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Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia


                   FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA


              CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN
   TEORIA E METODOLOGIA DELLA RICERCA ANTROPOLOGICA
                      SULLA CONTEMPORANEITÀ



           FOLKLORE NUZIALE E IDENTITÀ SARDA
              L’ANTICO SPOSALIZIO SELARGINO




                                                 Prova finale di
                                                 Francesca Salis
Relatore
Prof. Fabio Viti




Correlatore
Prof. Gino Satta




                     Anno Accademico 2005/2006
Indice

INTRODUZIONE                                                                           5
Tradizione e tradizionale                                                              6
Dal dato folklorico al bene culturale attraverso la valorizzazione turistica           8
Identità, appartenenza. Il paese                                                      10
Strategie e segni dell’appartenenza                                                   14
Note sulla ricerca: posizione etnografica e metodologia della ricerca                 15

1      “DELLE USANZE MARITALI” NEL CAMPIDANO DI CAGLIARI                              21
1.1         Premessa                                                                  21
1.2         Su fastigiu - Il corteggiamento                                           25
1.3         La figura del paralimpu                                                   27
1.4         Sa pregunta - La domanda della sposa                                      29
1.5         Fidanzamento o matrimonio?                                                30
    1.5.1     La risposta della Chiesa romana                                         33
    1.5.2     Le coabitazioni                                                         35
1.6         L’esame dei contraenti                                                    37
1.7         Su trasferimentu de is arrobas - Il trasporto del corredo                 40
1.8         La benedizione degli sposi e il corteo nuziale                            44
1.9         La cerimonia del matrimonio                                               45
1.10        Il ritorno del corteo nuziale. L’usanza detta s’arazza o de sa razia      48
1.11        Su cumbidu - Il banchetto nuziale                                         49

2 LA TRADIZIONE NELLA RAPPRESENTAZIONE DEI MATRIMONI
ALLA SARDA                                                                            53
2.1         Le componenti tradizionali della festa                                    59
    2.1.1     Il rituale della vestizione                                             59
    2.1.2     Il commiato dai genitori                                                61
    2.1.3     Il corteo nuziale                                                       64
    2.1.4     Dopo il rito ecclesiastico                                              67
    2.1.5     La classificazione di Pirisinu                                          71
    2.1.6     Il trasporto del corredo e Sa coja antiga ussassesa                     72
    2.1.7     Le particolarità di Su Hujviu Ulianesu - L'Antico Matrimonio Olianese   75
2.2         Le fonti etnografiche                                                     77
2.3         Matrimonio tradizionale?                                                  81

3      TRA FASCISMO E VALORIZZAZIONE TURISTICA REGIONALE                              85
3.1         Il racconto degli informatori                                             86
    3.1.1     Tasselli diversi di un unico mosaico?                                   88
3.2         Lo studio del folklore                                                    89
3.3         Il foklorismo fascista                                                    91
    3.3.1     Analogie tra Matrimonio Selargino e foklorismo fascista                 95
    3.3.2     La festa dell’Uva                                                       97
3.4         La valorizzazione turistica dell’isola                                    98
4     LA MESSA IN SCENA DELLA “SELARGINITÀ”                                   105
4.1         Da borgo del contado a città dell’hinterland                      105
    4.1.1     L’economia selargina nell’Ottocento                             105
    4.1.2     Boom demografico e abbandono dei campi                          106
    4.1.3     L’abbandono delle feste tradizionali                            112
    4.1.4     Appendici di Cagliari?                                          115
    4.1.5     La reazione selargina                                           116
4.2         Una tradizione “tipicamente selargina”                            121
    4.2.1     Lo spessore temporale della festa                               122
    4.2.2     Bistiri a sa sarda a Selargius                                  122
    4.2.3     Sa cadena de anca, la catena rituale del Matrimonio Selargino   136


5     IL FOLKLORE COME RICHIAMO TURISTICO E IDENTITARIO                       143
5.1         Finanziamenti e spese                                             145
5.2         Il tempo della festa                                              151
5.3         Lo spazio della tradizione                                        154
    5.3.1     Percorrendo il passato                                          154
    5.3.2     Sa domu cerexina – La casa selargina                            161
    5.3.3     E se si trasferisse tutto a San Lussorio?                       165
5.4         La partecipazione di gruppi in costume                            168
5.5         Quale lingua?                                                     175

BIBLIOGRAFIA                                                                  185




4 ▪ Indice
Introduzione
               Sappiate adunque, ch' egli v'ha in Sardegna una quantità di costumi ricca di
               considerazioni, d'aspetti, e di riguardi, che non furono ancora posti sotto la
               speculazione della filosofia […]. Laonde i moderni Etnografi, che pei faticosi e
               incerti studi […] tanti rischi si mettono, e tante migliaia di leghe divorano, qui
               vicino nel seno del Mediterraneo, senza tanto travaglio, verrebbero al
               pienissimo loro intendimento. Ivi non molto discosto dalle marine d'Italia
               troverieno di che render paghi i desideri loro, meglio che nelle giogaie del
               monte Tauro, del Caucaso, e del Tibet […]. Bresciani, Dei costumi dell’isola di
               Sardegna, 1850

Il lavoro qui presentato intende proporre una lettura etnografica delle modalità di
produzione e costruzione di una tradizione e di un’identità locali all’interno di processi
storici e sociali di portata più ampia, messe in atto in un’area dell’hinterland del
capoluogo sardo attraverso l’organizzazione di una manifestazione folkloristica relativa
alle locali usanze nuziali.

I matrimoni folkloristici sono un fenomeno culturale sardo ancora inesplorato, di cui si
fornisce una prima contestualizzazione generale. La riproposta delle tradizioni sarde
relative alle usanze matrimoniali messe in scena in una manifestazione folkloristica
quale “L’Antico Sposalizio Selargino”, ma anche in altre simili manifestazioni
organizzate in altri paesi dell’isola, si presenta come oggetto di studio di particolare
interesse per analizzare e verificare sul campo alcuni dei temi dominanti della ricerca
antropologica: tradizione, identità, turismo.

La ricerca sul campo si sofferma in maniera prevalente su uno solo di questi
“matrimoni alla sarda”, attraverso il quale vengono mostrate le forme di produzione
della tradizionalità legate alla costruzione di un sentimento di appartenenza locale, a
loro volta connesse a processi intellettuali, politici, sociali ed economici di portata più
ampia. Uno studio che intende, da una parte, analizzare i modi di costruire un
sentimento di appartenenza comunitaria e dall’altra le dinamiche e gli effetti che tale
costruzione mette in atto.

Le interpretazione locali della tradizione rappresentano strategie di elaborazione di una
identità locale e nello stesso tempo della relazione di quest’ultima con i più ampi
contesti regionale, nazionale, europeo. Il doppio (se non triplo) piano interpretativo
secondo cui sono esaminati molti degli elementi che caratterizzano la manifestazione è
l’effetto più evidente della compresenza di locale e globale. Si interpreta per sé e per i
propri fini, ma anche in base all’idea che ci si fa delle aspettative degli Altri, categoria
che include da una parte i sardi (esterni al paese), dall’altra i turisti (“continentali” o
stranieri).


Tradizione e tradizionale
In quanto evocazione del passato, la rappresentazione folkloristica, si pone non solo
come ricostruzione o riproposta autentica e fedele della tradizione, ma anche come
forma di “salvaguardia e difesa della tradizione”. Dagli anni ’80 del secolo scorso la
nozione di tradizione è stato oggetto di ampio dibattito antropologico il quale ha
determinato uno spostamento nell’orientamento teorico ed empirico della disciplina
folklorica o demologica, nella sua accezione di “studio della tradizione”. Attualmente la
nozione di tradizione non è più intesa come eredità culturale accettata passivamente
dai contemporanei per un suo valore intrinseco, quanto piuttosto

   “a process of interpretation, attributing meaning in the present though making
   reference to the past” [Handler, Linnekin, 1984:287],
   ”un meccanismo di selezione, e anche di invenzione, proiettato verso il passato
   per legittimare il presente” [Canclini, trad. it. 1998:160],
    “una strategia fondativa” [Ariño, 1997:14],
   “un punto di vista che gli uomini del presente sviluppano su ciò che li ha
   preceduti, una interpretazione del passato condotta in funzione di criteri
   rigorosamente contemporanei […] un processo di riconoscimento di paternità”
   [Lenclud, 2001:131]

La disciplina non può allora limitarsi allo studio di ciò che preventivamente è stato
etichettato come tradizionale, bensì cogliere i processi attraverso cui si giunge alla
costruzione di oggetti che si pensano dotati di tale proprietà. L’obiettivo di questo
lavoro non è studiare la manifestazione folkloristica in quanto oggetto dotato di
tradizione, l’interesse non è rivolto ai comportamenti tradizionali come dati, quanto
piuttosto come prodotto finale di pratiche sociali e di strategie discorsive. Oggetto della
ricerca è la comprensione delle concrete modalità degli usi della tradizione, il come e il
perché della conservazione nel presente, nonché il senso e l’effetto sociale prodotto.
Attraverso quali strategie di valorizzazione e di attribuzione di senso la tradizione si
impone come insieme oggettivo di dati di fatto? Come viene utilizzata, da quali attori
sociali, in quali contesti? Per quali motivi?

In questo senso, si è cercato di andare oltre l’impostazione di Hobsbawm e Ranger
[1982]: sappiamo ormai che “tradizioni e identità, sentimenti nazionali e immaginari



6 ▪ Introduzione
regionalisti, paesi e storie locali, pensieri e oggetti tipici sono invenzioni” [Palumbo,
2003:13]. Con il termine “invenzione” non si intende però implicare che la comunità
inventata sia falsa, l’antropologia sembra aver definitivamente chiarito che invenzione
non equivale a falsità1. È un dato acquisito che la forza della tradizione non si misuri
sulla base del criterio dell’esattezza della ricostruzione storica [Lenclud, 2001:132]. I
contenuti della memoria possono essere inventati, possono ignorare il passato o
negarne la complessità. Tale consapevolezza ha permesso di mettere in secondo
piano il problema dell’autenticità, quindi di aprire la ricerca ai fenomeni cosiddetti
folkloristici o di revival, che l’approccio classico escludeva o cercava di gestire
separando i tratti “autentici” da quelli “inventati” e ricorrendo a categorie sfuggenti
come quelle di relitto, persistenza, recupero2.

La dimensione fittizia delle appartenenze non va vista in termini di verità o falsità
[Gallini (a cura di), 2003:19; Anderson, trad. it. 1996:25]. L’attenzione degli studiosi
dovrebbe piuttosto concentrarsi sulla capacità di dire ”il vero anche quando dice il
falso”, non “di corrispondere a dei fatti reali, o di riflettere ciò che è stato, quanto di
enunciare delle proposizioni assunte, in definitiva, in anticipo come consensualmente
vere” [Lenclud, 2001:132]. Se l’appartenenza, come nel caso studiato, si costruisce
come forma di riferimento a un passato comune, trasmesso attraverso la modalità
esplicita della rappresentazione pubblica, il suo punto nevralgico è la forza
dell’interpretazione del passato proposta. Qual è dunque l’immaginario di cui si nutre
un fenomeno come il Matrimonio Selargino? Quali sono le proposizioni assunte come
vere? Su quali discorsi, oggetti, gesti, basa la sua capacità di essere accettata e
vissuta come emotivamente coinvolgente, incorporata, vera?

Poiché “non è tuttavia mai inutile saperne un po’ di più sui materiali di cui il presente si
impadronisce per costituirne una tradizione” [Lenclud, 2001:132] e poiché un
sostanziale accordo presenta tali manifestazioni come fedeli rappresentazioni di un
modo tradizionale di fare le cose di cui si conservano dei frammenti, il primo capitolo
getta uno sguardo sul tradizionale prototipo cui fanno riferimento i matrimoni
folkloristici. In particolare, ho cercato di restringere lo studio alle usanze relative al
Campidano di Cagliari, per tentare un’analisi più specifica della rassegna selargina,
senz’altro la più significativa.


