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Itineroesperienza
Identità relazionale in itinere
Abstract
Si segnala la questione dell’emergenza precoce dell’autonomia direzionale
sorretta dalla curiosità fin dai primi momenti di vita. In tale contesto emerge l’io
relazionale. Esso gestisce l’incontro con le differenze e la lontananza. Il fenomeno
determinante avviene quando si afferma la soglia del prendersi autonomamente
la gestione dell’andare incontro alla lontananza, vissuto come un io non protetto
che gioisce del disvelarsi quotidiano del mistero del mondo. Altra esperienza
determinante è quella del recinto presunto, entro cui si sta, senza cogliere che è
un recinto. L’esperienza del limite, non già come varco vissuto come non
valicabile o non ancora valicabile, ma come immotivato ‘realismo’ di un confine
immobile che non è minimamente percepito come avente anche un oltre.
Qui si propone l’itineroesperienza intesa come espansione dell’io relazionale e
valorizzazione delle esperienze di lontananza e superamento della rarefazione o
negazione cognitiva. Nell’itineroesperienza l’io scopre di avere un corpo-mondo,
una pelle aperta e non un confine
Essa è un gioco che rafforza l’identità dell’io Anzi proprio il persistere di tale
identità (malgrado scena, copione, attori, fondale mutino) può essere percepito
come qualcosa che è differente da tutto il circostante e rimane differenza
irriducibile.
Il narcisismo e l’anonimato vengono indicati come problemi che spengono l’io
relazionale. L’inestricabile connessione/tessuto/rete di corpo-psiche-luoghi
sembra concorrere con l’emergere dell’identità. Finché rimane la congiunzione del
qui dell’io e non l’affermarsi del lì dell’io, sopravvive o si definisce l’individuo,
come realtà non isolata, ma relazionale.
Un essere vivente è un essere che non è mai da solo, è una differenza irriducibile
che convive con una pluralità interconnessa di altre differenze irriducibili. E’ una
pluralità relazionale.
L’individuo esiste in quanto sa gestire l’endiade ‘solidaire-solitaire’ che è anche la
gestione del qui e altrove.
L’altrove non è rilevante nell’accezione di lontano e quindi non contattabile, ma in
quanto prossimo, ossia massimamente prope, massimamente vicino e
avvicinabile
Si discute sul significato e la pratica di essere pianeta e satellite. Con il fissismo
relazionale può correlarsi un impoverimento di relazionalità e soprattutto la
perdita dell’andare oltre la distanza e verso il lontano, ossia la perdita della
dimensione dell’errante e dell’itinerante.
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Si affronta poi la questione del senso di un itinerario.
Un itinerario è costituito essenzialmente da spostamenti attraverso luoghi,
orientati da motivazioni o scopi più o meno espliciti.
Sul piano individuale l’itineroconoscenza e itineroprassia contribuiscono a
plasmare l’identità dell’io relazionale, a rafforzarne le modalità decisionali, ad
organizzare tempi e spazi.
L’esperienza dell’itinere non è però chiusa nell’orizzonte dell’esperienza
individuale, anzi spesso è esperienza plurale, di gruppo o di coppia..
Segue un ragionamento sugli spostamenti fatti a piedi, con animali da soma e
con mezzi meccanici. La parte principale dello scritto insiste sul concetto che
l’itineroesperienza va intesa come atto del camminare. Il camminare mette il
mondo addosso e stimola a pensare, a decidere, ad agire. L’itineroesperienza
camminata è tanto più importante quanto più, con l’attuale società
telecomunicante e digitale, vi è forte rischio dell’atopia, ossia della mancanza di
luoghi.
Il rischio si fa più forte se si vive in modo acritico nell’onirismo mediatico oppure
quando insorgono alcune patologie relazionali.. Si segnalano inoltre problemi di
prossimopenìa e collegamento ai luoghi primari.
Segue una parte in cui sono descritte e problematizzate alcune tipologie
significative di itineroesperienza: lavorativa, residenziale, ricreativa, turistica o
dell’itinerario dell’altrove, relazionale e di appartenenza a gruppi
Emergono così questioni significative del tipo: gestione della condizione dei
tunnellanti, l’affermarsi del caring, la condizione del paesamento-ripaesamento, il
ruolo vitalizzante dello stupore e della serendipità, il superamento di carenze
cognitive e relazionali, lo strutturarsi in condizioni di trasferta e vacanza,
l’incontro con luoghi di eccellenza, il conformare la prossemica di branco, le
dinamiche del ruolo della leadership e dell’atteggiamento gregale nella
conformazione dello spazio sociale.
Metodologicamente si propone l’itinerario meticciato. Si sostiene inoltre che
l’itineroesperienza è un importante momento di vissuto sociale per
apprendimento ed evoluzione verso la strutturazione del pensiero e delle pratiche
sociali.
L’itineroesperienza è una modalità per estendere e scoprire l’identità delle
persone in cammino.
Autonomia direzionale
Un bambino acquista progressivamente la sua autonomia direzionale.
Ciò avviene quando con le mani si dirige e afferra un oggetto o una cosa egli si
proietta verso il mondo, nel medesimo tempo comincia anche ad affermare il suo
’io’, perché le cose sono (o vengono )alla sua portata. Ma anche sceglie e decide
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in quanto discrimina, tra tutto quello che lo circonda, secondo interessi e
attenzioni specifici.
Difficilmente un bambino si fissa su un solo oggetto o cosa, ben presto è attratto
da altro. E’ la sua apertura al mondo: infatti coglie che il mondo è pieno di cose
diverse. In prossimità ad un interesse sta subito un possibile altro interesse
aggiuntivo.
Quando un bambino coglie l’apertura del mondo è perché coglie che l’intorno non
è omogeneo, ma è carico di differenze.
La curiosità è un atteggiamento disponibile, non rigidamente orientato alle
differenze. L’io non è l’attore della curiosità, ma è anche quello che si lancia fuori
dal proprio sé, è un ‘io’ che tocca, è un io che gioisce del molto, è un io che
gioisce del mondo che cambia e che fa vivere continui cambiamenti di sé. E’
l’aurora forte dell’io relazionale. Persino il proprio corpo può diventare luogo delle
differenze, purché affiori la dimensione della lontananza: una mano che si
muove, un piede che sta in là e che si può prendere sono occasioni per
l’individuazione di una lontananza che può essere portata verso una prossimità
toccandola e facendola oggetto di gioco.
Un bambino che però propenda per un gioco ristretto di cose, differenze e
lontananze è un bambino che mostra e gioisce del mondo in modo ristretto, è un
bambino propenso alla povertà del mondo che diventa una possibile povertà
propria.
La sindrome autistica, nella sua forma più forte, può essere vista anche come
una diminuzione o addirittura negazione della lontananza1. O percezione di
troppa lontananza da diventare inattingibile.
Il concetto veramente importante si manifesta quando si afferma la soglia del
prendersi autonomamente la gestione dell’andare incontro alla lontananza,
vissuto come io non protetto che gioisce del disvelarsi quotidiano del mistero del
mondo.
Il problema certamente riguarda i malati di mente, ma esiste una psicopatologia
quotidiana di tutti o di molti per cui il mondo non c’è o quasi non esiste non
perché è lontano, ma perché si frequenta solo l’io e il noi già frequentati.
E’ l’esperienza del recinto presunto, entro cui si sta, senza cogliere che è un
recinto. L’esperienza del limite non già come varco esperito non valicabile o non
ancora valicabile, ma come immotivato ‘realismo’ di un confine che non è
minimamente vissuto come avente anche un oltre
1
Si può continuare con l’esperienza del gattonare, del camminare, dello scappare
mettendo a prova che non si è alla ‘catena’ del controllo adulto, ecc.
Ma devo far attenzione a non dilatare troppo.
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Tutti viviamo molto il recinto presunto, per certi aspetti è indispensabile perché ci
offre il mondo sostenibile rispetto alle nostre capacità di espansione cognitiva,
decisionale e direzionale, per altro verso è il nostro modo di farci poveri da soli,
desensorializzando il mondo che perciò non entra mai, perché non facendosi
apertura di conoscenza, non si farà mai neppure memoria, emozione e
immaginazione.
E’ il mondo messo da parte così ripetutamente che si finisce per viverlo come se
non ci fosse
L’itineroconoscenza è un’espansione dell’io relazionale, valorizzando le
esperienze di lontananza e di rarefazione o negazione cognitiva. E’ un io che
scopre di avere un corpo-mondo, una pelle aperta e non un confine.
E’ un io che continua a discriminare le differenze e gode di un io che viene a
contatto con le lontananze e le differenze e si scopre esploratore e costruttore di
nuovi sentieri, non solo per i piedi, ma anche per gli occhi, il tatto, il fiuto, la
cinestesia e i sapori.
ITINEROCONOSCENZA
Uno egli aspetti che ci consentono di vivere e rapportarci con il mondo
circostante e gli altri, è la gestione dell’identità.
Essa riguarda il mantenimento di una costante della persona che attraversa un
flusso di situazioni, contesti e modificazioni, per cui essa stessa è una continua
modificazione. Eppure l’incessante flusso di differenze, non nega l’esistenza di
qualcosa che ha coscienza di resistere, ossia di continuare a stare e continuare a
non essere cancellata dall’affollarsi delle differenze e che si mantiene regista della
scena che si recita e si manifesta, come un happening spesso, al di là della
volontà e possibilità del regista e dove spesso gli attori comprimari costruiscono
un copione diverso, non concordato, inaspettato.
Anzi proprio questo persistere (malgrado scena, copione, attori, fondale mutino,)
può essere percepito come qualcosa che è differente da tutto il circostante e
rimane differenza irriducibile.
