni si sono aperte al racconto e hanno
condiviso con noi che questo faceva loro molto bene. Ci hanno infatti più volte
detto che potevano raccontare quello che sentivano in modo libero e che in
famiglia questo era molto più difficile, anche per il timore di aggiungere
ulteriore sofferenza.
Così abbiamo cominciato a pensare che fosse prezioso raccogliere le esperienze
fatte dalle persone e le loro personali risposte date a quello che era loro
accaduto.
Infatti, ci imbattiamo spesso in storie e risposte simili quando incontriamo
singolarmente le persone e i loro famigliari, che potrebbero quindi ricevere un
conforto anche solo ascoltando i racconti degli altri; più volte, dopo un incontro
significativo ci siamo detti: “certo che se si conoscessero, si potrebbero aiutare
tra loro; inoltre le loro esperienze potrebbero essere utili in funzione preventiva
anche a chi non ha mai subito un evento simile”.
L’Inail, infatti, oltre ad assistere sotto vari aspetti chi subisce un infortunio sul
lavoro o una malattia professionale, attua interventi di prevenzione fornendo
formazione e informazione per la diffusione della cultura della sicurezza sul
lavoro, sia nella scuola fin dall’infanzia sia nel mondo del lavoro.
Siamo convinti, infatti, che i vissuti delle persone, portati all’esterno, possano
coinvolgere molto di più rispetto ad interventi che insistano solo sulle
prescrizioni e sull’obbligo dell’uso dei dispositivi di sicurezza.
Fare i racCONTI con il cambiamento
[12]
Abbiamo pensato dunque che la raccolta delle esperienze delle persone potesse
diventare materiale utile anche per queste iniziative.
Altro obiettivo era quello di capire dove e come noi operatori, svolgendo
quotidianamente il nostro ruolo istituzionale, potessimo modificare e migliorare
il rapporto con i nostri assistiti: per questo abbiamo chiesto i loro consigli in tal
senso. Ci piacerebbe anche poterli diffondere fra i colleghi delle altre sedi, in
occasione dei corsi di formazione interna.
Abbiamo infine creduto nell’importanza e nella forza del gruppo.
Il nostro lavoro quotidiano si svolge in gruppo e siamo convinti della validità di
questo strumento: questa esperienza ha confermato e rafforzato la nostra
consapevolezza.
È stato così che tre uffici della nostra sede, Reinserimento, Prevenzione e
Lavoratori, si sono uniti per cercare un’idea che integrasse tutti gli aspetti del
loro lavoro, provando a dare concretezza ai bisogni colti ed alle riflessioni
sviluppate nel corso del tempo.
I presupposti del progetto sono:
il valore delle storie delle persone;
l’importanza di avvicinarsi a queste storie come strumento per favorire un
rapporto tra persone ed Ente improntato sull’umanizzazione e valorizzazione
del vissuto soggettivo;
la necessità di utilizzare le storie di vita, infortunio e cambiamento
nell’ambito degli interventi per la diffusione della cultura della sicurezza nei
luoghi di lavoro.
Per avvicinarsi alle persone ed alle loro storie, si è scelto di utilizzare lo
strumento dell’intervista. Nel corso di un anno sono state intervistate venti
persone, fra coloro che avevano subito un infortunio sul lavoro, una malattia
professionale, i loro congiunti e i famigliari di chi a causa del lavoro aveva
perso la vita.
Attraverso le interviste, le persone hanno raccontato il proprio vissuto, in uno
spazio narrativo dove sono state portate le emozioni, le paure, le idee.
Allora abbiamo pensato: perché non creare una situazione in cui le persone
possano incontrarsi tra loro e condividere i racconti, le storie di vita, le risposte
che singolarmente ognuna di loro ha dato?
Tutte le persone coinvolte hanno accolto positivamente la proposta: è nata così
l’idea di dare avvio ad un laboratorio di narrazione autobiografica, nel corso del
quale sviluppare il lavoro sulle storie delle persone ed arrivare all’elaborazione
della loro esperienza in forma narrativa.
La conduzione del laboratorio è stata affidata alla Prof.ssa Lucia Portis,
antropologa, collaboratrice scientifica della Libera Università dell’Autobiografia
di Anghiari.
Fare i racCONTI con il cambiamento
[13]
Hanno aderito al laboratorio dodici persone, di cui quattro straniere: quattro
delle persone coinvolte sono famigliari di infortunati sul lavoro.
La persone straniere hanno avuto la possibilità di scrivere nella loro lingua
madre, a volte aiutati dai figli per la trascrizione in italiano.
Gli operatori che hanno curato questo progetto hanno partecipato attivamente al
laboratorio, affiancando i partecipanti nella trascrizione dei testi, lasciandosi
coinvolgere nel percorso narrativo e, successivamente, lavorando, con
l’assistenza della Prof.ssa Portis, alla sistemazione di tutto il materiale prodotto
nel corso delle interviste e del laboratorio.
È stato il primo progetto all’interno della nostra Sede in cui tre uffici così
diversi si sono uniti con lo scopo di realizzare un’idea condivisa; questo ha
sicuramente prodotto un grande valore aggiunto ed un’interazione maggiore tra
gli operatori.
È andato tutto al di là dello sperato e dell’immaginato. L’interazione tra le
persone è avvenuta tra le diversità e unicità di ognuno. Spesso i partecipanti
hanno condiviso che il fatto di essere in gruppo dava loro un senso di famiglia,
di forza e di coraggio.
Il progetto è nato con premesse che nel tempo si sono trasformate ed ha nel
contempo arricchito le persone che hanno partecipato e che hanno voluto dar
vita a questa testimonianza.
A partire dagli obiettivi iniziali, abbiamo così percorso strade più innovative e
meno scontate rispetto al nostro usuale lavoro, arrivando così a pensare ad un
mezzo di divulgazione ambizioso: un libro.
[15]
INTRODUZIONE METODOLOGICAAL LABORATORIO
Lucia Portis
Il laboratorio di narrazione autobiografica è uno spazio/tempo all’interno del
quale le persone intraprendono un percorso mnestico e introspettivo attraverso
l’uso di dispositivi atti a favorire il racconto in forma orale e scritta. Questo
percorso implica una disposizione all’ascolto di sé e il desiderio di comunicare
la propria esperienza ad un interlocutore/ascoltatore.
Infatti oltre alla scrittura individuale, altrettanto importante è la fase
interpretativa e di restituzione; in questa fase i narratori e le narratrici sono
invitati/e a condividere le loro scritture in gruppo o a coppie e a riflettere su
quanto scritto. La rilettura e l’analisi dei testi consentono ai/alle partecipanti la
comprensione delle scelte narrative, delle interpretazioni e un’ulteriore
attribuzione di significato.
Il laboratorio è quindi uno spazio narrativo di gruppo dove la narrazione di sé
diventa, durante la lettura, pratica collettiva e la condivisione dei testi genera un
effetto di identificazione e rispecchiamento, e al tempo stesso di
differenziazione, rispetto all’unicità delle storie di ognuno.
Il contesto narrativo consente, quindi, da una parte di dar forma alle proprie
rappresentazioni, senza la paura del giudizio altrui, dall’altra facilita la
condivisione e la connessione della propria rete semantica con quelle degli altri.
Il gruppo negozia e amplifica l’attribuzione di significati comuni dell’agire
quotidiano e permette la costruzione di microteorie contestualizzate e
utilizzabili per comprendere le diverse visioni della realtà.
È un lavoro di co-costruzione. I testi letti in gruppo sono come gettati nel
mondo, un transito che in qualche modo separa la narrazione dall’autore e
autrice e li porta ad ascoltarsi. La storia individuale comincia a entrare in
un’altra storia, quella del gruppo. E, insieme, la storia individuale permette una
nuova conoscenza di sé.
Il gruppo partecipa alla storia di ognuno lasciando la sua singolarità vivida e
unica, entra in contatto con la storia di tutti/e senza perdere un solo passo ed
entrando in scena con sottolineature - emotive, di contenuto, autoriflessive - che
agganciano e mescolano i significati.
Il contesto formativo diventa contesto narrativo proprio perché consente il
racconto di frammenti di sé e quindi di dar forma alle proprie rappresentazioni,
senza la paura del giudizio altrui, di meticciare, condividere e connettere
interpretazioni di sé, dell’altro e del mondo.
Gli incontri del laboratorio sono composti da diversi momenti: il momento
introduttivo, in cui viene illustrato il dispositivo e vengono invitati e
accompagnati i/le partecipanti a scrivere utilizzando suggestioni diverse: letture,
Fare i racCONTI con il cambiamento
[16]
sollecitazioni teoriche, immagini; il momento individuale di narrazione e
scrittura; il momento della restituzione in cui i partecipanti sono invitati a
rileggersi e rielaborare quanto scritto in modo collettivo; il momento di
chiusura nel quale sono messe in comune emozioni e riflessioni, e l’accento è
posto più sul processo che sui contenuti emersi.
Abbiamo creato questo spazio per consentire ai partecipanti di ricostruire in un
primo tempo la loro storia prima dell’incidente o della malattia e poi di
affrontare quest’ultima e quello che ne è venuto dopo.
L’obiettivo del laboratorio era quello di raccontare il proprio passato al fine di
intraprendere un percorso di risignificazione alla luce dell’oggi e motivare i
partecipanti a ripensare al proprio futuro e aprirsi ad altre possibilità. Inoltre il
laboratorio ha consentito di conoscere e comprendere le strategie di coping1
utilizzate dai vari partecipanti per far fronte all’evento problematico e le loro
capacità di resilienza.
Struttura del laboratorio
Il laboratorio è stato strutturato in otto incontri di due ore ciascuno, i temi
affrontati erano relativi alla storia di vita nel suo complesso e in particolar modo
all’evento problematico (infortunio o malattia), alle sue conseguenze, alle
strategie di coping e resilienza.
Le persone che non erano in grado di scrivere o che non volevano utilizzare
questo codice sono state affiancate da operatrici e operatori dell’Inail che hanno
messo in forma scritta il loro racconto orale. Il risultato finale non è stato
soltanto una produzione di testi significativi e importanti per sé e per gli altri
che il lettore potrà trovare nelle diverse monografie, ma anche un’importante
presa di coscienza dell’importanza del gruppo e della narrazione per affrontare
percorsi difficili come quelli che vivono le persone che subiscono un incidente
invalidante o che sono affette da un malattia professionale.
1
Le strategie di coping racchiudono comportamenti, spesso inconsapevoli, emozioni e
adattamenti cognitivi utilizzati per affrontare situazioni problematiche.
[17]
INTRODUZIONE ALLE MONOGRAFIE
Gli operatori
Come si è detto, il progetto si è articolato in due fasi, le interviste ed il
laboratorio: le monografie contengono, per ognuno dei partecipanti, tutta la
documentazione prodotta durante i percorsi.
Le interviste riguardano venti persone individuate tra quelle prese in carico
nell’ambito di progetti riabilitativi individualizzati, previa verifica della
disponibilità a partecipare all’iniziativa.
Dei venti partecipanti tredici sono uomini e sette donne: tra essi sono di
nazionalità straniera cinque uomini (Romania, Moldavia, Slovacchia, Senegal e
Albania) e una donna (Romania).
Le interviste sono state distinte in tre tipologie: alla persona infortunata, a
quella affetta dalla malattia professionale e a un famigliare: riportiamo di
seguito le domande comuni e quelle specifiche.
Come definisce il suo infortunio/del famigliare?
Cosa è rimasto nella memoria del momento in cui è accaduto/ha saputo la
notizia?
Quali di queste parole sono importanti per la prevenzione?
- attenzione/concentrazione
- prudenza
- formazione
- conoscenza della lingua
- fretta
- eccesso di sicurezza in se stessi
- casualità
- mancato riposo
- misure di sicurezza
- stanchezza
- paura
- abitudine
Una delle funzioni dell’Inail è il reinserimento sociale: quali sono state le
sue risorse per ricominciare, andare avanti, superare?
Vuole darci un consiglio sul modo di condurre il nostro lavoro?
Fare i racCONTI con il cambiamento
[18]
Queste le domande poste alle persone affette da malattia professionale:
Lavoro e realizzazione personale. Quale è stato il ruolo del suo lavoro nella
sua vita?
Lavoro e diritti dei lavoratori. Quali cambiamenti significativi ha osservato
nell’arco della propria vita lavorativa?
Misure di sicurezza e prevenzione. Quali cambiamenti significativi ha
osservato nell’arco della propria vita lavorativa?
Un evento legato alla sua esperienza lavorativa che le torna sovente in
mente
La notizia della malattia professionale. I primi pensieri che hanno accom-
pagnato la diagnosi.
Come sono cambiate le sue abitudini di vita?
Che cosa ritiene le manchi di più?
In cosa ci vuole più coraggio nel convivere con la malattia?
Cosa ha imparato dalla sua esperienza di malattia che ritiene di poter tra-
smettere ad altri?
Troverete le risposte all’interno delle monografie di ciascun partecipante.
Le interviste sono state condotte dagli operatori Inail, che hanno cercato di
trascrivere fedelmente i pensieri degli intervistati, anche nei loro modi di
espressione.
Le persone intervistate hanno parlato di sé con disponibilità ed autenticità
dando vita a testimonianze molto toccanti. Agli incontri individuali con i
partecipanti che hanno rilasciato l’intervista, sono seguiti alcuni incontri di
gruppo con tutte le persone coinvolte dove è stato riletto quanto scritto e sono
state condivise le sensazioni che ognuno aveva avuto nel raccontarsi e nel ri-
ascoltare la propria testimonianza letta dagli operatori presenti. Da qui è nata la
volontà di proseguire con un percorso di narrazione che consentisse di
approfondire questa esperienza in modo più strutturato: il laboratorio di
narrazione autobiografica.
Il laboratorio si è svolto nei nostri uffici, è stato strutturato in otto incontri ogni
venerdì dalle 12.00 alle 14.00 e si è sviluppato attraverso l’elaborazione di testi,
immagini, disegni su questi temi:
il primo ricordo
spirale esistenziale (elaborato grafico più narrazione di uno o due episodi
significativi della propria vita)
Fare i racCONTI con il cambiamento
[19]
arcipelago degli affetti (elaborato grafico più lettera ad una persona
significativa del proprio arcipelago)
il lavoro
lettera al corpo
risposta dal corpo
la resilienza (i fattori, le persone, le esperienze o le situazioni che hanno
aiutato a superare il momento di crisi dovuto all’infortunio/malattia/perdita)
il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia)
cosa è successo dopo
Al laboratorio hanno partecipato dodici delle persone intervistate, cui si è
aggiunta la moglie di uno di essi che è morto per la malattia professionale pochi
giorni prima dell’inizio del laboratorio (a lui è dedicato questo libro). Gli altri
intervistati hanno rinunciato al laboratorio principalmente per motivi di lavoro o
famigliari non compatibili con gli orari concordati.
Dei dodici partecipanti otto sono uomini e quattro donne: fra essi sono di
nazionalità straniera tre uomini (Romania, Slovacchia e Albania) e una donna
(Romania).
MONOGRAFIE
[23]
ADRIAN
Trentun’anni, infortunio del 21 ottobre 2004. Incidente alla guida dell’auto
mentre andava al lavoro. Lesione: paraplegia. Presta volontariato come
consulente alla pari presso l’Unità spinale di Torino.
Intervista
L’infortunio per me è stato uno shock. In una parola posso dire scioccante.
Cosa mi è rimasto impresso? Vi interessa sapere le cose belle o le cose brutte?
Perché nel mezzo ci sono state anche cose belle! La cosa brutta è stata trovarsi
in questa condizione. In collina (presso un centro di recupero funzionale, ndr)
però ho conosciuto parecchie persone e con queste persone ci siamo aiutati a
vicenda.
Quando ho avuto l’infortunio sono sempre stato cosciente. I primi tre mesi sono
stato al Cto (Centro Traumatologico Ortopedico); un mese in rianimazione e
due mesi in reparto. Poi sono passato al Crf (Centro Riabilitazione Funzionale)
dove sono stato da fine gennaio 2005 a febbraio 2006. Lì si è formato un
gruppo di amici con cui ci si incontra ancora, si va a cena…
Poi sempre tramite il Crf ho fatto un corso di cinque incontri come consulente
alla pari: dato che sono in carrozzina, mi contattavano e mi affiancavano ai
pazienti nuovi e ai loro famigliari nei casi più disperati. È stato divertente. Non
si parlava molto dell’incidente. Forse ci contattavano più i famigliari, perché
loro patiscono di più: hanno più bisogno di chi ha avuto l’incidente. I pazienti,
se hanno la fortuna di incontrare un gruppo di persone con cui si trovano bene,
si riprendono meglio.
Rispetto al nostro gruppo dei tempi del mio ricovero, anche le nostre famiglie
sono rimaste in contatto. Allora era anche più facile perché il posto era piccolo,
condividevamo gli stessi spazi ed eravamo tutti uniti. C’era una unica sala di
svago e quindi ci incontravamo sempre. Ho cercato sempre di non pensare
troppo a quello che era successo. Poi con gli anni si può anche tornare un po’
indietro, ma l’importante è pensare ad andare avanti.
Se devo pensare al mio infortunio da un punto di vista della prevenzione, il
fattore che per me è stato determinante é indubbiamente il MANCATO RIPOSO.
Ho avuto un colpo di sonno a causa della stanchezza.
Prevenzione è anche rispettare il proprio organismo.
Rispetto alla motivazione per ricominciare, per me il primo passo è stato
raggiungere un’autonomia. E poi, piano piano, si ricomincia. All’inizio ho fatto
fatica a trovare una casa. Se sapevano che eri in carrozzina la casa non te
l’affittavano. Poi abbiamo visto che stavano concludendo questo complesso di
case e abbiamo acquistato questa, che è totalmente accessibile. Dato che non
Fare i racCONTI con il cambiamento
[24]
potevo fare quello che facevo prima, ho provato a riorganizzarmi tutta la vita.
Ho fatto così. In quel momento finisce tutto com’era prima. Il computer, per
esempio, prima - sì - lo usavo, ma non molto. Adesso è tutto. È come l’aria.
Serve per fare tutto nella vita quotidiana.
Nel complesso comunque non posso lamentarmi. Nella sfortuna, ho avuto la
fortuna quando ho avuto bisogno.
Il primo ricordo
Ricordo mio zio che mi portava sulle spalle.
Spirale esistenziale: primo episodio
I primi giorni di scuola, perché è l’inizio del mio cammino verso la vita. È il
periodo più bello, il più innocente, in cui tutto quello che fai lo fai con
entusiasmo e non ci sono tutti i problemi che a volte nella vita devi affrontare
da grande.
Spirale esistenziale: secondo episodio
Il mio incidente è stato quello che ha lasciato un segno importante nella mia
vita: è come se fossi nato per la seconda volta, ho dovuto reinventare la mia vita,
riprendere tutto quasi da zero. Ero come un neonato che cominciava dal nutrirsi
da solo, vestirsi, lavarsi e tutto il resto. I primi tre mesi sono stati i più duri
perché ero fermo nel letto, riuscivo a muovere solo la testa, e lì per la prima
volta nella mia vita l’unico desiderio era la morte. Le cose sono cambiate una
volta andato al centro di recupero in collina; ero ancora fiducioso di riprendermi,
però con il passare del tempo e grazie a degli amici che ho conosciuto lì dentro
è stato più facile accettare questa condizione e soprattutto accettare la
carrozzina.
Arcipelago degli affetti: lettera alla persona
La mia mamma si chiama Maria ed è nata il 5 maggio 1959 in una famiglia
numerosa con nove figli (quattro femmine e cinque maschi). Già da piccola era
una ragazzina molto spigliata che andava molto bene anche a scuola. Essendo
in una famiglia così numerosa, i miei nonni non potevano offrirle tanto e così
lei già dalle medie per farsi la sua paghetta lavorava ogni tanto dopo la scuola e
Fare i racCONTI con il cambiamento
[25]
nei week-end con la zia nel suo bar, arrivando così ad innamorarsi di questo
mestiere. Dopo le medie, i genitori non potevano permettersi di farla continuare
con gli studi e la nonna voleva mandarla a lavorare in una fabbrica, però lei non
voleva e così di nascosto ha partecipato e vinto una borsa di studio di tre anni in
una scuola alberghiera che era molto più lontana dalla sua città e così ha dovuto
trasferirsi lì. Dopo la scuola è tornata a lavorare in un ristorante nella sua città
dove a soli vent’anni era già responsabile del locale, dove nel 1981 ha
conosciuto mio padre. Nel 1982 ha sposato mio padre che aveva già due figli da
un matrimonio precedente e il 15 dicembre 1982 sono nato io suo unico figlio.
Dopo una vita di alti e bassi come in tutte le famiglie, nel 2000 si è separata da
mio padre. Nel 2000 dopo la separazione ha deciso di voltare pagina e su invito
di sua sorella è venuta in Italia, dove l’ho raggiunta anch’io nel 2001. Arrivata a
Torino è riuscita a trovare lavoro come barista in un noto ristorante dove tuttora
continua a lavorare. Ha un carattere forte che mi ha dato tante bastonate quando
me le meritavo e mi è sempre stata vicina quando ne avevo bisogno.
Il lavoro
Il primo successo
Nell’estate del 2000 ho lavorato per tutta la vacanza in un villaggio turistico che
apparteneva a mio zio. Io lavoravo alla cassa all’ingresso dalle 8 alle 17 con
pausa di un’ora. Dopo il lavoro ero libero di fare tutto quello che volevo.
L’ultimo successo
Quando facevo il carrozziere di barche, il titolare della mia ditta voleva
prendere del lavoro in un’altra grossa fabbrica di barche che si trovava a
Piacenza, e così aveva deciso di mandarmi con altri due compagni per un
periodo di prova di due mesi. Alla fine della prova siamo riusciti ad ottenere un
contratto, da tre siamo diventati sei e il mio titolare mi ha messo come capo
squadra.
Il primo fallimento
Una volta arrivato in Italia ho trovato lavoro in una fabbrica di tende a Caselle,
io mi occupavo del confezionamento dei binari su cui venivano appese le tende
e del montaggio. Dopo tre mesi ho smesso perché non mi pagavano.
Fare i racCONTI con il cambiamento
[26]
L’ultimo fallimento
Nel 2010 avevo fatto un corso di web design presso l’unità spinale di Torino.
Hanno chiesto a me e al mio compagno di corso di creare un sito per l’unità
spinale. Una volta finito tutti erano entusiasti, lo abbiamo presentato alla
direttrice che era molto soddisfatta, mancava solo la presentazione ufficiale.
Peccato che il progetto ancora oggi è “fermo a quattro frecce” (sospeso, ndr).
Il primo conflitto
Quando lavoravo nella fabbrica di tende a Caselle avevo litigato con la titolare
che non mi pagava e mi diceva sempre: la prossima settimana.
L’ultimo conflitto
Quando facevo l’imbianchino avevo litigato con il mio capo per un lavoro che
avevamo deciso insieme come fare, solo che dopo il proprietario dell’alloggio
non è stato contento e il mio capo ha dato tutta la colpa a me.
Il primo disagio
Nel primo giorno di lavoro in Italia ero arrivato in ritardo di un quarto d’ora e
non sapevo come spiegare che il treno era in ritardo. Alla fine gli ho detto solo
chi ero, lei mi ha detto qualcosa col sorriso e mi ha portato sul posto di lavoro.
L’ultimo disagio
Dopo la litigata con il mio capo il nostro rapporto è degenerato perché mi
rinfacciava sempre davanti ai miei colleghi che lui aveva perso dei soldi per
colpa mia. Dopo una settimana me ne sono andato.
Il primo desiderio
Prima dell’incidente stavo per mettermi in proprio. Avevo trovato una fabbrica
più piccola che aveva bisogno di carrozzieri e cosi ho deciso di aprire una
partita iva: con i risparmi che avevo messo da parte potevo permettermi di
portare con me un’altra persona per iniziare.
L’ultimo desiderio
Trovare un lavoro che impegna le mie giornate e dà un senso alla mia vita.
Fare i racCONTI con il cambiamento
[27]
Lettera al corpo
Caro midollo ti scrivo queste poche righe ma non da amico perché non lo sei e
non lo sarai mai, anche se nel profondo del mio cuore spero ancora di poter far
pace un giorno con te. Non so quale possa essere il motivo della tua frattura, se
eri tu che volevi punirmi perché ti sentivi solo (adesso starai meglio visto che ci
sono due placche in titanio con quattro chiodi che ti fanno compagnia) oppure è
la vita che si è accanita contro di me; ma anche se fosse non dovevi
abbandonarmi al primo ostacolo che hai incontrato per strada.