1
    Si vedano a questo proposito gli articoli di Handler, Linnekin, 1984 e Hanson 1989 e 1991
2
    Una definizione di queste categorie si trova in Delitala,1992




                                                                                         Introduzione ▪ 7
Nel secondo capitolo vengono invece descritti i tratti tradizionali che costituiscono il
Matrimonio Selargino nella sua concretezza. Non si tratta tanto di un tentativo di
descrizione della festa quanto di analisi degli elementi messi in scena. Da una parte
questi sono stati messi a confronto con la tradizione nuziale in area campidanese,
dall’altra con gli altri matrimoni folkloristici presenti in Sardegna. Tale strategia ha
permesso di far emergere l’arbitrarietà nella scelta operata dai costruttori della
tradizione, per cui sulla base di un canovaccio simile si ottengono messe in scena
differenti, a seconda degli aspetti che si decide di privilegiare in termini di tempo e
spazio.


Dal dato folklorico al bene culturale attraverso la valorizzazione
turistica
Non tutto ciò che viene dal passato è considerato degno di essere conservato,
trasmesso culturalmente o valorizzato come tradizionale. La nozione di tradizione
rimanda piuttosto all’idea di un ambito determinato di fatti, un deposito culturale
selezionato.

Alcuni studiosi, ad esempio Lenclud, hanno visto nel processo di tradizionalizzazione la
scelta consapevole, arbitraria e strumentale per cui “ogni gruppo, ogni entità sociale si
procura la propria tradizione, andando ad attingere dal passato il vessillo che più gli
conviene” [Lenclud, 2001:133]. Altri, come Dei, hanno criticato questa impostazione,
mettendo in dubbio la consapevolezza della strumentalità del processo, nonché
l’arbitrarietà della scelta, che “non tutte le tradizioni, in un certo contesto storico-
sociale, sono ugualmente suscettibili di essere inventate” [Dei, 2002:87].

Nel caso in questione, le motivazioni emerse a livello locale non appaiono sufficienti a
spiegare la nascita di una festa come il Matrimonio Selargino. La manifestazione è uno
dei primissimi esempi di valorizzazione del folklore sardo, sorta in un periodo, gli anni
’60 del secolo scorso, in cui il richiamo alla tradizione stentava ancora ad acquisire
quella connotazione positiva che costituisce il requisito fondamentale del suo costituirsi
come bene culturale etnografico. Solo inserendo la manifestazione nel più ampio
contesto delle politiche culturali intraprese durante il fascismo prima e di quelle
adottate dalla Sardegna in seguito all’istituzione quale regione autonoma poi, è
possibile comprendere le motivazioni che inizialmente portarono alla proposta di una
manifestazione di questo tipo.




8 ▪ Introduzione
Nel terzo capitolo ho quindi cercato di dare conto, almeno in parte, delle dinamiche
storiche e culturali che hanno dato luogo al processo di “turisticizzazione del dato
folklorico”, segnalato, forse per la prima volta, da Gallini nel 1971, cioè al recupero in
un contesto diverso degli elementi della tradizione, trasformati in spettacolo per i turisti.

Si noti che se molti aspetti del folklore sardo sono sopravvissuti sino ad oggi, la ragione
va ricercata anche nell’aver concepito il folklore come un’importante risorsa fonte di
richiamo turistico. Non è un caso dunque, che la valorizzazione delle tradizioni si
presenti storicamente in strettissima connessione con la promozione turistica. La
stessa gestione del folklore è stata affidata agli enti di promozione turistica. Da una
parte la Regione, che si è preoccupata di stabilire leggi apposite di salvaguardia
istituzionale e finanziamento pubblico, dall’altra i vari enti, a tutti i livelli istituzionali
(dall’Esit alle Pro Loco, passando per Ept e Aziende di Soggiorno), che si occupano
della distribuzione dei finanziamenti, gestendo, patrocinando, reinventando feste e
sagre “tradizionali”.

In generale sono state quelle feste a carattere devozionale che ancora resistevano,
con difficoltà, nei vari centri, le prime espressioni di folklore valorizzate e finanziate dai
vari enti regionali. Ma sin dall’inizio, si è cercato anche di incoraggiare la creazione di
nuove feste che potessero essere oggetto di interesse turistico. Un esempio è appunto
il   Matrimonio   Selargino,    una    manifestazione     folkloristica   che   nasce    come
rappresentazione di aspetti di vita tradizionale per l’intrattenimento dei turisti.

“Spettacolo folkloristico”, “rievocazione”, “ricostruzione storica” “rassegna”, “sagra”,
“kermesse”, “festa”: l’assenza stessa di un’unica espressione per designare questi
eventi è un sintomo del loro non essere facilmente riconducibili a un’unica categoria di
analisi e di comprensione. Una precisazione terminologica: come si vedrà, ho scelto di
indicare le feste oggetto di studio con gli stessi nomi con cui sono indicate dal pubblico
e dagli organizzatori, lasciando cadere la distinzione tra folklore e folklorismo. La
decisione è stata presa sulla base di due motivazioni principali. La prima è che il
fenomeno Matrimonio Selargino - ma il discorso mi sembra possa essere esteso anche
agli altri “matrimoni alla sarda” - non mi pare possa essere analizzato efficacemente se
studiato come esempio di folklore trasformatosi in folklorismo. Non si tratterebbe cioè
della trasposizione dal piano della realtà vissuta a quello della rappresentazione
spettacolare, una consapevole manipolazione, una trasformazione strumentale del
materiale folklorico per scopi diversi da quello per cui è stato creato. Il Matrimonio
Selargino è piuttosto un prodotto pensato sin dall’inizio per la fruizione da parte di un




                                                                                Introduzione ▪ 9
osservatore esterno, che riprende gli elementi del folklore (balli, canti, musiche,
vestiario) che si pensa possano incuriosirlo maggiormente. Non solo vengono ripresi
elementi caduti in disuso o abbandonati completamente da tempo, ma il cui
accostamento simultaneo sulla scena non ha riscontro con una ricostruzione verosimile
del passato. Non si dovrebbe guardare alla manifestazione come un caso di messa in
spettacolo di ciò che prima spettacolo non era, quanto piuttosto come un caso di
spettacolarizzazione tout court, cioè come scelta e realizzazione di qualcosa
appositamente       per   essere   esibito,   per   attrarre   l’attenzione   su   di   sé.   La
rappresentazione non evoca la realtà passata che si dice rappresentare, evoca
piuttosto un’immaginaria realtà passata mai esistita, ma che appare verosimile per la
presenza dei simboli (attuali) dell’identità. La seconda motivazione è che nei discorsi
degli informatori i termini folklore e folkloristico sono usati alla stregua di sinonimi, il
termine folkloristico non ha quella valenza negativa e svalutante assegnatagli da
Cirese [1974:63], così come neppure mi è sembrato averla il termine turistico. La
distinzione è stata avanzata solo da parte di alcuni informatori locali “colti”, per
suggerirmi di distogliere l‘attenzione da un oggetto di ricerca non degno di seria
attenzione. I termini folkloristico e turistico, utilizzati per segnalare i prodotti culturali
non autentici, appaiono in questo contesto i referenti di una demarcazione accademica
per ciò che merita di essere preso in considerazione dagli scienziati sociali.


Identità, appartenenza. Il paese
Nata come festa per i turisti, col tempo la manifestazione si radica nel paese e ne
modella l’autorappresentazione secondo i dettami dello sguardo turistico. Il paese è la
prima dimensione di appartenenza a cui ora fa riferimento la festa, ma non è l’unica,
poiché inserita in quella più ampia dell’identità isolana.

Con i termini identità e appartenenza, si intende fare riferimento alle strategie di
identificazione (o di differenziazione) di individui e gruppi. Prendendo a prestito le
parole di Gallini, il termine appartenenza rinvia ”alla dimensione soggettiva dei
costruttori, in quanto attori sociali, e alle diverse, concrete situazioni al cui interno si
mettono in atto procedure di condivisione o di competizione per definire appartenenze,




10 ▪ Introduzione
esclusioni, inclusioni”3. Anche Clemente, scrivendo dell’identità locale, ne mette in luce
la connessione con la dimensione dell’individuo, più che con quella del gruppo
[Clemente, 1997:22]. Entrambi fanno riferimento all’espressione demartiniana di patria
culturale, un “prodotto culturale mai definito una volta per tutte” che rinvia, sul piano
soggettivo, “al duplice ordine delle fedeltà e delle scelte” [Gallini (a cura di), 2003:7],
alla “possibilità paradossale di scegliersi le radici” [Clemente, 1997:23].

La prima e principale forma di appartenenza indagata in questo lavoro è quella di
paese. “L’Isola ha una capitale che possiede un suo contado e poi, lontani, ci sono
tanti piccoli regni disuniti, trecentosessanta comuni”, scrive Todde [2006:30]. Selargius
è uno dei paesi del “contado”, la cui politica culturale può essere letta come tentativo di
resistenza e salvaguardia della propria autonomia e identità dall’inglobamento da parte
della “capitale”. La prima parte del quarto capitolo fornisce i dati sui notevoli
cambiamenti subiti dal paese nel giro di pochissimi decenni,                       i quali potrebbero
spiegare l’attaccamento a una manifestazione che si caratterizza anche come ricerca
di un passato perduto, un recupero nostalgico di memorie che dia il senso di una
continuità culturale là dove al contrario si è vissuta una profonda discontinuità.

Nella sua ripetizione annuale l’evento si traduce in atto simbolico che operando una
congiunzione di passato e presente fonda la comunità di paese definendola nei suoi
termini sociali, politici e religiosi. Selargius è un paese non in ragione delle dimensioni
dell’abitato (che allora sarebbe più giusto definirla città) quanto piuttosto in riferimento
agli sforzi compiuti per definirsi come “primo centro di riferimento e relazione a una
cultura ibrida e molteplice” [Clemente, 1997:39], quindi in sintonia con l’analisi di
Clemente del concetto di paese nel nostro Paese, “un mondo della memoria e
dell’identità comune” [ivi:24], nonché “una realtà dell’immaginazione” [ibidem].

Il richiamo alla dimensione immaginativa è piuttosto frequente nei lavori che si
interessano dei processi di costruzione delle appartenenze. Il concetto di comunità
immaginate è di Anderson, che lo applica all’idea di nazione mentre sembra negarne
l’applicazione a quelle entità più piccole dove tutti i membri si conoscono tra di loro4.
Messa da parte questa distinzione, oggi prevale l’impostazione che ritiene che ogni
appartenenza, a qualsiasi livello, contenga un’importante dimensione immaginativa. “Di


3
  Presentazione di Gallini in id. (a cura di), 2003:12. In questo lavoro i termini identità e appartenenza
sono usati per lo più in modo interscambiabile, mentre per Gallini il primo si distingue dal secondo per
“le eventuali implicazioni psicologiche”.




                                                                                        Introduzione ▪ 11
fatto, ogni appartenenza esiste e si manifesta attraverso un lavoro sociale di
produzione dell’identità e della differenza, cioè attraverso l’attivazione di modalità –
immaginarie e pratiche – atte a indicare che questo o quello è un gruppo, e come tale è
dotato di determinate caratteristiche che lo rendono differente da un altro” [Gallini (a
cura di), 2003:7].

L’immagine costruita attraverso il Matrimonio Selargino si inserisce pienamente nel
discorso tracciato da Palumbo sulla “produzione di spazi culturali autentici, oggettivati
all'interno del mercato delle identità turistiche: una comunità, una storia, un'identità, un
patrimonio” [Palumbo, 2003:285]. Un’immagine turistico –commerciale capace di agire
in scenari ben più ampi di quello locale, una risorsa di cui si è capito quasi subito il
potenziale economico e di prestigio sociale.