Questa differenza irriducibile sembra connettersi a segni di cui uno è il corpo e
l’altro i comportamenti intesi come segni-scritture esteriori di un flusso che non
ha un luogo anche se agisce su luoghi ed è la psiche, anzi la differenza irriducibile
è un sistema di luoghi inscindibili, tessuto esistenziale di corpo e mente, di cui si
coglie la differenza, ma non il margine di demarcazione, la differenza irriducibile
dell’io consente distinte modalità per affermare il qui, l’adesso e l’altrove di
tempo e di spazio. Corpo e psiche sono così inestricabili che la differenza
irriducibile è in quel loro stare strettamente connessi, pur essendo il corpo sede
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di mutamenti considerevoli e la psiche luogo non spaziale di un flusso continuo di
esperienze e quindi di differenze, vissute, volute, accadute.
Entrambi e congiuntamente, inestricabilmente, sono gestori del qui. Si può anche
dire che finché corpo e psiche gestiscono il qui senza percepirsi disgiunti e
nessuno pronuncia, pensa, vive il lì dell’io, allora persiste l’identità.
Questa differenza irriducibile non sta solo in contatto-rapporto con flussi di
differenze che sembrano interne all’ego, ma è dentro un flusso di differenze che
riguardano il mondo circostante, ossia tutto ciò che appare non vissuto come sé,
eppure risulta costantemente appresso al sé. E’ il momento in cui l’ego-regista sa
di non essere attore.
Il narcisismo è un io troppo pieno, un luogo senza luoghi.
Una pelle che non è luogo di affacciamento del mondo esterno ed interno, ma
sacco di contenimento dell’io che si chiude in sé e al mondo.
L’anonimato è invece l’altra dimensione che azzera le differenze, specie quando è
anonimo il luogo (cioè dove è difficile rintracciare biodiversità e sociodiversità).
I luoghi anonimi sono schermati da una presenza antropica monologica,
ripetitiva, ossessiva, imprigionata in poche dominanze.
Quando l’edilizia è un magazzino di contenitori che potrebbero stare ovunque,
quando le strade sono corridoi standardizzati, quando il traffico cancella la
vivibilità e l’inerzia delle macchine precluse all’interazione creativa rende inerti,
quando il gioco del tempo sui luoghi e le cose non tesse memoria e suscita
memoria, quando l’inadeguatezza di luoghi non accende interesse per la
trasformazione innovativa, quando non ci si aspetta che qualche essere vivente
introduca un’azione imprevista sulla scena dei luoghi, non solo possiamo parlare
di luoghi anonimi e mono-logici, ma più esattamente di luoghi, mono-alogici, a-
cognitivi, a-prassici, a-immaginativi. I luoghi dell’alfa negativo. Dove non ha
senso essere ed andare.
Ma è anonimo anche il soggetto che si rapporta al luogo, perché vive se stesso (e
forse è) soggetto senza differenze o povero di esse: presenza più che esistenza.2
2
Ovviamente non è da trascurare il valore dell’etimo: ek-sistenza: stare fuori, levarsi
dalla terra, apparire, tutte espressioni che rivelano un porsi in luogo, fino il Da sein di
Heidegger, l’esserci . Forse si può ricordare anche le avvertenze di Gianni Vattimo: ‘un’etica
della finitezza è quella che cerca di restare fedele alla scoperta della collocazione sempre
insuperabilmente finita della propria provenienza senza dimenticare le implicazioni pluralistiche
di questa scoperta. Sto coi santi in chiesa e con i fanti in taverna, e non posso mai illudermi di
collocarmi in una condizione superiore; anche quando pronuncio questa frase in un discorso
filosofico sto solo in un’altra condizione, che mi impone determinati impegni, come qualunque
altra: la particolare condizione del filosofo, del saggista, del critico, mai dell’Uomo Universale.’
[G. Vattimo Etica della provenienza in Almanacco di filosofia, Micromega 1997
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Il mondo circostante circuita anch’esso un flusso alto di differenze, eppure i
rapporti non si giocano sempre e solo su differenze, vi è una ricorrenza anche
degli spazi e delle cose e delle persone,
Tutto ciò concorre con la pratica e la visione di luogo. Il luogo o i luoghi, sono tali
perché le persone li riconoscono come tali e non solo come spazi.
Gli spazi sono generiche differenze ed ek-stensioni, dimensioni statiche che
stanno semplicemente fuori, in un altro da sé poco determinato.
I luoghi invece sono parti del mondo a cui è attribuita un’identità e concorrono
all’identità anche di chi li definisce e li vive come luoghi.
I luoghi detengono una personalità e chi riconosce la personalità dei luoghi
afferma e rinvigorisce la propria identità individuale e di appartenenza a gruppi e
relazioni.
L’inestricabile connessione/tessuto/rete di corpo-psiche-luoghi sembra concorrere
con l’emergere dell’identità. Ossia con il confermarsi dell’irriducibile differenza3.
Finché rimane quello che sopra si è chiamato la congiunzione del qui dell’io e non
l’affermarsi del lì dell’io, sopravvive o si definisce l’individuo.
E’ certamente singolare l’etimo di individuo: in-dividuo soggetto in-divisibile,
ossia soggetto non separato o separabile in parti ulteriori. E’ il corrispondente
psicologico di quello che rappresenta l’atomo in fisica e chimica, ma sappiamo
che l’aver individuato la parte non divisibile della materia ha poi portato
all’individuazione di molteplici subparticelle e anche l’individuo si articola in tante
subfunzioni. Quello che conta, per il mantenimento dell’identità, è il mantenere
insieme le parti.4.Mentre trovare sempre nuove parti in-dividue conduce alle
visioni settorialistiche e specialistiche, ma anche ad un accentuato riduzionismo
scientifico, il vissuto è integrazione, connessione, interdipendenza, collocazione
ecosistemica.
Un essere vivente è un essere che non è mai da solo, è una differenza irriducibile
che convive con una pluralità interconnessa. E’ una pluralità relazionale.
L’idea di soggetto, con una sua identità non ulteriormente riducibile, è comunque
l’esito congiunto di un processo storico, perché ha dovuto (e deve) competere
con le identità plurali: la tribù, la gens, il clan, la comunità, la società, ecc.
Il disagio radicale del vivere può provenire anche dal non poter giocare la pro-venienza e
l’appartenenza, non relazionarsi a dei luoghi, ma solo occupare degli spazi. E lo spazio è
indeterminato e indefinito, è vuoto universale, senza altre relazioni e presenze.
3
La parola dif-ferenza è anch’essa significativa perché ha implicito il significato di ‘portare
altrove’ e ‘dislocazione ‘ rispetto a qualcos’altro.
Mentre l’identità insiste sulle permanenze, la differenza insiste sulle emergenze altre
4
citare L’io plurimo e l’autoinganno
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E l’individuo si trova al costante crocicchio che Camus aveva indicato in un suo
racconto sul pittore Jonas: l’essere solitaire o solidaire.
Anzi si potrebbe dire che l’individuo esiste in quanto sa gestire l’endiade
‘solidaire-solitaire’ che è anche la gestione del qui e altrove.
L’altrove non è rilevante nell’accezione di lontano e quindi non contattabile, ma in
quanto prossimo, ossia massimamente prope, massimamente vicino . Ciò che è
effettivamente lontano coincide con l’in-cognito, il non conosciuto . E’ quando
qualcosa o qualcuno che era ed è in-cognito entra nella sfera di una qualche
vicinanza, cognitiva oppure operativa, che cessa di essere in-cognito e entra nella
dimensione del prope. Ma non sempre la vicinanza, la prossimità cognitiva ed
operativa possono essere vissute come positive o desiderabili. Il vicino o prope
non desiderabile è l’invasore. Un vicino che non dovrebbe essere vicino.
La modalità di gestione del prope, ossia la prossemica, è campo significativo della
produzione di identità.
Pianeta e satellite
Quando si sceglie o si vive la solitudine si opera per la separazione, per un io-
diviso, sottratto al mondo.
Ma questa solitudine, intesa come sottrazione, è solo una finzione, perché c’è una
vicinanza ineliminabile che è l’essere sul Pianeta5, o meglio in una parte del
Pianeta dove si colloca costantemente il soggetto come ‘satellite’ 6 del Pianeta. Il
termine ‘pianeta’ è fortemente collegato all’idea di errante e itinerante, ossia
mobile . Sia come corpo celeste, ma anche come oggetto che segue l’errante nel
suo itinerare. Ciò che sta presso al Pianeta, in quanto satellite, lo segue e ne ha
cura. E quindi è doppiamente pianeta ed errante. Il satellite è anche legato
all’idea del caring, dell’aver cura e presidio, nella sua accezione non astronomica,
ma militare.
L’accezione antropica (e militare) dell’idea di ‘satellite si è allargata in una
concezione astronomica quando tramontò la visione tolemaica, e cioè la centralità
della Terra che concepiva anche ogni singolo uomo appartenente al centro, con il
copernicanesimo culturale tutto si disloca dapprima nell’eliocentrismo, ossia
5
Il termine Pianeta, planetes, designa l’errante e il planan è l’atto dell’andar errando. Ma
non si deve dimenticare che nel latino tardo planeta assume anche il significato di ‘abito da
viaggio’, ossia l’abito dell’errante. Il vagare e l’andare errando, la peregrinazione è espressa da
planoquot;, ma è un peregrinare che può essere anche digressione, divagazione, errore, quindi
senza una meta ben definita e precostituita.
6
E’ intrigante ricordare che la parola ‘satellite’ è connessa a satelles-litis che ha il
significato primario di guardia del corpo di un principe o persona rilevante. E, al plurale,
satellites, designa i corpi di guardia, i presidi. In senso ampio significa guardiano, difensore ,
compagno, difensore. E in senso negativo complice e sgherro.
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nell’idea che il centro sta altrove e poi, con la scoperta dei pianeti medicei, il
cosmo diventa ricco di una molteplicità di centri. La dimensione del policentrismo
nel cosmo diventa ‘normale’.
In qualche modo inizia ad essere più chiara anche la concezione satellitare delle
persone non più legata al moto dei Due Soli7, ma partecipe a molti centri, mobili
e per i quali si può essere satelliti in modi diversi.