Dovevi essere più forte, così come sono stato forte io a reagire dopo la tua
frattura, che mi ha provocato non tanti problemi, ma di più. I primi mesi sono
stati i più duri, con il mio stato d’animo che era un insieme di sentimenti
confusi: passavo dallo sconforto alla sfida, dalla gioia alla depressione, dalla
voglia di andare avanti alla chiusura in me stesso.
Anche se ho passato momenti di grande delirio, non mi sono mai lasciato
andare e grazie al mio grande amore per la vita sono riuscito ad andare avanti
con tranquillità e serenità, diventando così ancora più forte.
Sappi però che non mi piangerò addosso perché so che c’è gente che soffre
anche più di me, riuscirò a considerarti come qualcosa di diverso col quale
convivere il meglio possibile, se non altro perché so che purtroppo mi
accompagnerai per tutto il resto della mia vita.
Per concludere ti dico una cosa sola “Ho perso una battaglia ma non la guerra.”
Risposta dal corpo
Caro Adrian,
anch’io spero di potere fare PACE ancora con te e di riuscire un giorno di
vederti ancora in piedi. Non sono né io che ti volevo punire, né la vita che si è
accanita contro di te. Forse eri solo tu che dovevi lavorare un po’ di meno e
riposare un po’ di più così non avresti preso quel colpo di sonno al volante. Mi
dispiace tanto per tutto quello che hai passato perché non era nelle mie
intenzioni farti soffrire così tanto. Per concludere ti dico solo che un giorno mi
piacerebbe stringerti la mano come sconfitto della guerra.
La resilienza
Dopo l’incidente c’è stata una serie di persone che mi sono state d’aiuto nel mio
percorso riabilitativo.
Comincio dal mio ex titolare, una grande persona che mi è stato vicino
dall’inizio alla fine del mio percorso. In un mese di rianimazione era venuto
Fare i racCONTI con il cambiamento
[28]
quasi tutte le sere a trovarmi, mi prendeva la mano e pregava, e dopo mi
raccontava la sua giornata di lavoro e quella dei miei colleghi per distrarmi un
po’.
Dopo un mese di rianimazione mi hanno trasferito al settimo piano dove ho
conosciuto un sacco di persone fantastiche, però con una sola si è creato un
legame speciale, si chiama Stefania ed è un’infermiera. Con lei ho condiviso un
sacco di emozioni, momenti di grande gioia e anche tanti momenti di grande
tristezza, però lei riusciva sempre a tirarmi su il morale con la sua pazzia e con
la sua simpatia, aveva sempre la risposta pronta ad ogni mia domanda. Dopo
due mesi al settimo piano al Cto, era arrivato il momento tanto desiderato, sono
stato trasferito al centro di riabilitazione Crf in collina. Arrivato in collina mi
sono ritrovato in stanza con Marco il pilota e Alessandro il pazzo, due dei miei
compagni d’avventura. Dopo poco tempo si è unito al gruppo anche Frank il
regista, Francesco lo sbirro (era un ex poliziotto) e Daniela: insieme a loro si è
creato un gruppo chiamato da tutti “il clan dei bastardi” che tutt’ora continua ad
esistere. Con loro mi sono lasciato andare, e così dalle serate tristi passate a
letto siamo passati alle serate con tante feste, con le uscite in birreria e tante
ubriacature, è stata come una terapia di gruppo, non avevi neanche il tempo per
pensare alle cose brutte. Ci sono state anche altre persone che mi sono state
vicino come mia madre, gli amici di prima e tante persone meravigliose che ho
incontrato strada facendo, come l’assistente sociale con la quale tutt’ora c’è un
rapporto di amicizia, oppure la mia fisioterapista che ha faticato tanto con me
per farmi raggiungere l’autonomia che desideravo più di ogni altra cosa al
mondo; però per quanto riguarda la mia salute mentale penso che il gruppo sia
stato fondamentale.
Il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia)
Datevi da fare con la ricerca sulle staminali!
Cosa è successo dopo
Tutto ha continuato a trascorrere come prima. Avevo già avuto delle esperienze
simili anche prima, ma questa è stata una delle poche dove ero l’unico in
carrozzina. A me non cambia nulla perché sono abituato, ma rimangono colpiti
più loro che io.
La vita per il resto è andata avanti come al solito.
Fare i racCONTI con il cambiamento
[29]
Spirale esistenziale di Adrian
Fare i racCONTI con il cambiamento
[30]
Arcipelago degli affetti di Adrian
[31]
ALDO
Cinquantatré anni, infortunio subito il 29 luglio 2008: è stato investito da un
muletto guidato da un collega. Lesione alla gamba sinistra. Attualmente in cerca
di nuova occupazione.
Intervista
Se dovessi definire il mio infortunio mi viene in mente la sensazione di un
impatto sgradevole, quasi agghiacciante ed improvviso; sicuramente non voluto.
Quando si sta svolgendo un lavoro è molto importante concentrarsi su quello
che si sta facendo, senza pensare ad altre cose che potrebbero influire
negativamente sul risultato del lavoro o peggio ancora determinare delle
situazioni di rischio. Ho poi notato che alcuni colleghi non prestano molta
attenzione a quello che stanno facendo, comportandosi in maniera superficiale,
come quello che mi ha investito col muletto e che era solito, anche durante il
lavoro, fare uso delle cuffiette, determinando di conseguenza situazioni di
pericolo, dovute non tanto al rumore, quanto alla distrazione da quello che si
sta svolgendo, senza considerare poi il calo della concentrazione, di cui
accennavo prima.
Il risultato è solo quello di creare disgrazie di notevole entità.
Io penso che quando si arriva al lavoro non bisogna essere di cattivo umore,
come se tutte le cose andassero per il verso sbagliato, altrimenti la giornata
non può che continuare in maniera sbagliata e sgradevole.
Credo, pertanto, che sia molto importante arrivare carichi di energia, che aiuta
molto a prevenire gli avvenimenti spiacevoli e soprattutto cercare di impostare
il lavoro in maniera responsabile, evitando un inizio negativo che porta come
risultato solo quello che mi è accaduto, poiché la persona che mi aveva
investito aveva la testa tutta da un’altra parte. Penso che il parlare dei
comportamenti, degli stili di vita e delle responsabilità, che ognuno di noi ha
nei confronti degli altri, sia molto importante per evitare molti incidenti.
Cosa mi è rimasto impresso di quel momento? Ogni infortunio è un fatto a sé
stante. Benché abbia avuto la percezione in quell’istante di quello che mi stava
accadendo è rimasta in me una gioia, una forza di riuscire a sopportare le
conseguenze del danno che il collega mi aveva provocato, in quanto sono
sopravvissuto all’evento. In quei momenti, anche se ero conscio di vedere la
fine, sono riuscito comunque a rialzarmi e confrontarmi con l’impatto,
rivelatore della crudeltà del fatto. Sono riuscito ad esprimere alla persona che
mi ha cagionato il danno tutto il mio risentimento per ciò che mi era accaduto.
La forza che mi ha permesso di fare tutto questo mi è stata data dalla visione
delle foto che si sono staccate dal mio portafoglio e che riportavano le immagini
Fare i racCONTI con il cambiamento
[32]
del mio nipotino, i suoi occhi hanno contribuito a fare in modo che potessi
reagire in quella maniera. Per me è stato come un’improvvisa immissione di
ossigeno proprio in un momento in cui mi veniva a mancare e che mi ha
permesso, anche solo per alcuni istanti, di poter dimenticare quello che mi stava
succedendo, come se non fossi stato io quello che aveva subito l’incidente.
In questo momento, mentre parlo con voi, mi vengono in mente le morti di tutti
quei lavoratori che, come me, sono considerati alla stregua di entità astratte,
anziché come persone da tutelare.
Se devo pensare al mio infortunio da un punto di vista della prevenzione, per
me un fattore determinante è la formazione, intesa però come capacità interiore
di riuscire con la prudenza e con la coscienza ad agire in maniera corretta.
Sicuramente i corsi di formazione sono utili, ma se non vi è qualcosa di se
stessi, difficilmente potranno avere l’esito per il quale sono predisposti. Tutto
ciò l’ho potuto verificare quando ho seguito il corso per saldatore dove ho
avuto l’impressione che i corsi, in genere, devono essere rivolti a persone
predisposte ad apprendere, altrimenti è tutto tempo perso.
Un altro fattore a cui bisogna prestare attenzione è “l’eccesso di sicurezza in se
stessi” perché nella vita c’è sempre da imparare e anche se si è convinti di
sapere il fatto proprio, non bisogna mai fidarsi delle proprie capacità perché si
potrebbe cadere in situazioni spiacevoli.
Un’altra parola che ritengo importante è la “prudenza” che per me è una
conseguenza della concentrazione. A proposito di questa parola, mi viene in
mente un incidente accaduto insieme a mia figlia e mio nipote durante un
viaggio in macchina. Mi ricordo che ero molto agitato a causa dell’altra
macchina che, sbandando, aveva provocato l’incidente ma, grazie alla presenza
dei miei famigliari, sono riuscito comunque a trattenermi e a concentrarmi sul
modo migliore di reagire.
Rispetto al superamento di un infortunio, a mio avviso non vi è alcuna
possibilità di poter superare il trauma subito; tuttavia con un carattere molto
forte si potrebbe ravvisare qualche spiraglio, che possa essere d’aiuto
nell’arginare tutto quello che di negativo si trova intorno. Senza dubbio
l’affetto dei propri famigliari è la soluzione migliore, e la mia famiglia mi è
stata di grande aiuto nel superare tutte le avversità conseguenti all’accaduto.
Certamente ci vuole anche un pizzico di determinazione, che ti permette di
affrontare ancora meglio il tutto.
È anche una questione di dignità.
Devo anche dire di essere stato molto contento quando l’Inail mi ha consegnato
l’onorificenza. Vuol dire che l’Inail ha riconosciuto la gravità dell’infortunio.
Per me è stato come se si fossero immedesimati nel dramma che ho vissuto,
comprendendo la situazione in cui mi sono trovato, anche se sono convinto che
per poter capire una determinata situazione è necessario viverla.
Fare i racCONTI con il cambiamento
[33]
Posso dire, inoltre, che ho sempre cercato di non desistere nella ricerca di una
mia stabilità interiore e allo stesso tempo di portare, in qualche modo, conforto
alla mia famiglia.
Il primo ricordo
Il mio primo ricordo è legato alla sfera più bella, la famiglia, ma è il rifiuto
della mia nascita.
Nato dopo sette sorelle, mio papà morì il 20 dicembre 1959 a soli ventotto anni
ed io nacqui il 4 novembre 1959.
Quindi chi mi mise al mondo mi volle consegnare ad un brefotrofio dove io
(che ero nato in una bella famiglia numerosa) non sono stato accettato.
Da qui seppe la notizia la nonna materna la quale insultò la figlia e mi tenne con
sé alla tenera età di settantanove anni. Stetti con lei al paese sino all’età di tre
anni. Poi venni in Piemonte e mi misero in collegio. Qui mi trattarono come un
oggetto anche perché venendo dal Sud ero proprio un selvaggio e il selvaggio
sinceramente non è facile da addomesticare. La mia grande “fortuna” è andata
avanti con le suore ed i preti che ho conosciuto. Loro, quando mi comportavo
bene mi premiavano, invece quando non mi comportavo bene mi mettevano in
punizione. Le punizioni erano molto impegnative, tipo: pulire il refettorio,
lavare i piatti, non andare tutti insieme a giocare.
Spirale esistenziale: un episodio significativo
Un ricordo a me caro è stato: il 12 giugno 1978 (giornata fatidica perché c’era il
referendum per l’aborto) quando io mi licenziai dopo sei mesi di lavoro e due
anni di medie superiori ed ecco che dentro di me si sprigionò un’aria molto
fresca e profumata.
Sì, la mia libertà di esistere realmente e moralmente.
Il secondo ricordo molto bello è quello di quando intrapresi il percorso di
commesso. Ma mica è stato tanto facile.
Infatti io prendendo in mano la mia libertà, andai giù al paese. E dopo quattro
mesi che ero lì vidi un biglietto con su scritto “cercasi commesso anni 14/15”.
Io ne avevo diciotto e dovevo partire anche per il militare. Però a diciotto anni
ne dimostravo quattordici e quindi insistevo su questo vantaggio.
Per venti giorni ogni mattina mi presentavo al negozio dicendo che avevo un forte
desiderio di fare il commesso, ma la ragazza mi diceva: “ma tu sei grande.” E io:
“no!” e poi mi diceva: “hai fatto il soldato?” e io: “no, non mi hanno chiamato”.
Invece, lei non lo sapeva, ma avevo ricevuto già la cartolina. Tutto questo pur di
riuscire a entrare in negozio. Sentivo che sarebbe stato un lavoro per me molto
Fare i racCONTI con il cambiamento
[34]
gratificante. Allora al ventunesimo giorno mi riaffacciavo al negozio e dissi di
nuovo le medesime parole, ho quattordici anni ed ho il desiderio di lavorare. La
ragazza, vista la mia insistenza chiamò il padre nel capoluogo (Foggia) e spiegò
tutta la situazione. Fin quando egli disse alla figlia: “se ha voglia di lavorare
fallo venire a Foggia”. Io come mi diede quella notizia feci un salto di gioia e
dissi “grazie, grazie”.
All’indomani andai a Foggia e quando mi vide il padre mi disse: “ma sei tu il
ragazzo che ha voglia di lavorare?” risposi: “sì”.
Allora disse al capo commesso, il quale si chiamava A., di darmi uno straccio
per togliere la polvere sulle mensole. Per tutto il giorno.
Ed io gioioso dissi: “sì”.
E poi divenni un ottimo vetrinista e un ottimo commesso responsabile (non per
altro mi fece prendere la licenza per gestore). Di qui mi rimane ancora il saperlo
fare. Però purtroppo i tempi non te lo permettono più, e resta non un bello ma
bellissimo ricordo!
Lettera al corpo
Carissima gamba sinistra, ti dedico questa lettera perché, come cita un
proverbio si dice: "SEMPRE IN GAMBA". Ebbene sì: iniziò quando tu sei stata
praticamente schiacciata, anzi distrutta completamente (tipo cannibalismo). Io
allibito ti osservavo indifeso senza poterti proteggere, anche perché non
riuscivo nemmeno ad alzarmi per incoraggiarti.
Infatti tu eri già spezzata dal primo passaggio di ruota piena, io sentii il
"CRACK!" Che dolore… ma tu indifferente. Poi arrivò il colpo di grazia: infatti
il carrello che tu tanto apprezzavi ti svirgolò sopra e tu sempre in silenzio hai
attutito il forte colpo perdendo tanto, tanto ma tanto ma veramente tanto sangue.
Pensavi “Chissà se mi salveranno”. Visto che ci trovavamo a Chivasso, sì, TU
mi portasti all’ospedale di Chivasso, ma i medici vedendo l’accaduto mi
diedero un calmante e mi riavvicinarono a te. Ed io mi sentii più protetto
quando ti avvicinarono a me.
Poi fu tutto in un attimo che mi chiesero se volevo andare a Torino. Sì, io
avendo pochissime probabilità di sopravvivenza, dissi di sì.
E così mi portarono a Torino e anche tu ne sei rimasta fiera ricordi?
E da qui partì il tuo primo intervento in cui ci salvarono a tutti e due, in quel
primo momento.
Poi ci mandarono via dall’ospedale; dandoci praticamente le dimissioni forzate,
esattamente il 22/08/2008. Lì poi, ci fu un grosso problema, perché la settimana
che eravamo a casa tu cambiavi colore; da viola a giallo poi giallo acre fino a
peggiorare. Infatti mancò pochissimo per l’amputazione all’arto perché entrò in
Fare i racCONTI con il cambiamento
[35]
cancrena. Ma un bravo ortopedico ci mandò in un altro ospedale: dove abbiamo
incontrato un chirurgo plastico molto bravo che ci ha salvato dall’amputazione.
Infatti gamba mia, ti misero un apparecchio, richiesto appositamente per me
dall’Inghilterra, chiamato: v.a.c. Il quale aveva il compito di assorbire tutte le
porcherie che mi avevano buttato nella voragine della gamba per arrivare alla
cancrena. Però la grande fortuna è stata che dopo 40 giorni il sangue è ritornato
rosso anzi rossissimo come prima e quindi mi ha riportato alla purificazione del
sangue.
Solo che nel frattempo in un altro intervento uscì all’esterno l’osso della tibia. E
qui il dottore ha detto che ci voleva un intervento di microchirurgia che tu hai
affrontato con molto coraggio. Beh posso dire, gamba mia, che sei stata molto
in gamba (scusa il gioco di parole) ad affrontare tanti interventi e tante infezioni.
Però come si dice: "CHI LA DURA LA VINCE" e così è stato. Ricordi quando
ti dissi che tu non mi servivi più perché non mi sorreggevi in piedi? Ebbene sì,
su questo sei stata molto brava perché tanto hai insistito che mi hai rimesso in
piedi. E per questo te ne sono molto grato. E ti dico a squarciagola (perdendo
pure l’ugola): grazie, grazie, grazie mille gamba mia per tutto quello che hai
fatto e che stai continuando a fare per me.
Per questo ti dico: G R A Z I E D I E S I S T E R E !!!
Risposta dal corpo
Io, arto inferiore sinistro, sì proprio io cinque anni or sono riuscivo a dare molte
soddisfazioni al fisico a cui appartengo, ed è di Aldo. Fra le grandi
soddisfazioni c’era la pubblicità dell’olio Cuore, i 100 metri in 15", il salto in
alto ecc. ecc. ecc..
Da quel fatidico giorno del 29 luglio 2008, sono entrato nel tunnel più profondo
ed inimmaginabile che io abbia mai conosciuto; tra l’essere amputato o
continuare a fare il mio lavoro da sostenitore.
Ebbene non ci crederete ma con la grande collaborazione del corpo, a cui sono
fiero d’appartenere, siamo riusciti con grande volontà fisica e psicologica a
superare gli ostacoli più bui.
Io ho contribuito a tutto questo per dire che le soddisfazioni che do da quando
sono passato dall’altra parte della medaglia (categoria protetta), sono molto ma
molto più soddisfacenti delle precedenti.
Perché do sostegno con grande forza, amore e sensibilità a chi mi tiene.
Infatti Aldo, ha subito compreso l’unione della nostra grande forza.
Ed è per questo che affronto il mio percorso di vita insieme a lui con immensa
umiltà e affetto.
E per questo che dico a te grazie di esistere!
Continuiamo uniti e felici per sempre!!! Sempre!!! Sempre!!!
Fare i racCONTI con il cambiamento
[36]
La resilienza
Beh!! Credo veramente che questa (oltre ad aver colloquiato con il nostro pezzo
mancante) sia la parte più delicata e sensibile.
Ricordo che durante le prime fasi ero proprio insopportabile e inavvicinabile.
Anche perché non c’era nulla da fare per chi si sarebbe avvicinato.
Con questo non è che disprezzavo chi mi stava vicino, ma non avevo la minima
sensibilità proprio perché ero in un tunnel senza fine che solo il mio IO riusciva
a capire. Un effetto incredibile ma vero!
Fino a quando dopo le prime medicine vidi veramente la “vera medicina” che
mi fece uscire da quel tunnel. Chi erano? Ebbene sì! Le persone veramente a me
più care. Ma care care… I miei figli e il nipotino e pur non credendoci la grande
prova di amore della mia dolce metà.
Poi con la voglia di credere in me stesso e lo stimolo di affrontare qualsiasi cosa,
ho cominciato a essere un po’ più buono con me stesso.
Eh sì, questi sono i momenti crudi e veri per la grande prova e così fu. Ogni
tanto mi faceva arrabbiare ma era scontato in quelle condizioni.
Poi piano piano ho ripreso veramente la felicità di vivere, perché vivere oltre ad
essere difficoltoso e turbolento è anche molto ma molto bello. GRAZIE a tutti!
Il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia)
Messaggio nella bottiglia all’Inail. Grazie di questo immenso gesto di amore
che hai avuto per me.
Nel dar vita a questo bellissimo laboratorio che ci ha fatto crescere
psicologicamente, moralmente e fisicamente!
Ti ricorderò per sempre.
Cosa è successo dopo
Beh, posso dire che quello che ho acquisito durante il percorso di reinserimento
di crescita, dopo il grande urto, è stato e continua a essere molto utile. Anche
perché mi ha dato forza ad affrontare persone che si prendevano gioco di me e
poi sono riuscito a comunicare molto più facilmente.
Per questo ringrazio molto l’Inail e il fantastico staff delle dottoresse che mi
hanno aiutato non solo teoricamente ma anche psicologicamente e soprattutto
col cuore, perché si sono immedesimate in ogni singolo caso.
Grazie, grazie mille per esserci sempre vicini.
Fare i racCONTI con il cambiamento
[37]
La spirale esistenziale di Aldo
Fare i racCONTI con il cambiamento
[38]
L’arcipelago degli affetti di Aldo
[39]
BEATRICE
Sessant’anni, il marito Giuseppe, sessantaquattro anni, è caduto da un tetto nel
febbraio 2010. La conseguenza è stata un grave trauma cranico. Attualmente
residenti in Svizzera, il sig. Giuseppe solo di recente ha iniziato un percorso
riabilitativo efficace che gli consente di passare dei periodi a casa con la
famiglia.
Intervista
Se dovessi definire l’infortunio che ha colpito la nostra famiglia direi un
disastro.
Un incidente molto grave, ancora oggi non si vede futuro: il cervello è
un’incognita.
È stata una cosa inimmaginabile: già quando l’ho visto al Cto, ero persa, non
sapevo cosa fare; una cosa talmente grossa, sembra di annegare. Quando mi
hanno detto che era in coma… uno si sente perso, ti manca la terra da sotto i
piedi. C’è l’incognito, poi quando si tratta del cervello è un grosso punto
interrogativo, anche per i medici che tentano. Hanno asportato l’ematoma; già
avevano detto che toccavano delle cellule… una volta sveglio speri che parli,
poi che si riprenda, è tutto uno sperare. A volte parla, adesso si ribella: la
situazione è molto critica non si capisce cosa vuole. Non si capisce se capisce e
fino a che punto.
Da quando succede l’incidente c’è lo smarrimento. Dopo un anno e mezzo è
ancora così. Cerchi di andare avanti per figli e nipoti, ma se no verrebbe voglia
di finirla lì.
Anche per i problemi della ditta, che ancora oggi non sono risolti. Aveva tutto
nella sua testa. Ancora adesso cerco di farmi forza, ha momenti di crisi:
attualmente è in una struttura, secondo noi vorrebbe uscire…
Ancora oggi si va di tappa in tappa, ma non sappiamo cosa fare. Vorremmo
portarlo in qualche altro posto ma non sappiamo dove, cosa vuole.
A dicembre ho avuto una forte depressione. Stavo male ero in cura dallo
psichiatra. Non ce la facevo più, non c’erano possibilità di metterlo in una
struttura. Ero proprio al limite, mi hanno dato degli antidepressivi. Lui era
sempre dietro di me…
Tutto insieme mi ha fatto crollare... In quel momento ero persa.
I nipoti mi hanno portato in ospedale e ho parlato all’assistente sociale dicendo
che non ce la facevo più: dovevo fare commissioni veloci, lui era sempre con
me, non potevo lasciarlo solo, non dormivo più. Dopo ventiquattro ore gli
hanno trovato una sistemazione e mi hanno ricoverata. All’inizio avevo paura
che non mi facessero più uscire: sono però stata bene per tre giorni, tranquilla,
Fare i racCONTI con il cambiamento
[40]
in silenzio dopo mesi di assillo e angoscia senza dormire. Avevo assistenza tutto
il giorno, mi hanno fatta parlare e mi sono sfogata.
Oggi capisco chi si sente disperato.
Quando mio marito è stato ricoverato, non l’ho visto per due mesi per paura
che volesse ritornare a casa. Adesso sono più serena e ho le notti tranquille, ma
il senso di vuoto e di smarrimento dura e durerà ancora.