Ed ecco che, appena è stato possibile, la festa, riguardante una tradizione
genericamente “sarda”, organizzata inizialmente dalla sezione provinciale dell’Enal,
diventa la “nostra” festa, la festa delle tradizioni selargine, il cui controllo viene assunto
interamente dalle organizzazioni del paese (a questo scopo si provvede a fondare la
Pro Loco). Se uno dei problemi fondamentali per la costruzione delle appartenenze è la
necessità di autenticarsi mediante un’interpretazione del passato che sia accettata dai
membri della comunità, l’abilità dei selargini è stata quella di appropriarsi di una festa i
cui contenuti erano stati già da tempo oggettivizzati da diversi, importanti intellettuali
(Marcello Serra, Francesco Alziator5). Una festa quindi che non poneva i soliti problemi
di acquisizione del consenso, già stabilito, permettendo ampia libertà di movimento in
uno spazio da tempo condiviso, familiare.

Qui il Matrimonio Selargino diventa oggetto di competizione ai fini del relativo controllo.
La manifestazione dà la possibilità di sfruttare risorse economiche e simboliche legata
alla costruzione di mondi tipici, provenienti dalle istituzioni regionali nonché
dall’inserimento nei mercati internazionali (per fare un esempio, la manifestazione è
regolarmente presente alla Bit, la Borsa Internazionale del Turismo che si tiene
annualmente a Milano). L’evento è connesso, inoltre, alle logiche e all'immaginazione
dei media (tv locali e nazionali, quotidiani e riviste), capaci d'inscrivere rapidamente


4
  Anderson, trad. it. 1996:25 e ivi, prefazione a cura di D’Eramo, p. 10
5
  Il coinvolgimento di Serra verrà esaminato nel secondo capitolo. Per quanto riguarda Alziator, alcuni
informatori mi hanno fatto notare, quale motivo di vanto e di legittimazione, che l’importante studioso ha
assistito di persona alla festa e ha usato le foto scattate durante la manifestazione per illustrare quanto
scritto nella sezione “Amoreggiamento e nozze” in La città del sole [1963]




12 ▪ Introduzione
universi locali in contesti comunicativi globali, fornendo ai protagonisti del conflittuale
campo politico locale nuovi motivi di competizione e di legittimazione.

Nella complessa macchina organizzativa messa in moto dalla festa è possibile
scorgere l'attivazione di reti clientelari; la determinazione del ruolo riservato a ciascuno
fornisce informazioni importanti sul paese e sul gioco delle alleanze in esso presenti. Si
tratta di un aspetto delicato della ricerca che si è preferito in gran parte non esplicitare
ma di cui si è ovviamente tenuto conto. In generale, si può affermare che la gestione
della festa è oggetto di contesa tra i membri di un notabilato locale che non può essere
inquadrato facilmente se studiato in termini di appartenenza politica, posizione
occupazione, grado di istruzione. Non pare neppure particolarmente utile, in questo
contesto, poiché rischia di poter essere applicata praticamente a tutti, la categoria di
pendolarismo, sviluppata da Gian Luigi Bravo e approfondita nei lavori di Piercarlo e
Renato Grimaldi, per la quale si ipotizza che i membri della comunità più interessati e
attivi nella riproposta, ma anche nella conservazione, delle feste e cerimonie
tradizionali, sono le persone che quotidianamente o comunque frequentemente, per
lavoro, per studio, per attività politiche o associative, si spostano tra formazioni sociali
differenti. Ciò che accomuna gli organizzatori della festa sembra piuttosto il loro
identificarsi primariamente come “selargini”. Si tratta in netta prevalenza di uomini, oggi
tutti sulla sessantina, che gestiscono attivamente la vita politica e culturale del paese
sia attraverso le posizioni occupate in consiglio comunale, sia occupando le posizioni
più importanti in associazioni culturali quali Pro Loco, gruppo folkloristico, coro,
confraternite, ecc.

Un’altra osservazione che mi pare importante mettere qui in evidenza è l’idea condivisa
da tutte queste persone e vissuta come ovvia, naturale, per cui la manifestazione è da
considerarsi una risorsa fondamentale per lo sviluppo dell’economia locale.
L’assessorato alla cultura si confonde con quello al turismo e la cultura popolare è
classificata sotto la voce di patrimonio, valorizzata principalmente in relazione al suo
ritorno turistico. Anche qui, come praticamente in tutta l’isola, tutto ciò che si pensa
possa favorire il turismo è oggetto di cure particolari6.



6
  Il ruolo del turismo come mezzo di sviluppo è un tema molto sentito in Sardegna. A questo proposito,
una voce fuori dal coro è quella dell’intellettuale cagliaritano Giorgio Todde [2006:30] che si scaglia
contro la politica prevalente per cui “l’unica crescita desiderata, progettata e accettata è quella turistica. Il
turismo violento e nevrastenico dei due mesi anfetaminizzati durante i quali organismi semplificati - i
turisti – confondono la vacanza (il vuoto nobile dei pensieri) con la vacuità (il pieno di pensieri vuoti)”




                                                                                             Introduzione ▪ 13
Strategie e segni dell’appartenenza
Quali sono gli strumenti messi in campo dai soggetti per costruire una versione
celebrativa della propria storia, del proprio patrimonio culturale, di una propria singolare
appartenenza comunitaria?

Per Palumbo è necessario concentrarsi sul ruolo centrale e attivo (performativo)
giocato da simboli e oggetti, dai modi di dire e dai modi di fare, nel realizzare la
naturalizzazione dell’evento presentato. Anche per Gallini [(a cura di), 2003:12] parole,
oggetti, gesti, azioni sono il modo attraverso cui si riproducono nell’immaginario sociale
i segni dell’appartenenza, gli strumenti con cui si è capaci sia di intervenire sul reale sia
di rappresentarlo. Costumi, oggetti, gesti della tradizione veicolano un messaggio che
è tanto più forte quanto riesce a sfruttare un terreno narrativo e ideologico comune sia,
e in primo luogo, al singolo paese contesto della manifestazione, sia a tutti i sardi in
generale. Per ognuno di questi elementi si è constatata la maggiore e minore efficacia
simbolica sulla base dei discorsi che scaturiscono intorno alla manifestazione.

L’obiettivo della seconda parte del quarto e del quinto capitolo è appunto quello di
esaminare il ruolo giocato da specifici elementi nel contesto del Matrimonio Selargino.
Nel quarto capitolo vengono esaminati in particolare i discorsi intorno agli elementi
chiamati a mostrare la selarginità della festa: l’abbigliamento tradizionale, la catena, la
riproduzione di una tavola del 1800 scelta come logo dell’evento. Nel quinto capitolo
sono esaminati altri elementi quali la questione dell’uso della lingua sarda, le
motivazioni sottese all’uso dello spazio, quale la scelta di ambientare parte della
rappresentazione in tipiche case campidanesi e la scelta del percorso del corteo
nuziale, le motivazioni che hanno spinto a situare la festa in settembre, le voci di spesa
e gli enti finanziatori dell’evento.

La rappresentazione folkloristica è per certi aspetti assimilabile a una rappresentazione
metonimica per cui una parte rappresenta il tutto. Da questo punto di vista viene
esaminato il ruolo dei gruppi folkloristici, in cui una parte della comunità rappresenta
l’intera comunità. Se per Clemente “l’asse del mondo paesano laica e moderna è
rappresentata piuttosto dalla banda municipale che non dalla chiesa e dal campanile”
[Clemente, 1997:38], nel contesto sardo il ruolo di “ibrido societario” e “perno della vita
paesana di oggi”, di associazione “laica e regolamentata, interclassista, disponibile per
le circostanze istituzionali politiche, civili e religiose, per quelle del ciclo della vita, e per
il ballo” mi sembra piuttosto attribuibile alle associazioni folkloristiche locali.




14 ▪ Introduzione
Nella costruzione del prodotto “matrimonio tradizionale” si nota una continua
manipolazione degli assi cronologici e degli ordini di antecedenza -successione, causa-
effetto. Inoltre, in tutti i matrimoni folkloristici è presente la tendenza alla ritualizzazione
di ogni oggetto e gesto. Particolarmente evidente nei casi in cui è la “tradizione” a
prescrivere una certa formalità (ad esempio per la benedizione materna), si parla di
comportamento rituale anche per ogni altro elemento che presenti una certa regolarità
nelle sequenza delle azioni. La vestizione degli sposi si trasforma così in “rituale della
vestizione”, la consegna delle chiavi in “rituale della consegna delle chiavi”, ecc. Anche
senza arrivare agli eccessi del caso olianese, in cui ogni cosa, oltre ad essere
ritualizzata, è dotata di un preciso significato simbolico, l’effetto ricercato è
l’attribuzione di una certa solennità e gravità all’evento, un modo per affermare la
fierezza e l’orgoglio che sembra debba caratterizzare ogni rappresentazione identitaria
sarda.


Note sulla ricerca: posizione etnografica e metodologia della ricerca
Ho sempre partecipato al Matrimonio Selargino, sin da piccola. Era emozionante venire
svegliati la domenica presto dall’allegro frastuono dei tamburini di Oristano, in giro per
le vie del paese a ricordare alla “comunità” selargina il grande evento (ora i tamburini
non ci sono più: la pro loco ha scoperto che non sono “filologicamente” corretti). Quei
colori, quelle forme, un costume per ogni paese, uno più bello dell’altro, il suono delle
launeddas, i buoi inghirlandati, i balli improvvisati durante le pause del corteo, poi
quelle anziane donne che fermavano la sfilata per rompere dei piatti mentre
formulavano oscure benedizioni: tutto mi pareva così ricco di fascino, così suggestivo.

Ho sempre trovato la manifestazione suggestiva e affascinante, è vero, ma anche,
come per tutti quelli della mia età, così ridicola, di cattivo gusto, in qualche modo
umiliante. Si era orgogliosi di non conoscere il sardo, di non aver nulla a cha fare con
balli e canti sardi, ed era difficile comprendere le ragioni per le quali ci fossero sardi
che insistessero nell’esaltare figure “ridicole” come quella del pastore in mastruca col
viso deformato dallo sforzo di suonare sa launeddas. La sardità era qualcosa che si
lasciava volentieri venisse attribuito agli abitanti di Orgosolo o ai Nuoresi, in ogni modo
agli abitanti di un interno arretrato e isolato.

E allora perché una tesi su questo argomento? “Un altro sardo che scrive di Sardegna”
mi sono sentita ripetere più e più volte, scoprendo di far parte di una numerosa
compagnia. Perché gli studiosi sardi di antropologia tendono a confinare le proprie




                                                                               Introduzione ▪ 15
ricerche nell’ambito dell’Isola? Se i casi fossero in numero limitato si potrebbe parlare
di coincidenza, di comodità o comunque si potrebbe cercare una risposta
personalizzata per ogni caso, ma quando si ha di fronte un comportamento
generalizzato la questione diventa complessa. A parte il mito persistente di una terra
ancora in gran parte da scoprire, a parte la conclamata predilezione di settore per le
isole, è difficile trovare una risposta. Sospetto però che abbia in qualche modo a che
fare con un certo senso di inferiorità culturale che serpeggia tra i sardi, i quali, stanchi
di venir derisi con le solite battute sulla dizione o sulle pecore, reagiscono rinnegando
qualsiasi legame con l’isola oppure, al contrario, approfondendone la conoscenza. Nel
mio caso penso sia stata fatale la combinazione di amore-odio resa affascinante dallo
“sguardo antropologico” e amplificata dallo scoprirmi improvvisamente identificata
come “sarda” dagli amici “continentali”, oggetto di quegli stessi pregiudizi e stereotipi
con cui i cagliaritani si fanno beffe degli abitanti del nuorese.

Il luogo di partenza di questa ricerca non è semplicemente situato in Sardegna, è il
paese in cui sono cresciuta e ho vissuto la maggior parte del tempo. Ero informata
delle difficoltà di fare ricerca sul campo, avevo letto degli svantaggi dell’essere un
estraneo per il gruppo che si studia, ma non ero preparata alle difficoltà dell’essere
identificata come “membro del gruppo”.