Teniamo per ferma allora almeno questa idea: nessuna persona è sola, è sempre
satellite del pianeta (o dei pianeti) e in questo senso è sempre appartenente ed
errante. La condizione dell’itinerante è in qualche modo una condizione
strutturale. Se però il satellite si posiziona sempre nella stessa relazione con il
suo pianeta in tal caso perde la percezione del moto e percepisce la stabilità del
rapporto con il pianeta, che pur essendo errante, per lui rimane fermo. E’ il
momento in cui il satellite si trasforma in stanziale. Ed è il momento in cui il
campo delle relazioni si è ristretto e non si colgono più le relazioni aperte, ma
solo fisse.
A questo fissismo relazionale può correlarsi un impoverimento di relazionalità e
soprattutto la perdita dell’andare oltre la distanza e verso il lontano, ossia viene
persa la dimensione dell’errante e dell’itinerante.
In quel momento può iniziare una regressione di identità che viene assunta non
come relazione in itinere ma come condizione di relazione fissa e statica.
Le osservazioni che seguono riguardano una particolare strategia ‘satellitare’ che
poggia nel fluidificare la relazione con il Pianeta, ricogliendone la struttura
errante, luogo di relazioni molteplici, luogo di flussi spaziali e temporali, luogo in
cui esperire un allargamento della capacità relazionale, mettendosi in contatto
con più luoghi.
Questa riapertura delle relazioni la chiameremo itineroconoscenza e
itineroprassia.
Il senso di un itinerario
Un itinerario è costituito essenzialmente da spostamento attraverso luoghi,
orientato da motivazioni o scopi più o meno espliciti.
Si può andare di luogo in luogo per incontrare persone, esplorare situazioni,
trasportare oggetti e merci, esercitare attività lavorativa, raggiungere contesti in
cui si prestano o si fruiscono servizi, esplorare e conoscere, fare attività motoria,
impiegare il tempo, esercitare la curiosità, passeggiare a scopi ricreativi o
turistici, ecc.
7
Potere Civile e Religioso, Imperatore e Papa
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L’itinerario è determinato per lo più dall’attraversamento da un luogo di partenza
verso un luogo di arrivo.
Di solito, ad arrivo effettuato, si ha il ritorno ad un luogo che viene considerato
proprio e di appartenenza e in casi non rari è il luogo di partenza, costituito da
siti residenziali8.
Le modalità con cui ‘gestire il ritorno’, possono essere varie:
- andata e ritorno in cui la prima parte di andata è vissuta per lo più come
parte attiva, mentre la seconda di ritorno può essere solo mirata a
raggiungere il luogo di partenza oppure al trasporto di qualcosa che si è
reperito dopo che si è raggiunta la meta prefissata
- circuito ad anello in cui l’itinerario è tutto un susseguirsi di tappe con un
proprio significato e ruolo e dove l’atto dell’andata conduce anche al ritorno,
ossia al luogo di partenza
- andata e ritorno con mezzi diversificati, si ha nel caso in cui la sequenza
di andata é molto analitica e sono previste più tappe con più funzioni. In
questi casi si possono usare anche mezzi di trasporto misti o lenti (a piedi, in
bicicletta, in bus, in metro), mentre il ritorno è semplicemente un rientro con
lo scopo di superare la distanza in tempi rapidi (e allora ci si può affidare
anche ad un mezzo meccanico di trasporto veloce)
L’itineroconoscenza e itineroprassia mettono in moto
1. capacità di perseguire uno scopo, magari composto e complesso
2. prove di autonomia, decisionalità, autostima nel saper individuare e
perseguire uno o più compiti o scopi, produzione e gestione di mappe mentali
3. capacità di raccogliere informazioni e interagire con persone diverse, avendo
l’abilità di gestione dei tempi e durata delle relazioni
4. capacità di spostamento di sé e di cose e utilizzo dell’itinerario anche per
procurarsi risorse da riportare in un luogo destinatario e finale
5. capacità di incontrare eventi e riconoscerli come tali, ossia fattori che non
erano stati programmati, ma che arricchiscono l’esperienza e provocano
8
L’itinerario non ha la componente del ritorno in casi estremi quando l’andar via da un
luogo significa o abbandono come nel caso di esilio o emigrazione prolungata o stabile o
trasferimento per cui mutano drasticamente i luoghi di appartenenza.
Nei casi in cui un itinerario non abbia ‘ritorno’ allora si innescano meccanismi significativi
legati al fenomeno della ‘nostalgia’ il dolore per r i o n ς, il ritorno, il tornare indietro.
Il tornare indietro non è sempre e solo nost-algia dei luoghi, ma anche delle emozioni,
delle persone, delle memorie. E’ allora che emerge la dimensione dei luoghi delle emozioni e
degli affetti, spesso con cariche di coinvolgimento molto forti, come il film di Bergman, il posto
delle fragole, ha magistralmente espresso, ma in realtà in campo artistico vi sono straordinarie
elaborazioni della nost-algia, dal classico nostos di Ulisse ad Itaca al ritorno alla Rimini
dell’infanzia di Felini in Amarcord.
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un’imprevista attribuzione di senso e stimolo all’azione. Il tutto quindi si pone
come capacità aperta ad imparare e ad imparare ad imparare.
6. Abilità nel cogliere eventi che sono interessanti, ma non pertinenti e
compatibili con il progetto dell’itinerario, per cui si trae dall’evento solo il
compatibile e l’immediatamente utile e nel contempo, se possibile, si ipotizza
un futuro e distinto itinerario per recuperare l’esperienza che, pur valutata
interessante, va interrotta per rinviarla a momenti più opportuni
Sul piano individuale l’itineroconoscenza e itineroprassia contribuiscono pertanto
a
plasmare l’identità dell’io relazionale,
a rafforzarne le modalità decisionali,
ad organizzare tempi e spazi
a rendere attenti e disponibili ad eventi non programmati (flessibilità
cognitiva)
a gestire il rapporto tra emozioni e approcci razionali (piacevole-
spiacevole/attivante-soporifero9; comprensione-esplorazione/ attribuzione di
senso, conoscenza-azione immediata o differita, coerenza-leggibilità-
complessità-mistero nel rapporto con l’ambiente esplorato 10)
a sostenere con soddisfazione gli sforzi cognitivi per la conoscenza
dell’ambiente oppure con frustrazione quando non si attivino le capacità di
categorizzazione e riconoscimento di un ambiente
ad aprire all’intuito di molte caratteristiche dell’ambiente dalla sua percezione
sia che esso sia limitato o esteso
ad incentivare sensazioni che, inoltrandosi, si va verso nuove possibilità di
conoscenze ed azioni, segnali di situazioni non note ma suggestive per
ulteriore potenziamento cognitivo ed operativo
ad esperire esperienze di percezioni aperte su luoghi vasti oppure ad
individuare luoghi protettivi ed intimi (vedere molto distante e stare al
riparo)11
9
Vi veda il modello di valutazione affettiva dell’ambiente secondo
Russsel J.A. e Lanius U.F. (1984) Adaptation level ad affective appraisal of environments
in “Journal of Environmental Psycology”, n.4 p. 119-135
10
Kaplan S. (1987).
Aestetics, affect and cognition. Environmental preference from an evolutionary
perspective
In “Environment and Behavior”, 19, 1 p.3-32
11
vedi teoria del prospect e del refuge di
Appleton J. (1975)
1
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a relazionarsi con estranei momentanei e riconoscere persone con le quali
esiste una relazionalità pregressa
ad avere una visione e percezione multiprospettica e multirecettiva
a riconoscere e valutare la situazione ambientale in termini di vicinanza-
lontananza rispetto ai propri esemplari prototipici per i quali si ha una
pregressa preferenza12
a sviluppare strategie di coordinamento cognitivo-motorio-organizzativo-
operativo
a selezionare il pertinente dal non pertinente
Esperienza sociale di itinere
L’esperienza dell’itinere non è però chiusa nell’orizzonte dell’esperienza
individuale, anzi spesso è esperienza plurale e di gruppo o di coppia.
In questi casi, a livelli diversi, essa presenta una valenza sociale.
L’itineroconoscenza e itineroprassia contribuiscono allora:
- a vivere insieme il perseguimento di obiettivi e scopi e rafforzano i legami
relazionali
- a mettere a confronto strategie di collaborazione, giocate all’interno della
gamma cooperazione-competizione e leadership-gregarietà
- a perseguire scopi comuni sia tipo cognitivo che operativo
- ad elaborare mappe cognitive ed operative compartecipate
- a sviluppare una mentalità di gruppo e a svolgere con flessibilità giochi di
ruolo
- ad arricchirsi reciprocamente nel riscontro delle percezione selettiva (ognuno
tende a ‘mettere a fuoco’ una gamma circoscritta e preorientata di fenomeni
che rientrano nei propri campi motivazionali e di competenza). In tal modo si
The experience of landscape
London, Wiley
12
si veda il cosiddetto modello della discrepanza di
A.T. (1987)
Landscape perception and affect
In “Environment and Behavior”, 18 p. 3-30
E
Purcell A.T. Lamb R.J. Mainardi Peron E. Falchero S.
Preference or preferences for landscape?
In “Journal of Environmental Psycology” n.14 p.195-209,
1
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complessificano ed ampliano le competenze cognitive ed operative di tutti gli
appartenenti al gruppo itinerante
L’itineroconoscenza e prassia è fatto solo con i piedi
La specie degli ecoidi umani ha prevalentemente vissuto l’esperienza dello
spostamento da luogo a luogo utilizzando il mezzo naturale e cioè il camminare13.
E’ con l’atto del camminare che la specie degli ecoidi ha inseguito a lungo i suoi
desideri e decisioni e forse ha fatto nascere nuovi desideri e nuove decisioni.