Oggi è in una struttura in provincia di Torino dove ci sono persone che stanno
peggio di lui e secondo me si rende conto e vuole andare via. Io vado a trovarlo
tre volte alla settimana. Ho paura che se lo togliamo da lì non troviamo più
posti. Sto guardando su internet ma non trovo niente, ha bisogno di un posto
dove sia stimolato, invece lì è solo parcheggiato. Altri posti sono troppo lontani
e poi vorrei trasferirmi in Svizzera e quindi ora non so cosa fare. Ma così sta
peggiorando, è quasi sempre assente, forse si rifugia nel suo mondo perché lì
c’é gente che sta peggio. Le sue condizioni sono discontinue. Penso a quei due
secondi che hanno rovinato tante vite… fatalità.
Quando ripenso al giorno dell’infortunio mi torna in mente la paura.
La telefonata della notizia dell’incidente: un crollo.
Dovevo andare in macchina al Cto: ero persa. Volevo essere subito lì e vederlo,
ma prima passano ore: e quindi ti fai tante domande prima e non hai la
risposta.
Pensavo che lui diceva che era meglio che capitasse a lui che ai suoi ragazzi
(gli operai, ndr), perché sarebbe stato distrutto. Sono rimasta là ore senza
sapere niente. Una cosa insormontabile. Dopo ore mi dicono che è in coma,
non capisci cosa vuol dire, ti chiedi per quanto tempo e non ti sanno dire niente.
Ore e ore lì: quando l’ho visto è stato terribile… il cervello che gonfiava,
poteva morire da un momento all’altro. Non dormi perché ti aspetti sempre la
chiamata. C’era l’ematoma che si ingrossava. Bisognava operare per
asportarlo: dieci giorni al pronto soccorso attaccato alle macchine, non sai
cosa fanno, perché non capisci le spiegazioni. Poi in terapia intensiva, non
apriva gli occhi. Aspetti i movimenti, aspetti le tappe perché si riprenda, ma
sono faticose, ti svuotano. Ricevevo tante telefonate che mi chiedevano come
stava, e ricominciavo da capo ogni volta; devi essere forte.
Se penso a quanto è accaduto dal punto di vista della prevenzione devo
premettere che lui era sempre molto attento, non faceva fare le cose pericolose
ai ragazzi, era molto prudente. Aveva molta responsabilità verso gli operai.
Sapeva bene tutti i rischi del suo mestiere.
Era prudente e usava le misure di sicurezza, ma diceva che l’imbragatura a
volte è un intralcio. Molte misure sono quasi impossibili. Potrebbero risultare
più pericolose.
Non aveva mai fretta, piuttosto ci metteva un’ora in più per fare bene il lavoro
ma non rischiava. Erano gli operai che guardavano l’orologio. La fretta è un
pericolo.
Fare i racCONTI con il cambiamento
[41]
Non aveva eccesso di sicurezza ma sempre molta prudenza, era sicuro di sé ma
senza eccesso, conosceva il pericolo e come arrivava. La sicurezza è una
modalità di lavoro legata alla prudenza: lui faceva alla vecchia maniera ma il
lavoro era garantito. La sua paura era che succedesse qualcosa ai suoi ragazzi
su cui vigilava: diceva “preferisco a me che a loro”.
Però era stanco, era già in pensione da due anni ma voleva lavorare lo stesso.
Bisognerebbe sapersi riposare: arrivava a casa ma la giornata non era finita,
c’erano i clienti, gli incassi, i nuovi lavori.
E poi c’è stato il caso: se fosse stato a pochi metri di distanza dal bordo del
tetto non sarebbe caduto dall’alto, probabilmente è caduto incosciente perché
non ha reagito, è caduto a peso morto sulla testa.
Il soccorso è stato lento: l’incidente è successo alle 15.30 e al Cto è stato
portato alle 18, forse sarebbe andata diversamente.
Non si poteva muovere perché doveva arrivare la polizia.
Come andare avanti dopo un evento del genere?
La prima spinta è cercare di fargli recuperare il più possibile. Ancora oggi. Noi
speriamo sempre che ci possano essere ulteriori sviluppi guardando altri così
che ce l’hanno fatta. Magari non più come prima, ma che possa tornare a casa
e sia cosciente e si renda conto.
Per quanto riguarda me invece io ho le figlie e le nipotine. Se deve rimanere
così io mi faccio forza pensando a loro. Ho anche pensato che era meglio se ce
ne andavamo tutti e due: ma no, il dolore sarebbe troppo grosso, lo devo fare
per loro; lui così com’è non mi deve annientare, malgrado il dolore che si
rinnova ad ogni visita.
È molto importante la famiglia per chi ce l’ha. Figlie e nipoti mi sono state
molto vicine. Prima ero sola, non avrei immaginato questa disponibilità delle
mie figlie che facevano sacrifici per venire dalla Svizzera. Mi hanno dato
vicinanza e supporto che non potevo immaginare. Sono venute tante volte. Una
volta ero sul balcone con mia nipote di quattordici anni e guardando la strada
ad una certa ora le ho detto che lì una volta si vedeva arrivare il camion con il
nonno che tornava dal lavoro: lei mi ha guardata e mi ha detto “nonna non
devi pensare a questo, devi guardare al futuro”.
Anche mia figlia che sta in Africa è venuta tante volte. Il nipote di mio marito e
la moglie si sono occupati di me. Questa cosa ci ha riavvicinati nonostante la
distanza.
Se mi chiedete un consiglio posso solo dirvi che sono venuta qui e mi avete dato
molto. Qui si trova comprensione e dedizione. Già si hanno tanti problemi e si
ha paura di trovare negli uffici risposte aggressive o disinteressate. Questo
blocca la persona. Non venivo con l’angoscia ma volentieri. Disponibilità e
accoglienza già ci sono, non ho niente da aggiungere.
[43]
CONSOLAZIONE
Settant’anni, in un infortunio del 26 settembre 1979 ha subito l’amputazione
dell’avambraccio destro lavorando ad una impastatrice. Dopo l’infortunio non
ha mai più trovato lavoro ma si è dedicata al marito ed ai due figli, minori al
momento del fatto. In passato è stata contattata più volte dal Centro Protesi Inail
di Vigorso di Budrio (BO) per affiancare nell’utilizzo della protesi altra donne
vittime di amputazioni degli arti superiori.
Intervista
Quando penso al mio infortunio, non posso evitare di pensare che se c’era il
salvamano, non mi portava via la mano. Ero all’impastatrice, facevo gli
gnocchi; se c’era il disco, che poi hanno messo, non perdevo la mano. E poi... ti
fanno delle domande all’ospedale: “Signora ce l’ha messa apposta la mano?”
Ma che domande sono? Avevo trentanove anni, sono passati trentadue anni…
(nel parlarne, le viene ancora da piangere, ndr)
È stata una cosa inattesa anche perché non era mai successo niente… Hanno
chiuso il negozio, sono arrivati i giornalisti…
Queste cose non dovrebbero succedere, ma succedono… Ma proprio a me?
Eravamo in due; non era mai accaduto.
Comunque è così. Forse, se non avessi messo i guanti, non mi avrebbe preso la
mano.
Oggi reagirei con l’età, ma allora non ho avuto il coraggio di reagire…
Dopo l’infortunio dovevo ritirare la prima protesi, ma l’ho rifiutata perché per
errore era da uomo e poi volevano attaccarla al gomito. “Piuttosto non la
metto” ho detto.
Poi la D.ssa C. mi ha mandata a Budrio: sono stata io a dire come farla per
attaccarla al polso. Io riuscivo a tenerla, loro studiavano su di noi, dicevo: “se
il pezzo ce l’ho buono perché attaccarla al gomito?”
Le persone che lavorano al Centro Protesi riescono a capire come fare. Mi
hanno ascoltata. Io ormai conosco tutti. Telefono a G. e lui mi capisce. Hai
bisogno e chiedi.
Sono stata un mese a Budrio, poi sono tornata a casa e poi dovevo andare a
prenderla. Volevo che venisse mio marito, ma non è stato autorizzato ad
accompagnarmi. Dovevo prendere la corriera per Budrio, fare tutto da sola.
Non dimentico le cose che sono successe, sono cose che rimangono.
Ricordo ancora… in via Mercadante (allora c’era una sede dell’Inail, ndr) dopo
tre mesi mi hanno mandato a lavorare. Io ho pensato: “con una mano sola cosa
faccio?”
Fare i racCONTI con il cambiamento
[44]
In queste situazioni entri in confusione, vai fuori di testa. Io volevo tornare, ma
a fare che cosa?
Sono cose che ti rimangono dentro: cose dette che sono state ingiuste.
Avevo ancora i punti. Che poi loro dicevano che se hai bisogno di soldi puoi
chiedere al titolare. Strano che ti dicono queste cose e non pensano alle
persone; che dicono che hai messo la mano dentro apposta.
Oggi reagirei. Direi: “lei la metterebbe la mano dentro?”
Sono cose che si devono gestire con delicatezza. Io mi sono sentita trattata male.
Non ho avuto persone vicine, solo mio marito. Quello che mi ha operato al Cto
mi faceva le visite private. Volevano tagliarmi un altro pezzo di braccio perché
se no non potevano farmi la protesi.
Al Rizzoli (ospedale di Bologna, ndr) una volta ho visto un ragazzo più giovane
senza entrambe le mani e allora mi sono sentita più fortunata.
Quando sono andata a Budrio, mi hanno aggiustato la mano. Poi mi hanno
chiamata per farmi vedere come usare la protesi mioelettrica ma non sono
potuta andare per non abbandonare i figli.
Sono riuscita a imparare a scrivere con la protesi, si comincia a scrivere come
alle elementari. Bisogna impegnarsi ma si riesce. Se uno non si impegna a fare
qualcosa non riesce nella vita: ringrazio Dio che mi ha dato quella forza e
volontà.
Se devo pensare al mio infortunio dal punto di vista della prevenzione, penso
che se c’era il disco, evitavo di mettere la mano dentro.
Dopo l’infortunio io mi sono chiusa, volevo uscire con il mantello.
La motivazione per andare avanti sono stati i miei figli, lo dico ancora adesso.
Pensavo a loro, preparavo il pranzo, facevo i lettini. Avevano dieci, tredici, e
diciotto anni. È stata quella la mia forza, se non avessi avuto loro, guai!
Pensando a un consiglio, a cosa può essere utile per le persone in situazioni
come la mia, l’unica cosa che dico è che noi abbiamo bisogno di persone come
voi, che sappiano essere sensibili e avere pazienza. Dove vai vai, ti sgridano, ti
trattano male.
Se chiedo: “Abbia pazienza, mi aiuta a mettere la firma?” “Ah, no!” Ti
rispondono scorbutiche! Non è giusto, non sto chiedendo nulla. Perché non
dobbiamo essere tutti più disponibili? C’è gente cattiva.
Dobbiamo essere più umani uno con l’altro. Ma oggi la vita è così, devi fare
attenzione a chiedere qualcosa, sono tutti nervosi.
Invece c’è bisogno delle persone che ti capiscono.
[45]
DINO
Settantasette anni, il 27 luglio 2011 gli è stato diagnosticato un mesotelioma
pleurico per esposizione ad amianto. È morto il 1 settembre 2012.
Intervista
Mi sembra di aver lavorato tutta la vita. Da quando sono nato in poi. I miei
erano contadini; allora si lavorava la terra. Poi dal paese ci siamo spostati in
città per motivi lavorativi. Sono passato sotto la compagnia tubisti di Torino
facendo sempre lo stesso lavoro: il saldatore. Si saldava, si metteva su… Lì ho
lavorato circa due anni e mezzo sotto le gallerie della Fiat. Lì l’amianto volava
perché c’erano gli altri che rivestivano i tubi. Poi ho iniziato a lavorare presso
la Fiat: stesso discorso. Ho lavorato molti anni attaccato ad una giostra:
facevamo i sedili per le autovetture. Dopo tanti anni mi hanno esonerato dal
lavoro a contatto con il fumo. Successivamente lavoravo riparando frizioni e
freni, e l’amianto c’era anche lì.
Alla Fiat sono stato l’ultimo a uscire. Poi hanno chiuso. Allora sono andato da
Pininfarina a fare lo stesso lavoro che facevo alla Fiat. Gli ultimi anni li ho
passati lì. Anche lì stessa esposizione all’amianto. Dopo l’infarto mi hanno
levato da quel posto e mi hanno messo in magazzino. Di questo li ringrazio: mi
hanno trattato come un padre. Gli ultimi anni ho lavorato con tanti giovani ed è
stata una bella esperienza.
Molti anni fa non si era salvaguardati come adesso (mascherine, aspiratori…).
Gli ultimi anni prima di venire via la Fiat era già attrezzata, e anche dopo
Pininfarina.
I primi anni non avevo i dispositivi di sicurezza che ci hanno dato in seguito.
Non ci davano la mascherina… Quando lavoravo per la compagnia tubisti mi
davano il latte… ma a cosa serviva? Quando lavoravo attaccato alle giostre
c’era il fumo del grasso e lo respiravamo di continuo.
Gli anni in cui siamo adesso, casi come il mio non succedono più. Si è più
attrezzati. L’amianto non esiste più nei posti di lavoro, ma ce n’è ancora molto
in giro. Però penso che gli anni che verranno non saranno come quelli che
abbiamo vissuto noi che respiravamo e mangiavamo tutta la polvere…
Io ho addestrato molti giovani.
Quando me li davano, io a loro trasmettevo tutto. Guai se mettevano una mano
dove non dovevano metterla. Li prendevo e ci facevo dei “discorsetti”.
Facevo formazione. Gli allievi in Fiat venivano lì. C’erano quelli più
presuntuosi, che avevano studiato; pensavano di sapere tutto ma non
conoscevano niente. Allora bisognava dargli una “raddrizzata”.
Fare i racCONTI con il cambiamento
[46]
Quando ci sono dei vecchietti come me, devono insegnare ai più giovani. Ogni
venti giovani metterei un cinquantenne che guardi e consigli. Quindi, sì: per me
uno dei fattori più importanti per la prevenzione è la formazione.
Mi viene sempre in mente quello che provavo quando mi accorgevo che
trasmettevo agli altri tutta l’esperienza che mi ero fatto da solo, e gli altri si
prendevano il merito…
La malattia è cominciata un anno e mezzo fa. Sentivo che qualcosa non andava
ma non ci davo peso perché avevo la moglie con un tumore al seno e dovevo
seguirla. Il penultimo giorno che mia moglie ha finito le terapie, sono stato
ricoverato in pronto soccorso al Mauriziano e mi hanno levato quattro litri
d’acqua. Ora sono sempre là dentro.
Le mie abitudini sono cambiate. Non vorrei dirlo ma cambia tutto.
Se ho qualcosa da fare non riesco, perché non ho la forza. Non riesco ad
aiutare mia moglie e l’ho sempre fatto. La vita non è più quella di prima.
Adesso mi sento una nullità. A volte vado in crisi con la moglie. Riesco solo a
scaldare il letto e il divano.
Manca un po’tutto. Non è più la vita che facevo un anno e mezzo fa. Quello che
ho di buono è che non ho dolori, non ho male.
Per convivere con la malattia ci va molto coraggio. Guai se uno si lascia
andare: è peggio.
Ogni tanto vado in tilt con il cervello e mi sento peggio del giorno prima.
In queste situazioni da parte degli altri c’è bisogno di tanta disponibilità. Anche
da parte dei servizi ai quali ci rivolgiamo. Quando senti l’interlocutore
infastidito, ti senti deluso. Sentire un po’ di vita dall’altra parte, aiuta. Con
persone come me, a cui da un giorno all’altro crolla il mondo addosso, bisogna
avere gentilezza, dare aiuto. Ringrazio anche i dottori dell’ospedale
Mauriziano; uno che mi segue è molto umano e questo aiuta: mi dice due
paroline e mi tira su.
L’umanità serve molto. Questo dovete dirlo anche ai bambini che partecipano
ai vostri incontri.
[47]
EMILIA
Cinquantatré anni, vedova di Victor, morto travolto da un treno nel 2005. Di
nazionalità moldava, vive tutt’ora in Italia a Torino, dove abita anche un figlio.
L’altra figlia si trova in Moldavia. Emilia lavora come assistente famigliare. Ha
scritto già molte memorie sulla sua esperienza.
Intervista
Cosa mi viene in mente pensando all’infortunio che ha colpito la nostra
famiglia? Un terremoto.
Ti alzi la mattina e vedi un’onda che ti travolge, una cosa terribile. Dopo
cinque anni sono un po’più tranquilla, ma fino a qualche tempo fa era un male,
un bruciore, un dolore immenso che ti esce dentro. Sia per me che per i miei
figli.
Per quasi due anni non c’è stato collegamento tra noi, questo dolore non ci
faceva parlare per chiarirci: venivano in mente cose brutte che non ci facevano
trovare tra noi. È stato un dolore immenso.
Grazie a Dio, che ci ha dato la forza per capirci e andare avanti e ricordare
mio marito come uomo perbene, che aiutava gli altri.
Pensava sempre agli altri, pensava a fare le cose bene e in fretta. Troppo
perfetto, voleva fare tutto bene. Non è solo che è morto lui, ma tutta la famiglia.
Per trovarci serve tanta forza, ho trovato tanta forza e non so dove. Avevo tanta
fede che mi ha guidata per fare le cose giuste e per come farle. Se hai fiducia in
qualcuno puoi trovare la stradina di collegamento con la famiglia. Anche i miei
genitori sono stati tanto male, perché mio marito era un uomo eccezionale. Lui
ci pensava alla morte e mi diceva dove voleva essere seppellito: aveva un
presentimento.
Quando è accaduto ero in fabbrica a Torino, dovevo fare la notte; lui lavorava
a Lecce.
La notizia è arrivata a mio figlio, chiamato da un maresciallo che non diceva la
verità. Eravamo preoccupati perché era clandestino, per i documenti. Mio figlio
ha dato il mio numero al maresciallo, dalle due mi hanno telefonato alle cinque,
mi ha chiesto se lo conoscevo, gli avevano trovato documenti di identità
spagnoli. Poi mi ha detto che era caduto, era in ospedale, che dovevo andare là
subito: questa parola mi ha fatto svenire, poi mi sono ripresa e ho ritelefonato
io e ho parlato con il responsabile della ditta che mi ha detto la stessa cosa. Ho
dato il numero di mia cognata e le hanno detto la verità. Quando mi hanno
detto che andavamo tutti là ho capito che non lui non c’era più.
Ho sentito uno spavento.
Ci siamo incontrati a Parma con una mia cognata che mi ha detto la verità.
Fare i racCONTI con il cambiamento
[48]
A Lecce ci hanno portati subito alla camera mortuaria, dicono che dicevo a
mio marito di alzarsi e andare a casa. Non mi ricordo più niente, ha fatto tutto
lei. Volevo andare in aereo con la salma ma mi hanno detto che non si poteva,
ma poi ho scoperto che non era vero. Non conoscevo le cose e mi sono fidata. È
giusto sapere le cose in anticipo. Per questo va bene questo progetto, per far
sapere a tutti cosa fare. Serve sapere tante cose: ti serve prepararti, anche se
non capita.
Mai avrei pensato che da come stavamo bene, poteva capitare questa cosa:
invece è capitato. Serve sapere a chi chiedere aiuto. Questo progetto è ben
venuto per far sapere agli altri.
I fattori importanti dal punto di vista della prevenzione?
La prudenza: se lo sei è meglio; non che il padrone ti dice di fare le cose in
fretta.
La conoscenza della lingua: non ti prende nessuno a lavorare se non capisci.
Quando è accaduto l’incidente a mio marito, hanno detto che non capiva
quando lo chiamavano e per questo è successo, ma non era vero: nessuno l’ha
avvertito che arrivava il treno.
Invece così hanno detto che la colpa è sua: quando succedono queste cose
nessuno vuole risponderne.
Come siamo andati avanti?
Nella mia famiglia ognuno era per la sua strada. Ho avuto sostegno dall’Inail:
una vostra parola era una cosa grande, ha aperto il vuoto. Se non c’era l’aiuto
dall’Inail non avrei avuto il collegamento tra noi. Senza i soldi non potevo
pagare i prestiti che ho fatto per portare la salma dove mio marito diceva che
voleva andare. È stato un sostegno grande non solo come soldi, venivo qui e
parlavo con voi, mi ascoltavate e pensavo che qualcosa era risolto, che potevo
andare avanti. L’assistente sociale è un buon sostegno per le famiglie, non so
per gli altri, ma per me siete stati un grande aiuto. Ti dà la forza per uscire dal
tunnel, per me è stata una fortuna trovarvi. Grazie per aver trasferito la
pensione da Lecce.
Le persone che vogliono aiutare si vedono, voi mettete anima e vi ringrazio per
tutto questo.
[49]
FRANCESCO
Cinquantadue anni. L’infortunio è accaduto il 4 settembre 1976, quando lui
aveva diciassette anni, lavorando in un supermercato e ha avuto come
conseguenza una lesione spinale e conseguente paraplegia. Atleta paralimpico,
fondatore della squadra di sledge-hockey dei “Tori Seduti”. Allenatore di
squadre di basket di ragazzini con disabilità.
Intervista
Se dovessi definire oggi il mio infortunio sarebbe difficile: è passato tanto
tempo, trentacinque anni. È qualcosa di tragico, incomprensibile. Non avevo
mai pensato che si potesse finire in carrozzina per un trauma, pensavo che si
potesse solo nascere così. La tua vita cambia, un cambiamento globale, del tuo
sistema di vita. Oggi faccio fatica a ricordare i miei diciassette anni di prima
dell’incidente. E’ stato un flash con cui ho perso il passato. Lo vivo e devo
viverlo con il presente.
L’infortunio è avvenuto il giorno dopo che ho compiuto diciassette anni, quindi
ancora oggi faccio fatica a festeggiare il mio compleanno. E penso che almeno
avrei voluto che fosse successo con le tecnologie di adesso. Oggi la degenza in
ospedale è minore, al massimo sei mesi; io sono stato in ospedale un anno e tre
mesi. L’ho vissuta con la voglia di tornare a camminare anche se mi dicevano
di no. Ho provato tutto quello che era nelle mie possibilità, i colori,
l’agopuntura, ogni tipo di fisioterapia, ma non mi sono indebitato con spese
folli come hanno fatto altri. Penso che comunque sono stato fortunato, ho avuto
una famiglia forte alle spalle, ho passato trentacinque anni piacevoli che non
mi sono pesati e ho cercato di non farli pesare alla famiglia. Ho costruito una
situazione senza tabù, ho creato una famiglia anche se non allargata; mi pesa
non aver potuto avere figli.
Ho trovato il mio equilibrio. La mia vita è stata però intensa e molto
impegnativa, ed oggi sento il bisogno di un po’di relax e di godermi le cose con
tranquillità.
Il momento dell’infortunio lo ricordo come una scossa, un grosso trauma, i
lunghi tempi di gestione. Sono rimasto a lungo senza essere trasferito a Milano
(dove c’era un grande centro di riabilitazione) perché era stata sbagliata la
mia età sui documenti: quando mio padre ha fatto rilevare l’errore mi hanno
trasferito dopo tre mesi di degenza all’ospedale Molinette di Torino. Ho fatto
riabilitazione e mi hanno istruito su come gestirmi nella vita quotidiana e dopo
un anno e tre mesi mi hanno mandato a casa. Poi, casualmente, mio padre
incontra nell’ambulatorio Inail un disabile che pratica sport e mi coinvolge.
Fare i racCONTI con il cambiamento
[50]
Cominciamo a frequentare la palestra del Cto, l’anno dopo partecipo ai
campionati di basket a Roma e da lì inizia la mia avventura sportiva.
Dal punto di vista della prevenzione penso che la sicurezza in se stessi ti porta
a tutto il resto, anche alla concentrazione. La formazione è importante per
muoverti bene, come anche la conoscenza della lingua. Sul discorso della
lingua ritengo oltretutto che per la complessità del mondo sia opportuno
conoscere più lingue. A me è stato utile anche per muovermi nel mondo per lo
sport.
Tornando al mondo del lavoro la fretta c’è sempre e così si fanno anche le cose
male. Bisogna essere concentrati e presenti nelle cose che si stanno facendo. La
sicurezza va vista come avere testa in ciò che si fa. Un disabile che lo è
diventato a causa di un trauma è più prudente di uno che lo è dalla nascita che
non ha la percezione del rischio e si butta a capofitto.
Per superare un evento come quello che è capitato a me, è molto importante
l’esperienza degli altri.
Le iniziative alle quali state lavorando possono essere molto utili.