Sin dall’inizio, sapendo di non poter prevedere le conseguenze, la mia idea è stata
quella di evitare il più possibile ogni riferimento alla mia famiglia e al mio parentado.
L’obiettivo era quello di passare inosservata, cercando di lavorare nel modo più
autonomo possibile, rimanendo estranea a tutte le eventuali reti di relazioni in cui sarei
stata inserita mio malgrado. Ma il tentativo di presentarmi solamente come studentessa
di antropologia culturale a Modena, è caduto quasi sempre nel vuoto. Oltre una certa
fascia di età, questo tipo di presentazione non è mai stato accettato come valido: la
reazione era invariabilmente “Ah… E fill’e di chini sesi?” da parte degli interlocutori più
anziani o l’equivalente in italiano (“Chi sono i tuoi genitori?”) da parte degli altri. Se il
riferimento al nome, poi alla professione, poi al luogo di nascita dei miei genitori non
era sufficiente, si passava alle stesse domande per i nonni, e se questo non bastava si
passava agli zii. Solo al termine di un più o meno lungo processo di inquadramento, mi
veniva chiesto quale fosse l’oggetto delle domande che intendevo rivolgere. Seppure
continui a non sopportare l’idea che il giudizio sulla mia persona e la disponibilità nei
miei confronti possa dipendere, almeno in una prima fase, da questioni su cui non ho il
minimo controllo, quali l’essere la figlia o la nipote di, è giocoforza ammettere che in
certi contesti sia stato così.



16 ▪ Introduzione
Un aspetto interessante della mia posizione sul campo è stata quella di essere
identificata come selargina, ma non al 100%. Per essere una selargina doc mio padre,
mia madre e i miei nonni sarebbero dovuti nascere e vivere a Selargius, ma solo mio
padre e la sua famiglia sono di Selargius, mentre mia madre e la sua famiglia di
Quartucciu, per cui, nonostante abbia sempre vissuto a Selargius, non faccio parte
della ristretta cerchia dei selargini a tutti gli effetti. Ma se fossi stata completamente di
un altro paese, per quanto confinante, molte cose non mi sarebbero state dette perché
non sarebbe sembrato opportuno rivelarle a un estraneo e comunque non avrei potuto
capirle. Mi è stato riferito cosa è stato raccontato ad altre due ragazze, entrambe di
Cagliari, che quest’anno si sono presentate a Selargius interessate a scrivere la tesi
sul Matrimonio Selargino (anche loro!): niente, niente di più di quello che è riportato sul
dépliant della manifestazione. Probabilmente, se non si fossero accontentate di quelle
informazioni, col tempo avrebbero anche potuto superare l’iniziale diffidenza e
raccogliere, in molto più tempo e con molta più fatica, le mie stesse informazioni. Se
invece fossi stata una selargina doc molte cose non mi sarebbero state dette per due
motivi: uno, perché ovvio che le sapessi già e comunque non sarebbe stato affar loro,
ma della mia famiglia, mettermene al corrente, due, perché avrei potuto usarle
impropriamente, e nessuno vuole essere accusato di aver messo in giro pettegolezzi e
voci sul conto di qualcun altro. E in effetti molte domande sono rimaste a lungo senza
risposta (molte lo sono ancora), in alcuni casi non mi è stato permesso di registrare, in
altri casi qualcuno è stato zittito in mia presenza con eloquenti segni non verbali. Alcuni
però, di fronte alla disarmante ingenuità delle domande e all’evidente completa
ignoranza dei giochi di potere e del sistema delle alleanze selargine, si sono assunti la
responsabilità di spiegarmi il non-detto di molti discorsi, giustificando la mia
disinformazione col fatto che, dopotutto, mia madre è di Quartucciu.

Una delle principali difficoltà della ricerca sul campo nel proprio paese è stata quella di
mantenere le distanze dalle categorie del discorso locale, cercando di mantenere una
posizione equidistante dalle parti. Ma è davvero possibile parlare di un evento pubblico
così importante per il paese senza entrare nel gioco politico locale? In alcuni casi è
stato esplicito che la franchezza con la quale si rispondeva alle mie domande era
motivata dalla possibilità di convincermi a sostenere un punto di vista piuttosto che un
altro, e di inserirmi, in quanto selargina, nel proprio sistema di alleanze. Ad esempio mi
è stata proposta una candidatura per le prossime elezioni amministrative, ma anche un
lavoro da “antropologa” in un museo etnografico di prossima (?) apertura.




                                                                             Introduzione ▪ 17
Da questo punto di vista, il risultato proposto non accontenterà nessuno dei miei
informatori, ma d’altronde neppure me, a cui dispiace dover omettere una parte
consistente del mio lavoro. La conoscenza pregressa della manifestazione mi ha
aiutato a superare ben presto la facciata della festa per scoprirne il dietro le quinte, ma
purtroppo il risultato sono aneddoti, voci, affermazioni sospese tra il detto e il non-detto
il cui status di dichiarazioni appare troppo fragile per essere inserite in questo lavoro.
Mi rendo conto che molte considerazioni non verrebbero mai ripetute in pubblico e che
di molte altre si negherebbe la paternità, inoltre sono consapevole del fatto che alcune
mi sono state riferite perché gli interlocutori non si sarebbero mai immaginati che
potessero entrare a far parte di un lavoro di tesi, così come altre mi sono state riferite
sulla base di un rapporto reciprocamente fiduciatario tra informatore e ricercatore, che
preferisco non mettere in crisi. Per tutti questi motivi ho deciso di inserire solo le
considerazioni che sono state avanzate da più parti e quelle il cui autore non è
immediatamente riconoscibile. Inoltre ho cercato di bilanciare lo status incerto delle
prime ricorrendo alle fonti scritte.

Buona parte del tempo di ricerca è stata dedicata proprio al reperimento e all’analisi
delle fonti scritte, soprattutto dei documenti contenuti nell’archivio comunale e gli
articoli di giornali e riviste, sebbene debba ammettere di aver constatato più volte che
le informazioni contenute negli articoli di giornale sono soggette a errori, falsità,
approssimazioni, tanto quanto le fonti orali. Inoltre, nonostante si dedichi ampio spazio
alla descrizione della manifestazione, il materiale utile ai fini di un’indagine
approfondita è scarso. I mass media tendono a restare prigionieri dei propri stereotipi:
troviamo sempre le stesse foto (solitamente i due sposi “incatenati”) e gli stessi tipi di
descrizione con pochissimi cambiamenti (in alcuni casi il taglia e incolla da un anno
all’altro è palese).

La ricerca empirica si basa dunque su interviste e osservazioni informali (spesso a più
voci), ma anche su scambi di e-mail e conversazioni telefoniche, l’esame di collezioni
fotografiche e video. Per quanto riguarda il Matrimonio Selargino e il Matrimonio
Mauritano si aggiunge l’osservazione diretta. In particolare, per quanto riguarda il
primo, si sono rivelati preziosi i ricordi personali delle numerose angolazioni dalle quali
ho partecipato alla festa negli anni passati: in alcuni come addetta al servizio d’ordine,
in altri alla distribuzione dei dépliant e ancora come punto di riferimento locale per i
gruppi folkloristici ospiti. La decisione di affrontare l’argomento dal punto di vista
antropologico       è   del   2004,    anno   in   cui,   basandomi   sul   classico   metodo
dell’osservazione partecipante, mi sono inserita nell’attività oggetto di ricerca



18 ▪ Introduzione
indossando l’abito tradizionale. Durante l’edizione del 2005 ho raccolto i commenti e le
osservazioni del pubblico, estendendo i rilievi non solo alla giornata principale
dell’evento, ma anche agli eventi collaterali organizzati nei giorni precedenti. Nel 2006
sono riuscita infine ad avere accesso a momenti più privati, tra cui il banchetto nuziale.
Come hanno affermato ironicamente alcuni miei amici, ora manca solo che mi sposi
anch’io in questo modo…




                                                                          Introduzione ▪ 19
1 “Delle usanze maritali” nel Campidano
  di Cagliari
               Dal che voi vedete quanto degli antichissimi riti abbiano custodito i Sardi nella
               solennità de' maritaggi: riti che contengono la storia non solo della divina
               istituzione, ma degli esordi altresì della prima civiltà delle genti occidentali.
               Tradizioni importantissime, che i Sardi senza punto conoscerlo, ci
               conservarono inviolate. [Bresciani, Dei costumi dell’Isola di Sardegna]


1.1 Premessa
                                                                     L’area           denominata
                                                                     Campidano di Cagliari
                                                                                      corrisponde
                                                                          approssimativamente
                                                                     ai       territori    dell’area
                                                                     cagliaritana,         cioè    di
                                                                     quell’area           che     può
                                                                     essere identificata “nel
                                                                     territorio compreso nei
1.1 Comuni del Campidano di Cagliari
                                                                     limiti           di          una
                                                                     circonferenza che, con
centro in Cagliari, si stenda per un raggio di una ventina di chilometri” [Alziator,
1984:15].

È un’estensione che si presta facilmente ad essere delimitata come unità di ricerca, in
quanto relativamente omogenea dal punto di vista geografico, storico, linguistico,
economico e delle tradizioni culturali. Fin dalle origini tale estensione è stata sottoposta
alle medesime influenze culturali, derivanti dalla sudditanza a uno stesso centro
politico e ecclesiastico e favorite dalla presenza di una vasta area pianeggiante che ha
consentito scambi relativamente facili e frequenti tra i vari paesi della zona, come pure
una medesima lingua, la variante campidanese della lingua sarda. Alziator propone
alcuni esempi a dimostrazione di questa uniformità:

   il tipo della casa a pianta rettangolare che gravita sul cortile interno, il tipo del
   vestiario, sia maschile che femminile, i motivi dell’oreficeria popolare, i motivi
   del patrimonio leggendario tradizionale, la diffusione e la persistenza della
   launedda nella musica popolare, una sostanziale unità nella paremiologia, nella
religiosità popolare, nella gastronomia ed in non poche manifestazioni del ciclo
    dell’uomo e dell’anno [Alziator, 1984:32]

Non esistono al momento studi che si occupino in modo specifico delle usanze
matrimoniali nell’isola. Affrontarne lo studio significa dunque fare i conti con una
documentazione scarsa e lacunosa, per di più prodotta con fini e metodologie
eterogenei. Inoltre, la scelta di circoscrivere l’ambito di approfondimento a una
specifica zona complica ulteriormente la ricerca. Gli studi concernenti l’area
campidanese sono senza dubbio pochi, specialmente se si prendono in considerazione
i lavori dedicati alla raccolta e all’analisi delle tradizioni popolari, fatto tra l’altro
costantemente evidenziato dagli autori presi in esame.

È opinione diffusa che la “vera” Sardegna sia altrove, la “sardità” viene presentata - nei
dépliant turistici, alla televisione, nei discorsi quotidiani - come una qualità localizzata
per lo più nel nuorese e specie tra i pastori (cfr. Satta 2003). Tendenza che coinvolge
anche gli studiosi; basterebbe una rapida occhiata nelle biblioteche sarde per
accorgersi della netta predilezione per lo studio delle zone più interne dell’isola, più
“tradizionali”1. Il Campidano appare, al confronto, un’area poco conservativa, da
sempre soggetta alle mode “continentali” del momento, per cui l’attenzione a esso
rivolta è di natura per lo più storica e sociologica, mentre l’elemento folklorico è
trascurato.

Nel tentare una ricostruzione il materiale utilizzabile è essenzialmente di tre tipi
differenti: i resoconti dei viaggiatori dell’Ottocento in Sardegna, il diritto ecclesiastico
locale, i saggi storici e antropologici pubblicati a partire dagli anni ’70.

Il primo tipo di fonti ha il vantaggio di fornire una testimonianza diretta, di prima mano,
su realtà culturali ormai scomparse, la cui descrizione è spesso molto dettagliata. Tale
materiale ha però tutti i limiti della tradizione della letteratura esotica e di viaggio a cui
appartiene di diritto: è costituito da resoconti di politici, uomini di chiesa, esploratori,
geografi, che non possiedono un’adeguata preparazione di tipo antropologico e non
sono guidati da un progetto scientifico esplicito e coerente. L’attenzione tende a
concentrarsi sulla diversità, sulla raccolta di curiosità folkloriche di tipo aneddotico,


1
  Angioni è stato uno dei primi antropologi a riequilibrare il quadro degli studi sulla Sardegna,
pubblicando diversi importanti lavori sul lavoro contadino, per di più su aree sarde sino a quel momento
poco studiate, tra cui ad esempio Rapporti di produzione e culture subalterne. Contadini in Sardegna,
Edes, Cagliari, 1974 e Sa Laurera. Il lavoro contadino in Sardegna, Edes, Cagliari, 1975.