Sicuramente furono a lungo privilegiati quelli che poterono collegare lo
spostamento con il cavallo, ma il cavallo non negava in modo forte il contatto con
la terra e con le sensazioni complessive, anche se mutava il rapporto di velocità
nel rapporto con la terra e quindi, in questo senso, riduceva le doti di
osservazione fine e attivava le letture rapide dei luoghi. Ma il rapporto con il
cavallo aumentava il senso di decisionalità e portava ad una simbiosi più
complessa, ma sempre agganciata al bioς. Sta forse anche in questo il fascino
non tramontato della pratica coi cavalli che ha qualità particolari rivelate dalla
stessa ippoterapia per quel potenziamento del corpo e della psiche umane che si
integrano con quelle del cavallo e producono un effetto potenziatore.
Ma già quando lo spostamento si è affidato al mezzo più artificiale del carro e
ancor più del carro chiuso fino alla forma della diligenza, il rapporto con il mondo
13
Per un’ampia indagine sulla funzione umana del camminare (e le sue connessioni con lo
sviluppo del pensiero e del sentire umani) si veda l’ampio studio di
- Rebecca Solnit (2002)
Storia del camminare
Paravia Bruno Mondadori, Milano
Ma anche
- Rousseau J.J. (1979)
Le fantasticherie del passeggiatore solitario
Rizzoli, Milano
- Thoreau H.D. ( A c. di F.Meli) (1999)
Camminare
SE, Milano
- Lovejoy C.O. (1989)
Evoluzione del camminare umano
In “Le Scienze” n.245
- AA.VV. (1991)
Origine(s) de la Bipédie chez les Hominidés
Editions du CNRS/Cahiers de la Paléontoanthropologie, Paris
- Turner V. Turner E. (1997)
Il pellegrinaggio
Argo, Lecce
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si è indebolito come rapporto diretto con la terra, anche se ha prodotto tanti altri
rapporti significativi.
Ma è diverso spostarsi sulla terra mentre corpo-mente-luogo si fanno
costantemente sistema integrato, dallo spostamento dentro un contenitore
artificiale che, al di là che fornisca finestre e visioni aperte, produce sempre una
segregazione dentro un ambiente altro che affievolisce il rapporto con la terra e
mette tra parentesi gran parte del corpo che subisce una sorta di stato di ipnosi
delle facoltà, un po’ meno per la facoltà della vista, che però diventa quasi una
funzione separata dalle altre funzioni percettive e cognitive..
Il fenomeno si accentua con l’affermarsi dei mezzi meccanici di spostamento, (a
partire dal treno), animali artificiali da soma che costringono ad una forte
artificializzazione anche dell’ambiente esterno, per cui le strade sono molto
rettilinee, il fondo liscio per ridurre l’attrito e le asperità e il paesaggio entra in
una dinamica di apparizione fugace, dove il cogliere l’intorno è un attimo che si
traduce contemporaneamente in perdita della percezione per essere sostituita da
una sequenza diversa e mutante in successione.
Gran parte della sensorialità viene disinnescata: i suoni prevalenti sono quelli del
mezzo e se anche affiorassero suoni dai luoghi essi sarebbero una repentina alba
di sonorità che si traduce in altrettanto rapido tramonto.
L’olfatto fine è rimosso, se mai un odore o un profumo possono essere captati,
sono per lo più emergenze ed infrazioni del paesaggio olfattivo: grandi puzze o
odorosità sintetiche e chimiche.
Il camminare è anche tatto. I piedi ricevono informazioni sulla natura del suolo,
sulla sua rugosità, asperità, levigatezza, densità o mollezza. E se si sfiora
qualcosa, come un arbusto, anche altre parti della pelle ‘leggono’ le presenze che
il camminare fa affiorare. E le mani possono afferrare o sfiorare o prendere
qualcosa. Il mondo è appunto a portata di mano.
Ma è avvolgente anche il calore o la freschezza del mondo: l’aria scorre sulla
pelle e la pelle reagisce con adattamenti termici, con brividi o con sudorazioni.
E il corpo avverte se è in equilibrio o se si trova in un terreno che mette a prova
la sua stabilità e cinestesia.
L’itineroesperienza coma atto del camminare.
Insomma, al di là di un discorso che può proseguire in maggiori dettagli, Il
camminare mette il mondo addosso e stimola a pensare, a decidere, ad agire.
L’itineroconoscenza e itineroprassia su mezzi meccanici sono anch’esse rilevanti
nell’evoluzione della specie, ma riguardano un altro modo di essere;
rappresentano una modalità che si fa meccanica in senso stretto, se non vi è una
parallela vita di itineroconoscenza ancora ancorata al corpo e al camminare.
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Anzi è il camminare che permette di elaborare strategie fini nel vivacizzare il
rapporto con il mondo: le mappe mentali e spaziali, l’individuazione dei nodi
simbolici, la percezione dei margini e dei confini, la costruzione dei percorsi, il
formarsi di un’idea di rione e quartiere, la percezione del conosciuto, malgrado la
continua variabilità delle immagini, conduce ad individuare i luoghi vissuti in
modo chiaro oppure percepiti come avvio, bandolo per situazioni attrattive e di
mistero.
Sono quegli aspetti che consentono ad una persona, secondo la classica visione
di Kelvin Lynch, di cogliere l’ambiente che lo circonda, attivando l’intensità
dell’esperienza umana, captando della città (ad esempio) la coerenza, ossia la
struttura e il significato privi di ambiguità o contraddizioni, ma anche il mistero,
la suggestione di conoscenze ulteriori o la carica simbolica che emerge eppure
non si determina tutta in modo definitivo e statico, ma in un fieri prolungato.
“E’ chiaro che la forma di una città. O di una metropoli non potrà esibire qualche
ingigantito, stratificato ordinamento. Essa avrà uno schema complesso, continuo
e unitario, ma tuttavia intricato e mobile. Essa deve essere plasmabile alle
consuetudini percettive di migliaia di cittadini, aperta a mutamenti di funzione e
di significato, ricettiva per la formazione di un nuovo patrimonio di immagini.
Deve invitare chi la vede ad esplorare il mondo.
Vero è che noi abbiamo bisogno di un ambiente che non sia semplicemente ben
organizzato, ma anche poetico e simbolico. Esso dovrebbe parlare degli individui
e della loro società complessa, delle loro aspirazioni e delle loro tradizioni
storiche, della situazione naturale e delle complicate funzioni e movimenti del
mondo urbano. Ma chiarezza di struttura e vividezza di identità sono i primi passi
verso lo sviluppo di simboli forti. Se apparisse come un posto notevole e ben
tessuto, la città potrebbe offrire una base per la collezione e l’organizzazione di
questi significati e di queste associazioni. Una siffatta sensazione locale, di per sé
intensifica ogni attività umana che vi si svolge, e incoraggia il deposito di
memorie.”14
E’ l’iteneroconoscenza e prassia del camminare che fornisce le strategie
dell’esplorazione e gestione dei luoghi di tipo fine, dettagliato, compreso il tempo
e lo spazio per gestire la sorpresa, la curiosità, la tensione a sbirciare dentro
l’inesplorato.
La citazione viene da Lynch, un urbanista che ha aperto la strada alla lettura e vita della città
14
in diretta e dove anche il camminare è uno strumento fondamentale per conoscere e progettare
la città.
Lynch K. (1960) 82001)
L’immagine della città
Marsilio, Venezia p.130
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Se una persona manca di tali dimensioni e affida lo spostamento solo all’auto e ai
mezzi meccanici in genere, propenderà per una visione semplificata e vincolistica
del rapporto e approccio con il mondo.
Mentre se possiede ed esercita in modo continuo le strategie del bipede, anche il
suo modo di gestire lo spostamento meccanico diventa più ricco, aperto,
esplorativo, fattivo.15
Atopia
Con l’attuale società telecomunicante e digitale vi è il forte rischio dell’atopia,
ossia mancanza di luoghi.
Il mondo può essere metaforizzato e ipotastizzato sotto forma di monito o
schermo. Certamente rispetto al sistema di comunicazione fornito dalla corte e
dalla piazza o dal sagrato, la dimensione della telecomunicazioni ha
enormemente dilatato la possibilità dell’informazione e i luoghi di riferimento
dell’informazione.
Credo, con molta chiarezza e determinazione, che non si debba aver nessuna
nostalgia per le comunicazioni solo localizzate e chiuse, esse erano il segno di
una chiusura mentale e di un più diffuso autismo di comunità.
Ma siamo in presenza di problemi molto diversi:
- le persone possono avere un universo informativo molto più vasto ricorrendo a
televisione e web, quindi le modalità relazionali si dilatano
- la possibilità di partecipazione agli eventi nazionali, europei (o continentali in
genere) e planetari, oggi è di fatto possibile e maggiore. Quindi
l’emarginazione informazionale è potenzialmente vinta
la possibilità di virare in un contesto ricreativo-ottundente è molto facile,
-
pertanto è possibile implodere in un mondo di quiz, giochi, canzonettismo,
ludismo acritico che trasforma la vita in onirismo mediatico. Tutto questo,
inteso come evasione e momento divagativo momentaneo è molto positivo.
15
Non si vuole qui sottovalutare il ruolo dell’itineroconoscenza su mezzi meccanici, ma
evidenziare come questa si faccia più efficace e dinamica che integrata con quella corporea.
Comunque l’itineroconoscenza su mezzi meccanici ha aperto anche strategie e modalità
di relazione spaziale che meriterebbero un’attenzione specifica.
Pensiamo al mutamento profondo che il treno ha introdotto nella percezione del territorio
e al senso di appartenenza, E alle trasformazioni sulla residenzialità indotte dall’auto di massa e
il senso di ristrutturazione profonda della geopolitica e geopsicologia con il diffondersi dell’uso
dello spostamento aereo.
Oggi lo spostamento immateriale, consentito dalla società digitale e internauta, ha
spalancata un’idea ancora più radicalmente diversa di itineroconoscenza e prassia.
Sono tutti temi interessanti, ma che esulano dagli scopi mirati di questo scritto.
Sono semmai ipotesi e desideri per ulteriori lavori. Più oltre.
1
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Tutti abbiamo bisogno di staccare la spina e ridurre lo stato emergenziale.