Ho già fatto un’esperienza simile al Crf con traumatizzati “freschi”. Bisogna
stimolare in loro punti di riferimento, anche per gli ausili. Gli altri disabili
possono portare la loro esperienza per una migliore funzionalità, un punto di
riferimento per l’esperienza già fatta sulla pelle di chi ci è passato prima, gli
puoi insegnare come riuscire a muoversi meglio sul letto, ad alzarsi, ad usare
la carrozzina. È la strada giusta: sei a disposizione di chi viene dopo di te. Io
parto dalla mia esperienza di vita da giovane: quando ho avuto l’infortunio
avevo appena compiuto diciassette anni, ma mi sono fatto una famiglia, ho
raggiunto i massimi livelli nello sport. Cerco di portare l’esperienza nelle
scuole e di dire ai ragazzi che ci si può trovare nelle mie condizioni non solo
per il lavoro ma anche per episodi e scherzi più stupidi. Li stimolo a farmi
domande sulle cose più intime: questo è un po’un tabù per i disabili perché non
parlano volentieri delle loro condizioni più intime in cui li costringe
l’immobilità dal bacino in giù, ma bisogna parlarne tranquillamente, anche ai
ragazzi perché si rendano conto di tutte le conseguenze.
Dopo il trauma il disabile pensa a come vivere nelle nuove condizioni; il primo
impatto con chi vuole proporre la via dello sport è di freddezza e rottura.
Bisogna aspettare che si prenda coscienza della nuova condizione prima di
proporre nuove prospettive. È molto importante l’esempio di una persona
disabile: la cosa più importante da insegnare è la vita quotidiana perché subito
si pensa a come muoversi.
Poi vengono i pensieri sullo sport e i divertimenti. C’è un momento di attesa in
cui c’è confronto continuo con chi ha già subito il trauma: ti fanno tante
domande su come devono fare le cose quotidiane.
Nei primi momenti non sai cosa ti sta succedendo, devi accettare il trauma.
Fare i racCONTI con il cambiamento
[51]
Rispetto a quando è successo a me, si sono accorciati i tempi della degenza e
della riabilitazione, si esce dall’unità spinale (Cto, ndr) con i rudimenti, poi sta
a te. I primi mesi sono traumatizzanti. Bisogna rispettare i tempi e aspettare che
il disabile percorra la propria strada. La famiglia è importante: lo è stata sia la
mia che quella di mia moglie: se non hai punti di riferimento, rischi di fare
scelte stupide che possono portare a gravi errori anche nei rapporti personali.
Penso che la mia esperienza sia stata più forte di quella che si può vivere oggi,
perché la tecnologia attuale è molto più avanzata e ti aiuta di più: noi ci
impegnavamo, mettevamo più inventiva per cercare di avere più autonomia.
Ricordo che facevamo sport poi uscivamo, andavamo a mangiare qualcosa e
stavamo fuori fino a notte tarda: una volta sono arrivato e l’ascensore non
funzionava ed io abitavo con i miei al 4° piano: mi sono trascinato su con la
carrozzina: il giorno dopo mio padre mi ha chiesto se l’ascensore non
funzionava già quando ero arrivato io, ma ho negato, perché se no mi avrebbe
aspettato alzato per aiutarmi a salire se fosse accaduto di nuovo. Io volevo
essere autonomo.
C’era un continuo scambio sulle nostre esperienze, la nostra generazione era
più coinvolgente: oggi i disabili si ghettizzano, stanno sempre tra loro, non
comunicano con gli altri. Oggi hanno tutto subito e non hanno stimoli. Io per
esempio ho preso la patente a ventuno anni ma solo dopo quattro ho avuto la
macchina, adesso ce l’hanno subito.
A questo proposito vorrei fare un appello al vostro ente: quando c’è la richiesta
di avere ausili speciali o soprattutto per le attività sportive, bisogna verificare
che la persona sia veramente motivata, deve dimostrare che lo vuole veramente:
perché se no c’è la tendenza a chiederlo perché tanto l’Inail te lo dà, ma poi
finisce nel dimenticatoio, è uno spreco.
[53]
FRANCO
Cinquantasette anni, in seguito all’infortunio del 20 aprile 2010 ha riportato un
politrauma e lesione alla gamba destra. Lavorava come autotrasportatore.
Attualmente è in cerca di una nuova occupazione.
Intervista
Se penso a cosa ha significato l’infortunio per me e la mia famiglia la prima
cosa che mi viene in mente è una disgrazia che cambia totalmente la vita. Ma la
cosa che mi ha colpito di più è stata quella di constatare che la solidarietà fra
le persone è ancora presente.
Subito dopo l’incidente mi ha molto impressionato vedere un collega che, dal
lato opposto dell’autostrada e dopo averla attraversata, mi è venuto incontro
con degli estintori per spegnere l’incendio che si stava propagando tutto
intorno, mentre uno dei medici, arrivato con l’elicottero, si è aggrappato alla
cabina e, benché ferito dai tagli procurati dalle lamiere, ha continuato ad
insistere fino a quando non è riuscito ad estrarmi dalle lamiere della cabina.
Subito dopo sono svenuto e mi sono risvegliato tre giorni dopo in ospedale. Il
giorno dell’incidente stavo rientrando a casa e per me è stato un impatto molto
forte.
Dal punto di vista della prevenzione secondo me le cose fondamentali affinché
possa esserci sicurezza e una buona prevenzione sono prima di tutto
l’attenzione e la concentrazione e poi la formazione.
Mentre quello che può determinare ed essere causa di un infortunio sono
l’eccesso di sicurezza in sé e la fretta nel portare a termine un lavoro. È difficile
che ci sia la casualità.
Rispetto a quali fattori possono aiutare ad andare avanti dopo l’infortunio, per
me fra le motivazioni per andare avanti c’è anche la speranza di seguire dei
corsi predisposti dall’Inail e poter così trovare una nuova collocazione e allo
stesso tempo rendermi utile. Prima dell’incidente mia moglie provvedeva a tutto,
dal momento che il mio lavoro mi faceva stare lontano da casa per molto tempo.
Ora, invece, che deve badare anche a me, non trova più il tempo per poter fare
tutto quello che faceva prima. Questo, per me, è un periodo molto brutto perché
l’infortunio è ancora aperto e ho ancora tanti dolori. Sarei disponibile a
confrontarmi con altre persone infortunate come me in occasione di riunioni in
cui poter scambiare delle idee e delle impressioni.
Il consiglio che vorrei dare a voi è quello di fare più controlli nelle aziende, nei
cantieri e nelle loro strutture in modo che si faccia capire ai datori di lavoro
che il rispetto delle norme sulla sicurezza ha anche il vantaggio, oltre quello di
Fare i racCONTI con il cambiamento
[54]
evitare incidenti ai lavoratori, di avere meno oneri per le aziende stesse e meno
sanzioni.
Il primo ricordo
Uno dei miei primi ricordi, anche se non posso classificarlo primo a tutti gli
effetti, è un episodio accaduto al mare: ero molto piccolo, mi ero allontanato dai
miei genitori, mio padre mi cercava disperato, finché non notò i miei piedi
uscire da sotto una 500 Fiat, al ché mi tirò fuori, arrabbiatissimo; mi chiese cosa
stessi facendo lì sotto ed io gli risposi tranquillamente : “guardo il motore”.
Spirale esistenziale: un episodio significativo
L’incidente… La fine… Cosa sono… Cosa vale…
L’incidente è la fine di tutto ciò che mi caratterizzava, sono sempre stato
ottimista, guardavo sempre il lato positivo delle cose, cercavo sempre di
migliorare tutto… ora mi chiedo solo… a cosa serve?? Tutto è compromesso, la
mia vita non sarà mai più come prima. COSA SONO… non servo più a nulla,
ho sempre bisogno di aiuto, mi sento inutile soprattutto per la mia famiglia è
drammatico tutto ciò. COSA VALE... essermi battuto sempre per fare stare
meglio i miei cari, avere sempre affermato che non tutto il male viene
necessariamente per nuocere, ma a volte serve per insegnarci qualcosa di
importante, NON è VERO!! Mi chiedo cosa ho fatto per meritarmi questo, cosa
mi è successo…
È COME GUARDARE IN UN POZZO… E NON VEDERNE IL FONDO…
Sinceramente non riesco a vedere o a trovare una via d’uscita a questa disgrazia
che sto vivendo. Non riesco a vedermi, a collocarmi... cosa sarò… cosa farò,
tutto ciò che era la mia vita è svanito nel nulla. Tutto quello che sapevo fare,
che facevo, non potrò più farlo… ho cinquantasei anni, sto in piedi cinque
minuti e mi viene male alla schiena, mi siedo e dopo 10-15 minuti ho male al
gluteo destro… l’unica mia posizione indolore è lo stare sdraiato sul fianco
sinistro… non servo più a nulla e a nessuno.
Arcipelago degli affetti: lettera alla persona
Rita, grande donna; lei, secondo me, è tutto ciò che un uomo può auspicare
nella vita. Ci siamo conosciuti da ragazzini, avevamo tredici anni, sono
diventato amico di suo fratello per poterla vedere più spesso; poi dopo due anni,
ho trovato il coraggio di chiederle se voleva essere la mia ragazza… altri tempi..
Fare i racCONTI con il cambiamento
[55]
andavamo a rilento… ma forse era meglio così!! Comunque lasciamo da parte
le supposizioni personali e torniamo a lei… Alla mia richiesta, mi risponde:
mah… chiedo a mia sorella… una scusa, la sorella in questione è più piccola di
lei, ha preso solo tempo, ma tutto inutile, sono sempre stato un “ filone”; mi ero
già coltivato la sorella, il fratello e persino il papà diceva che ero un bravo
ragazzo, quindi… Dopo due giorni la incontro e mi dice che la sorella gli ha
detto: “Perché no? Prova…”. Da quel giorno è iniziata la nostra meravigliosa
storia, alla quale continuiamo ad aggiungere pagine ancora oggi. Abbiamo
tribolato parecchio, specialmente appena sposati, ma lei non si arrende mai è
tosta, è la mia vera forza, è bello avere la certezza di sapere che hai lei a fianco
che non molla mai. Poi ci siamo stabilizzati, sono nati i figli, andava tutto
discretamente. Poi la nascita dei nipoti, periodo molto bello, un po’ ci hanno
fatto rincoglionire, ma diventare nonno è un turbinio di sensazioni inenarrabili,
bisogna provare!! Sintetizzo molto, altrimenti sarebbe un poema. Ed ecco
l’incidente: non parlo di me, ma solo di lei, eccezionale, non mi ha mollato un
attimo, Modena, Cto di Torino, più di un mese di ospedale, lei sempre lì, a
fianco al mio letto, incredibile. Le dicevo: “Ma vai un po’ a casa, hai i piedi e le
caviglie gonfie, va’, riposati un po’!”. Niente da fare, sempre vicino a me! Non
ci sono termini lusinghieri per descrivere questa donna, lei è la mia Rita.
Invidiosi? Vi capisco…
Il lavoro
Per quanto riguarda il lavoro, devo dire che non ho mai avuto grandi problemi, il
successo, se così si può definire, è il fatto che dove ero assunto, in qualsiasi posto
sono stato, non facevano che parlare bene di me, sia i miei colleghi, che mi
contattavano continuamente per sapere come fare per raggiungere determinati
scarichi evitando i divieti d’accesso per gli autocarri o per sapere gli orari di
ricezione delle merci ecc.; ma anche i titolari mi apprezzavano molto, ho sempre
avuto la nomina d’essere l’autista che consumava meno gasolio in assoluto,
dicevano che il mio camion, si usurava la metà rispetto agli altri. Il fallimento per
me è l’incidente, un buon autista non deve mai danneggiare il proprio mezzo, si
potrà obbiettare che non è stata colpa mia, che può capitare, che facendo circa
150.000 chilometri all’anno un incidente si può mettere in preventivo, che è la
prima volta che succede; nonostante tutto ciò, per me è un fallimento. Conflitti,
per mia fortuna, non ne ho mai avuti. Disagio, è rendersi conto che in fondo per
quanto ero bravo nel mio lavoro, l’essere fuori gioco e l’incidente, hanno fatto sì
che quasi tutti si sono estraniati e dimenticati di me, solo alcuni miei colleghi
continuano a chiamarmi per sapere come va. Il mio più grande desiderio è quello
di poter tornare utile, di poter fare qualcosa nella vita per dare una mano alla mia
famiglia, coma facevo prima, logicamente in un ambito diverso.
Fare i racCONTI con il cambiamento
[56]
Lettera al corpo
Scrivere a qualcuno, a volte, ti fa esternare pensieri e convinzioni che
parlandone direttamente, difficilmente riusciresti a dire. Voglio rivolgermi al
mio ginocchio, che duole, tanto, troppo, non mi tiene su, cede all’improvviso.
Capisco che la fisiatra, guardando la risonanza, ti ha detto: “scusami ma fai
proprio schifo”. Comprendo anche che è nata una diatriba, tra ortopedico e la
stessa fisiatra, per sostituirti con un tutore. Da parte tua però, non fai nulla per
collaborare. Indubbiamente la botta l’hai presa, certo. Ma cosa dovrebbe dire il
femore? È esploso, quasi disintegrato: eppure ci ha messo più di due anni, sarà
storto, farà male, ma comincia a reggere, sta facendo di tutto per fare il suo
lavoro, si impegna al massimo per non deludermi. E che dire della tibia, ancora
più collaborativa? Ha combattuto quasi un anno, ma ha vinto la sua battaglia!
Come lo sterno, le costole, i polsi, le dita e i metatarsi. Loro sì che sono veri
patrioti! Ma tu…
Però forse comincio a comprendere il tutto, ora è chiaro: ti sei alleato al
cervello; la vostra è una rivolta: lui, come te, non vuole collaborare. Una cosa è
certa, il resto di me non vi farà vincere facilmente, o almeno spero.
Risposta dal corpo
Risposta alla mia missiva.
Il ginocchio:
caro mio Franco, per risponderti sarebbe molto semplice dirti: la colpa è tua, tu
hai fatto il danno, cosa pretendi da me? Non mi hanno mai calcolato, dicevano:
“il male al ginocchio? È normale hai la tibia fratturata, il femore sbriciolato,
cosa si può pretendere? Poi comunque prima bisogna risolvere le fratture, poi si
vedrà”. Quindi mi hai fatto trascurare, ed ora non puoi accanirti contro di me.
Faccio ciò che posso, e sinceramente posso fare molto poco. In quanto alla mia
alleanza, ognuno qua fa per sé, non sono certo io a cercare complici. Comunque
per avvalorare quanto sopra, dimmi un po’… Ma lui ti ha risposto?
La resilienza
Se devo essere sincero, io non ho superato le problematiche legate all’infortunio.
Spesso vedo tutto nero, ho il timore radicato in me di non riuscire a tornare utile
per la mia famiglia. D’altro canto però, devo ammettere che oltre a Rita, che è
da premio Nobel, per la costanza, per la pazienza, per la dedizione che ha avuto
nei miei riguardi, ho trovato sulla lunga strada del mio infortunio molte persone
che si sono rese disponibili, alcune materialmente, cosa non da poco, come i
Fare i racCONTI con il cambiamento
[57]
miei familiari, tutte le persone con le quali ho avuto contatti all’Inail e i vari
dottori del Cto; altre moralmente come B. e la Dottoressa M. (psichiatra).
Nonostante ciò, a volte, mi sento solo con me stesso, a pensare ciò che sarò, ciò
che farò. Comunque grazie a tutto ciò che mi ha supportato, come i vari consigli,
molto utili, ricevuti dallo staff dell’Inail, da B. e dalla psichiatra, mi sento un
po’ sollevato. Ma è bastata la visita di controllo, di due giorni fa, per farmi
ripiombare nel mio buco nero: mi hanno detto che devo mettere un tutore al
ginocchio perché non regge, inoltre dovrò iniziare una nuova trafila alla
chirurgia del ginocchio. Questa mia dolorosa storia non finisce mai, ecco perché
affermo che non ho superato i problemi dell’infortunio.
Il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia)
Se dovessi scrivere un messaggio e farlo viaggiare all’interno di una bottiglia,
avrei bisogno innanzitutto d’un contenitore alato, non basterebbe certamente
una classica, semplice, banale bottiglia. Trovato ciò passiamo al messaggio.
Puerile sarebbe inviarlo al Signore del tempo, per tornare indietro a un’ora
prima dell’incidente, conoscendo il dopo, per prevenirlo. Inutile mandarlo al
GRANDE GUARITORE perché mi faccia tornare come prima con uno
schiocco di dita. Lo scrivo a me stesso e dico “Franco ricorda tutto ciò che ti è
accaduto, non dimenticare MAI chi ti ha voluto bene, chi ti ha aiutato, chi ti ha
sopportato e fanne tesoro perché chissà che un giorno possa tu aiutare qualcun
altro in difficoltà”.
P.S. Speriamo che un giorno possa trovare questa bottiglia e pensare che è
alata... ti segue sempre.
Cosa è successo dopo
Il lavoro di gruppo organizzato dall’Inail, per quanto mi riguarda è stato molto
importante, tanto da proporre un seguito agli incontri.
Devo ammettere che tutte le volte che ero col gruppo e con gli organizzatori di
questo evento, mi sentivo bene con me stesso, strano per il periodo nero che sto
attraversando; sono addirittura arrivato al punto che non vedevo l’ora che
arrivasse il giorno di tali incontri. Molto probabilmente perché, stando qui con
persone come me, che hanno sofferto, che hanno partito, ti senti compreso.
Quando parli di qualche problema, gli altri sanno rispondere in merito, perché
sanno esattamente di cosa parli, e non solo gli infortunati, ma anche i
responsabili dell’Inail.
Fare i racCONTI con il cambiamento
[58]
Spero sinceramente che si possa continuare, ma ancor di più, che coloro che
oggi sono qua possano continuare a venire. Sarebbe molto importante, almeno
per me.
Fare i racCONTI con il cambiamento
[59]
La spirale esistenziale di Franco
Fare i racCONTI con il cambiamento
[60]
L’arcipelago degli affetti di Franco
[61]
RITA
Cinquantasette anni, è la moglie di Franco. Da quanto il marito ha avuto
l’infortunio si è dedicata completamente a lui, senza abbandonarlo un attimo a
partire dai primi momenti del ricovero, alla riabilitazione, e attualmente
partecipando assieme a lui a questo progetto.
Intervista
Se dovessi definire con una parola cosa ha significato l’infortunio di mio
marito Franco per me e la nostra famiglia direi “la fine”. Perché noi eravamo
una famiglia molto unita: due figli, due nipotini. Al momento in cui è successa
questa tragedia è cambiato tutto.
Sì, è stata una tragedia.
Non posso pensare al momento in cui mio figlio mi ha detto che era successo un
incidente e al viaggio sino a Modena. Appena l’abbiamo visto, in rianimazione,
mio figlio ha chiesto: “Ma mio papà uscirà di qua?”.
Mia figlia era qua a Torino con i bambini piccoli e chiamava continuamente.
Noi, per farla stare tranquilla, le dicevamo: “Papà sta bene, l’abbiamo visto”.
Da un periodo che era nero per problemi miei di salute, ho cercato di dare il
massimo e farmi forza; ma ora che lui sta così male, anche io sto ricascando
nei problemi precedenti, com’ero prima.
Davanti a lui cerco sempre di essere autoritaria, perché se vado dietro di lui è
finita.
Lui vuole stare solo sul sofà.
Quando siamo entrati in ospedale pensavamo che morisse. Durante il viaggio
c’erano tutti gli amici di mio figlio che chiamavano. Da qui a Modena il
tragitto è lungo: il telefono non ha smesso di squillare. Mi sono trovata a dire:
“Gianni, smettila di piangere”, perché ogni persona che chiamava era un
pianto.
Quando siamo arrivati siamo potuti stare in rianimazione due minuti.
Ci hanno detto che tutto dipendeva dai polmoni.
Poi siamo tornati in macchina. Dovevamo aspettare la mattina. Abbiamo
parlato tre o quattro ore. Il tempo non passava mai. Poi siamo passati in un bar
e siamo tornati in reparto. Una dottoressa ha detto: “La situazione non è
cambiata”.
Facevamo tutti i giorni Torino-Modena per avere i due minuti di informazioni,
finché non l’hanno trasferito nei reparti normali; allora potevamo stare con lui
un’ora. Dopo una settimana, sotto la nostra responsabilità, l’abbiamo fatto
trasferire a Torino, ed è cambiato tutto.
Fare i racCONTI con il cambiamento
[62]
Dal punto di vista della prevenzione, le parole che sento molto legate
all’infortunio di mio marito sono “fretta” ed “eccesso di sicurezza”.
L’abitudine del solito tran tran.
Come superare un evento come questo?
Io penso e spero che si possa superare.
Potrebbero essere utili queste iniziative alle quali state lavorando.
Vedendo altre persone forse dimentica e mette da parte.
Poi sarà importante anche il lavoro perché la sua paura è anche quella del
futuro.
Vede nero, vede brutto e non capisco perché.
Lui ha tre nipotini: oggi come oggi i bambini gli danno fastidio; quando c’è il
nipote più piccolo, lui poi si gira sul sofà.
Vedere persone potrebbe aiutarlo… ma fuori di casa.
Io gli chiedo di uscire, andare ai giardinetti, ma lui si stufa.
Mia figlia mi dice: “Mamma, vengo a trovarti” e io le dico: “Facciamo un
altro giorno che papà non sta bene”.
Non gli va più di fare le cose che faceva prima; non gli va più niente.
È saltato tutto anche per me.
Sono trentotto anni di matrimonio: eravamo ragazzini. Adesso lo sgrido, gli
dico di andare a fare la barba. Se fosse per lui a quest’ora aveva la barba sin
qua (indica le ginocchia, ndr).
Prima di questo infortunio era una persona che, dopo il suo lavoro, continuava
ad aiutare gli altri: i suoi figli, i vicini di casa.
Speriamo che questo periodo nero passi in fretta, che ci sia il superamento,
perché è dura.
Prima era una persona sorridente, scherzava: questa è un’ombra!
Per lui conta anche questo fatto della “zoppia”. Dice: “Lo vedi? Sembro uno
sciancato”.
Il primo ricordo
La cosa che forse più mi è cara da ricordare da piccola è quando un giorno è
venuto a trovarmi il mio padrino per portarmi un regalo e io per timidezza mi
sono nascosta sotto il letto dei miei genitori, un mio cugino mi chiamava,
urlavo perché non volevo uscire, infine mio padrino se ne è andato senza
vedermi.
219   fare i conti con il cambiamento
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219 fare i conti con il cambiamento

  • 1. Fare i racCONTI con il cambiamento Edizione 2013
  • 2. pubblicazione realizzata da INAIL Sede di Torino centro A cura di Alessia Congia, Valeria Grotto, Serena Peyron, Lucia Portis, Roberto Sciarra Testi di Adrian, Aldo, Beatrice, Consolazione, Dino, Emilia, Francesco, Franco, Issa, Luciano, Marie Jeanne, Marinela, Mario, Maurizio, Norberto, Patrizia, Pietro, Refit, Rita, Sergiu info Inail Sede di Torino Centro Corso Galileo Ferraris 1 - Torino torinocentro@inail.it torinocentro@postacert.inail.it La pubblicazione viene distribuita gratuitamente e ne è quindi vietata la vendita nonché la riproduzione con qualsiasi mezzo. È consentita solo la citazione con l’indicazione della fonte. Tipolitografia Inail Milano, dicembre 2013
  • 3. Dedicato a Mario motore fondamentale di questa bellissima esperienza “Quando l’uomo ha vissuto e imparato va in pensione e si siede su una panchina, è a perdere. Invece bisogna chiedere ai vecchi cosa hanno imparato; si ricicla l’immondizia, bisogna riciclare l’esperienza”
  • 4.
  • 5. Fare i racCONTI con il cambiamento [5] Indice: Prefazione Tommaso Montrucchio Commento al progetto Padre Antonio Menegon Introduzione al progetto Introduzione metodologica al laboratorio Introduzione alle monografie Monografie Adrian Aldo Beatrice Consolazione Dino Emilia Francesco Franco Rita Issa Luciano Patrizia Marinela Mario Marie Jeanne Maurizio Norberto Pietro Refit Sergiu Riflessioni degli operatori Introduzione alle salienze Salienze Trauma e cambiamento Le risorse Gratitudine Cosa non ha funzionato Prevenzione Ricominciare Consigli Messaggio ai lettori 7 9 11 15 17 21 23 31 39 43 45 47 49 53 61 69 71 77 85 95 101 107 119 127 137 145 147 151 153 155 171 179 187 193 201 213 217
  • 6.