22 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
espressione di una realtà selvaggia nei cui confronti l’atteggiamento varia dalla
condanna morale, alla spiegazione tramite pregiudizi, allo stupore divertito. La cautela
nell’utilizzo di questo materiale è quindi d’obbligo: si rischia di attribuire ai più il
comportamento di una minoranza, di estendere a tutte le classi sociali il
comportamento di una sola, a tutta un’area un’usanza di paese. Da questo punto di
vista tale letteratura offre un’immagine omogenea di cultura che non soddisfa la ricerca
di una verosimiglianza storica: è un’impresa riuscire a determinare l’estensione di
un’attività o di un’usanza in termini di spazio, di tempo, di classe sociale. Inoltre,
spesso le osservazioni contenute in questi lavori non derivano da osservazione diretta,
bensì dal plagio, dal riassunto spesso erroneo, e altrettanto spesso non dichiarato, di
passaggi di opere di viaggiatori precedenti2.

Una grande quantità di notizie sulle usanze relative al matrimonio si ricava in maniera
indiretta dalle fonti ecclesiastiche: documenti di diritto ecclesiastico locale, annotazioni
nei Quinque Libri3, atti matrimoniali, manuali di catechismo. I divieti, le prescrizioni e le
punizioni con cui la Chiesa tendeva a regolamentare la condotta dei fedeli svelano
quale fosse il reale comportamento delle persone registrando con estrema precisione
le circostanze dell’evento da sanzionare e i dati delle persone coinvolte. Sempre a
differenza dei resoconti di viaggio, l’analisi dei documenti della Chiesa richiede una
discreta preparazione, che consenta di attivare la giusta chiave di lettura del testo,
eliminare le considerazioni negative espresse da parte dei redattori, capire il significato
nascosto dietro le circonlocuzioni e le formule utilizzate. Da tale documentazione
possiamo ricavare ciò che si dovrebbe fare (e con quali modalità) e ciò che non si
dovrebbe fare ma si fa lo stesso (con quali sanzioni), ma ben poco possiamo
conoscere a proposito di quei comportamenti ritenuti talmente normali, ovvi, tali da non
aver bisogno di essere prescritti esplicitamente, o al contrario di essere vietati in
quanto accettati anche dalla Chiesa.

È solo a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, che la ricerca storica e antropologica
si mostra più attenta nei confronti di questioni quali il matrimonio e la famiglia nella


2
 A questo riguardo si veda Delitala, 1981
3
  Sono così chiamati i registri parrocchiali che in seguito alle normative emanate dal Concilio di Trento
ogni parroco era tenuto a compilare e aggiornare costantemente. I registri parrocchiali erano composti da
cinque libri (da cui il nome): il libro dei battesimi, delle cresime, dei matrimoni, dei defunti, dei confessati
e comunicati (il quale era suddiviso in stati d’anime, elenchi nominativi, dichiarazioni generiche del
parroco). Fonte: Anatra, Puggioni, 1983




                                                     “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 23
Sardegna “tradizionale”. Rispetto ai lavori precedenti, di carattere prevalentemente
descrittivo e documentario, questi cercano di stabilire il senso delle regolarità
statistiche: le strategie matrimoniali, la struttura delle famiglie, il ruolo della parentela, in
contesti ben delimitati in termini di spazio e di tempo. Il più utile in questo caso è
sicuramente Famiglia e matrimonio nella società sarda tradizionale a cura di Anna
Oppo, raccolta di saggi scaturiti da un convegno dallo stesso titolo tenutosi a Cagliari
nel 1988. Purtroppo, però, per ovvie ragioni, le testimonianze degli informatori sono
limitate temporalmente al XX, o, al massimo, alla seconda metà del XIX secolo.

Per limitare i possibili errori di fraintendimento del testo, legati alla natura e
all’eterogeneità del materiale di ricerca, si è privilegiato un approccio di tipo selettivo
nella lettura dei documenti. Partendo dalle informazioni ricavate dal lavoro di ricerca sul
campo, su ciò che sanno o ricordano le generazioni viventi a proposito delle
consuetudini relative a nozze e fidanzamento, si è proceduto all’analisi della letteratura
di viaggio, dando la precedenza al materiale che facesse esplicito riferimento a paesi
del Campidano di Cagliari, ma utilizzando anche quanto riferito alla Sardegna in
generale, in cui fosse possibile riconoscere elementi della tradizione campidanese. Per
quanto riguarda il resto delle fonti, la cui contestualizzazione è stata meno
problematica, mi sono limitata a una selezione sulla base del criterio geografico.

Ciò premesso, si può ora passare ad esaminare il contenuto delle opere che si
occupano di fidanzamento e matrimonio in area cagliaritana.




24 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
1.2 Su fastigiu - Il corteggiamento
Come è noto, la letteratura antropologica sul matrimonio è vastissima. A seconda della
prospettiva con la quale si è affrontato il tema, l’istituzione matrimoniale risulta essere
uno dei mezzi privilegiati per sanare conflitti diversamente non sanabili tra famiglie
rivali, un modo per spartirsi il potere con un accordo anziché con una lotta aperta, un
espediente per non frammentare il patrimonio economico familiare. La scelta del
coniuge non appare mai totalmente libera, in quanto ampiamente condizionata da
elementi quali la difesa di posizioni sociali, le norme morali vigenti, la salvaguardia del
patrimonio economico4. Nella Sardegna tradizionale la questione coinvolgeva
solitamente il parentado, impegnato al fine di conseguire il risultato più soddisfacente
dal punto di vista della posizione sociale e del vantaggio economico, ma coinvolgeva
anche la comunità che poteva stigmatizzare la scelta con più o meno pesanti sanzioni
sociali5. Lascerei dunque da parte le questioni relative al grado di libertà individuale
nella scelta dei pretendenti, poiché difficilmente le questioni relative al fidanzamento e
al matrimonio erano decise unicamente dai diretti interessati. Va comunque precisato
che vere e proprie forme di strategie matrimoniali erano per lo più limitate ai “ceti
proprietari”.

“Calidadi cun calidadi”6, come si sente ripetere ancora, ossia l’endogamia sociale prima
di tutto. Anche quando si diffonde la moda del corteggiamento - una pratica sociale che
si afferma in Sardegna, come nel resto d’Europa, a partire dal XVIII secolo - questo è
rigidamente sottoposto al rispetto della separazione tra le classi. Gli incontri tra i
giovani dei due sessi sono sottoposti a un severo controllo affinché avvengano



4
  Per un approfondimento di queste tematiche si rimanda a Zonabend, 1988.
5
   Un esempio concreto di come le questioni relative alla fondazione di una nuova famiglia non
riguardassero solo i diretti interessati e le loro famiglie, ma l’intera comunità, deriva dalla disamina di
Gallini (1977, secondo capitolo) delle forme di charivari in Sardegna. L’infrazione della norma che
prevedeva che la famiglia fosse monogamica oltre la stessa morte di uno dei partner e che la sessualità
fosse finalizzata alla procreazione legittima, era oggetto di una plateale disapprovazione pubblica che
prendeva il nome di sa coredda (o suo equivalente linguistico). Nei casi di seconde nozze di un vedovo o
una vedova, nozze di un anziano con una giovane, cambiamento di fidanzato di una ragazza, gravidanza
illegittima, cioè nei casi di famiglia “rotta” (per morte di uno dei due membri o per abbandono di uno dei
due fidanzati) ricomposta su altre alleanze, e nei casi di famiglia incompleta (perchè formata solo di
madre e di figlio), veniva organizzata una chiassata satirico-ingiuriosa davanti alla casa dei colpevoli di
infrazione delle norme morali, della durata di alcuni giorni.
6
  Nel vocabolario del Canonico Giovani Spano il termine sardo calidadi è tradotto come “qualità, stato,
condizione”.




                                                  “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 25
nell’ambito di famiglie dello stesso ceto7. Pillai [1991:44] rileva forme di endogamia
tecnica, per cui i vignaioli sposano figlie di vignaioli, i muratori figlie di muratori, mentre
Alziator [1963:65], accenna a una forma di endogamia non di paese, ma di rione,
diffusa a Cagliari “a tal punto da stabilizzare, anche fisiognomicamente, il tipo di ogni
quartiere”.

Purché sia rispettata questa condizione, si può far posto anche all’amore romantico:
    Già nel XVIII secolo, similmente a quanto accadeva in altre parti d’Europa
    “anche tra il popolo si diffonde il linguaggio dell’amore-passione” e sempre più
    spazio si riserva agli slanci del cuore, alle passioni travolgenti, il tutto unito alla
    superstizione che i figli dell’amore nascano più belli degli altri. [Pillai, 1991:46-
    47]

La lunga dominazione spagnola in Sardegna ha fatto sì che soprattutto nell’area
cagliaritana l’amore sia stato concepito alla maniera del galanteo spagnolo. Il carattere
tipicamente spagnolo dell’amoreggiare in area cagliaritana sarebbe testimoniato da
molteplici termini e espressioni: primo fra tutti il termine fastigiu (da cui il verbo
fastigiai). Il sostantivo fastigiu deriva dallo spagnolo fasteig o dal catalano festej, che
indica il “far festa, rendere omaggio, fare la corte, galanteggiare” [Alziator, 1963:65;
Caredda, 1993:33].

Sino alla metà del secolo scorso, il termine fastigiu è servito a indicare le forme
attraverso cui poteva esprimersi il corteggiamento cagliaritano: solitamente tra strada e
balcone, poteva essere del tutto muto, fatto di soli sguardi, oppure per cenni e
attraverso il linguaggio dei gesti, i più intraprendenti si servivano di un rudimentale
telefono, costruito con dei barattoli uniti da spaghi tesi. Alziator sottolinea come la
distanza tra i due giovani sia una discriminante di classe: a classe più elevata
corrisponde una maggiore e più rigida distanza. Il fastigiu si esprime anche attraverso
le serenate che il giovane, accompagnato da chitarra, mandolino o mandola, dedica
alla sua bella. Alcune di queste serenate di corteggiamento sono giunte sino a noi,
raccolte da scrittori italiani e stranieri.

Saper gestire i propri spasimanti è una questione di abilità e intelligenza. Le donne che
si espongono troppo rischiano di essere occasione di critiche e di scherzi da parte della


7
  A questo proposito ci si potrebbe chiedere, con Angioni (1990:18) se l’endogamia di ceto vada intesa
come una “una forma di dominanza delle esigenze della famiglia, della parentela” o invece come “una
forma di dominanza, di ingerenza, dei rapporti di produzione, di proprietà, anche all’interno dei rapporti
di parentela”.




26 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
comunità, fatto che può pregiudicare l’onore di una donna e quindi ogni sua possibilità
di accasarsi. In ogni modo, dal XVIII secolo, la diffusione di alcuni modi di dire mostra
che le donne non sono più disposte ad accettare passivamente le imposizioni dei
genitori o le pretese degli spasimanti, come nei secoli precedenti; la donna si appropria
della libertà di donai crocoriga8, donai ciascus9, donai su pagliettu10, tutte espressioni
per indicare che la ragazza respinge il corteggiamento. Si dice che le forbicine appese
nella cintola di ogni donna, oltre alla funzione di tagliare i fili del cucito, avessero anche
un significato simbolico: ai corteggiatori non graditi venivano mostrate nell’atto di
tagliare11. I pretendenti respinti si vendicavano con canzoni infamatorie (cantai de
malas), imbrattando le porte, sparando schioppettate in direzione della casa della
donna.