Diverso è però il discorso se dobbiamo pensare che l’intera vita diventi
onirismo mediatico.16
Esiste però una condizione di mancanza di luogo o atopia di tipo più strutturale
ed esistenziale ed è legata a fenomeni complessivi di tipo:
- agorafobia che è legata a problemi relazionali con gli spazi aperti, fenomeno
correlato anche a paure estreme ed indotte,
- lo spazio aperto può infatti facilitare l’incontro con animali ((zoofobia). Un
caso particolare può essere dato dalla consuetudine deprecabile e fastidiosa,
ma diffusa, di defecazione degli animali in pubblico che in taluni soggetti
disturbati può indurre anche a fenomeni estremi di coprofobia o rupofobia o
misofobia al di là di un generico e motivato disagio da mancanza di decoro17,
- la possibilità di incontro con le persone in modo indiscriminato e promiscuo
può attivare la paura generica del contatto o della possibile vicinanza
ravvicinata (tipo venereofobia)
- altro fenomeno della relazione aperta e non delimitata da confini certi può
sostenere fenomeni di xenofobia, fino alle forme particolari di oncofobia,
tossicofobia ed eritrofobia.
Il fenomeno fobico può essere rafforzato da aspetti di claustrofilia
che non si rivelino solo come propensione ai luoghi chiusi, (cosa che può
coincidere anche per una propensione ad apprezzare i luoghi intimi e protetti),
ma determini soprattutto un rafforzamento della chiusura alle relazioni e
all’impoverimento relazionale.
In questo caso saremmo in presenza di un fenomeno definibile come
prossimopenìa o impoverimento dell’intorno.
Prossimopenìa e luoghi primari
16
Per un inquadramento più complessivo dell’onirismo mediatico rimando al mio saggio
EDUCAZIONE AMBIENTALE
PER GENERAZIONI ECOGLOBALI.
In contesti sostenibili
Dove esplicito il concetto di pianeta a tre strati(ambientale in senso stretto, audiovisivo e
digitale) e dove esplicito il concetto di onirismo mediatico.
17
Se l’itineroesperienza dei pedoni fosse più diffusa certamente le regole della convivenza
sarebbero maggiormente rispettate e anche i filoanimali non si sentirebbero esenti dalla
gestione della pulizia ed igiene dei percorsi.
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Gli elementi primari e restrittivi dell’intorno sono il letto - la cucina - il bagno - il
soggiorno18. Essi rappresentano la topìa dell’implosione del mondo. Tale
implosione può essere compensata e mimetizzata da correttivi e diversivi di tipo
tecnologico che celano l’avvenuto procedimento regressivo-impoverente.
Il telefono è un importante strumento relazionale, ma se esso diventa un
pretesto per sostituire i rapporti diretti con una conversazione affidata al telefono
fisso o mobile che sia, le relazioni si decorporalizzano e si aspazializzano. Si entra
in una forma di limbo spaziale. La telecomunicazione non deve semplicemente
sottrarre la dimensione della comunicazione, quella della compresenza fisica e
spaziale di persone in contesto reale.
La televisione riporta certamente informazioni e visioni da luoghi lontani . E
veicola un’infinita gamma di storie e di sequenze di vita . Nella televisione
(quando non è solo telespazzatura) si possono anche raggiungere esperienze
interessanti. Ma la vita si impoverisce gravemente se è solo tele-esperienza e alla
dimensione duplice dello spettatore e attore di eventi si sostituisce l’esperienza
asimmetrica di soli spettatori.
Contro e a liberazione dalla telesegregazione occorre che nella vita di tutti vi sia
sempre un tasso alto di esperienze dirette in cui giochino le comprensioni delle
persone attraverso una pluralità di codici comunicativi che non siano filtrati,
impoveriti a affetti da riduzionismo da obiettivo meccanico e microfono. La
garanzia di un tessuto vivo sta in una dimensione sociale complessa e non in un
eccesso di tele-socialità.
Per il superamento e la compensazione del rischio di telesocialità segregante è
anche opportuno attivare un insieme di esperienze in contesti e luoghi reali
vissuti e gestiti mediante percorsi che suscitino l’itineroconoscenza e
l’itineroprassia.
Tipologie di itineroesperienze
18
Per quanto questi rappresentino i luoghi essenziali del ‘chiuso’, quando vi siano soggetti
con particolari difficoltà relazionali, allora la conquista di questi luoghi ’chiusi’ e la loro messa in
itinerario e sequenza va vissuta come una conquista, ma anche premessa per l’immissione in
percorsi di luoghi aperti.
Per persone ricoverate in luoghi di degenza la situazione dei luoghi chiusi può
nuovamente ripresentarsi, anche se nella sequenza le tipologie vanno ritoccate in letto-
corridoio-bagno- tavolo dei pasti (eventuale). La sequenza si arricchisce e si socializza non
appena si integri con luoghi interni alla degenza, ma con funzioni a latere come il bar e l’edicola
interni. E’ il momento in cui la sequenza inizia a deistituzionalizzarsi. Si può parlare
propriamente di avvio ai luoghi aperti quando compare almeno il giardino o il parco. Gli itinerari
del tipo letto-corridoio-bagno- tavolo- bar/edicola (interni-giardino/parco possono essere
pertanto considerati premessa per una riconquista di itineroesperienze aperte.
1
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Le itineroesperienze sono di forme ed intensità diverse. Faremo cenno ad alcune
di primaria rilevanza19:
1-
- l’itineroesperienza lavorativa
- l’esperienza quotidiana dello ‘star fuori’, (ossia di recarsi dal ‘proprio luogo’
- inteso soprattutto come casa ed abitazione - al luogo in cui si sta con ‘gli’
altri o ancor più genericamente con stare con altri risulta esperienza legata
al lavoro e all’itinerario vissuto per recarsi ritornare dal lavoro.
E’ esperienza significativa perché ripropone una serie di riti20.
L’uscire a una determinata ora; incontrare le persone che nello stesso
tempo convergono in medesimi luoghi; rafforzare la mappa dei ‘conoscenti
di vista’; aggregare cognitivamente dei conoscenti di percorso con cui si
scambiano rapide conversazioni durante il tragitto in una relazionalità tutta
circoscritta solo al tragitto; avere delle convergenze con persone che fanno
il tragitto e poi lavorano nel medesimo luogo; vedere un insieme di edifici,
luoghi, strade, piazze, ecc.; scambiare opinioni sui fatti del giorno o
cogliere gli accadimenti dai commenti della gente; miscelare il trasporto su
mezzi meccanici assieme a percorsi a piedi, cogliere eventi insoliti che
deritualizzano il percorso; rivedere alcuni luoghi e mettere magari in moto
memorie che si erano disattivate; apprezzare qualcosa che si vede e si
ricontatta come insieme che fa piacere rivedere costantemente o suscita
interesse, ecc.
Il lavoro è una ‘celebrazione’ mediante la quale alcuni soggetti vivono
l’impegno per la trasformazione della loro società, realizzando prodotti e
servizi e avendone in cambio, in maniera concordata e contrattuale, altri
beni e l’accesso all’uso di servizi sociali e quindi beni e servizi non solo
privati. Il lavoro è pertanto la manifestazione di un atto di appartenenza e il
recarsi al lavoro ‘celebra’ l’andata a questa appartenenza. La natura
dell’itinerario, che uno fa per recarsi al lavoro ed espletarlo, ritualizza
anche il suo modo di appartenere (pendolare, city user, cittadino con
19
Si propone una sorta di essenziale fenomenologia dell’itinerare nel tempo e nello spazio
20
I riti sono importanti nell’esperienza degli ecoidi umani. Non esistono solo quelli ‘alti’ di
tipo religioso e giuridico, ma esistono anche quelli quotidiani, come Roland Barthes ha indicato
in Miti d'oggi. I riti orientano dei comportamenti secondo una procedura ricorrente che si
manifesta soprattutto in luoghi che vengono considerati scenario del rito. Anche il lavoro e i
percorsi per il lavoro assumono aspetti rituali significativi che sono indicati un po’ più
diffusamente nel testo.
1
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differenziazione tra residenza e lavoro, immigrato, disoccupato, soggetto in
formazione e quindi solo potenzialmente lavoratore, libero professionista
con spostamenti non standardizzati, ex-lavoratore, casalinga che va a fare
acquisti, ecc.)
La diversità dell’appartenenza al lavoro incide sulla natura del rito
dell’itinerario per recarsi a ‘star fuori’ e il rito stesso dell’itinerario
contribuisce a costituire l’identità del soggetto. Con la modalità
dell’itinerario la persona ‘dice’ il proprio status. Ma non solo rivela il proprio
status e lo rafforza, ma anche contribuisce a rafforzare la struttura della
comunità a cui appartiene. Gli itinerari lavorativi rappresentano,
simbolizzano e esternalizzano la struttura sociale delle comunità che si fa
itinerante. Anche questa appartenenza a percorsi socializzati per ‘andare al
lavoro’ contribuisce alla costruzione dell’identità sociale delle persone.
Ma non mancano casi in cui si può parlare di ‘rito spento’. E’ quando si
manifesta la sindrome del ‘tunnel’: il soggetto esce dalla sua tana abitativa
e si reca in quella lavorativa, tutto quello che sta nel tragitto è un
intervallo, una pausa esistenziale, è un dover tras-correre, per cui non vale
la pena neppure vedere e vivere, ma soltanto correre oltre.
I ‘tunnellanti’ escono di casa e non vedono le persone, non colgono la città
che li circonda, non avvertono esistenza di eventi, sono immersi in un
‘frattempo’, la loro vita per lo più ‘implode’ tra casa e lavoro.
Coloro che fanno il tragitto casa-lavoro in auto possono essere più
facilmente indotti a comportarsi come ‘tunnellanti’, perché l’auto può
trasformarsi in un’armatura che scherma e difende da tutto quello che sta
all’esterno, al massimo la vita esterna può essere attutita come una visione
dall’interno di un acquario: là fuori sta tutto l’altro, ma è un insieme di
estraneità che non tocca e riguarda il ‘tunnellante’ che può disinnescare
ancor più la ‘voce ‘ con il tunnel o l’acquario a tenuta stagna mediante
l’immissione di una colonna sonora voluta e realizzata attraverso la radio o
registrazioni sonore. In tal modo la ritualizzazione si configura come
mediatica e non relazionale diretta. Il rito che si celebra, in questi casi, è in
realtà la disattenzione.