  • 7. [7] PREFAZIONE Tommaso Montrucchio Direttore della Sede Inail di Torino Centro Me lo ricordo ancora quel signore tranquillo che parlava fitto, fitto, con un sorriso grande così stampato sul viso, gli occhi che brillavano. Ci raccontava della sua grande passione a gironzolare per il mondo su una nave. Era il suo lavoro, era un tecnico di grande esperienza. Io, assorto, ascoltavo in silenzio, ero ammirato. Come i miei colleghi. Quell’uomo stava per morire. E infatti è morto. Ma non è morta la sua passione per il lavoro, la stessa che hanno i protagonisti di questo libro. Grazie a loro è nata quest’avventura che li ha portati a raccontare e a raccontarsi in queste venti storie. Io all’inizio ero scettico, dicevo ai colleghi “noi non facciamo gli editori, ma i funzionari del parastato”, ma loro sono testardi e non mi hanno dato retta più di tanto. E in combutta coi titolari di queste venti storie e col “concorso esterno” della Professoressa Portis hanno prodotto questa “cosa”. Io adesso lascio la parola ai veri protagonisti e non aggiungo altro. Anzi no, una cosa la voglio dire: LEGGETELO QUESTO LIBRO, NE VALE SEMPLICEMENTE LA PENA.
  • 8.
  • 9. [9] COMMENTO Padre Antonio Menegon - Comunità Madian di Torino Vivere è incontrare volti, storie, esperienze che ti coinvolgono se ti lasci catturare dall’importanza che nella vita hanno le persone. Noi siamo gli altri, e più condividiamo la nostra vita con la vita degli altri, più riusciamo a dare un senso ai nostri giorni. Tante sono le persone che ho incontrato nella mia vita, le più diverse, le più lontane, ma anche le più vicine, tutte con il loro bagaglio di vita e le loro storie, alle volte fatte di sofferenza, privazione, povertà, malattia, indifferenza. Fermarsi e saper ascoltare, accogliere, entrare dentro il dramma vissuto ed esprimere partecipazione, coinvolgimento, far sentire una presenza attenta, premurosa, è il primo passo per ridare forza e fiducia nella vita, per risollevarsi e riprendere il cammino. Nella nostra comunità arrivano persone profondamente provate dalla vita, con vissuti di disperazione, persone arrivate in Italia per lavorare e sostenere la famiglia lasciata nel paese di origine; si ritrovano ammalate e incapaci di sovvenire alle necessità dei loro famigliari perché loro stessi privi della prima grande risorsa che è la salute. La comunità accoglie non solo le persone ammalate e bisognose di cure, ma tutto quel subbuglio di sentimenti, frustrazioni, ansie, fallimenti che rendono ancor più impotenti e incapaci di sperare in un possibile futuro. Si vincono lo scoraggiamento e la disperazione non solo dando delle cose, un alloggio, cure mediche, ma soprattutto trasmettendo il messaggio rassicurante che i pesi e le sofferenze vengono portati insieme, che quelli che sono i bisogni, le attese e le speranze sono totalmente condivisi, cosicché la persona non è più sola, isolata, ma rinvigorita dalla certezza che altre persone sono sintonizzate e partecipi. In una parola, occorre saper scaldare il cuore perché l’altro possa abbandonarsi fiducioso, come un bambino in braccio a sua madre, e, così rinfrancato, riprendere vigore per lottare e superare le difficoltà della vita. Tanti hanno vinto la loro battaglia, altri non ce l’hanno fatta, ma, sia chi ha vinto, sia chi non è riuscito, ha lasciato una traccia, una storia da raccontare, un’esperienza che può essere di aiuto, non solo ad altre persone ammalate, ma anche a tanti altri che, venendo a contatto con questa storia, hanno saputo trarre insegnamento per potere vedere la vita con altri occhi e cambiare la loro visione del mondo e delle cose. Questa è l’importanza di questo libro, che aiuta a non dissipare esperienze di vita preziose; e nulla come la sofferenza ci aiuta a dare il giusto posto alle cose e alle persone e fissare sugli assoluti della vita i punti fermi per non vivere invano.
  • 10.
  • 11. [11] INTRODUZIONE AL PROGETTO Gli operatori Innanzitutto ci presentiamo: siamo funzionari dell’Inail della sede di Torino Centro, l’Istituto pubblico che si occupa degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. Per raccontarvi di questo progetto, è importante ritornare con la mente alle sue origini e ai bisogni da cui ha preso avvio. Nel nostro lavoro incontriamo quotidianamente persone che hanno vissuto o stanno vivendo l’esperienza dell’infortunio o della malattia professionale, in prima persona o come famigliare. Più volte abbiamo osservato l’emergere di un bisogno delle persone di parlare, di sentirsi ascoltate, di raccontare quello che stavano attraversando; perché in queste occasioni si è in tre: l’operatore, la persona colpita dall’evento (o un suo famigliare) e la sofferenza portata. Questa alcune volte viene esplicitata, altre volte viene trattenuta. Se il dolore non rimane chiuso all’interno della persona ma fluisce all’esterno e viene riconosciuto, diventa forse più leggero e rende un po’ più semplice continuare a conviverci; in alcuni casi, il parlarne addirittura cambia il proprio modo di vivere l’esperienza di vita. Molte delle persone incontrate in questi anni si sono aperte al racconto e hanno condiviso con noi che questo faceva loro molto bene. Ci hanno infatti più volte detto che potevano raccontare quello che sentivano in modo libero e che in famiglia questo era molto più difficile, anche per il timore di aggiungere ulteriore sofferenza. Così abbiamo cominciato a pensare che fosse prezioso raccogliere le esperienze fatte dalle persone e le loro personali risposte date a quello che era loro accaduto. Infatti, ci imbattiamo spesso in storie e risposte simili quando incontriamo singolarmente le persone e i loro famigliari, che potrebbero quindi ricevere un conforto anche solo ascoltando i racconti degli altri; più volte, dopo un incontro significativo ci siamo detti: “certo che se si conoscessero, si potrebbero aiutare tra loro; inoltre le loro esperienze potrebbero essere utili in funzione preventiva anche a chi non ha mai subito un evento simile”. L’Inail, infatti, oltre ad assistere sotto vari aspetti chi subisce un infortunio sul lavoro o una malattia professionale, attua interventi di prevenzione fornendo formazione e informazione per la diffusione della cultura della sicurezza sul lavoro, sia nella scuola fin dall’infanzia sia nel mondo del lavoro. Siamo convinti, infatti, che i vissuti delle persone, portati all’esterno, possano coinvolgere molto di più rispetto ad interventi che insistano solo sulle prescrizioni e sull’obbligo dell’uso dei dispositivi di sicurezza.
  • 12. Fare i racCONTI con il cambiamento [12] Abbiamo pensato dunque che la raccolta delle esperienze delle persone potesse diventare materiale utile anche per queste iniziative. Altro obiettivo era quello di capire dove e come noi operatori, svolgendo quotidianamente il nostro ruolo istituzionale, potessimo modificare e migliorare il rapporto con i nostri assistiti: per questo abbiamo chiesto i loro consigli in tal senso. Ci piacerebbe anche poterli diffondere fra i colleghi delle altre sedi, in occasione dei corsi di formazione interna. Abbiamo infine creduto nell’importanza e nella forza del gruppo. Il nostro lavoro quotidiano si svolge in gruppo e siamo convinti della validità di questo strumento: questa esperienza ha confermato e rafforzato la nostra consapevolezza. È stato così che tre uffici della nostra sede, Reinserimento, Prevenzione e Lavoratori, si sono uniti per cercare un’idea che integrasse tutti gli aspetti del loro lavoro, provando a dare concretezza ai bisogni colti ed alle riflessioni sviluppate nel corso del tempo. I presupposti del progetto sono: il valore delle storie delle persone; l’importanza di avvicinarsi a queste storie come strumento per favorire un rapporto tra persone ed Ente improntato sull’umanizzazione e valorizzazione del vissuto soggettivo; la necessità di utilizzare le storie di vita, infortunio e cambiamento nell’ambito degli interventi per la diffusione della cultura della sicurezza nei luoghi di lavoro. Per avvicinarsi alle persone ed alle loro storie, si è scelto di utilizzare lo strumento dell’intervista. Nel corso di un anno sono state intervistate venti persone, fra coloro che avevano subito un infortunio sul lavoro, una malattia professionale, i loro congiunti e i famigliari di chi a causa del lavoro aveva perso la vita. Attraverso le interviste, le persone hanno raccontato il proprio vissuto, in uno spazio narrativo dove sono state portate le emozioni, le paure, le idee. Allora abbiamo pensato: perché non creare una situazione in cui le persone possano incontrarsi tra loro e condividere i racconti, le storie di vita, le risposte che singolarmente ognuna di loro ha dato? Tutte le persone coinvolte hanno accolto positivamente la proposta: è nata così l’idea di dare avvio ad un laboratorio di narrazione autobiografica, nel corso del quale sviluppare il lavoro sulle storie delle persone ed arrivare all’elaborazione della loro esperienza in forma narrativa. La conduzione del laboratorio è stata affidata alla Prof.ssa Lucia Portis, antropologa, collaboratrice scientifica della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari.
  • 13. Fare i racCONTI con il cambiamento [13] Hanno aderito al laboratorio dodici persone, di cui quattro straniere: quattro delle persone coinvolte sono famigliari di infortunati sul lavoro. La persone straniere hanno avuto la possibilità di scrivere nella loro lingua madre, a volte aiutati dai figli per la trascrizione in italiano. Gli operatori che hanno curato questo progetto hanno partecipato attivamente al laboratorio, affiancando i partecipanti nella trascrizione dei testi, lasciandosi coinvolgere nel percorso narrativo e, successivamente, lavorando, con l’assistenza della Prof.ssa Portis, alla sistemazione di tutto il materiale prodotto nel corso delle interviste e del laboratorio. È stato il primo progetto all’interno della nostra Sede in cui tre uffici così diversi si sono uniti con lo scopo di realizzare un’idea condivisa; questo ha sicuramente prodotto un grande valore aggiunto ed un’interazione maggiore tra gli operatori. È andato tutto al di là dello sperato e dell’immaginato. L’interazione tra le persone è avvenuta tra le diversità e unicità di ognuno. Spesso i partecipanti hanno condiviso che il fatto di essere in gruppo dava loro un senso di famiglia, di forza e di coraggio. Il progetto è nato con premesse che nel tempo si sono trasformate ed ha nel contempo arricchito le persone che hanno partecipato e che hanno voluto dar vita a questa testimonianza. A partire dagli obiettivi iniziali, abbiamo così percorso strade più innovative e meno scontate rispetto al nostro usuale lavoro, arrivando così a pensare ad un mezzo di divulgazione ambizioso: un libro.
  • 14.
  • 15. [15] INTRODUZIONE METODOLOGICAAL LABORATORIO Lucia Portis Il laboratorio di narrazione autobiografica è uno spazio/tempo all’interno del quale le persone intraprendono un percorso mnestico e introspettivo attraverso l’uso di dispositivi atti a favorire il racconto in forma orale e scritta. Questo percorso implica una disposizione all’ascolto di sé e il desiderio di comunicare la propria esperienza ad un interlocutore/ascoltatore. Infatti oltre alla scrittura individuale, altrettanto importante è la fase interpretativa e di restituzione; in questa fase i narratori e le narratrici sono invitati/e a condividere le loro scritture in gruppo o a coppie e a riflettere su quanto scritto. La rilettura e l’analisi dei testi consentono ai/alle partecipanti la comprensione delle scelte narrative, delle interpretazioni e un’ulteriore attribuzione di significato. Il laboratorio è quindi uno spazio narrativo di gruppo dove la narrazione di sé diventa, durante la lettura, pratica collettiva e la condivisione dei testi genera un effetto di identificazione e rispecchiamento, e al tempo stesso di differenziazione, rispetto all’unicità delle storie di ognuno. Il contesto narrativo consente, quindi, da una parte di dar forma alle proprie rappresentazioni, senza la paura del giudizio altrui, dall’altra facilita la condivisione e la connessione della propria rete semantica con quelle degli altri. Il gruppo negozia e amplifica l’attribuzione di significati comuni dell’agire quotidiano e permette la costruzione di microteorie contestualizzate e utilizzabili per comprendere le diverse visioni della realtà. È un lavoro di co-costruzione. I testi letti in gruppo sono come gettati nel mondo, un transito che in qualche modo separa la narrazione dall’autore e autrice e li porta ad ascoltarsi. La storia individuale comincia a entrare in un’altra storia, quella del gruppo. E, insieme, la storia individuale permette una nuova conoscenza di sé. Il gruppo partecipa alla storia di ognuno lasciando la sua singolarità vivida e unica, entra in contatto con la storia di tutti/e senza perdere un solo passo ed entrando in scena con sottolineature - emotive, di contenuto, autoriflessive - che agganciano e mescolano i significati. Il contesto formativo diventa contesto narrativo proprio perché consente il racconto di frammenti di sé e quindi di dar forma alle proprie rappresentazioni, senza la paura del giudizio altrui, di meticciare, condividere e connettere interpretazioni di sé, dell’altro e del mondo. Gli incontri del laboratorio sono composti da diversi momenti: il momento introduttivo, in cui viene illustrato il dispositivo e vengono invitati e accompagnati i/le partecipanti a scrivere utilizzando suggestioni diverse: letture,
  • 16. Fare i racCONTI con il cambiamento [16] sollecitazioni teoriche, immagini; il momento individuale di narrazione e scrittura; il momento della restituzione in cui i partecipanti sono invitati a rileggersi e rielaborare quanto scritto in modo collettivo; il momento di chiusura nel quale sono messe in comune emozioni e riflessioni, e l’accento è posto più sul processo che sui contenuti emersi. Abbiamo creato questo spazio per consentire ai partecipanti di ricostruire in un primo tempo la loro storia prima dell’incidente o della malattia e poi di affrontare quest’ultima e quello che ne è venuto dopo. L’obiettivo del laboratorio era quello di raccontare il proprio passato al fine di intraprendere un percorso di risignificazione alla luce dell’oggi e motivare i partecipanti a ripensare al proprio futuro e aprirsi ad altre possibilità. Inoltre il laboratorio ha consentito di conoscere e comprendere le strategie di coping1 utilizzate dai vari partecipanti per far fronte all’evento problematico e le loro capacità di resilienza. Struttura del laboratorio Il laboratorio è stato strutturato in otto incontri di due ore ciascuno, i temi affrontati erano relativi alla storia di vita nel suo complesso e in particolar modo all’evento problematico (infortunio o malattia), alle sue conseguenze, alle strategie di coping e resilienza. Le persone che non erano in grado di scrivere o che non volevano utilizzare questo codice sono state affiancate da operatrici e operatori dell’Inail che hanno messo in forma scritta il loro racconto orale. Il risultato finale non è stato soltanto una produzione di testi significativi e importanti per sé e per gli altri che il lettore potrà trovare nelle diverse monografie, ma anche un’importante presa di coscienza dell’importanza del gruppo e della narrazione per affrontare percorsi difficili come quelli che vivono le persone che subiscono un incidente invalidante o che sono affette da un malattia professionale. 1 Le strategie di coping racchiudono comportamenti, spesso inconsapevoli, emozioni e adattamenti cognitivi utilizzati per affrontare situazioni problematiche.
  • 17. [17] INTRODUZIONE ALLE MONOGRAFIE Gli operatori Come si è detto, il progetto si è articolato in due fasi, le interviste ed il laboratorio: le monografie contengono, per ognuno dei partecipanti, tutta la documentazione prodotta durante i percorsi. Le interviste riguardano venti persone individuate tra quelle prese in carico nell’ambito di progetti riabilitativi individualizzati, previa verifica della disponibilità a partecipare all’iniziativa. Dei venti partecipanti tredici sono uomini e sette donne: tra essi sono di nazionalità straniera cinque uomini (Romania, Moldavia, Slovacchia, Senegal e Albania) e una donna (Romania). Le interviste sono state distinte in tre tipologie: alla persona infortunata, a quella affetta dalla malattia professionale e a un famigliare: riportiamo di seguito le domande comuni e quelle specifiche. Come definisce il suo infortunio/del famigliare? Cosa è rimasto nella memoria del momento in cui è accaduto/ha saputo la notizia? Quali di queste parole sono importanti per la prevenzione? - attenzione/concentrazione - prudenza - formazione - conoscenza della lingua - fretta - eccesso di sicurezza in se stessi - casualità - mancato riposo - misure di sicurezza - stanchezza - paura - abitudine Una delle funzioni dell’Inail è il reinserimento sociale: quali sono state le sue risorse per ricominciare, andare avanti, superare? Vuole darci un consiglio sul modo di condurre il nostro lavoro?
  • 18. Fare i racCONTI con il cambiamento [18] Queste le domande poste alle persone affette da malattia professionale: Lavoro e realizzazione personale. Quale è stato il ruolo del suo lavoro nella sua vita? Lavoro e diritti dei lavoratori. Quali cambiamenti significativi ha osservato nell’arco della propria vita lavorativa? Misure di sicurezza e prevenzione. Quali cambiamenti significativi ha osservato nell’arco della propria vita lavorativa? Un evento legato alla sua esperienza lavorativa che le torna sovente in mente La notizia della malattia professionale. I primi pensieri che hanno accom- pagnato la diagnosi. Come sono cambiate le sue abitudini di vita? Che cosa ritiene le manchi di più? In cosa ci vuole più coraggio nel convivere con la malattia? Cosa ha imparato dalla sua esperienza di malattia che ritiene di poter tra- smettere ad altri? Troverete le risposte all’interno delle monografie di ciascun partecipante. Le interviste sono state condotte dagli operatori Inail, che hanno cercato di trascrivere fedelmente i pensieri degli intervistati, anche nei loro modi di espressione. Le persone intervistate hanno parlato di sé con disponibilità ed autenticità dando vita a testimonianze molto toccanti. Agli incontri individuali con i partecipanti che hanno rilasciato l’intervista, sono seguiti alcuni incontri di gruppo con tutte le persone coinvolte dove è stato riletto quanto scritto e sono state condivise le sensazioni che ognuno aveva avuto nel raccontarsi e nel ri- ascoltare la propria testimonianza letta dagli operatori presenti. Da qui è nata la volontà di proseguire con un percorso di narrazione che consentisse di approfondire questa esperienza in modo più strutturato: il laboratorio di narrazione autobiografica. Il laboratorio si è svolto nei nostri uffici, è stato strutturato in otto incontri ogni venerdì dalle 12.00 alle 14.00 e si è sviluppato attraverso l’elaborazione di testi, immagini, disegni su questi temi: il primo ricordo spirale esistenziale (elaborato grafico più narrazione di uno o due episodi significativi della propria vita)
  • 19. Fare i racCONTI con il cambiamento [19] arcipelago degli affetti (elaborato grafico più lettera ad una persona significativa del proprio arcipelago) il lavoro lettera al corpo risposta dal corpo la resilienza (i fattori, le persone, le esperienze o le situazioni che hanno aiutato a superare il momento di crisi dovuto all’infortunio/malattia/perdita) il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia) cosa è successo dopo Al laboratorio hanno partecipato dodici delle persone intervistate, cui si è aggiunta la moglie di uno di essi che è morto per la malattia professionale pochi giorni prima dell’inizio del laboratorio (a lui è dedicato questo libro). Gli altri intervistati hanno rinunciato al laboratorio principalmente per motivi di lavoro o famigliari non compatibili con gli orari concordati. Dei dodici partecipanti otto sono uomini e quattro donne: fra essi sono di nazionalità straniera tre uomini (Romania, Slovacchia e Albania) e una donna (Romania).
  • 20.
  • 22.
  • 23. [23] ADRIAN Trentun’anni, infortunio del 21 ottobre 2004. Incidente alla guida dell’auto mentre andava al lavoro. Lesione: paraplegia. Presta volontariato come consulente alla pari presso l’Unità spinale di Torino. Intervista L’infortunio per me è stato uno shock. In una parola posso dire scioccante. Cosa mi è rimasto impresso? Vi interessa sapere le cose belle o le cose brutte? Perché nel mezzo ci sono state anche cose belle! La cosa brutta è stata trovarsi in questa condizione. In collina (presso un centro di recupero funzionale, ndr) però ho conosciuto parecchie persone e con queste persone ci siamo aiutati a vicenda. Quando ho avuto l’infortunio sono sempre stato cosciente. I primi tre mesi sono stato al Cto (Centro Traumatologico Ortopedico); un mese in rianimazione e due mesi in reparto. Poi sono passato al Crf (Centro Riabilitazione Funzionale) dove sono stato da fine gennaio 2005 a febbraio 2006. Lì si è formato un gruppo di amici con cui ci si incontra ancora, si va a cena… Poi sempre tramite il Crf ho fatto un corso di cinque incontri come consulente alla pari: dato che sono in carrozzina, mi contattavano e mi affiancavano ai pazienti nuovi e ai loro famigliari nei casi più disperati. È stato divertente. Non si parlava molto dell’incidente. Forse ci contattavano più i famigliari, perché loro patiscono di più: hanno più bisogno di chi ha avuto l’incidente. I pazienti, se hanno la fortuna di incontrare un gruppo di persone con cui si trovano bene, si riprendono meglio. Rispetto al nostro gruppo dei tempi del mio ricovero, anche le nostre famiglie sono rimaste in contatto. Allora era anche più facile perché il posto era piccolo, condividevamo gli stessi spazi ed eravamo tutti uniti. C’era una unica sala di svago e quindi ci incontravamo sempre. Ho cercato sempre di non pensare troppo a quello che era successo. Poi con gli anni si può anche tornare un po’ indietro, ma l’importante è pensare ad andare avanti. Se devo pensare al mio infortunio da un punto di vista della prevenzione, il fattore che per me è stato determinante é indubbiamente il MANCATO RIPOSO. Ho avuto un colpo di sonno a causa della stanchezza. Prevenzione è anche rispettare il proprio organismo. Rispetto alla motivazione per ricominciare, per me il primo passo è stato raggiungere un’autonomia. E poi, piano piano, si ricomincia. All’inizio ho fatto fatica a trovare una casa. Se sapevano che eri in carrozzina la casa non te l’affittavano. Poi abbiamo visto che stavano concludendo questo complesso di case e abbiamo acquistato questa, che è totalmente accessibile. Dato che non
  • 24. Fare i racCONTI con il cambiamento [24] potevo fare quello che facevo prima, ho provato a riorganizzarmi tutta la vita. Ho fatto così. In quel momento finisce tutto com’era prima. Il computer, per esempio, prima - sì - lo usavo, ma non molto. Adesso è tutto. È come l’aria. Serve per fare tutto nella vita quotidiana. Nel complesso comunque non posso lamentarmi. Nella sfortuna, ho avuto la fortuna quando ho avuto bisogno. Il primo ricordo Ricordo mio zio che mi portava sulle spalle. Spirale esistenziale: primo episodio I primi giorni di scuola, perché è l’inizio del mio cammino verso la vita. È il periodo più bello, il più innocente, in cui tutto quello che fai lo fai con entusiasmo e non ci sono tutti i problemi che a volte nella vita devi affrontare da grande. Spirale esistenziale: secondo episodio Il mio incidente è stato quello che ha lasciato un segno importante nella mia vita: è come se fossi nato per la seconda volta, ho dovuto reinventare la mia vita, riprendere tutto quasi da zero. Ero come un neonato che cominciava dal nutrirsi da solo, vestirsi, lavarsi e tutto il resto. I primi tre mesi sono stati i più duri perché ero fermo nel letto, riuscivo a muovere solo la testa, e lì per la prima volta nella mia vita l’unico desiderio era la morte. Le cose sono cambiate una volta andato al centro di recupero in collina; ero ancora fiducioso di riprendermi, però con il passare del tempo e grazie a degli amici che ho conosciuto lì dentro è stato più facile accettare questa condizione e soprattutto accettare la carrozzina. Arcipelago degli affetti: lettera alla persona La mia mamma si chiama Maria ed è nata il 5 maggio 1959 in una famiglia numerosa con nove figli (quattro femmine e cinque maschi). Già da piccola era una ragazzina molto spigliata che andava molto bene anche a scuola. Essendo in una famiglia così numerosa, i miei nonni non potevano offrirle tanto e così lei già dalle medie per farsi la sua paghetta lavorava ogni tanto dopo la scuola e
  • 25. Fare i racCONTI con il cambiamento [25] nei week-end con la zia nel suo bar, arrivando così ad innamorarsi di questo mestiere. Dopo le medie, i genitori non potevano permettersi di farla continuare con gli studi e la nonna voleva mandarla a lavorare in una fabbrica, però lei non voleva e così di nascosto ha partecipato e vinto una borsa di studio di tre anni in una scuola alberghiera che era molto più lontana dalla sua città e così ha dovuto trasferirsi lì. Dopo la scuola è tornata a lavorare in un ristorante nella sua città dove a soli vent’anni era già responsabile del locale, dove nel 1981 ha conosciuto mio padre. Nel 1982 ha sposato mio padre che aveva già due figli da un matrimonio precedente e il 15 dicembre 1982 sono nato io suo unico figlio. Dopo una vita di alti e bassi come in tutte le famiglie, nel 2000 si è separata da mio padre. Nel 2000 dopo la separazione ha deciso di voltare pagina e su invito di sua sorella è venuta in Italia, dove l’ho raggiunta anch’io nel 2001. Arrivata a Torino è riuscita a trovare lavoro come barista in un noto ristorante dove tuttora continua a lavorare. Ha un carattere forte che mi ha dato tante bastonate quando me le meritavo e mi è sempre stata vicina quando ne avevo bisogno. Il lavoro Il primo successo Nell’estate del 2000 ho lavorato per tutta la vacanza in un villaggio turistico che apparteneva a mio zio. Io lavoravo alla cassa all’ingresso dalle 8 alle 17 con pausa di un’ora. Dopo il lavoro ero libero di fare tutto quello che volevo. L’ultimo successo Quando facevo il carrozziere di barche, il titolare della mia ditta voleva prendere del lavoro in un’altra grossa fabbrica di barche che si trovava a Piacenza, e così aveva deciso di mandarmi con altri due compagni per un periodo di prova di due mesi. Alla fine della prova siamo riusciti ad ottenere un contratto, da tre siamo diventati sei e il mio titolare mi ha messo come capo squadra. Il primo fallimento Una volta arrivato in Italia ho trovato lavoro in una fabbrica di tende a Caselle, io mi occupavo del confezionamento dei binari su cui venivano appese le tende e del montaggio. Dopo tre mesi ho smesso perché non mi pagavano.