All’irrompere di una maggiore libertà nei rapporti tra i due sessi, una lunga serie di
disposizioni normative tenta di ristabilire la sottomissione all’autorità familiare. Si
rafforza la consuetudine per la quale è consentito al padre rinchiudere in convento i figli
che si fossero messi a corteggiare donne di condizione sociale diversa dalla propria,
oppure che volessero sposarsi senza il loro permesso. Si aggrava la condanna per le
canzoni infamatorie, punite con mesi di carcere. Baci e abbracci in pubblico continuano
a non essere permessi né dal costume, né dalle leggi [Pillai, 1991:47].


1.3 La figura del paralimpu
    Quando un giovane proprietario del Campidano vuole sposare una ragazza d’un
    paese vicino e di condizione pari alla sua, cerca prima di tutto di avere il consenso
    del proprio padre12




8
   Dal greco korkoros, crocoriga o corcoriga è il termine campidanese con il quale si indica la zucca;
donai, pigai c. significa “dare (o prendere) un rifiuto” (in amore), calco sullo spagnolo dar calabazag.
Vedi Spano, 1972:171 e Wagner, 1989:380.
9
   Il termine ciàscu è tradotto sia da Spano [1972:157] sia da Wagner [1989:445] come “scherzo, burla,
dispetto”. Secondo Alziator [1963:65] l’espressione donai ciascus deriva dall’espressione spagnola dar
chasque, “disingannare”.
10
    Wagner [1989:208] assegna un senso dispregiativo all’espressione campidanese donai su paliéttu che
traduce con “mandar via, dar la gambata (specialmente in fatto di amore)”.
11
    Puxeddu in Camboni (a cura di), 2000:154
12
    Della Marmora 1826, ediz. 1995:105. Alberto Ferrero conte di La Marmora (Torino 1789- ivi 1863).
Generale piemontese, il La Marmora trascorse lunghi periodi della sua vita in Sardegna come comandane
militare. Alle sue eccelenti capacità di studioso si devono il Voyage e l’Itinéraire, e inoltre la costruzione
di una carta della Sardegna (1845) che è stata per oltre mezzo secolo la più perfetta rappresentazione
cartografica della Sardegna. Il nome di Alberto Ferrero conte di La Marmora si trova citato a volte come




                                                    “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 27
Questi, se ritiene che la ragazza sia degna dell’attenzione del ragazzo, chiama una
persona di fiducia che si presti a saggiare il parere della famiglia di lei. Alziator [1963]
sostiene che sia il padre o il tutore di lui a recarsi direttamente a casa della famiglia di
lei, ma probabilmente questo avveniva solo quando si era già sicuri dell’esito positivo
della richiesta; il rischio di subire un rifiuto fungeva da deterrente nei casi incerti. Un
rifiuto esplicito e diretto sarebbe stato un affronto imperdonabile, cui ovviava la figura
dell’intermediario (di cui si poteva disconoscere l’operato).

Tutta la letteratura in materia tende a soffermarsi sulla figura degli intermediari. Alziator
scrive di “comari compiacenti, vere professioniste in materia, precisa edizione
cagliaritana delle casamenteras spagnole” cui si ricorreva in contesti urbani, mentre
nell’area non urbana “esisteva il paralimpu, che a nozze concluse riceveva in dono un
paio di scarpe” [Alziator, 1963:67]. Lai Roggero [1995:63] ne descrive le caratteristiche:
   la paraninfa doveva possedere la parlantina facile ed essere dotata di una certa
   dose di diplomazia e di molta discrezione.

Nonostante le proibizioni ecclesiastiche, su cui ci soffermeremo più avanti, questa
funzione era spesso assegnata ai sacerdoti: come esempio si può citare quanto
affermato nel sinodo celebrato nel 1576-77 a Cagliari in cui si impone tassativamente
ai curati
   sotto pena di dieci denari a non immischiarsi in nessun modo nella trattazione dei
   matrimoni come intermediari […], a non intromettersi in alcuna maniera e a non
   portare dall’una all’altra parte nessun segno d’oro o d’argento o qualunque altro
   dono13

Uomo o donna, si trattava comunque di una figura che doveva aver facile accesso alla
casa della donna, per non destare sospetti sul vero oggetto della sua visita. Questi,
ricevuto l’incarico, si recava a casa della giovane prescelta, di preferenza a sera
inoltrata, per dare meno nell’occhio. Dopo i “necessari” convenevoli,
   entrava subito in argomento, e con molta abilità metteva in evidenza le doti del
   richiedente, sottolineando in particolare i suoi pregi e le sue qualità [Lai Roggero,
   1995:63]

La risposta alla richiesta era solitamente differita nel tempo (Lai Ruggero precisa: non
prima di “due settimane”) anche in caso di risposta affermativa, affinché il parentado


La Marmora, altre come Lamarmora oppure Della Marmora; in questo lavoro si è scelto di usare l’ultimo
tipo di trascrizione.
13
   Synodus Diocesana Calaritana, (D.F.Perez, 1576-77), Decretum II (De requisitis ad matrimonium certe
contrahendum), cap.V, citato in Pala, 1985:67




28 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
potesse accertare l’assenza di impedimenti di alcuna sorta all’unione dei due giovani.
Una frase è rivelatrice della posizione della donna in tutta la vicenda:
     alla giovane interessata non era consentito mostrare un eccessivo compiacimento
     [Lai Roggero, 1995:63]


1.4 Sa pregunta - La domanda della sposa
Se la famiglia di lei si mostrava favorevole all’unione dei due ragazzi, il passo
successivo era la visita ufficiale da parte dei genitori di lui in casa della ragazza, per
regolare le questioni relative a eredità e proprietà destinate ai futuri sposi. Giunti a un
accordo, si stabiliva il giorno per la richiesta ufficiale di matrimonio, chiamata sa
pregunta (o precunta), dal verbo spagnolo “preguntar”, cioè chiedere.

Il giorno fissato, parenti e amici dello sposo si recano in abito di festa a casa della
futura sposa. Giunti sulla soglia della casa, ci si accorge che il portone è sbarrato e
nessuno risponde al ripetuto bussare,
     da dentro la casa s’inizia a dare una qualche risposta ai pretendenti solo quando
     questi, dopo aver bussato ripetutamente, fanno finta di spazientirsi. Gli si chiede
     che cosa vogliano e che cosa portino e la risposta è: “Onore e virtù”. A questo
     punto la porta viene aperta e il padrone di casa, facendo credere di non sapere di
     averli fatti attendere, li accoglie nella stanza degli ospiti dove è riunita tutta la
     famiglia in abito da festa [Della Marmora 1826, ediz. 1995:105]

Nel resoconto di Smyth, questo momento è seguito da
     un profondo silenzio finché uno dei più anziani, di provata onestà, invitato
     espressamente, chiede la ragione per la quale c’è tanta buona gente in casa
     dell’amico [Smyth in Boscolo (a cura di), 2003:92]

La persona incaricata, che può essere il padre dello sposo, lo sposo stesso o un altro
uomo, risponde affermando di avere bisogno di aiuto per ritrovare un animale perduto
(o rubato? 14) che ritengono si sia nascosto nella casa.

La richiesta ufficiale di matrimonio collega la tradizione popolare sarda alla tradizione di
buona parte dell’Europa. Il rito della fidanzata nascosta è conosciuto in Francia come
fiancée cachée o substituée, in Inghilterra come mock bride, nel mondo germanico con



14
   In Animali perduti. Abigeato e scambio sociale in Barbagia (1989:129 e sgg.) Caltagirone mette in
evidenza come questa fase della cerimonia del fidanzamento possa essere descritta come una vera e
propria azione di abigeato. Tra le diverse similitudini si nota ad esempio che la dichiarazione riguardante
l’aver perduto del bestiame è la stessa che si usa per la ricerca del bestiame rubato (“in circa ‘e
perdimentu” nel dialetto barbaricino)




                                                  “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 29
la falsche braut; si tratta in sostanza di un dialogo nel quale la richiesta di matrimonio è
trasfigurata nella scusa della ricerca di un animale smarrito [Alziator, 2005:41]. In
alcuni casi, l’animale che simboleggia metaforicamente la donna è un’agnella, altre
volte una colombella, una pecora o una giovenca; ciò che accomuna questi animali è il
fatto di essere di sesso femminile e di essere solitamente bianchi, per evidenti ragioni
simboliche legate all’idea di purezza, castità, ecc..

Un esempio del discorso dell’uomo è il seguente:
   Siamo venuti per chiedere il vostro aiuto, affinché possiamo ritrovare la
   colombella smarrita che cerchiamo da lungo tempo. Essa è così bella, così
   modesta, così dolce ed unica, che la vita senza di lei non ha più senso. Siamo
   sicuri che si trova in questa casa, perciò non andremo via se prima non la
   consegnerete a noi [Lai Roggero, 1995:64]

Il padrone di casa può far finta di non capire, e presentare uno alla volta i propri figli
maschi e poi le figlie femmine dicendo “Cercate questo?” finché nella stanza viene
portata la futura sposa, tenuta nascosta fino a quel momento, accolta dalle
esclamazioni di gioia di amici e parenti del fidanzato.


1.5 Fidanzamento o matrimonio?
Secondo i resoconti di alcuni viaggiatori dell’800, la domanda della sposa ha luogo in
un giorno diverso da quello del fidanzamento ufficiale, mentre per altri ne costituirebbe
parte integrante. Nel primo caso, il cerimoniale prevede che si fissi il valore dei
rispettivi doni e il giorno in cui si farà lo scambio, nell’altro si procede direttamente al
reciproco scambio.

Tali doni sono chiamati segnali, dal latino “signa”, “senyals” in catalano. La ragazza,
invitata dal padre, consegnava al futuro suocero il dono destinato al fidanzato; il
suocero ricambiava con un altro dono. Il dono per la ragazza consisteva generalmente
in elementi del vestiario oppure gioielli.

Un tipo di anello di fidanzamento molto diffuso era il maninfide, di origine bizantina, il
cui nome significherebbe “le mani (strette) in (atto di) fede”, dal fatto che sulla lamina
sono incise due mani che si stringono; la stretta di mano simboleggia il patto d’amore




30 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
suggellato15. Pare che nella Sardegna tradizionale gli uomini non usassero anelli, per
cui, all’atto di ufficializzazione del fidanzamento, la promessa sposa donava non un
anello, bensì oggetti quali elementi del vestiario, gioielli o anche un coltello finemente
lavorato. Secondo Gometz [1995:63] la donna metteva nella mani dell’uomo il coltello,
cioè un’arma di difesa (oltre che strumento di lavoro quotidiano), “quasi a pretendere
dal futuro sposo protezione e difesa”.

Ciò che segue è di grande interesse perché è stato frainteso dalla stragrande
maggioranza degli studiosi. Viene detto che
     durante il pranzo che segue, i due giovani mangiano nello stesso piatto e, da
     questo momento, si considerano come uniti da un vincolo indissolubile
     [Bottiglioni, 2001:29],
     mutavano di abito, mettendo alcuni capi di abbigliamento propri degli sposati [Loi
     S., 1988:133],
      il fidanzamento ha luogo generalmente in presenza del rettore o di un altro
     sacerdote, per conferirgli maggiore validità [Smyth in Boscolo (a cura di),
     2003:92],
     il fidanzamento veniva festeggiato quasi al pari di un matrimonio [Lai Roggero,
     1995:65],

inoltre viene riferito che al fidanzamento segue
     spesso una lunga convivenza dei fidanzati more uxorio avanti il matrimonio,
     senza che la coscienza comune trovi alcunché da riprovare […] Quello che
     avviene durante questo periodo non è più fatto della comunità, ma rientra negli
     affari personali dei due [Alziator 2005:38 e sgg.]
     la donna iurata era già considerata come appartenente allo sposo. Dada sa
     paraula, questi poteva anche possederla senza riprovazione salvo a subire le
     conseguenze della vendetta se fosse venuto al suo impegno: la violenza usata da
     altri sulla sposa fu pareggiata a quella usata sulla donna maritata.16

Detto questo, viene da chiedersi: non sarà che quello che gli studiosi chiamano
fidanzamento o “sponsali” sia piuttosto da intendere come un vero e proprio
matrimonio?