Il rischio della sindrome del ‘tunnellante’ non si ha però solo per gli
itineranti in auto, vi sono ‘tunnellanti’ che prendono i mezzi pubblici, ma
non colgono nulla, si chiudono nei loro pensieri, oppure sprofondano sulle
pagine del giornale oppure ancora si addensano in paesaggi sonori erogati
dagli auricolari e meccanicamente aspettano di essere estromessi alla
fermata di arrivo, prossima al luogo di lavoro, come un eject sputa un cd
finito e da cambiare.
Alla ritualità della disattenzione dovrebbe invece manifestarsi anche il rito
dell’attenzione e della cura: l’itinerario è l’occasione per relazionarsi con
1
20. NuoviAbitanti
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persone, partecipare alla vita della città, cogliere l’esistenza e l’attivazione
di migliorie e di offerta di servizi nuovi, percepire l’interesse di alcuni
edifici, la buona soluzione di alcune proposte di arredo urbano, la cura degli
abitanti per le loro case, lo scorcio di un giardino e di un parco, l’efficienza
delle connessioni di mobilità, i luoghi dove la gente si ritrova più volentieri
e la percezione della positività sociale, l’esistenza di punti di
dequalificazione e di degrado come segnali per un intervento e una
possibilità reale di miglioramento, la percezione che la parte di città che si
attraversa è viva perché continua ad avere eventi innovativi, migliorativi o
restaurativi oppure è entrata in sofferenza perché sta regredendo e allora
occorre che i cittadini e gli addetti ai lavori intervengano.
Un’itineroesperienza lavorativa può divenire un rito quotidiano vitale se
vissuto nel rito dell’attenzione, caring e partecipazione.
2-
l’itineroesperienza residenziale
- Non esistono solo i tunnellanti per l’itinerario lavorativo, ma anche per quello
abitativo. Questi rientrano in casa come in un rifugio, con un vissuto interiore
che tutto l’intorno è costituito da deserto sociale e ambientale. Il fuori e
l’intorno sono il negativo e il luogo da cui sottrarsi. Il positivo è solo il
familiare interno e le dotazioni di comfort che stanno dentro l’abitazione,
vissuta tra la condizione della grotta del neolitico e la navicella spaziale
vagante in vuoti siderali.
Invece attorno l’abitazione c’è la vita e si possono manifestare stati
relazionali. Purché ci si restituisca la condizione del bipede che rappresenta
una condizione nativa per i rapporti diretti e coinvolgenti.
Allora ci si può accorgere che esiste un rione, ossia una realtà di persone che
convivono in un’area urbana comune, dove è possibile l’esperienza
dell’incontro e della condivisione. Ci si può accorgere che la dimensione di un
rione offre delle scansioni spaziali e che tutto ruota attorno a poche aree
centrali locali (o pericentralità) in cui converge la vita di quartiere. Lì si
trovano i servizi di base: i negozi per le necessità più spicciole, la banca,
talvolta la posta, il giardinetto o il lembo di verde con qualche albero
ristoratore, le fermate del mezzo pubblico, la bottega di qualche artigiano o
fornitore di servizi per manutenzione, un bar, talvolta qualche sede
associativa.
Queste aree centrali locali in genere non sono lontane dalla propria abitazione
più di 150-300 metri e all’interno di questo raggio si forma un ambito più o
meno connesso che costituisce una sorta di nicchia urbana. La zona più densa
e centrale contiene una maggiore presenza di servizi, quella più esterna ha
2
21. NuoviAbitanti
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maggiore funzione residenziale oppure accoglie zone con territori aperti tipo
giardini, parchi o zone agricole.
Attivare itineroesperienza residenziale significa scoprirsi pedoni del proprio
rione ed esercitare le funzioni di bipede nel proprio luogo di residenza,
facendone ambito di curiosità e di scoperta: aumentare le conoscenze dirette
delle persone che vi vivono; cogliere se i bambini sono segregati o se hanno il
diritto di accedere all’esterno; partecipare a tragitti comuni e i co-rionali;
avvertire la pregevolezza di qualche angolo per edifici o alberi; conoscere
percorsi in cui la presenza di traffico meccanico induce delle situazioni
particolari mentre in altri percorsi il transito è raro e la bipedità può essere
vissuta maggiormente in agio. Avere il tempo (quando si può, quando è data
l’occasione di prendersele, al di là dei numerosi impegni che ognuno ha) per
attivare la curiosità sulla biodiversità: quali piante sono presenti nel rione e
nelle pericentralità, quali animali convivono con gli ecoidi umani e non solo gli
animali domestici portati più o meno maldestramente al guinzaglio, ma anche
animali più spontanei come uccelli, piccoli mammiferi e non solo: insetti,
farfalle, forme di vita minuscola ma interessante.
L’itineroesperienza residenziale può esercitare la stessa pratica del caring:
cogliere dove vi sono barriere architettoniche e ostacoli ambientali per disabili
e persone con problemi in genere e favorire, attraverso segnalazioni e
proposte, l’accessibilità e vivibilità del quartiere e della propria nicchia urbana.
Cogliere dove esistono zone con buona sicurezza e zone dove esiste disagio
sociale e attivarsi per rimuoverlo. Percepire la qualità (o la mancanza di
qualità) dei servizi (pulizia delle strade, conferimento dei rifiuti differenziati,
illuminazione idonea, deflusso delle acque piovane, stato di salute delle piante
in suolo pubblico, ecc.) e contribuire alla migliore gestione del contesto.
Dovrebbe valere il principio elementare ‘Se vedo, cammino, percorro, capisco
e partecipo alla promozione dell’esistente’. L’itinerante rionale è un presidio
per la sostenibilità dei luoghi, ma è anche una persona che apprezza e gode
delle cose ed aspetti positivi: l’aria che si percepisce sana e respirabile, il
verde che addolcisce e arricchisce il paesaggio urbano, la buona architettura
che si manifesta nell’evoluzione della città, la qualità della viabilistica,
l’introduzione di miglioramenti tecnologici innovativi e migliorativi, la
disposizione razionale dei servizi nei luoghi di più significativa accessibilità,
l’intensificarsi delle relazioni sociali, la scoperta di forme sempre nuove di
partecipazione per ridurre il fenomeno dell’atomizzazione del vissuto degli
abitanti orientati invece a farsi e viversi come comunità. L’itinerante rionale è
anche lo scopritore di percorsi e itinerari della zona ed è in continuo cantiere il
suo fare mappe del rione, anzi sempre più lo fa assieme ad altri e diffonde
anche il rito, quando può, di passeggiare per il rione come esperienza di
socializzazione con altri.
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3-
l’itineroesperienza ricreativa21
E’ la tipologia di itinerario che mira ad impiegare il tempo in forma ludica,
oppure legando il camminare e lo spostamento al piacere di conoscere e
osservare aspetti naturalistici o antropici oppure, ancora, è un modo per
indagare più a fondo la propria città e il proprio paese, facendo dell’itinerario
un’occasione per relazionarsi sempre più con i luoghi e con le persone che
frequentano i luoghi.
Avendo trattato altrove questo aspetto rinvio a quel precedente studio22. Lì
segnalavo alcuni approcci strutturali di riferimento che sintetizzo solo nel
tema: approccio estetico, salutista, economico, semiologico, storico-
paesaggistico.
E suggerivo anche una serie tipologica di percorsi: percorso del centro storico,
dei giardini urbani, delle mura (quando un insediamento ne sia dotato),
percorsi ripariali e dell’acqua, percorsi natura, percorsi architettonici, percorsi
delle periferie23. Riporto anche una proposta di definizione di itinerario e
percorso:
“Un percorso è un temporaneo progetto di connessione fra più luoghi per
esprimere azioni e relazioni tra persone e luoghi.
21
possono essere di vario tipo da quella motorio-sportiva a quella indeterminata del
flaneur a quella interessata agli aspetti conoscitivi e culturali dei luoghi che è prossima a quella
turistica, ma assume configurazioni più consuete e quotidiane in quanto si svolge nei pressi dei
luoghi in cui si è residenti in modo persistente o comunque non breve.
Queste itineroesperienze attivando l’integrazione tra attività fisica, attività cognitiva e in
non pochi casi anche di tipo socializzante quando si esplica in gruppo.
22
Righetto G. (1996)
Rapporto ecologico con la città
in AAVV Il Verde Urbano. Riconversione ecologica della città Piccin, Padova
Ora ripubblicato a cura di Luisa Calimani con la Anfione e Zeto.
23
Nello studio citato articolavo i percorsi delle periferie in ambiti tipologici, di cui riporto
solo la sequenza: periferia storica (fino agli anni 20 del 900), periferia vecchia (fino agli anni
50), periferia condominiale edilizia (fino ai primi anni 70), periferia condominiale architettonica
(anni 70/80), periferia degli organismi urbani (dagli anni 80 ad oggi), periferia perirurale e
periurbana, il fenomeni delle captazioni (fenomeni premoderni, in genere rurali, che vengono
inglobati nell’espansione urbana).
Nel testo indicavo anche alcune tipologie funzionali di percorso: il bird and animal
watching, il percorso conoscitivo e didattico a cui andrebbe aggiunto il percorso sportivo.