  • 26. Fare i racCONTI con il cambiamento [26] L’ultimo fallimento Nel 2010 avevo fatto un corso di web design presso l’unità spinale di Torino. Hanno chiesto a me e al mio compagno di corso di creare un sito per l’unità spinale. Una volta finito tutti erano entusiasti, lo abbiamo presentato alla direttrice che era molto soddisfatta, mancava solo la presentazione ufficiale. Peccato che il progetto ancora oggi è “fermo a quattro frecce” (sospeso, ndr). Il primo conflitto Quando lavoravo nella fabbrica di tende a Caselle avevo litigato con la titolare che non mi pagava e mi diceva sempre: la prossima settimana. L’ultimo conflitto Quando facevo l’imbianchino avevo litigato con il mio capo per un lavoro che avevamo deciso insieme come fare, solo che dopo il proprietario dell’alloggio non è stato contento e il mio capo ha dato tutta la colpa a me. Il primo disagio Nel primo giorno di lavoro in Italia ero arrivato in ritardo di un quarto d’ora e non sapevo come spiegare che il treno era in ritardo. Alla fine gli ho detto solo chi ero, lei mi ha detto qualcosa col sorriso e mi ha portato sul posto di lavoro. L’ultimo disagio Dopo la litigata con il mio capo il nostro rapporto è degenerato perché mi rinfacciava sempre davanti ai miei colleghi che lui aveva perso dei soldi per colpa mia. Dopo una settimana me ne sono andato. Il primo desiderio Prima dell’incidente stavo per mettermi in proprio. Avevo trovato una fabbrica più piccola che aveva bisogno di carrozzieri e cosi ho deciso di aprire una partita iva: con i risparmi che avevo messo da parte potevo permettermi di portare con me un’altra persona per iniziare. L’ultimo desiderio Trovare un lavoro che impegna le mie giornate e dà un senso alla mia vita.
  • 27. Fare i racCONTI con il cambiamento [27] Lettera al corpo Caro midollo ti scrivo queste poche righe ma non da amico perché non lo sei e non lo sarai mai, anche se nel profondo del mio cuore spero ancora di poter far pace un giorno con te. Non so quale possa essere il motivo della tua frattura, se eri tu che volevi punirmi perché ti sentivi solo (adesso starai meglio visto che ci sono due placche in titanio con quattro chiodi che ti fanno compagnia) oppure è la vita che si è accanita contro di me; ma anche se fosse non dovevi abbandonarmi al primo ostacolo che hai incontrato per strada. Dovevi essere più forte, così come sono stato forte io a reagire dopo la tua frattura, che mi ha provocato non tanti problemi, ma di più. I primi mesi sono stati i più duri, con il mio stato d’animo che era un insieme di sentimenti confusi: passavo dallo sconforto alla sfida, dalla gioia alla depressione, dalla voglia di andare avanti alla chiusura in me stesso. Anche se ho passato momenti di grande delirio, non mi sono mai lasciato andare e grazie al mio grande amore per la vita sono riuscito ad andare avanti con tranquillità e serenità, diventando così ancora più forte. Sappi però che non mi piangerò addosso perché so che c’è gente che soffre anche più di me, riuscirò a considerarti come qualcosa di diverso col quale convivere il meglio possibile, se non altro perché so che purtroppo mi accompagnerai per tutto il resto della mia vita. Per concludere ti dico una cosa sola “Ho perso una battaglia ma non la guerra.” Risposta dal corpo Caro Adrian, anch’io spero di potere fare PACE ancora con te e di riuscire un giorno di vederti ancora in piedi. Non sono né io che ti volevo punire, né la vita che si è accanita contro di te. Forse eri solo tu che dovevi lavorare un po’ di meno e riposare un po’ di più così non avresti preso quel colpo di sonno al volante. Mi dispiace tanto per tutto quello che hai passato perché non era nelle mie intenzioni farti soffrire così tanto. Per concludere ti dico solo che un giorno mi piacerebbe stringerti la mano come sconfitto della guerra. La resilienza Dopo l’incidente c’è stata una serie di persone che mi sono state d’aiuto nel mio percorso riabilitativo. Comincio dal mio ex titolare, una grande persona che mi è stato vicino dall’inizio alla fine del mio percorso. In un mese di rianimazione era venuto
  • 28. Fare i racCONTI con il cambiamento [28] quasi tutte le sere a trovarmi, mi prendeva la mano e pregava, e dopo mi raccontava la sua giornata di lavoro e quella dei miei colleghi per distrarmi un po’. Dopo un mese di rianimazione mi hanno trasferito al settimo piano dove ho conosciuto un sacco di persone fantastiche, però con una sola si è creato un legame speciale, si chiama Stefania ed è un’infermiera. Con lei ho condiviso un sacco di emozioni, momenti di grande gioia e anche tanti momenti di grande tristezza, però lei riusciva sempre a tirarmi su il morale con la sua pazzia e con la sua simpatia, aveva sempre la risposta pronta ad ogni mia domanda. Dopo due mesi al settimo piano al Cto, era arrivato il momento tanto desiderato, sono stato trasferito al centro di riabilitazione Crf in collina. Arrivato in collina mi sono ritrovato in stanza con Marco il pilota e Alessandro il pazzo, due dei miei compagni d’avventura. Dopo poco tempo si è unito al gruppo anche Frank il regista, Francesco lo sbirro (era un ex poliziotto) e Daniela: insieme a loro si è creato un gruppo chiamato da tutti “il clan dei bastardi” che tutt’ora continua ad esistere. Con loro mi sono lasciato andare, e così dalle serate tristi passate a letto siamo passati alle serate con tante feste, con le uscite in birreria e tante ubriacature, è stata come una terapia di gruppo, non avevi neanche il tempo per pensare alle cose brutte. Ci sono state anche altre persone che mi sono state vicino come mia madre, gli amici di prima e tante persone meravigliose che ho incontrato strada facendo, come l’assistente sociale con la quale tutt’ora c’è un rapporto di amicizia, oppure la mia fisioterapista che ha faticato tanto con me per farmi raggiungere l’autonomia che desideravo più di ogni altra cosa al mondo; però per quanto riguarda la mia salute mentale penso che il gruppo sia stato fondamentale. Il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia) Datevi da fare con la ricerca sulle staminali! Cosa è successo dopo Tutto ha continuato a trascorrere come prima. Avevo già avuto delle esperienze simili anche prima, ma questa è stata una delle poche dove ero l’unico in carrozzina. A me non cambia nulla perché sono abituato, ma rimangono colpiti più loro che io. La vita per il resto è andata avanti come al solito.
  • 29. Fare i racCONTI con il cambiamento [29] Spirale esistenziale di Adrian
  • 30. Fare i racCONTI con il cambiamento [30] Arcipelago degli affetti di Adrian
  • 31. [31] ALDO Cinquantatré anni, infortunio subito il 29 luglio 2008: è stato investito da un muletto guidato da un collega. Lesione alla gamba sinistra. Attualmente in cerca di nuova occupazione. Intervista Se dovessi definire il mio infortunio mi viene in mente la sensazione di un impatto sgradevole, quasi agghiacciante ed improvviso; sicuramente non voluto. Quando si sta svolgendo un lavoro è molto importante concentrarsi su quello che si sta facendo, senza pensare ad altre cose che potrebbero influire negativamente sul risultato del lavoro o peggio ancora determinare delle situazioni di rischio. Ho poi notato che alcuni colleghi non prestano molta attenzione a quello che stanno facendo, comportandosi in maniera superficiale, come quello che mi ha investito col muletto e che era solito, anche durante il lavoro, fare uso delle cuffiette, determinando di conseguenza situazioni di pericolo, dovute non tanto al rumore, quanto alla distrazione da quello che si sta svolgendo, senza considerare poi il calo della concentrazione, di cui accennavo prima. Il risultato è solo quello di creare disgrazie di notevole entità. Io penso che quando si arriva al lavoro non bisogna essere di cattivo umore, come se tutte le cose andassero per il verso sbagliato, altrimenti la giornata non può che continuare in maniera sbagliata e sgradevole. Credo, pertanto, che sia molto importante arrivare carichi di energia, che aiuta molto a prevenire gli avvenimenti spiacevoli e soprattutto cercare di impostare il lavoro in maniera responsabile, evitando un inizio negativo che porta come risultato solo quello che mi è accaduto, poiché la persona che mi aveva investito aveva la testa tutta da un’altra parte. Penso che il parlare dei comportamenti, degli stili di vita e delle responsabilità, che ognuno di noi ha nei confronti degli altri, sia molto importante per evitare molti incidenti. Cosa mi è rimasto impresso di quel momento? Ogni infortunio è un fatto a sé stante. Benché abbia avuto la percezione in quell’istante di quello che mi stava accadendo è rimasta in me una gioia, una forza di riuscire a sopportare le conseguenze del danno che il collega mi aveva provocato, in quanto sono sopravvissuto all’evento. In quei momenti, anche se ero conscio di vedere la fine, sono riuscito comunque a rialzarmi e confrontarmi con l’impatto, rivelatore della crudeltà del fatto. Sono riuscito ad esprimere alla persona che mi ha cagionato il danno tutto il mio risentimento per ciò che mi era accaduto. La forza che mi ha permesso di fare tutto questo mi è stata data dalla visione delle foto che si sono staccate dal mio portafoglio e che riportavano le immagini
  • 32. Fare i racCONTI con il cambiamento [32] del mio nipotino, i suoi occhi hanno contribuito a fare in modo che potessi reagire in quella maniera. Per me è stato come un’improvvisa immissione di ossigeno proprio in un momento in cui mi veniva a mancare e che mi ha permesso, anche solo per alcuni istanti, di poter dimenticare quello che mi stava succedendo, come se non fossi stato io quello che aveva subito l’incidente. In questo momento, mentre parlo con voi, mi vengono in mente le morti di tutti quei lavoratori che, come me, sono considerati alla stregua di entità astratte, anziché come persone da tutelare. Se devo pensare al mio infortunio da un punto di vista della prevenzione, per me un fattore determinante è la formazione, intesa però come capacità interiore di riuscire con la prudenza e con la coscienza ad agire in maniera corretta. Sicuramente i corsi di formazione sono utili, ma se non vi è qualcosa di se stessi, difficilmente potranno avere l’esito per il quale sono predisposti. Tutto ciò l’ho potuto verificare quando ho seguito il corso per saldatore dove ho avuto l’impressione che i corsi, in genere, devono essere rivolti a persone predisposte ad apprendere, altrimenti è tutto tempo perso. Un altro fattore a cui bisogna prestare attenzione è “l’eccesso di sicurezza in se stessi” perché nella vita c’è sempre da imparare e anche se si è convinti di sapere il fatto proprio, non bisogna mai fidarsi delle proprie capacità perché si potrebbe cadere in situazioni spiacevoli. Un’altra parola che ritengo importante è la “prudenza” che per me è una conseguenza della concentrazione. A proposito di questa parola, mi viene in mente un incidente accaduto insieme a mia figlia e mio nipote durante un viaggio in macchina. Mi ricordo che ero molto agitato a causa dell’altra macchina che, sbandando, aveva provocato l’incidente ma, grazie alla presenza dei miei famigliari, sono riuscito comunque a trattenermi e a concentrarmi sul modo migliore di reagire. Rispetto al superamento di un infortunio, a mio avviso non vi è alcuna possibilità di poter superare il trauma subito; tuttavia con un carattere molto forte si potrebbe ravvisare qualche spiraglio, che possa essere d’aiuto nell’arginare tutto quello che di negativo si trova intorno. Senza dubbio l’affetto dei propri famigliari è la soluzione migliore, e la mia famiglia mi è stata di grande aiuto nel superare tutte le avversità conseguenti all’accaduto. Certamente ci vuole anche un pizzico di determinazione, che ti permette di affrontare ancora meglio il tutto. È anche una questione di dignità. Devo anche dire di essere stato molto contento quando l’Inail mi ha consegnato l’onorificenza. Vuol dire che l’Inail ha riconosciuto la gravità dell’infortunio. Per me è stato come se si fossero immedesimati nel dramma che ho vissuto, comprendendo la situazione in cui mi sono trovato, anche se sono convinto che per poter capire una determinata situazione è necessario viverla.
  • 33. Fare i racCONTI con il cambiamento [33] Posso dire, inoltre, che ho sempre cercato di non desistere nella ricerca di una mia stabilità interiore e allo stesso tempo di portare, in qualche modo, conforto alla mia famiglia. Il primo ricordo Il mio primo ricordo è legato alla sfera più bella, la famiglia, ma è il rifiuto della mia nascita. Nato dopo sette sorelle, mio papà morì il 20 dicembre 1959 a soli ventotto anni ed io nacqui il 4 novembre 1959. Quindi chi mi mise al mondo mi volle consegnare ad un brefotrofio dove io (che ero nato in una bella famiglia numerosa) non sono stato accettato. Da qui seppe la notizia la nonna materna la quale insultò la figlia e mi tenne con sé alla tenera età di settantanove anni. Stetti con lei al paese sino all’età di tre anni. Poi venni in Piemonte e mi misero in collegio. Qui mi trattarono come un oggetto anche perché venendo dal Sud ero proprio un selvaggio e il selvaggio sinceramente non è facile da addomesticare. La mia grande “fortuna” è andata avanti con le suore ed i preti che ho conosciuto. Loro, quando mi comportavo bene mi premiavano, invece quando non mi comportavo bene mi mettevano in punizione. Le punizioni erano molto impegnative, tipo: pulire il refettorio, lavare i piatti, non andare tutti insieme a giocare. Spirale esistenziale: un episodio significativo Un ricordo a me caro è stato: il 12 giugno 1978 (giornata fatidica perché c’era il referendum per l’aborto) quando io mi licenziai dopo sei mesi di lavoro e due anni di medie superiori ed ecco che dentro di me si sprigionò un’aria molto fresca e profumata. Sì, la mia libertà di esistere realmente e moralmente. Il secondo ricordo molto bello è quello di quando intrapresi il percorso di commesso. Ma mica è stato tanto facile. Infatti io prendendo in mano la mia libertà, andai giù al paese. E dopo quattro mesi che ero lì vidi un biglietto con su scritto “cercasi commesso anni 14/15”. Io ne avevo diciotto e dovevo partire anche per il militare. Però a diciotto anni ne dimostravo quattordici e quindi insistevo su questo vantaggio. Per venti giorni ogni mattina mi presentavo al negozio dicendo che avevo un forte desiderio di fare il commesso, ma la ragazza mi diceva: “ma tu sei grande.” E io: “no!” e poi mi diceva: “hai fatto il soldato?” e io: “no, non mi hanno chiamato”. Invece, lei non lo sapeva, ma avevo ricevuto già la cartolina. Tutto questo pur di riuscire a entrare in negozio. Sentivo che sarebbe stato un lavoro per me molto
  • 34. Fare i racCONTI con il cambiamento [34] gratificante. Allora al ventunesimo giorno mi riaffacciavo al negozio e dissi di nuovo le medesime parole, ho quattordici anni ed ho il desiderio di lavorare. La ragazza, vista la mia insistenza chiamò il padre nel capoluogo (Foggia) e spiegò tutta la situazione. Fin quando egli disse alla figlia: “se ha voglia di lavorare fallo venire a Foggia”. Io come mi diede quella notizia feci un salto di gioia e dissi “grazie, grazie”. All’indomani andai a Foggia e quando mi vide il padre mi disse: “ma sei tu il ragazzo che ha voglia di lavorare?” risposi: “sì”. Allora disse al capo commesso, il quale si chiamava A., di darmi uno straccio per togliere la polvere sulle mensole. Per tutto il giorno. Ed io gioioso dissi: “sì”. E poi divenni un ottimo vetrinista e un ottimo commesso responsabile (non per altro mi fece prendere la licenza per gestore). Di qui mi rimane ancora il saperlo fare. Però purtroppo i tempi non te lo permettono più, e resta non un bello ma bellissimo ricordo! Lettera al corpo Carissima gamba sinistra, ti dedico questa lettera perché, come cita un proverbio si dice: "SEMPRE IN GAMBA". Ebbene sì: iniziò quando tu sei stata praticamente schiacciata, anzi distrutta completamente (tipo cannibalismo). Io allibito ti osservavo indifeso senza poterti proteggere, anche perché non riuscivo nemmeno ad alzarmi per incoraggiarti. Infatti tu eri già spezzata dal primo passaggio di ruota piena, io sentii il "CRACK!" Che dolore… ma tu indifferente. Poi arrivò il colpo di grazia: infatti il carrello che tu tanto apprezzavi ti svirgolò sopra e tu sempre in silenzio hai attutito il forte colpo perdendo tanto, tanto ma tanto ma veramente tanto sangue. Pensavi “Chissà se mi salveranno”. Visto che ci trovavamo a Chivasso, sì, TU mi portasti all’ospedale di Chivasso, ma i medici vedendo l’accaduto mi diedero un calmante e mi riavvicinarono a te. Ed io mi sentii più protetto quando ti avvicinarono a me. Poi fu tutto in un attimo che mi chiesero se volevo andare a Torino. Sì, io avendo pochissime probabilità di sopravvivenza, dissi di sì. E così mi portarono a Torino e anche tu ne sei rimasta fiera ricordi? E da qui partì il tuo primo intervento in cui ci salvarono a tutti e due, in quel primo momento. Poi ci mandarono via dall’ospedale; dandoci praticamente le dimissioni forzate, esattamente il 22/08/2008. Lì poi, ci fu un grosso problema, perché la settimana che eravamo a casa tu cambiavi colore; da viola a giallo poi giallo acre fino a peggiorare. Infatti mancò pochissimo per l’amputazione all’arto perché entrò in
  • 35. Fare i racCONTI con il cambiamento [35] cancrena. Ma un bravo ortopedico ci mandò in un altro ospedale: dove abbiamo incontrato un chirurgo plastico molto bravo che ci ha salvato dall’amputazione. Infatti gamba mia, ti misero un apparecchio, richiesto appositamente per me dall’Inghilterra, chiamato: v.a.c. Il quale aveva il compito di assorbire tutte le porcherie che mi avevano buttato nella voragine della gamba per arrivare alla cancrena. Però la grande fortuna è stata che dopo 40 giorni il sangue è ritornato rosso anzi rossissimo come prima e quindi mi ha riportato alla purificazione del sangue. Solo che nel frattempo in un altro intervento uscì all’esterno l’osso della tibia. E qui il dottore ha detto che ci voleva un intervento di microchirurgia che tu hai affrontato con molto coraggio. Beh posso dire, gamba mia, che sei stata molto in gamba (scusa il gioco di parole) ad affrontare tanti interventi e tante infezioni. Però come si dice: "CHI LA DURA LA VINCE" e così è stato. Ricordi quando ti dissi che tu non mi servivi più perché non mi sorreggevi in piedi? Ebbene sì, su questo sei stata molto brava perché tanto hai insistito che mi hai rimesso in piedi. E per questo te ne sono molto grato. E ti dico a squarciagola (perdendo pure l’ugola): grazie, grazie, grazie mille gamba mia per tutto quello che hai fatto e che stai continuando a fare per me. Per questo ti dico: G R A Z I E D I E S I S T E R E !!! Risposta dal corpo Io, arto inferiore sinistro, sì proprio io cinque anni or sono riuscivo a dare molte soddisfazioni al fisico a cui appartengo, ed è di Aldo. Fra le grandi soddisfazioni c’era la pubblicità dell’olio Cuore, i 100 metri in 15", il salto in alto ecc. ecc. ecc.. Da quel fatidico giorno del 29 luglio 2008, sono entrato nel tunnel più profondo ed inimmaginabile che io abbia mai conosciuto; tra l’essere amputato o continuare a fare il mio lavoro da sostenitore. Ebbene non ci crederete ma con la grande collaborazione del corpo, a cui sono fiero d’appartenere, siamo riusciti con grande volontà fisica e psicologica a superare gli ostacoli più bui. Io ho contribuito a tutto questo per dire che le soddisfazioni che do da quando sono passato dall’altra parte della medaglia (categoria protetta), sono molto ma molto più soddisfacenti delle precedenti. Perché do sostegno con grande forza, amore e sensibilità a chi mi tiene. Infatti Aldo, ha subito compreso l’unione della nostra grande forza. Ed è per questo che affronto il mio percorso di vita insieme a lui con immensa umiltà e affetto. E per questo che dico a te grazie di esistere! Continuiamo uniti e felici per sempre!!! Sempre!!! Sempre!!!
  • 36. Fare i racCONTI con il cambiamento [36] La resilienza Beh!! Credo veramente che questa (oltre ad aver colloquiato con il nostro pezzo mancante) sia la parte più delicata e sensibile. Ricordo che durante le prime fasi ero proprio insopportabile e inavvicinabile. Anche perché non c’era nulla da fare per chi si sarebbe avvicinato. Con questo non è che disprezzavo chi mi stava vicino, ma non avevo la minima sensibilità proprio perché ero in un tunnel senza fine che solo il mio IO riusciva a capire. Un effetto incredibile ma vero! Fino a quando dopo le prime medicine vidi veramente la “vera medicina” che mi fece uscire da quel tunnel. Chi erano? Ebbene sì! Le persone veramente a me più care. Ma care care… I miei figli e il nipotino e pur non credendoci la grande prova di amore della mia dolce metà. Poi con la voglia di credere in me stesso e lo stimolo di affrontare qualsiasi cosa, ho cominciato a essere un po’ più buono con me stesso. Eh sì, questi sono i momenti crudi e veri per la grande prova e così fu. Ogni tanto mi faceva arrabbiare ma era scontato in quelle condizioni. Poi piano piano ho ripreso veramente la felicità di vivere, perché vivere oltre ad essere difficoltoso e turbolento è anche molto ma molto bello. GRAZIE a tutti! Il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia) Messaggio nella bottiglia all’Inail. Grazie di questo immenso gesto di amore che hai avuto per me. Nel dar vita a questo bellissimo laboratorio che ci ha fatto crescere psicologicamente, moralmente e fisicamente! Ti ricorderò per sempre. Cosa è successo dopo Beh, posso dire che quello che ho acquisito durante il percorso di reinserimento di crescita, dopo il grande urto, è stato e continua a essere molto utile. Anche perché mi ha dato forza ad affrontare persone che si prendevano gioco di me e poi sono riuscito a comunicare molto più facilmente. Per questo ringrazio molto l’Inail e il fantastico staff delle dottoresse che mi hanno aiutato non solo teoricamente ma anche psicologicamente e soprattutto col cuore, perché si sono immedesimate in ogni singolo caso. Grazie, grazie mille per esserci sempre vicini.