15
   Gometz, 1995:61. Nella stessa pagina aggiunge che “un tempo, in quasi tutti i paesi dell’isola, non era
consentito alle donne non maritate o non fidanzate portare l’anello, che era il simbolo esteriore della
donna che aveva contratto un patto di fede o il vincolo matrimoniale”.
16
   Citazione di Besta, La Sardegna medievale, Palermo, Reber, 1908:171, in Murru Corriga [in Oppo (a
cura di), 1990:237]




                                                  “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 31
Di Tucci [1922:13-17] si interroga sulla questione, avanzando delle ipotesi che però
non lo convincono del tutto. Gli sponsali sardi sarebbero costituiti da una combinazione
di elementi: su di un fondo romano si innesterebbero consuetudini germaniche con
altre di incerta provenienza, nel dubbio attribuite all’inventiva dei sardi. Come gli
sponsalia romani, si tratterebbe di una promessa di matrimonio, ma diversamente dalla
tradizione romana, richiede una forma speciale e un tipo di contratto particolare. Il
contratto stabilisce il periodo approssimativo delle nozze, ma non prevede un limite
massimo di tempo, a differenza dei due anni contemplati sia dal diritto romano, sia dal
diritto longobardo; fissa il regime economico dei coniugi: “la dote”, per il sistema dotale,
la comunione generale per i matrimoni a ladus a pare, quella degli utili per i matrimoni
assa sardisca”; impone una sanzione in caso di scioglimento della promessa, per cui, a
differenza del fidanzamento romano, ma similmente alle usanze longobarde, ha
carattere di obbligazione. Non è stipulato direttamente dalle parti, ma dai genitori, che
assumono la posizione di fideiussori rispetto alle future nozze dei figli; la figura dei
genitori è quindi equiparata a quella dei “mundualdi” del diritto germanico, piuttosto che
a quella di “paterfamilias” romani, anche se poi è difficile spiegare come mai, a
differenza degli sponsali “barbarici”, è completamente sconosciuto il prezzo del
mundio, vero o simbolico, termine col quale, nell’antico diritto germanico, si definiva la
signoria esercitata dal capofamiglia su tutte le persone e cose componenti il gruppo
familiare.

Alziator, nel 1957, accenna al problema, ammettendo la difficoltà di individuare le
origini di tale situazione. Non trovando di meglio, si appella a quella che
tradizionalmente è considerata la causa prima di ogni problema sardo, cioè
l’isolamento, il quale avrebbe reso lenta e difficoltosa l’assimilazione delle istituzioni
cristiane, favorendo il persistere di antiche usanze. Gli effetti determinati dagli sponsali,
prima di tutto la coabitazione all’infuori del matrimonio, potrebbero essere la traccia di
un periodo precristiano in cui
   l’istituto del matrimonio era considerato nella coniunctio maris et foeminae e
   nulla più, all’infuori di ogni diritto positivo o di ogni norma morale o religiosa
   [Alziator, 2005:38]

La realtà sembra molto diversa. Nel rituale bizantino la celebrazione del matrimonio
prevede due momenti distinti: nel primo i fidanzati, interrogati dal sacerdote, esprimono
il loro consenso con decisione irrevocabile, nel secondo si celebra il sacramento in
chiesa in modo solenne, senza replicare il consenso [Pala, 1985:102]. A seguito della
totale affermazione degli usi bizantini da parte della Chiesa sarda [Pala, 1985:61], la



32 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
celebrazione tradizionale in casa, preceduta, come abbiamo visto, dal contratto
familiare, era considerata un vero e proprio matrimonio, mentre la celebrazione in
chiesa una semplice formalità.

Si noti che nella lingua sarda mancano i termini “fidanzamento” e “fidanzata/o” così
come li intendiamo attualmente, mentre sono presenti i termini mulleri (dallo spagnolo
“mujer”) e sposa. È plausibile avanzare l’ipotesi del mutamento semantico dei termini in
seguito al Concilio di Trento? La mia ipotesi (tutta da verificare) è che in seguito al
Concilio il primo termine - mulleri - prese a significare che quest’ultima era riconosciuta
come tale anche dalla Chiesa e dallo Stato (in quanto la cerimonia nuziale si era
celebrata seguendo le prescrizioni canoniche), mentre il secondo termine - sposa -
cominciò ad essere utilizzato per la donna sposata agli occhi della comunità, ma che
Chiesa e Stato consideravano solo come ufficialmente fidanzata.


1.5.1 La risposta della Chiesa romana
La Chiesa Romana interviene in Sardegna per disciplinare le usanze matrimoniali sin
dal sec. IX; ma è con il Concilio Lateranense IV del 1235 che vengono sancite nello
specifico le formalità per il matrimonio: accertamento della mancanza di impedimenti,
obbligo delle tre pubblicazioni, scambio del consenso di fronte al sacerdote,
benedizione nuziale. Celebrare il matrimonio senza osservare tali norme comportava il
rischio di sanzioni molto severe, tuttavia, sebbene la celebrazione nuziale familiare non
fosse ritenuta “lecita”, era comunque considerata “valida” [vedi Loi 1988 e Pala 1985].

Le cose cambiano radicalmente con il Concilio di Trento, durante il quale, nella VII
Sessione del 3 marzo 1547 e nella XXIV Sessione dell’11 novembre 1563, si riformula
la dottrina sul matrimonio. Viene stabilito che il matrimonio, per essere valido (non più
solo per essere lecito), deve essere celebrato di fronte al parroco o a un suo delegato,
alla presenza di almeno due testimoni. Contemporaneamente si vieta ai parroci di
prendere parte alle celebrazioni in famiglia. La Chiesa romana tende dunque a limitare
l’ambito di partecipazione del sacerdote - prima indispensabile sia nella formulazione
degli sponsali che nella celebrazione del matrimonio - soprattutto per non avallare
l’equivoco che la conclusione degli sponsali, presente il parroco, dovesse ritenersi vero
matrimonio. Nonostante queste prescrizioni, il basso clero continua a intervenire alla
celebrazione familiare del rito nuziale, creando in tal modo una divaricazione tra base e
vertice che confonde i fedeli. A Selargius, ancora nel 1849, Angius scrive nel dizionario
del Casalis che “quando si contraggono gli sponsali, il prete assiste alle consuete




                                           “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 33
cerimonie ed è testimone della parola di uno all’altra” [Angius, Casalis 1849:794, voce
Selargius]

Con il Concilio di Trento, il tradizionale rito familiare assume per la Chiesa il valore di
promessa matrimoniale, ma tra il basso clero e la popolazione la confusione è tale che
ancora nel sinodo del Cariñena - tenutosi a Cagliari circa due secoli dopo il Concilio - si
ritiene necessario precisare in modo esplicito e chiaro la differenza tra sponsali e
matrimonio:
     Gli sponsali consistono in una promessa legittima e mutua di accasarsi, fatta tra i
     contraenti e anteriore al matrimonio che intendono contrarre, ma non sono il
     matrimonio, poiché questo si contrae solo con parole al presente e con
     l’immediata consegna e accettazione17

La differenza tra sponsali e matrimonio è dunque che nel primo si parla al futuro,
mentre nel secondo i verbi sono al presente e il proposito espresso ha validità
immediata.

Da questo momento la celebrazione domestica assume valore di matrimonio solo se:
1) viene consentita dal vescovo tramite dispensa, 2) si svolge alla presenza di
sacerdote e testimoni, 3) si segue scrupolosamente il rituale ecclesiastico, evitando
ogni intromissione legata ai riti tradizionali.

La frequenza con la quale si concede la dispensa è inizialmente molto alta, ma scema
progressivamente nei secoli, sino ad arrestarsi: il matrimonio deve essere celebrato
interamente in chiesa per evidenziare che è questa a detenere il potere sulla
giurisdizione matrimoniale, in contrapposizione coi principi illuministici tendenti a
trasferire tale giurisdizione allo Stato. La cerimonia domestica non è comunque
completa senza la ricezione della benedizione nuziale, questa volta obbligatoriamente
e senza eccezioni in chiesa. In caso contrario, agli sposi non è consentita la
coabitazione.

Non concludere tutte le formalità ecclesiastiche e vivere comunque come marito e
moglie, è una pratica comune a molte parti d’Italia prima del Concilio, ed è un
comportamento che persiste in Sardegna addirittura sino al XX secolo, nonostante le
pesanti multe e le pubbliche pene comminate ai trasgressori. La Chiesa, come
apprendiamo dai sinodi, continua per secoli a non comprendere le tradizioni locali e le


17
  Constituciones Synodales del Arzobispado de Caller, Caller-S.Domingo 1715, pp. 74 -75, traduzione di
Pala, 1985:68, nota 8.




34 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
motivazioni che portano all’inosservanza delle norme, attribuendo gli abusi a lussuria e
superstizione. Secondo studiosi come Turtas, Loi e Pala, la tradizione culturale sarda
sul matrimonio resistette per secoli rifiutando quegli elementi imposti “per legge”, ma
mancanti di un radicamento nella realtà locale.


1.5.2 Le coabitazioni
In particolare, la condanna della Chiesa si rivolge contro la coabitazione - sia dei
fidanzati, sia degli sposi che non abbiano ricevuto la benedizione nuziale - terminologia
ecclesiastica colla quale non si indica necessariamente che i due abitino insieme,
quanto il sospetto che siano colpevoli di avere rapporti carnali [Loi S., 1988:133, nota
83].

La pratica delle coabitazioni è un fenomeno diffuso che persiste non solo nelle zone
più interne e isolate, ma anche nel Campidano di Cagliari, come rileva Pillai
analizzando le fonti archivistiche e segnalando casi a Selargius nel 1808, a Sinnai nel
1817, a Quartu Sant’Elena nel 1844, a Settimo San Pietro nel 1851. A Maracalagonis,
nel 1828, si arriva addirittura a ritenere lo “scandalo delle coabitazioni” causa di siccità,
castigo inviato da Dio per punire tali peccatori [Pillai, 1992:443]. Angius annota per
Selargius una media di 20 matrimoni l’anno, con punte che sorpassano i 30
   quando per ordine superiore furono obbligati a contrarlo quelli che erano fidanzati
   da qualche anno e anche evatitavano [abitavano?!] [Angius, Casalis 1849:793,
   voce Selargius]

Simile offesa a Dio veniva punita tramite multa e penitenza pubblica. Le multe
dovevano essere pagate più o meno da tutti, perché il significato della coabitazione
poteva essere esteso sino a includervi qualunque frequentazione dei due fidanzati.
Così, denuncia l’arcivescovo de la Cabra nel 1647, i più ritenevano, avendo pagato la
pena imposta, di aver provveduto all’espiazione della propria colpa e continuavano a
coabitare. Le sanzioni erano estese a tutti quelli che sapevano, ma non denunciavano
immediatamente la situazione, compreso il prete.

Se la multa poteva essere evitata a causa delle misere condizioni economiche, la
penitenza era d’obbligo. Il sinodo del Cariñena (1715) è estremamente chiaro al
riguardo:
   Quando lo stato di povertà sia tale, da costringere la nostra pietà a condonare la
   multa pecuniaria, in nessun caso verrà perdonata la penitenza pubblica da
   compiersi in un giorno di precetto nel corso della Messa Maggiore stando in piedi,
   tenendo ciascuno in mano una candela accesa scalzo l’uomo, e la donna unita a



                                            “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 35
lui, scarmigliata con i capelli sciolti, e tale penitenza vogliamo sia compiuta prima
     di sposarsi da tutti i colpevoli di coabitazione, qualunque sia il grado e la
     condizione cui appartengono18

Più avanti nello stesso testo si legge che tutta la comunità parrocchiale è tenuta a
vigilare sui comportamenti dei promessi sposi e a denunciarne la coabitazione al
parroco, che, da parte sua, sotto pena di scomunica, è obbligato a tentare di separare i
due fidanzati; se al terzo tentativo non ottiene risultati può vietarne l’ingresso in chiesa.

Come è possibile spiegare questa contrapposizione tra Chiesa e popolazione? Quali
sono le motivazioni che spingevano le persone a incorrere nelle pesanti sanzioni della
Chiesa piuttosto che rinunciare alle pratiche tradizionali?