2
23. NuoviAbitanti
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Un percorso è solo strumentale quando serve per connettere un luogo di
partenza con un luogo di arrivo e tutto quello che esiste nel tragitto ha un
significato ed una incidenza nulli. In questo caso un percorso ha, in un certo
senso, un effetto tunnel: si imbocca una tracciato che ‘sotterra’ tutto il
paesaggio circostante per riaffiorare nel luogo funzionale di destinazione.” Ma
l’itineroesperienza vuol collocarsi esattamente su un altro scenario di
coinvolgimento e partecipazione e non di attraversamento soltanto funzionale.
l’itineroesperienza turistica
o dell’itinerario dell’altrove
Fare itinerari turistici o di trasferta significa incontrare l’esperienza del
dislocamento. Essa si riferisce alla condizione di chi si trova momentaneamente
trasferito da un luogo o rete di luoghi in cui è collocato come area di riferimento
residenziale ad un’altra in cui si immette trans-itoriamenete. Il concetto di tran-
ire è contemporaneamente un trans-ito spaziale e temporale. E’ un frattempo e
intervallo esperienziale.
Anche il concetto di transitorio è relativo: si può transire durante una sola
giornata e allora il trans-ito è corrispondente al transito solare (alba-tramonto).
In questo caso si configura come una giornata diversa, sottratta al ritmo delle
consuetudini24, ma non sconvolge i bioritmi consolidati.
Il transito di una giornata è più una interruzione del flusso temporale in cui si
presenta diverso sia il tempo che lo spazio.
E’ facile che si realizzi inizialmente lo spaesamento, ossia la perdita di
appartenenza al paese, al proprio pagus-villaggio e quindi una condizione di
momentanea o prolungata esperienza di non collocazione e appartenenza, da cui
possono scaturire condizioni di smarrimento e disagio. Ma è anche la ricerca di un
nuovo equilibrio e di un modo diverso di gestire il tempo e lo spazio
(ripaesamento).
Con il ripaesamento si stabiliscono modalità di gestione dei tempi e degli spazi
nuovi. In ogni caso, quando si ritorna al luogo di provenienza tutto ritorna
consueto dentro flussi temporali stabilizzati e itinerari ricorrenti.
Il diversivo di una giornata può essere l’occasione per rimettere in moto
un’identità ludica ed esplorativa che si erano sopite, perché il flusso dell’esistenza
24
Suesco è verbo che significa abituarsi ed assuefarsi, ossia è l’insieme delle azioni che
prendono un carattere di ricorsività e riproposizione costante. L’itinerario turistico è un processo
anticonsuetudinario, un dis-locare le consuetudini e quindi porre a situazioni di moderata o
elevata condizione inattesa.
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quotidiana si era troppo cristallizzato o accadevano troppi pochi eventi oppure
ancora accadevano .eventi stressanti e insopportabili con eccessiva densità.
Le persone possono sentire il bisogno di cambiare luogo e andare a vedere o
rivedere aspetti e situazioni graditi.
Molto spesso questo mutamento di scena corrisponde ad un itinerario
programmato in cui si vuole che accadano alcune cose e avvengano alcuni
contatti con luoghi, ma si è molto più disponibili di altre volte o per altri contesti
più consueti ad accogliere qualcosa di inaspettato.
Si vuole andare verso uno stupore atteso, ma anche uno stupore imprevisto. Lo
stupore viene assunto come stimolatore intenso del vivere e del sentirsi vivere,
esito di un repentino mutamento dei parametri cognitivi e comportamentali
vissuti come prevedibili e riconoscibili.
Ma può anche darsi il caso che la scelta del buttarsi in contesto nuovo e inatteso
non sia esito di scelte fatte completamente dai soggetti che si recano nel nuovo
contesto. Possono esserci casi in cui alcune persone si prendono cura di altri
perché questi sono in difficoltà o in carenza di alcuni aspetti funzionali e
relazionali. Vi possono essere persone con carenze cognitive per le quali
l’esperienza di un itinerario posto in contesto diverso o anche del tutto nuovo
può fornire dei processi di accelerazione e incentivo ad una serie di
apprendimenti e riadattamenti.
Possono esserci persone che passano momenti di disagio psicologico o
depressione o deprivazione relazionale per cui l’esperienza di un itinerario
facilitato e mirato può rivelare fattori positivi o addirittura terapeutici.
In questo caso le persone che organizzano e conducono l’esperienza devono
avere consapevolezza degli obiettivi da raggiungere e di alcune strategie da
mettere in moto perché queste assumano anche valenza terapeutica.
La situazione si fa ancora più diversa se ci si dis-loca non per una sola giornata,
ma per più giorni.
Allora l’esperienza si configura come “un intervallo di vita” e una evasione in
attesa di ritorno ad uno stato consueto. Molto spesso una dislocazione di più
giorni si configura come una vacanza. Ossia periodo in si è nella condizione del
vacuum, del vuoto da impegni di lavoro, di vincoli stabiliti da uffici, istituzioni e
norme stabilite. E’ la condizione dello svincolato e libero che usufruisce di una
festa.
Ma può trattarsi anche di breve periodo di lavoro svolto in contesti diversi. E’
quello che è definito trasferta25
.la trasferta è un breve periodo di vita dislocata altrove.
E’ da notare in trasferta, trascorrere, trasferire la ricorrenza del prefisso trans, l’oltre.
25
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Essa implica un luogo nuovo e temporaneo di residenza (spesso un albergo) in
cui tessere momentanee relazioni sociali e una serie di luoghi da raggiungere e
frequentare per ottenere obiettivi prestabiliti oppure obiettivi scoperti e
determinati una volta giunti nell’area di trasferta.
Un itinerario turistico è incentrato sul concetto e pratica dei luoghi di eccellenza.
Un itinerario, in tale situazione, è un processo connettivo di luoghi e situazioni
non ordinari.
Prevale la funzione dello spettatore rispetto a quella dell’attore coinvolto nel
contesto.
La strategie complessiva è quella dell’attivare lo stupore26.
Nella diade stupore-stupidità che talora si manifesta, occorre però trovare un
equilibrio che è riconoscibile nella capacità di incorporare le nuove esperienze non
solo nel campo delle vacanze, ma nel patrimonio cognitivo consueto. Il nuovo
arricchisce il precedente e si fa sistema. Il vacuum si trasferisce nel complexum.
Lo stupore è uno stato repentino che accoglie un cambiamento e una differenza
che per lo più non si sono cercati, anche se ci si è messi nella condizione e
l’atteggiamento che ‘qualcosa’ potesse accadere. L’elemento che attiva lo stupore
appare come fenomeno immediatamente interessante e piacevole. La mancanza
di piacevolezza invece provoca, nella forma estrema, timore e paura o comunque
una condizione di grave disagio che assale velocemente. Nei casi meno gravi
induce disadattamento, imbarazzo e ‘bisogno di rifare velocemente la mappa’.
26
Stupeo significa cogliere un cambiamento repentino ed imprevisto e quindi trarne uno
sconvolgimento cognitivo e delle abitudini, il che si traduce in un’occasione per ristrutturare i
propri apparati cognitivi ed operativi.
Non va dimenticato però che alla famiglia etimologica appartiene anche stupidus, perché
un repentino mutamento di percezione e di riferimento cognitivo e comportamentale può
causare anche una incapacità a far fronte alla situazione. Quando lo stupore è eccessivo, ossia
tutto può causare scompaginamento cognitivo e comportamentale, allora c’è una capacità
compromessa di adattamento e quindi una condizione di stupidità.
Nella diade stupore-stupidità occorre quindi trovare un equilibrio che è riconoscibile nella
capacità di incorporare le nuove esperienze non solo nel campo delle vacanze, ma del
patrimonio cognitivo consueto . Il nuovo arricchisce il precedente e si fa sistema .Il vacuum si
trasferisce nel complexum.
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Un caso particolare di stupore positivo è la serendipità27: si va incontro ad una
esperienza attesa e si avverte inaspettatamente che si impatta con dell’”altro” o
‘anche ‘ con dell’altro imprevisto, ma interessante.28
L’itinerario è aperto alla serendipità se intanto si pone come proposta non
rigidamente monotematica. E cioè non solo d’arte o approccio a fenomeni
naturalistici o impianti tecnologici o a situazioni e fenomeni sociali o storici o
architettonici o urbanistici o commerciali. La proposta andrebbe piuttosto
orientata a provocare connessioni varie, inducendo ad un itinerario meticciato.
Le esperienze della contaminazione, dei collegamenti spuri, delle convivenze
cognitive insolite, sono condizioni fortemente favorenti esperienze vive di
serendipità e di itinerari meticciati.
Se le esperienze vengono fatte fra più persone con competenze e attitudini
diverse, allora il gioco meticciato e serendipico si fa anche più facile e possono
essere colti aspetti inaspettati durante un itinerario, proprio perché le differenti
personalità avvertono e captano differenze diverse, ma nel porre sottolineature
distinte inducono reazioni non prefigurate e precostituite.
4-
l’itineroesperienza relazionale e di appartenenza a gruppi
Non va trascurato l’aspetto che già è affiorato più volte nel nostro dipanare
questioni relative all’itineroesperienza e cioè che essa può avere un notevole
27
Serendipity – che secondo l’Oxford English Dictionary è la facoltà di compiere
casualmente felici e inaspettate scoperte – è u termine che nasce come invenzione letteraria,
essendo stato coniato dal romanziere Horace Walpole in una lettera a Mann del 28 gennaio
1754, prendendo spunto dal racconto persiano ‘i tre principi di Serendip?, provenienti cioè da
Serendip o Serendib, antico nome arabo dell’isola di Sri Lanka e che avevano appunto il dono di
fare scoperte per caso. In sociologia l’espressione deve la sua fama principalmente a Robert K.
Merton . Egli definisce come serendipity l’esperienza, abbastanza comune, consistente
nell’osservare un dato imprevisto, anomalo o strategico che fornisce occasione allo sviluppo di
una nuova teoria o all’ampliamento di una teoria già esistente. Un’applicazione del concetto agli
studi urbani è stata proposta dall’antropologo Ulf Hannerz che, senza usare il termine
serendipity, connette il particolare carattere culturale della città al suo essere luogo dove si può
trovare una cosa mentre se ne cerca un’altra.
La serendipity, sostiene Alfredo Mela, si addice alla città perché questa, grazie alla sua
complessità e all’eterogeneità degli elementi che la compongono, lascia sempre aperta la
possibilità di sintesi culturali felici ed impreviste.