  • 37. Fare i racCONTI con il cambiamento [37] La spirale esistenziale di Aldo
  • 38. Fare i racCONTI con il cambiamento [38] L’arcipelago degli affetti di Aldo
  • 39. [39] BEATRICE Sessant’anni, il marito Giuseppe, sessantaquattro anni, è caduto da un tetto nel febbraio 2010. La conseguenza è stata un grave trauma cranico. Attualmente residenti in Svizzera, il sig. Giuseppe solo di recente ha iniziato un percorso riabilitativo efficace che gli consente di passare dei periodi a casa con la famiglia. Intervista Se dovessi definire l’infortunio che ha colpito la nostra famiglia direi un disastro. Un incidente molto grave, ancora oggi non si vede futuro: il cervello è un’incognita. È stata una cosa inimmaginabile: già quando l’ho visto al Cto, ero persa, non sapevo cosa fare; una cosa talmente grossa, sembra di annegare. Quando mi hanno detto che era in coma… uno si sente perso, ti manca la terra da sotto i piedi. C’è l’incognito, poi quando si tratta del cervello è un grosso punto interrogativo, anche per i medici che tentano. Hanno asportato l’ematoma; già avevano detto che toccavano delle cellule… una volta sveglio speri che parli, poi che si riprenda, è tutto uno sperare. A volte parla, adesso si ribella: la situazione è molto critica non si capisce cosa vuole. Non si capisce se capisce e fino a che punto. Da quando succede l’incidente c’è lo smarrimento. Dopo un anno e mezzo è ancora così. Cerchi di andare avanti per figli e nipoti, ma se no verrebbe voglia di finirla lì. Anche per i problemi della ditta, che ancora oggi non sono risolti. Aveva tutto nella sua testa. Ancora adesso cerco di farmi forza, ha momenti di crisi: attualmente è in una struttura, secondo noi vorrebbe uscire… Ancora oggi si va di tappa in tappa, ma non sappiamo cosa fare. Vorremmo portarlo in qualche altro posto ma non sappiamo dove, cosa vuole. A dicembre ho avuto una forte depressione. Stavo male ero in cura dallo psichiatra. Non ce la facevo più, non c’erano possibilità di metterlo in una struttura. Ero proprio al limite, mi hanno dato degli antidepressivi. Lui era sempre dietro di me… Tutto insieme mi ha fatto crollare... In quel momento ero persa. I nipoti mi hanno portato in ospedale e ho parlato all’assistente sociale dicendo che non ce la facevo più: dovevo fare commissioni veloci, lui era sempre con me, non potevo lasciarlo solo, non dormivo più. Dopo ventiquattro ore gli hanno trovato una sistemazione e mi hanno ricoverata. All’inizio avevo paura che non mi facessero più uscire: sono però stata bene per tre giorni, tranquilla,
  • 40. Fare i racCONTI con il cambiamento [40] in silenzio dopo mesi di assillo e angoscia senza dormire. Avevo assistenza tutto il giorno, mi hanno fatta parlare e mi sono sfogata. Oggi capisco chi si sente disperato. Quando mio marito è stato ricoverato, non l’ho visto per due mesi per paura che volesse ritornare a casa. Adesso sono più serena e ho le notti tranquille, ma il senso di vuoto e di smarrimento dura e durerà ancora. Oggi è in una struttura in provincia di Torino dove ci sono persone che stanno peggio di lui e secondo me si rende conto e vuole andare via. Io vado a trovarlo tre volte alla settimana. Ho paura che se lo togliamo da lì non troviamo più posti. Sto guardando su internet ma non trovo niente, ha bisogno di un posto dove sia stimolato, invece lì è solo parcheggiato. Altri posti sono troppo lontani e poi vorrei trasferirmi in Svizzera e quindi ora non so cosa fare. Ma così sta peggiorando, è quasi sempre assente, forse si rifugia nel suo mondo perché lì c’é gente che sta peggio. Le sue condizioni sono discontinue. Penso a quei due secondi che hanno rovinato tante vite… fatalità. Quando ripenso al giorno dell’infortunio mi torna in mente la paura. La telefonata della notizia dell’incidente: un crollo. Dovevo andare in macchina al Cto: ero persa. Volevo essere subito lì e vederlo, ma prima passano ore: e quindi ti fai tante domande prima e non hai la risposta. Pensavo che lui diceva che era meglio che capitasse a lui che ai suoi ragazzi (gli operai, ndr), perché sarebbe stato distrutto. Sono rimasta là ore senza sapere niente. Una cosa insormontabile. Dopo ore mi dicono che è in coma, non capisci cosa vuol dire, ti chiedi per quanto tempo e non ti sanno dire niente. Ore e ore lì: quando l’ho visto è stato terribile… il cervello che gonfiava, poteva morire da un momento all’altro. Non dormi perché ti aspetti sempre la chiamata. C’era l’ematoma che si ingrossava. Bisognava operare per asportarlo: dieci giorni al pronto soccorso attaccato alle macchine, non sai cosa fanno, perché non capisci le spiegazioni. Poi in terapia intensiva, non apriva gli occhi. Aspetti i movimenti, aspetti le tappe perché si riprenda, ma sono faticose, ti svuotano. Ricevevo tante telefonate che mi chiedevano come stava, e ricominciavo da capo ogni volta; devi essere forte. Se penso a quanto è accaduto dal punto di vista della prevenzione devo premettere che lui era sempre molto attento, non faceva fare le cose pericolose ai ragazzi, era molto prudente. Aveva molta responsabilità verso gli operai. Sapeva bene tutti i rischi del suo mestiere. Era prudente e usava le misure di sicurezza, ma diceva che l’imbragatura a volte è un intralcio. Molte misure sono quasi impossibili. Potrebbero risultare più pericolose. Non aveva mai fretta, piuttosto ci metteva un’ora in più per fare bene il lavoro ma non rischiava. Erano gli operai che guardavano l’orologio. La fretta è un pericolo.
  • 41. Fare i racCONTI con il cambiamento [41] Non aveva eccesso di sicurezza ma sempre molta prudenza, era sicuro di sé ma senza eccesso, conosceva il pericolo e come arrivava. La sicurezza è una modalità di lavoro legata alla prudenza: lui faceva alla vecchia maniera ma il lavoro era garantito. La sua paura era che succedesse qualcosa ai suoi ragazzi su cui vigilava: diceva “preferisco a me che a loro”. Però era stanco, era già in pensione da due anni ma voleva lavorare lo stesso. Bisognerebbe sapersi riposare: arrivava a casa ma la giornata non era finita, c’erano i clienti, gli incassi, i nuovi lavori. E poi c’è stato il caso: se fosse stato a pochi metri di distanza dal bordo del tetto non sarebbe caduto dall’alto, probabilmente è caduto incosciente perché non ha reagito, è caduto a peso morto sulla testa. Il soccorso è stato lento: l’incidente è successo alle 15.30 e al Cto è stato portato alle 18, forse sarebbe andata diversamente. Non si poteva muovere perché doveva arrivare la polizia. Come andare avanti dopo un evento del genere? La prima spinta è cercare di fargli recuperare il più possibile. Ancora oggi. Noi speriamo sempre che ci possano essere ulteriori sviluppi guardando altri così che ce l’hanno fatta. Magari non più come prima, ma che possa tornare a casa e sia cosciente e si renda conto. Per quanto riguarda me invece io ho le figlie e le nipotine. Se deve rimanere così io mi faccio forza pensando a loro. Ho anche pensato che era meglio se ce ne andavamo tutti e due: ma no, il dolore sarebbe troppo grosso, lo devo fare per loro; lui così com’è non mi deve annientare, malgrado il dolore che si rinnova ad ogni visita. È molto importante la famiglia per chi ce l’ha. Figlie e nipoti mi sono state molto vicine. Prima ero sola, non avrei immaginato questa disponibilità delle mie figlie che facevano sacrifici per venire dalla Svizzera. Mi hanno dato vicinanza e supporto che non potevo immaginare. Sono venute tante volte. Una volta ero sul balcone con mia nipote di quattordici anni e guardando la strada ad una certa ora le ho detto che lì una volta si vedeva arrivare il camion con il nonno che tornava dal lavoro: lei mi ha guardata e mi ha detto “nonna non devi pensare a questo, devi guardare al futuro”. Anche mia figlia che sta in Africa è venuta tante volte. Il nipote di mio marito e la moglie si sono occupati di me. Questa cosa ci ha riavvicinati nonostante la distanza. Se mi chiedete un consiglio posso solo dirvi che sono venuta qui e mi avete dato molto. Qui si trova comprensione e dedizione. Già si hanno tanti problemi e si ha paura di trovare negli uffici risposte aggressive o disinteressate. Questo blocca la persona. Non venivo con l’angoscia ma volentieri. Disponibilità e accoglienza già ci sono, non ho niente da aggiungere.
  • 42.
  • 43. [43] CONSOLAZIONE Settant’anni, in un infortunio del 26 settembre 1979 ha subito l’amputazione dell’avambraccio destro lavorando ad una impastatrice. Dopo l’infortunio non ha mai più trovato lavoro ma si è dedicata al marito ed ai due figli, minori al momento del fatto. In passato è stata contattata più volte dal Centro Protesi Inail di Vigorso di Budrio (BO) per affiancare nell’utilizzo della protesi altra donne vittime di amputazioni degli arti superiori. Intervista Quando penso al mio infortunio, non posso evitare di pensare che se c’era il salvamano, non mi portava via la mano. Ero all’impastatrice, facevo gli gnocchi; se c’era il disco, che poi hanno messo, non perdevo la mano. E poi... ti fanno delle domande all’ospedale: “Signora ce l’ha messa apposta la mano?” Ma che domande sono? Avevo trentanove anni, sono passati trentadue anni… (nel parlarne, le viene ancora da piangere, ndr) È stata una cosa inattesa anche perché non era mai successo niente… Hanno chiuso il negozio, sono arrivati i giornalisti… Queste cose non dovrebbero succedere, ma succedono… Ma proprio a me? Eravamo in due; non era mai accaduto. Comunque è così. Forse, se non avessi messo i guanti, non mi avrebbe preso la mano. Oggi reagirei con l’età, ma allora non ho avuto il coraggio di reagire… Dopo l’infortunio dovevo ritirare la prima protesi, ma l’ho rifiutata perché per errore era da uomo e poi volevano attaccarla al gomito. “Piuttosto non la metto” ho detto. Poi la D.ssa C. mi ha mandata a Budrio: sono stata io a dire come farla per attaccarla al polso. Io riuscivo a tenerla, loro studiavano su di noi, dicevo: “se il pezzo ce l’ho buono perché attaccarla al gomito?” Le persone che lavorano al Centro Protesi riescono a capire come fare. Mi hanno ascoltata. Io ormai conosco tutti. Telefono a G. e lui mi capisce. Hai bisogno e chiedi. Sono stata un mese a Budrio, poi sono tornata a casa e poi dovevo andare a prenderla. Volevo che venisse mio marito, ma non è stato autorizzato ad accompagnarmi. Dovevo prendere la corriera per Budrio, fare tutto da sola. Non dimentico le cose che sono successe, sono cose che rimangono. Ricordo ancora… in via Mercadante (allora c’era una sede dell’Inail, ndr) dopo tre mesi mi hanno mandato a lavorare. Io ho pensato: “con una mano sola cosa faccio?”
  • 44. Fare i racCONTI con il cambiamento [44] In queste situazioni entri in confusione, vai fuori di testa. Io volevo tornare, ma a fare che cosa? Sono cose che ti rimangono dentro: cose dette che sono state ingiuste. Avevo ancora i punti. Che poi loro dicevano che se hai bisogno di soldi puoi chiedere al titolare. Strano che ti dicono queste cose e non pensano alle persone; che dicono che hai messo la mano dentro apposta. Oggi reagirei. Direi: “lei la metterebbe la mano dentro?” Sono cose che si devono gestire con delicatezza. Io mi sono sentita trattata male. Non ho avuto persone vicine, solo mio marito. Quello che mi ha operato al Cto mi faceva le visite private. Volevano tagliarmi un altro pezzo di braccio perché se no non potevano farmi la protesi. Al Rizzoli (ospedale di Bologna, ndr) una volta ho visto un ragazzo più giovane senza entrambe le mani e allora mi sono sentita più fortunata. Quando sono andata a Budrio, mi hanno aggiustato la mano. Poi mi hanno chiamata per farmi vedere come usare la protesi mioelettrica ma non sono potuta andare per non abbandonare i figli. Sono riuscita a imparare a scrivere con la protesi, si comincia a scrivere come alle elementari. Bisogna impegnarsi ma si riesce. Se uno non si impegna a fare qualcosa non riesce nella vita: ringrazio Dio che mi ha dato quella forza e volontà. Se devo pensare al mio infortunio dal punto di vista della prevenzione, penso che se c’era il disco, evitavo di mettere la mano dentro. Dopo l’infortunio io mi sono chiusa, volevo uscire con il mantello. La motivazione per andare avanti sono stati i miei figli, lo dico ancora adesso. Pensavo a loro, preparavo il pranzo, facevo i lettini. Avevano dieci, tredici, e diciotto anni. È stata quella la mia forza, se non avessi avuto loro, guai! Pensando a un consiglio, a cosa può essere utile per le persone in situazioni come la mia, l’unica cosa che dico è che noi abbiamo bisogno di persone come voi, che sappiano essere sensibili e avere pazienza. Dove vai vai, ti sgridano, ti trattano male. Se chiedo: “Abbia pazienza, mi aiuta a mettere la firma?” “Ah, no!” Ti rispondono scorbutiche! Non è giusto, non sto chiedendo nulla. Perché non dobbiamo essere tutti più disponibili? C’è gente cattiva. Dobbiamo essere più umani uno con l’altro. Ma oggi la vita è così, devi fare attenzione a chiedere qualcosa, sono tutti nervosi. Invece c’è bisogno delle persone che ti capiscono.
  • 45. [45] DINO Settantasette anni, il 27 luglio 2011 gli è stato diagnosticato un mesotelioma pleurico per esposizione ad amianto. È morto il 1 settembre 2012. Intervista Mi sembra di aver lavorato tutta la vita. Da quando sono nato in poi. I miei erano contadini; allora si lavorava la terra. Poi dal paese ci siamo spostati in città per motivi lavorativi. Sono passato sotto la compagnia tubisti di Torino facendo sempre lo stesso lavoro: il saldatore. Si saldava, si metteva su… Lì ho lavorato circa due anni e mezzo sotto le gallerie della Fiat. Lì l’amianto volava perché c’erano gli altri che rivestivano i tubi. Poi ho iniziato a lavorare presso la Fiat: stesso discorso. Ho lavorato molti anni attaccato ad una giostra: facevamo i sedili per le autovetture. Dopo tanti anni mi hanno esonerato dal lavoro a contatto con il fumo. Successivamente lavoravo riparando frizioni e freni, e l’amianto c’era anche lì. Alla Fiat sono stato l’ultimo a uscire. Poi hanno chiuso. Allora sono andato da Pininfarina a fare lo stesso lavoro che facevo alla Fiat. Gli ultimi anni li ho passati lì. Anche lì stessa esposizione all’amianto. Dopo l’infarto mi hanno levato da quel posto e mi hanno messo in magazzino. Di questo li ringrazio: mi hanno trattato come un padre. Gli ultimi anni ho lavorato con tanti giovani ed è stata una bella esperienza. Molti anni fa non si era salvaguardati come adesso (mascherine, aspiratori…). Gli ultimi anni prima di venire via la Fiat era già attrezzata, e anche dopo Pininfarina. I primi anni non avevo i dispositivi di sicurezza che ci hanno dato in seguito. Non ci davano la mascherina… Quando lavoravo per la compagnia tubisti mi davano il latte… ma a cosa serviva? Quando lavoravo attaccato alle giostre c’era il fumo del grasso e lo respiravamo di continuo. Gli anni in cui siamo adesso, casi come il mio non succedono più. Si è più attrezzati. L’amianto non esiste più nei posti di lavoro, ma ce n’è ancora molto in giro. Però penso che gli anni che verranno non saranno come quelli che abbiamo vissuto noi che respiravamo e mangiavamo tutta la polvere… Io ho addestrato molti giovani. Quando me li davano, io a loro trasmettevo tutto. Guai se mettevano una mano dove non dovevano metterla. Li prendevo e ci facevo dei “discorsetti”. Facevo formazione. Gli allievi in Fiat venivano lì. C’erano quelli più presuntuosi, che avevano studiato; pensavano di sapere tutto ma non conoscevano niente. Allora bisognava dargli una “raddrizzata”.
  • 46. Fare i racCONTI con il cambiamento [46] Quando ci sono dei vecchietti come me, devono insegnare ai più giovani. Ogni venti giovani metterei un cinquantenne che guardi e consigli. Quindi, sì: per me uno dei fattori più importanti per la prevenzione è la formazione. Mi viene sempre in mente quello che provavo quando mi accorgevo che trasmettevo agli altri tutta l’esperienza che mi ero fatto da solo, e gli altri si prendevano il merito… La malattia è cominciata un anno e mezzo fa. Sentivo che qualcosa non andava ma non ci davo peso perché avevo la moglie con un tumore al seno e dovevo seguirla. Il penultimo giorno che mia moglie ha finito le terapie, sono stato ricoverato in pronto soccorso al Mauriziano e mi hanno levato quattro litri d’acqua. Ora sono sempre là dentro. Le mie abitudini sono cambiate. Non vorrei dirlo ma cambia tutto. Se ho qualcosa da fare non riesco, perché non ho la forza. Non riesco ad aiutare mia moglie e l’ho sempre fatto. La vita non è più quella di prima. Adesso mi sento una nullità. A volte vado in crisi con la moglie. Riesco solo a scaldare il letto e il divano. Manca un po’tutto. Non è più la vita che facevo un anno e mezzo fa. Quello che ho di buono è che non ho dolori, non ho male. Per convivere con la malattia ci va molto coraggio. Guai se uno si lascia andare: è peggio. Ogni tanto vado in tilt con il cervello e mi sento peggio del giorno prima. In queste situazioni da parte degli altri c’è bisogno di tanta disponibilità. Anche da parte dei servizi ai quali ci rivolgiamo. Quando senti l’interlocutore infastidito, ti senti deluso. Sentire un po’ di vita dall’altra parte, aiuta. Con persone come me, a cui da un giorno all’altro crolla il mondo addosso, bisogna avere gentilezza, dare aiuto. Ringrazio anche i dottori dell’ospedale Mauriziano; uno che mi segue è molto umano e questo aiuta: mi dice due paroline e mi tira su. L’umanità serve molto. Questo dovete dirlo anche ai bambini che partecipano ai vostri incontri.
  • 47. [47] EMILIA Cinquantatré anni, vedova di Victor, morto travolto da un treno nel 2005. Di nazionalità moldava, vive tutt’ora in Italia a Torino, dove abita anche un figlio. L’altra figlia si trova in Moldavia. Emilia lavora come assistente famigliare. Ha scritto già molte memorie sulla sua esperienza. Intervista Cosa mi viene in mente pensando all’infortunio che ha colpito la nostra famiglia? Un terremoto. Ti alzi la mattina e vedi un’onda che ti travolge, una cosa terribile. Dopo cinque anni sono un po’più tranquilla, ma fino a qualche tempo fa era un male, un bruciore, un dolore immenso che ti esce dentro. Sia per me che per i miei figli. Per quasi due anni non c’è stato collegamento tra noi, questo dolore non ci faceva parlare per chiarirci: venivano in mente cose brutte che non ci facevano trovare tra noi. È stato un dolore immenso. Grazie a Dio, che ci ha dato la forza per capirci e andare avanti e ricordare mio marito come uomo perbene, che aiutava gli altri. Pensava sempre agli altri, pensava a fare le cose bene e in fretta. Troppo perfetto, voleva fare tutto bene. Non è solo che è morto lui, ma tutta la famiglia. Per trovarci serve tanta forza, ho trovato tanta forza e non so dove. Avevo tanta fede che mi ha guidata per fare le cose giuste e per come farle. Se hai fiducia in qualcuno puoi trovare la stradina di collegamento con la famiglia. Anche i miei genitori sono stati tanto male, perché mio marito era un uomo eccezionale. Lui ci pensava alla morte e mi diceva dove voleva essere seppellito: aveva un presentimento. Quando è accaduto ero in fabbrica a Torino, dovevo fare la notte; lui lavorava a Lecce. La notizia è arrivata a mio figlio, chiamato da un maresciallo che non diceva la verità. Eravamo preoccupati perché era clandestino, per i documenti. Mio figlio ha dato il mio numero al maresciallo, dalle due mi hanno telefonato alle cinque, mi ha chiesto se lo conoscevo, gli avevano trovato documenti di identità spagnoli. Poi mi ha detto che era caduto, era in ospedale, che dovevo andare là subito: questa parola mi ha fatto svenire, poi mi sono ripresa e ho ritelefonato io e ho parlato con il responsabile della ditta che mi ha detto la stessa cosa. Ho dato il numero di mia cognata e le hanno detto la verità. Quando mi hanno detto che andavamo tutti là ho capito che non lui non c’era più. Ho sentito uno spavento. Ci siamo incontrati a Parma con una mia cognata che mi ha detto la verità.
  • 48. Fare i racCONTI con il cambiamento [48] A Lecce ci hanno portati subito alla camera mortuaria, dicono che dicevo a mio marito di alzarsi e andare a casa. Non mi ricordo più niente, ha fatto tutto lei. Volevo andare in aereo con la salma ma mi hanno detto che non si poteva, ma poi ho scoperto che non era vero. Non conoscevo le cose e mi sono fidata. È giusto sapere le cose in anticipo. Per questo va bene questo progetto, per far sapere a tutti cosa fare. Serve sapere tante cose: ti serve prepararti, anche se non capita. Mai avrei pensato che da come stavamo bene, poteva capitare questa cosa: invece è capitato. Serve sapere a chi chiedere aiuto. Questo progetto è ben venuto per far sapere agli altri. I fattori importanti dal punto di vista della prevenzione? La prudenza: se lo sei è meglio; non che il padrone ti dice di fare le cose in fretta. La conoscenza della lingua: non ti prende nessuno a lavorare se non capisci. Quando è accaduto l’incidente a mio marito, hanno detto che non capiva quando lo chiamavano e per questo è successo, ma non era vero: nessuno l’ha avvertito che arrivava il treno. Invece così hanno detto che la colpa è sua: quando succedono queste cose nessuno vuole risponderne. Come siamo andati avanti? Nella mia famiglia ognuno era per la sua strada. Ho avuto sostegno dall’Inail: una vostra parola era una cosa grande, ha aperto il vuoto. Se non c’era l’aiuto dall’Inail non avrei avuto il collegamento tra noi. Senza i soldi non potevo pagare i prestiti che ho fatto per portare la salma dove mio marito diceva che voleva andare. È stato un sostegno grande non solo come soldi, venivo qui e parlavo con voi, mi ascoltavate e pensavo che qualcosa era risolto, che potevo andare avanti. L’assistente sociale è un buon sostegno per le famiglie, non so per gli altri, ma per me siete stati un grande aiuto. Ti dà la forza per uscire dal tunnel, per me è stata una fortuna trovarvi. Grazie per aver trasferito la pensione da Lecce. Le persone che vogliono aiutare si vedono, voi mettete anima e vi ringrazio per tutto questo.