28
La serendipità applicata alla città è stata sondata da
Hannerz H. (1992)
Esplorare la città. Antropologia della vita urbana.
Il Mulino, Bologna
2
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significato relazionale e comportamentale quando viene vissuta in gruppo e con
più persone. Può anche non avere un itinerario precostituito in senso più o meno
strutturato e può porsi come un normale e generico passeggiare.
Precisa acutamente Rebecca Solnit che ‘pensare è generalmente concepito come
far niente, e il fare niente è difficile da fare .La via migliore per realizzarlo è di
mascherarlo nel ‘far qualcosa’, e ciò che più si avvicina al fare niente è il
camminare . Camminare è in sé l’atto volontario più vicino ai ritmi involontari del
corpo: il respiro e il battito del cuore . Stabilisce un delicato equilibrio tra il
lavorare e l’oziare, tra il fare e l’essere . E’ una fatica fisica che produce
nient’altro che pensieri, esperienze, arrivi . Dopo tanti anni di camminare per
elaborare altre cose, aveva senso tornare a lavorare vicino a casa - il senso
indicato da Thoreau29 [‘Una fattoria isolata, mai vista prima, può avere lo stesso
fascino dei domini del Re del Dahomey . Ed effettivamente è possibile scoprire
una sorta di armonia tra le risorse di un paesaggio entro un raggio di sei miglia, o
i limiti di una passeggiata pomeridiana, e i settant’anni della vita umana. Né gli
uni né gli altri vi diverranno mai troppo familiari.’] – e lì riflettere sul
camminare.”30
Passeggiare in gruppo riconduce all’esperienza primaria del branco: ci si muove
sentendosi una personalità plurale e quindi non una somma di individui disgiunti
e isolati.
Nel muoversi a piedi a conformazione di branco si è portati a mantenere delle
distanze interne al gruppo o più precisamente esiste una prossemica di gruppo.
Un gruppo itinerante ha una sua identità se sa mantenersi compatto e quindi tra
chi sta in posizioni avanzate e quelli che stanno in posizioni arretrate non vi è una
significativa lontananza e si mantiene capacità di interagire fra tutti i componenti
del gruppo. Gli spostamenti avvengono con forme condivise sia con forme
verbali, che gestuali o semplicemente legate al mantenimento della morfologia
non dispersa del gruppo.
Ogni gruppo si sposta mantenendo una sua struttura intrinseca o meglio
veicolando un proprio spazio sociale.
Vi sono coloro che svolgono un ruolo di leadership e lo esplicano segnalando la
direzione, favorendo una tempistica degli spostamenti, suggerendo o ponendo il
ritmo dell’andatura.
La leadership può essere di varia tonalità: si va dalla leadership autoritativa
(nella forma più drastica si conforma come leadership autoritaria) quando la
Thoreau T.H. (1999) ( a c. di F.Meli)
29
Camminare
SE, Milano p. 9
Solnit R. (2002)
30
Storia del camminare
Paravia B.Mondadori, Milano p. 5
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decisionalità su tutte le cose è quasi esclusivamente (o esclusivamente ) affidata
alla leadership. Il fenomeno può affermarsi anche perché si instaura negli altri
componenti del gruppo un meccanismo di delega deresponsabilizzante.
Si ha una leadership partecipativa quando invece le decisioni sono l’esito di una
negoziazione ed accordo e quando la competenza decisionale fluttua fra diverse
persone a seconda delle questioni affrontate.
Vi sono poi persone che contribuiscono ad attivare il tono affettivo e relazionale
del gruppo e stimolano con la gestualità, le parole, le battute e il comportamento
accentuando l’autoironia del gruppo e la componente ludica e gaia.
Vi sono i soggetti che svolgono ruoli solidaristici, perché danno aiuto a chi è
incerto o insicuro nel mantenere il ritmo del gruppo itinerante. Ci sono coloro che
tendono a individualizzare i rapporti e allora frammezzano l’adesione al gruppo al
tentativo e alla pratica di fare attività di coppia o di piccolissimo gruppo. Costoro
possono compromettere la saldezza del gruppo quando tendono a non avere una
concezione unitaria del gruppo, ma possono invece essere un vero fattore
positivo quando diluiscono la sensazione di direttività che talora il. gruppo può
vivere e si articolano così gli stadi e gli strati di partecipazione, facendo
dell’esperienza del gruppo un momento complessivo in cui compattezza,
individualismo, rapporti duali e piccole distinzioni rendono il vissuto sociale del
gruppo meno denso e omogeneo e introducono fattori di sostenibilità e diversità
negli stati relazionali.
Vi possono essere persone che svolgono il ruolo di sottolineatori degli eventi,
quando accentuano la loro personale sorpresa o entusiasmo per accadimenti
emersi durante l’itinerario, in tal modo offrono un tono emotivo sostenuto al
gruppo e rendono più intenso l’insieme di fenomeni di apprendimento e di
acquisizione di competenze all’interno del gruppo.
Se però l’emotismo si fa troppo acceso, allora la coerenza del gruppo può essere
compromessa o perché di fronte alle incertezze, insicurezze e paure i catalizzatori
dell’emotismo possono dilacerare le situazioni o perché possono rendere labile la
capacità di prendere decisioni sia alla leadership autoritativa che a quella
partecipata. Ecco allora che è importante vi sia nel gruppo itinerante anche la
figura o le figure dei distributori di smorzamento dei toni e gestori di un tasso di
indifferenza.
Se la leadership, ad esempio, eccede in autoritatività o dilata troppo i tempi e gli
sforzi di spostamento, i distributori di smorzamento dei toni possono svolgere un
ruolo calmieratore, mirando all’omeostasi dello stato di benessere del gruppo.
Certamente persistono sempre dei soggetti che hanno una propensione minore a
partecipare e a svolgere un ruolo attivo nel gruppo o perché assumono
strutturalmente la condizione costante del gregario o perché non riescono ad
esprimere in modo sereno l’incompatibilità di quello che il gruppo sta facendo
rispetto alle loro possibilità reali.
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Ecco allora che il gruppo dovrebbe essere capace, durante l’itinerario, di svolgere
ruoli di continua ricalibrazione dei rapporti interni al fine di fare per tutti
dell’itineroesperienza una dimensione gratificante e positiva con ritmi e intensità
flessibili e sostenibili per tutti.
Chi fa itineroesperienza dovrebbe un po’ cogliere anche questo insieme di
problemi relazionali e pertanto mediare tra obiettivi concreti mirati a dei fare e il
raggiungimento di siti con spostamenti idonei.
La leadership dovrebbe non essere oppressiva, ma capace di cogliere tensioni e
problemi, pronta ad orientarsi nella risoluzione più con atteggiamenti negoziatori
che con decisionalità verbali nette e soprattutto si dovrebbe manifestare un gioco
di squadra con la componente attiva soprattutto tra i manutentori del gruppo.
Il ruolo riattivizzante andrebbe rivolto a tutti, soprattutto a quanti richiedono e
hanno bisogni di forme di itineroesperienze meno intense.
Ecco allora che l’itineroesperienza vissuta come branco andrebbe intesa come
convivenza sostenibile, plastica e flessibile, dotata di forme di
cooperazione/competizione, fedeltà al compito e deregulation, convinzione e
autoironia, intensità e rilassamento, tensione realizzativa e piacere
contemplativo, apprendimento e perder-tempo.
Non dovrebbe insomma sfuggire che l’itineroesperienza è un importante
momento di vissuto sociale di apprendimento ed evoluzione alla strutturazione
del pensiero e pratica sociali31.
Conclusione. O meglio no: in cammino!
Itineroesperienza dunque, ma itineroesperienza costruita con i passi. E allora non
mi resta che ricordare come Edmund Husserl nel 1931 in Il Mondo-della-Vita- e
la costituzione del Mondo esterno circostante individuava l’atto del camminare
come l’esperienza che consente al corpo di mettersi in relazione con il mondo. Il
mondo costituisce ciò che è sempre stato, mentre il corpo in movimento coglie le
sue parti come un persistente ‘qui’ che va verso e attraverso dei distinti ‘là’. Ciò
che si sposta è il corpo, ma quello che effettivamente cambia è il mondo e l’atto
dello spostamento permette di distinguere una dimensione dall’altra.
Ma forse conviene concludere citando ancora una volta Rebecca Solnit:
31
Non va dimenticato, che nei termini qui indicati, l’itineroesperienza può essere impostata
come una significativa pratica di terapia per sviluppare e promuovere atteggiamenti relazionali
in soggetti che presentino momenti di difficoltà o carenza o abbiano bisogno di forme
rieducative dell’intelligenza spaziale o per sviluppare capacità di negoziazione e convivenza..
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“Il camminare restituisce il corpo ai suoi limiti originari, a qualcosa di flessibile,
sensibile e vulnerabile, ma il camminare in sé si prolunga nel mondo proprio
come gli strumenti [prodotti dall’uomo] prolungano il corpo. Il sentiero è
un’estensione del camminare, i luoghi destinati al camminare sono i monumenti
di questa ricerca, e il camminare è un modo per costruire il mondo come anche
per vivere con esso. Perciò il corpo che cammina può essere rintracciato nei
luoghi che ha creato: sentieri, parchi e marciapiedi sono tracce dell’esternazione
dell’immaginazione e del desiderio; bastoni da passeggio, scarpe, mappe,
borracce, zaini sono ulteriori risultati materiali di quel desiderio. Il camminare
condivide con il fabbricare e il lavorare quell’elemento di impegno cruciale del
corpo e della mente con il mondo, di conoscenza del mondo attraverso il corpo e
del corpo attraverso il mondo.”32
Detto così stringatamente, e in meglio, è quel che in fondo questo lavoro voleva
suggerire. L’itineroesperienza è una modalità per estendere e scoprire l’identità
delle persone in cammino.
Padova 18 novembre 2002/ marzo 2004-03-01
Solnit R.
32
op. cit. p.32
3