  • 49. [49] FRANCESCO Cinquantadue anni. L’infortunio è accaduto il 4 settembre 1976, quando lui aveva diciassette anni, lavorando in un supermercato e ha avuto come conseguenza una lesione spinale e conseguente paraplegia. Atleta paralimpico, fondatore della squadra di sledge-hockey dei “Tori Seduti”. Allenatore di squadre di basket di ragazzini con disabilità. Intervista Se dovessi definire oggi il mio infortunio sarebbe difficile: è passato tanto tempo, trentacinque anni. È qualcosa di tragico, incomprensibile. Non avevo mai pensato che si potesse finire in carrozzina per un trauma, pensavo che si potesse solo nascere così. La tua vita cambia, un cambiamento globale, del tuo sistema di vita. Oggi faccio fatica a ricordare i miei diciassette anni di prima dell’incidente. E’ stato un flash con cui ho perso il passato. Lo vivo e devo viverlo con il presente. L’infortunio è avvenuto il giorno dopo che ho compiuto diciassette anni, quindi ancora oggi faccio fatica a festeggiare il mio compleanno. E penso che almeno avrei voluto che fosse successo con le tecnologie di adesso. Oggi la degenza in ospedale è minore, al massimo sei mesi; io sono stato in ospedale un anno e tre mesi. L’ho vissuta con la voglia di tornare a camminare anche se mi dicevano di no. Ho provato tutto quello che era nelle mie possibilità, i colori, l’agopuntura, ogni tipo di fisioterapia, ma non mi sono indebitato con spese folli come hanno fatto altri. Penso che comunque sono stato fortunato, ho avuto una famiglia forte alle spalle, ho passato trentacinque anni piacevoli che non mi sono pesati e ho cercato di non farli pesare alla famiglia. Ho costruito una situazione senza tabù, ho creato una famiglia anche se non allargata; mi pesa non aver potuto avere figli. Ho trovato il mio equilibrio. La mia vita è stata però intensa e molto impegnativa, ed oggi sento il bisogno di un po’di relax e di godermi le cose con tranquillità. Il momento dell’infortunio lo ricordo come una scossa, un grosso trauma, i lunghi tempi di gestione. Sono rimasto a lungo senza essere trasferito a Milano (dove c’era un grande centro di riabilitazione) perché era stata sbagliata la mia età sui documenti: quando mio padre ha fatto rilevare l’errore mi hanno trasferito dopo tre mesi di degenza all’ospedale Molinette di Torino. Ho fatto riabilitazione e mi hanno istruito su come gestirmi nella vita quotidiana e dopo un anno e tre mesi mi hanno mandato a casa. Poi, casualmente, mio padre incontra nell’ambulatorio Inail un disabile che pratica sport e mi coinvolge.
  • 50. Fare i racCONTI con il cambiamento [50] Cominciamo a frequentare la palestra del Cto, l’anno dopo partecipo ai campionati di basket a Roma e da lì inizia la mia avventura sportiva. Dal punto di vista della prevenzione penso che la sicurezza in se stessi ti porta a tutto il resto, anche alla concentrazione. La formazione è importante per muoverti bene, come anche la conoscenza della lingua. Sul discorso della lingua ritengo oltretutto che per la complessità del mondo sia opportuno conoscere più lingue. A me è stato utile anche per muovermi nel mondo per lo sport. Tornando al mondo del lavoro la fretta c’è sempre e così si fanno anche le cose male. Bisogna essere concentrati e presenti nelle cose che si stanno facendo. La sicurezza va vista come avere testa in ciò che si fa. Un disabile che lo è diventato a causa di un trauma è più prudente di uno che lo è dalla nascita che non ha la percezione del rischio e si butta a capofitto. Per superare un evento come quello che è capitato a me, è molto importante l’esperienza degli altri. Le iniziative alle quali state lavorando possono essere molto utili. Ho già fatto un’esperienza simile al Crf con traumatizzati “freschi”. Bisogna stimolare in loro punti di riferimento, anche per gli ausili. Gli altri disabili possono portare la loro esperienza per una migliore funzionalità, un punto di riferimento per l’esperienza già fatta sulla pelle di chi ci è passato prima, gli puoi insegnare come riuscire a muoversi meglio sul letto, ad alzarsi, ad usare la carrozzina. È la strada giusta: sei a disposizione di chi viene dopo di te. Io parto dalla mia esperienza di vita da giovane: quando ho avuto l’infortunio avevo appena compiuto diciassette anni, ma mi sono fatto una famiglia, ho raggiunto i massimi livelli nello sport. Cerco di portare l’esperienza nelle scuole e di dire ai ragazzi che ci si può trovare nelle mie condizioni non solo per il lavoro ma anche per episodi e scherzi più stupidi. Li stimolo a farmi domande sulle cose più intime: questo è un po’un tabù per i disabili perché non parlano volentieri delle loro condizioni più intime in cui li costringe l’immobilità dal bacino in giù, ma bisogna parlarne tranquillamente, anche ai ragazzi perché si rendano conto di tutte le conseguenze. Dopo il trauma il disabile pensa a come vivere nelle nuove condizioni; il primo impatto con chi vuole proporre la via dello sport è di freddezza e rottura. Bisogna aspettare che si prenda coscienza della nuova condizione prima di proporre nuove prospettive. È molto importante l’esempio di una persona disabile: la cosa più importante da insegnare è la vita quotidiana perché subito si pensa a come muoversi. Poi vengono i pensieri sullo sport e i divertimenti. C’è un momento di attesa in cui c’è confronto continuo con chi ha già subito il trauma: ti fanno tante domande su come devono fare le cose quotidiane. Nei primi momenti non sai cosa ti sta succedendo, devi accettare il trauma.
  • 51. Fare i racCONTI con il cambiamento [51] Rispetto a quando è successo a me, si sono accorciati i tempi della degenza e della riabilitazione, si esce dall’unità spinale (Cto, ndr) con i rudimenti, poi sta a te. I primi mesi sono traumatizzanti. Bisogna rispettare i tempi e aspettare che il disabile percorra la propria strada. La famiglia è importante: lo è stata sia la mia che quella di mia moglie: se non hai punti di riferimento, rischi di fare scelte stupide che possono portare a gravi errori anche nei rapporti personali. Penso che la mia esperienza sia stata più forte di quella che si può vivere oggi, perché la tecnologia attuale è molto più avanzata e ti aiuta di più: noi ci impegnavamo, mettevamo più inventiva per cercare di avere più autonomia. Ricordo che facevamo sport poi uscivamo, andavamo a mangiare qualcosa e stavamo fuori fino a notte tarda: una volta sono arrivato e l’ascensore non funzionava ed io abitavo con i miei al 4° piano: mi sono trascinato su con la carrozzina: il giorno dopo mio padre mi ha chiesto se l’ascensore non funzionava già quando ero arrivato io, ma ho negato, perché se no mi avrebbe aspettato alzato per aiutarmi a salire se fosse accaduto di nuovo. Io volevo essere autonomo. C’era un continuo scambio sulle nostre esperienze, la nostra generazione era più coinvolgente: oggi i disabili si ghettizzano, stanno sempre tra loro, non comunicano con gli altri. Oggi hanno tutto subito e non hanno stimoli. Io per esempio ho preso la patente a ventuno anni ma solo dopo quattro ho avuto la macchina, adesso ce l’hanno subito. A questo proposito vorrei fare un appello al vostro ente: quando c’è la richiesta di avere ausili speciali o soprattutto per le attività sportive, bisogna verificare che la persona sia veramente motivata, deve dimostrare che lo vuole veramente: perché se no c’è la tendenza a chiederlo perché tanto l’Inail te lo dà, ma poi finisce nel dimenticatoio, è uno spreco.
  • 52.
  • 53. [53] FRANCO Cinquantasette anni, in seguito all’infortunio del 20 aprile 2010 ha riportato un politrauma e lesione alla gamba destra. Lavorava come autotrasportatore. Attualmente è in cerca di una nuova occupazione. Intervista Se penso a cosa ha significato l’infortunio per me e la mia famiglia la prima cosa che mi viene in mente è una disgrazia che cambia totalmente la vita. Ma la cosa che mi ha colpito di più è stata quella di constatare che la solidarietà fra le persone è ancora presente. Subito dopo l’incidente mi ha molto impressionato vedere un collega che, dal lato opposto dell’autostrada e dopo averla attraversata, mi è venuto incontro con degli estintori per spegnere l’incendio che si stava propagando tutto intorno, mentre uno dei medici, arrivato con l’elicottero, si è aggrappato alla cabina e, benché ferito dai tagli procurati dalle lamiere, ha continuato ad insistere fino a quando non è riuscito ad estrarmi dalle lamiere della cabina. Subito dopo sono svenuto e mi sono risvegliato tre giorni dopo in ospedale. Il giorno dell’incidente stavo rientrando a casa e per me è stato un impatto molto forte. Dal punto di vista della prevenzione secondo me le cose fondamentali affinché possa esserci sicurezza e una buona prevenzione sono prima di tutto l’attenzione e la concentrazione e poi la formazione. Mentre quello che può determinare ed essere causa di un infortunio sono l’eccesso di sicurezza in sé e la fretta nel portare a termine un lavoro. È difficile che ci sia la casualità. Rispetto a quali fattori possono aiutare ad andare avanti dopo l’infortunio, per me fra le motivazioni per andare avanti c’è anche la speranza di seguire dei corsi predisposti dall’Inail e poter così trovare una nuova collocazione e allo stesso tempo rendermi utile. Prima dell’incidente mia moglie provvedeva a tutto, dal momento che il mio lavoro mi faceva stare lontano da casa per molto tempo. Ora, invece, che deve badare anche a me, non trova più il tempo per poter fare tutto quello che faceva prima. Questo, per me, è un periodo molto brutto perché l’infortunio è ancora aperto e ho ancora tanti dolori. Sarei disponibile a confrontarmi con altre persone infortunate come me in occasione di riunioni in cui poter scambiare delle idee e delle impressioni. Il consiglio che vorrei dare a voi è quello di fare più controlli nelle aziende, nei cantieri e nelle loro strutture in modo che si faccia capire ai datori di lavoro che il rispetto delle norme sulla sicurezza ha anche il vantaggio, oltre quello di
  • 54. Fare i racCONTI con il cambiamento [54] evitare incidenti ai lavoratori, di avere meno oneri per le aziende stesse e meno sanzioni. Il primo ricordo Uno dei miei primi ricordi, anche se non posso classificarlo primo a tutti gli effetti, è un episodio accaduto al mare: ero molto piccolo, mi ero allontanato dai miei genitori, mio padre mi cercava disperato, finché non notò i miei piedi uscire da sotto una 500 Fiat, al ché mi tirò fuori, arrabbiatissimo; mi chiese cosa stessi facendo lì sotto ed io gli risposi tranquillamente : “guardo il motore”. Spirale esistenziale: un episodio significativo L’incidente… La fine… Cosa sono… Cosa vale… L’incidente è la fine di tutto ciò che mi caratterizzava, sono sempre stato ottimista, guardavo sempre il lato positivo delle cose, cercavo sempre di migliorare tutto… ora mi chiedo solo… a cosa serve?? Tutto è compromesso, la mia vita non sarà mai più come prima. COSA SONO… non servo più a nulla, ho sempre bisogno di aiuto, mi sento inutile soprattutto per la mia famiglia è drammatico tutto ciò. COSA VALE... essermi battuto sempre per fare stare meglio i miei cari, avere sempre affermato che non tutto il male viene necessariamente per nuocere, ma a volte serve per insegnarci qualcosa di importante, NON è VERO!! Mi chiedo cosa ho fatto per meritarmi questo, cosa mi è successo… È COME GUARDARE IN UN POZZO… E NON VEDERNE IL FONDO… Sinceramente non riesco a vedere o a trovare una via d’uscita a questa disgrazia che sto vivendo. Non riesco a vedermi, a collocarmi... cosa sarò… cosa farò, tutto ciò che era la mia vita è svanito nel nulla. Tutto quello che sapevo fare, che facevo, non potrò più farlo… ho cinquantasei anni, sto in piedi cinque minuti e mi viene male alla schiena, mi siedo e dopo 10-15 minuti ho male al gluteo destro… l’unica mia posizione indolore è lo stare sdraiato sul fianco sinistro… non servo più a nulla e a nessuno. Arcipelago degli affetti: lettera alla persona Rita, grande donna; lei, secondo me, è tutto ciò che un uomo può auspicare nella vita. Ci siamo conosciuti da ragazzini, avevamo tredici anni, sono diventato amico di suo fratello per poterla vedere più spesso; poi dopo due anni, ho trovato il coraggio di chiederle se voleva essere la mia ragazza… altri tempi..
  • 55. Fare i racCONTI con il cambiamento [55] andavamo a rilento… ma forse era meglio così!! Comunque lasciamo da parte le supposizioni personali e torniamo a lei… Alla mia richiesta, mi risponde: mah… chiedo a mia sorella… una scusa, la sorella in questione è più piccola di lei, ha preso solo tempo, ma tutto inutile, sono sempre stato un “ filone”; mi ero già coltivato la sorella, il fratello e persino il papà diceva che ero un bravo ragazzo, quindi… Dopo due giorni la incontro e mi dice che la sorella gli ha detto: “Perché no? Prova…”. Da quel giorno è iniziata la nostra meravigliosa storia, alla quale continuiamo ad aggiungere pagine ancora oggi. Abbiamo tribolato parecchio, specialmente appena sposati, ma lei non si arrende mai è tosta, è la mia vera forza, è bello avere la certezza di sapere che hai lei a fianco che non molla mai. Poi ci siamo stabilizzati, sono nati i figli, andava tutto discretamente. Poi la nascita dei nipoti, periodo molto bello, un po’ ci hanno fatto rincoglionire, ma diventare nonno è un turbinio di sensazioni inenarrabili, bisogna provare!! Sintetizzo molto, altrimenti sarebbe un poema. Ed ecco l’incidente: non parlo di me, ma solo di lei, eccezionale, non mi ha mollato un attimo, Modena, Cto di Torino, più di un mese di ospedale, lei sempre lì, a fianco al mio letto, incredibile. Le dicevo: “Ma vai un po’ a casa, hai i piedi e le caviglie gonfie, va’, riposati un po’!”. Niente da fare, sempre vicino a me! Non ci sono termini lusinghieri per descrivere questa donna, lei è la mia Rita. Invidiosi? Vi capisco… Il lavoro Per quanto riguarda il lavoro, devo dire che non ho mai avuto grandi problemi, il successo, se così si può definire, è il fatto che dove ero assunto, in qualsiasi posto sono stato, non facevano che parlare bene di me, sia i miei colleghi, che mi contattavano continuamente per sapere come fare per raggiungere determinati scarichi evitando i divieti d’accesso per gli autocarri o per sapere gli orari di ricezione delle merci ecc.; ma anche i titolari mi apprezzavano molto, ho sempre avuto la nomina d’essere l’autista che consumava meno gasolio in assoluto, dicevano che il mio camion, si usurava la metà rispetto agli altri. Il fallimento per me è l’incidente, un buon autista non deve mai danneggiare il proprio mezzo, si potrà obbiettare che non è stata colpa mia, che può capitare, che facendo circa 150.000 chilometri all’anno un incidente si può mettere in preventivo, che è la prima volta che succede; nonostante tutto ciò, per me è un fallimento. Conflitti, per mia fortuna, non ne ho mai avuti. Disagio, è rendersi conto che in fondo per quanto ero bravo nel mio lavoro, l’essere fuori gioco e l’incidente, hanno fatto sì che quasi tutti si sono estraniati e dimenticati di me, solo alcuni miei colleghi continuano a chiamarmi per sapere come va. Il mio più grande desiderio è quello di poter tornare utile, di poter fare qualcosa nella vita per dare una mano alla mia famiglia, coma facevo prima, logicamente in un ambito diverso.
  • 56. Fare i racCONTI con il cambiamento [56] Lettera al corpo Scrivere a qualcuno, a volte, ti fa esternare pensieri e convinzioni che parlandone direttamente, difficilmente riusciresti a dire. Voglio rivolgermi al mio ginocchio, che duole, tanto, troppo, non mi tiene su, cede all’improvviso. Capisco che la fisiatra, guardando la risonanza, ti ha detto: “scusami ma fai proprio schifo”. Comprendo anche che è nata una diatriba, tra ortopedico e la stessa fisiatra, per sostituirti con un tutore. Da parte tua però, non fai nulla per collaborare. Indubbiamente la botta l’hai presa, certo. Ma cosa dovrebbe dire il femore? È esploso, quasi disintegrato: eppure ci ha messo più di due anni, sarà storto, farà male, ma comincia a reggere, sta facendo di tutto per fare il suo lavoro, si impegna al massimo per non deludermi. E che dire della tibia, ancora più collaborativa? Ha combattuto quasi un anno, ma ha vinto la sua battaglia! Come lo sterno, le costole, i polsi, le dita e i metatarsi. Loro sì che sono veri patrioti! Ma tu… Però forse comincio a comprendere il tutto, ora è chiaro: ti sei alleato al cervello; la vostra è una rivolta: lui, come te, non vuole collaborare. Una cosa è certa, il resto di me non vi farà vincere facilmente, o almeno spero. Risposta dal corpo Risposta alla mia missiva. Il ginocchio: caro mio Franco, per risponderti sarebbe molto semplice dirti: la colpa è tua, tu hai fatto il danno, cosa pretendi da me? Non mi hanno mai calcolato, dicevano: “il male al ginocchio? È normale hai la tibia fratturata, il femore sbriciolato, cosa si può pretendere? Poi comunque prima bisogna risolvere le fratture, poi si vedrà”. Quindi mi hai fatto trascurare, ed ora non puoi accanirti contro di me. Faccio ciò che posso, e sinceramente posso fare molto poco. In quanto alla mia alleanza, ognuno qua fa per sé, non sono certo io a cercare complici. Comunque per avvalorare quanto sopra, dimmi un po’… Ma lui ti ha risposto? La resilienza Se devo essere sincero, io non ho superato le problematiche legate all’infortunio. Spesso vedo tutto nero, ho il timore radicato in me di non riuscire a tornare utile per la mia famiglia. D’altro canto però, devo ammettere che oltre a Rita, che è da premio Nobel, per la costanza, per la pazienza, per la dedizione che ha avuto nei miei riguardi, ho trovato sulla lunga strada del mio infortunio molte persone che si sono rese disponibili, alcune materialmente, cosa non da poco, come i
  • 57. Fare i racCONTI con il cambiamento [57] miei familiari, tutte le persone con le quali ho avuto contatti all’Inail e i vari dottori del Cto; altre moralmente come B. e la Dottoressa M. (psichiatra). Nonostante ciò, a volte, mi sento solo con me stesso, a pensare ciò che sarò, ciò che farò. Comunque grazie a tutto ciò che mi ha supportato, come i vari consigli, molto utili, ricevuti dallo staff dell’Inail, da B. e dalla psichiatra, mi sento un po’ sollevato. Ma è bastata la visita di controllo, di due giorni fa, per farmi ripiombare nel mio buco nero: mi hanno detto che devo mettere un tutore al ginocchio perché non regge, inoltre dovrò iniziare una nuova trafila alla chirurgia del ginocchio. Questa mia dolorosa storia non finisce mai, ecco perché affermo che non ho superato i problemi dell’infortunio. Il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia) Se dovessi scrivere un messaggio e farlo viaggiare all’interno di una bottiglia, avrei bisogno innanzitutto d’un contenitore alato, non basterebbe certamente una classica, semplice, banale bottiglia. Trovato ciò passiamo al messaggio. Puerile sarebbe inviarlo al Signore del tempo, per tornare indietro a un’ora prima dell’incidente, conoscendo il dopo, per prevenirlo. Inutile mandarlo al GRANDE GUARITORE perché mi faccia tornare come prima con uno schiocco di dita. Lo scrivo a me stesso e dico “Franco ricorda tutto ciò che ti è accaduto, non dimenticare MAI chi ti ha voluto bene, chi ti ha aiutato, chi ti ha sopportato e fanne tesoro perché chissà che un giorno possa tu aiutare qualcun altro in difficoltà”. P.S. Speriamo che un giorno possa trovare questa bottiglia e pensare che è alata... ti segue sempre. Cosa è successo dopo Il lavoro di gruppo organizzato dall’Inail, per quanto mi riguarda è stato molto importante, tanto da proporre un seguito agli incontri. Devo ammettere che tutte le volte che ero col gruppo e con gli organizzatori di questo evento, mi sentivo bene con me stesso, strano per il periodo nero che sto attraversando; sono addirittura arrivato al punto che non vedevo l’ora che arrivasse il giorno di tali incontri. Molto probabilmente perché, stando qui con persone come me, che hanno sofferto, che hanno partito, ti senti compreso. Quando parli di qualche problema, gli altri sanno rispondere in merito, perché sanno esattamente di cosa parli, e non solo gli infortunati, ma anche i responsabili dell’Inail.
  • 58. Fare i racCONTI con il cambiamento [58] Spero sinceramente che si possa continuare, ma ancor di più, che coloro che oggi sono qua possano continuare a venire. Sarebbe molto importante, almeno per me.
  • 59. Fare i racCONTI con il cambiamento [59] La spirale esistenziale di Franco
  • 60. Fare i racCONTI con il cambiamento [60] L’arcipelago degli affetti di Franco
  • 61. [61] RITA Cinquantasette anni, è la moglie di Franco. Da quanto il marito ha avuto l’infortunio si è dedicata completamente a lui, senza abbandonarlo un attimo a partire dai primi momenti del ricovero, alla riabilitazione, e attualmente partecipando assieme a lui a questo progetto. Intervista Se dovessi definire con una parola cosa ha significato l’infortunio di mio marito Franco per me e la nostra famiglia direi “la fine”. Perché noi eravamo una famiglia molto unita: due figli, due nipotini. Al momento in cui è successa questa tragedia è cambiato tutto. Sì, è stata una tragedia. Non posso pensare al momento in cui mio figlio mi ha detto che era successo un incidente e al viaggio sino a Modena. Appena l’abbiamo visto, in rianimazione, mio figlio ha chiesto: “Ma mio papà uscirà di qua?”. Mia figlia era qua a Torino con i bambini piccoli e chiamava continuamente. Noi, per farla stare tranquilla, le dicevamo: “Papà sta bene, l’abbiamo visto”. Da un periodo che era nero per problemi miei di salute, ho cercato di dare il massimo e farmi forza; ma ora che lui sta così male, anche io sto ricascando nei problemi precedenti, com’ero prima. Davanti a lui cerco sempre di essere autoritaria, perché se vado dietro di lui è finita. Lui vuole stare solo sul sofà. Quando siamo entrati in ospedale pensavamo che morisse. Durante il viaggio c’erano tutti gli amici di mio figlio che chiamavano. Da qui a Modena il tragitto è lungo: il telefono non ha smesso di squillare. Mi sono trovata a dire: “Gianni, smettila di piangere”, perché ogni persona che chiamava era un pianto. Quando siamo arrivati siamo potuti stare in rianimazione due minuti. Ci hanno detto che tutto dipendeva dai polmoni. Poi siamo tornati in macchina. Dovevamo aspettare la mattina. Abbiamo parlato tre o quattro ore. Il tempo non passava mai. Poi siamo passati in un bar e siamo tornati in reparto. Una dottoressa ha detto: “La situazione non è cambiata”. Facevamo tutti i giorni Torino-Modena per avere i due minuti di informazioni, finché non l’hanno trasferito nei reparti normali; allora potevamo stare con lui un’ora. Dopo una settimana, sotto la nostra responsabilità, l’abbiamo fatto trasferire a Torino, ed è cambiato tutto.
  • 62. Fare i racCONTI con il cambiamento [62] Dal punto di vista della prevenzione, le parole che sento molto legate all’infortunio di mio marito sono “fretta” ed “eccesso di sicurezza”. L’abitudine del solito tran tran. Come superare un evento come questo? Io penso e spero che si possa superare. Potrebbero essere utili queste iniziative alle quali state lavorando. Vedendo altre persone forse dimentica e mette da parte. Poi sarà importante anche il lavoro perché la sua paura è anche quella del futuro. Vede nero, vede brutto e non capisco perché. Lui ha tre nipotini: oggi come oggi i bambini gli danno fastidio; quando c’è il nipote più piccolo, lui poi si gira sul sofà. Vedere persone potrebbe aiutarlo… ma fuori di casa. Io gli chiedo di uscire, andare ai giardinetti, ma lui si stufa. Mia figlia mi dice: “Mamma, vengo a trovarti” e io le dico: “Facciamo un altro giorno che papà non sta bene”. Non gli va più di fare le cose che faceva prima; non gli va più niente. È saltato tutto anche per me. Sono trentotto anni di matrimonio: eravamo ragazzini. Adesso lo sgrido, gli dico di andare a fare la barba. Se fosse per lui a quest’ora aveva la barba sin qua (indica le ginocchia, ndr). Prima di questo infortunio era una persona che, dopo il suo lavoro, continuava ad aiutare gli altri: i suoi figli, i vicini di casa. Speriamo che questo periodo nero passi in fretta, che ci sia il superamento, perché è dura. Prima era una persona sorridente, scherzava: questa è un’ombra! Per lui conta anche questo fatto della “zoppia”. Dice: “Lo vedi? Sembro uno sciancato”. Il primo ricordo La cosa che forse più mi è cara da ricordare da piccola è quando un giorno è venuto a trovarmi il mio padrino per portarmi un regalo e io per timidezza mi sono nascosta sotto il letto dei miei genitori, un mio cugino mi chiamava, urlavo perché non volevo uscire, infine mio padrino se ne è andato senza vedermi.