Una prima risposta attribuisce l’inosservanza delle leggi a ignoranza e superstizione.
L’ignoranza, l’abbiamo visto, è dovuta al repentino cambiamento della legislazione
matrimoniale, che lo stesso clero fatica ad accettare. Per quanto riguarda la
superstizione, il sinodo cagliaritano del 1651 riporta quanto già affermato nel sinodo del
1586, la credenza secondo cui gli sposi dovevano avere rapporti sessuali prima del
matrimonio ecclesiastico, altrimenti sarebbero morti entro l’anno. La chiesa sarda, nello
stesso sinodo, si oppone a questa superstizione accrescendo, sulla base di alcuni
racconti biblici, le considerazioni negative sulla sessualità e consigliando l’astensione
dai rapporti sessuali ancora per tre giorni dopo aver ricevuto la benedizione nuziale
[Loi S., 1988:125].

Ma la motivazione più importante, probabilmente, è un’altra, legata alle spese
necessarie per pagare le pratiche della celebrazione ecclesiastica. Loi Salvatore riporta
la situazione del XVI secolo in cui la sola lletra de sposar, la licenza di matrimonio,
costava 12 lire; poiché la paga di un lavoratore dipendente di basso livello era di circa
25 lire l’anno, si può ben capire la difficoltà di affrontare simili spese [Loi S., 1988:135,
nota 90]. Alle spese si aggiunga il tempo necessario a ottenere le dispense, specie
quelle per cui era necessario il ricorso alla Santa Sede, come nel caso dei matrimoni
tra consanguinei. La dispensa poteva essere concessa gratuitamente solo se i
contraenti non possedevano beni di alcun tipo, dietro richiesta della curia;
diversamente, erano costretti a vendere tutti i loro beni al fine di racimolare il
quantitativo richiesto.


18
   Constitutiones Synodales del Arzobispado de Caller, Caller-S.Domingo 1715, p. 180, citazione e
traduzione in Pala, 1985:69 nota 12




36 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
Nel Campidano, a queste motivazioni, si deve aggiungere la consuetudine (talmente
radicata da essere valida tutt’oggi), che vuole che il matrimonio sia celebrato solo dopo
che l’uomo abbia procurato la casa e la donna il necessario per viverci: “non ci si sposa
se non ci sono le condizioni dell’autonomia” [Ortu in Oppo (a cura di), 1990:39]. Nella
stragrande maggioranza dei casi, la struttura familiare era ed è caratterizzata dalla
mononuclearità, rafforzata dalla regola della neolocalità: questo significa che la coppia
si trasferisce in una nuova casa, in cui risiede coi propri figli. A conferma di quanto
affermato, riporto i risultati della ricerca condotta da Anna Oppo [in id. (a cura di),
1990:101] sulla struttura delle famiglie in alcuni paesi del Campidano di Cagliari fra
Ottocento e Novecento. Soddisfare questa esigenza comportava lunghi anni di
sacrifici, lunghi anni di fidanzamento che le famiglie tendevano ad alleviare
concedendo ai futuri sposi la possibilità di frequentarsi senza troppi controlli.




1.2 Tabella tratta da Oppo in id. (a cura di), 1990:101


1.6 L’esame dei contraenti
Il matrimonio in Chiesa era reso problematico anche dalle condizioni poste affinché
fosse riconosciuto come valido. La dottrina dogmatica della Chiesa cattolica sviluppata
nel Concilio di Trento, concepiva il matrimonio come sacramento e contratto
indissolubile, unione di un uomo con una donna. Affinché tale contratto fosse valido, i
contraenti dovevano rispettare questi presupposti [Pala, 1985:68 nota 4]:
1. aver raggiunto l’età legittima ;
2. non essere parenti entro il quarto grado;
3. non aver fatto voto solenne di castità;
4. non essere incorsi in nessuno dei 15 impedimenti;



                                               “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 37
5. esprimere il consenso di fronte a un sacerdote e dei testimoni;
6. esprimere il consenso in modo libero e non estorto, in modo esplicito con parole o
segnali equivalenti.

L’età minima per convolare a nozze era di 14 anni per l’uomo e di 12 per la donna; la
Chiesa, da un certo momento, stabilisce anche l’età minima perché si potesse essere
coinvolti in contratti sposalizi, sette anni per entrambi [Atzori, 1997:34]. Effettivamente,
l’età non è mai stata un grosso problema: per le motivazioni descritte precedentemente
(preparazione del corredo, spese per la celebrazione), era molto più frequente che gli
sposi si sposassero tardi, causando tassi di fecondità ridotti rispetto alla media
europea. Da una ricerca condotta da Anna Oppo in alcuni paesi del Campidano di
Cagliari sull’età del primo matrimonio di piccoli e medi proprietari coltivatori (nati prima
del 1910), si ricava che l’età media degli uomini è di 29 anni, mentre per le donne di
24,7 [vedi sotto].




1.3 Tavola tratta da Oppo, in id. (a cura di), 1990:108

Per quanto riguarda la posizione della Chiesa nei confronti dei vincoli parentali, sembra
che il comportamento fosse differente a seconda che la richiesta provenisse
dall’ambiente popolare o da quello nobiliare [Atzori, 1997:25]. Nei confronti dei nobili, la
dispensa veniva concessa più facilmente, mentre i ceti popolari, di fronte al rifiuto della
Chiesa, erano costretti a subire l’infamia di autodenunciare la consumazione di rapporti




38 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
carnali, anche quando questo non era vero, extrema ratio per ottenere la dispensa in
questi casi.

Gli impedimenti al matrimonio, così come fissati dal Concilio di Trento, si dividevano in
dirimenti e impedienti: i primi (sono 15) rendevano nullo il matrimonio, i secondi (sono
4) lo rendevano illecito; mi sembra necessario, per l’importanza che ad essi veniva
attribuita, riportare integralmente, almeno in nota, la spiegazione di Pala per ognuno di
essi19.


19
   Pala, 1985:56-57
1) ERROR: l'errore di persona ha luogo quando si contrae matrimonio con persona diversa da quella con
la quale si voleva contrarre;
2) CONDITIO: si verifica quando si contrae matrimonio con persona che appartenga a condizione
totalmente diversa da quella dichiarata;
3) VOTUM: l'emissione del voto di castità perpetua rende nullo il successivo matrimonio sia per l'uomo
che per la donna;
4) COGNATIO: la parentela, che può essere di ordine spirituale, ed è quella che ha origine dal battesimo
e dalla cresima tra padrini e i figliocci; di ordine legale, che si stabilisce tra l'adottante e l'adottato; di
ordine naturale ed è la vera consanguineità. Quest'ultima, in linea retta invalida qualunque matrimonio, in
linea collaterale fino al quarto grado compreso;
5) CRIMEN: in quattro modi si configura questo impedimento: a) quando si uccide il coniuge con la
collaborazione o consenso del coniuge dell'ucciso; b) quando l'uccisione del coniuge è stata preceduta
dall'adulterio consumato con il coniuge superstite; c) quando l'adulterio è accompagnato dalla promessa
di contrarre matrimonio dopo la morte del coniuge; d) quando, vivendo la legittima consorte, si contrae e
si consuma il matrimonio con altra persona, consapevole dell'esistenza del vincolo precedente.
6) CULTUS DISPARITAS: quando il matrimonio viene contratto tra persone di diversa religione, p.e. tra
un cristiano e un giudeo, un pagano, un maomettano;
7) VIS: è la violenza morale esercitata sulla volontà di uno dei contraenti con castighi, vessazioni o
minacce, per indurlo a contrarre matrimonio senza la necessaria libertà. Deve essere esercitata in forma
grave ed ingiusta.
8) ORDO: è l'impedimento derivante dall'aver ricevuto uno degli ordini maggiori; suddiaconato,
diaconato o sacerdozio, che comporta l'obbligo del celibato permanente.
9) LIGAMEN: è dato dal vincolo matrimoniale validamente contratto e non sciolto legittimamente, che
vieta di stringere matrimonio con altri.
10) HONESTAS: detto anche di quasi-affinità, esiste tra l'uomo e i consanguinei in linea retta della donna
con la quale ha celebrato valido fidanzamento o contratto matrimonio non consumato; nel primo caso si
ferma al primo grado, nel secondo caso si estende fino al quarto grado compreso.
11) AMENTIA: la pazzia nella forma che privi l'individuo della ragione e, conseguentemente, della
possibilità di emettere valido senso.
12) AFFINITAS: nasce dal vincolo tra uno dei coniugi e i parenti dell’altro coniuge a seguito di
matrimonio valido, anche se non consumato. Circa il grado di estensione del divieto, bisogna distinguere:
se nasce da copula lecita, si estende fino al quarto grado compreso, se illecita, fino al secondo grado. I
gradi dell'affinità vanno computati con quelli della consanguineità.
13) CLANDESTINITAS: si verifica quando il matrimonio viene celebrato in assenza del Parroco proprio,
o di due o tre testi.
14) IMPOTENTIA: consiste nell'incapacità al compimento della copula matrimoniale, antecedente al
matrimonio e perpetua, cioè inguaribile;
15) RAPTUS: ha luogo con il sequestro violento della donna per scopo di matrimonio. Può effettuarsi o
in forma violenta o con lusinghe e seduzione.

1) TEMPUS: riguardava il tempo della celebrazione che restava interdetto in due periodi dell'anno




                                                    “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 39
Nulla sfuggiva alle strette maglie della Chiesa, che predisponeva nel dettaglio le
modalità di esame non solo dei contraenti, ma anche dei loro testimoni.
L’interrogatorio, che si svolgeva sotto giuramento, prevedeva che i testimoni
rispondessero in modo convincente e preciso riguardo alla possibilità che fossero stati
pagati per testimoniare il falso, le basi sulle quali si fondava la sicurezza della
mancanza di impedimenti, le circostanze dell’avvenuta conoscenza dei fidanzati [Pala,
1985:58-59].

Se si superava il controllo, nella parrocchia dei due fidanzati, per tre settimane di
seguito, veniva pubblicizzato il futuro matrimonio durante la messa maggiore, per dare
la possibilità a quanti ne fossero a conoscenza, di rivelare eventuali impedimenti di cui
non si fosse ancora accertata l’esistenza.


1.7 Su trasferimentu de is arrobas - Il trasporto del corredo
Con il matrimonio si voleva costituire un nuovo nucleo familiare che fosse autonomo e
autosufficiente. Perché questo fosse possibile, occorreva disporre dei beni e dei mezzi
che consentissero un’attività remunerativa e le attività quotidiane da svolgersi in casa.
Nel caso di famiglie contadine - la maggioranza nel Campidano - il minimo
indispensabile per cominciare una vita a due, consisteva di un posto dove stare,
dell’essenziale per la cucina e la camera da letto, biancheria, un minimo di provviste e
di sementi, e possibilmente una coppia di buoi da giogo [Ortu e Angioni in Oppo (a
cura di), 1990].

Tutti i cultori di tradizioni popolari si trovano d'accordo su quanto spetti all’uomo e alla
donna nel provvedere al necessario per la casa. L’uomo deve provvedere alla casa,
che deve essere nuova o almeno accuratamente ripulita e re-imbiancata, e deve inoltre
provvedere a tutto ciò che attiene al proprio lavoro20; mentre alla donna spetta



liturgico: dall'avvento all'epifania; dal mercoledì delle ceneri all'ottava di Pasqua inclusa;
2) VOTUM: il voto semplice di entrare in religione o il voto di castità, di non sposarsi, il voto di accedere
agli ordini sacri rendevano illecito il matrimonio anche se tale voto fosse stato emesso privatamente;
3) SPONSALIA: gli sponsali contratti validamente e non sciolti con atto legale;
4) ECCLESIAE VETITUM: il divieto apposto dalla Chiesa a contrarre matrimonio fino a che non venisse
chiarita l'esistenza o meno di un impedimento di legge.
20
   Per un’analisi approfondita della divisione sessuale del lavoro nella Sardegna tradizionale si veda Da
Re, 1990. In generale, rispetto al resto d’Europa, per la Sardegna tradizionale gli studiosi hanno notato
“una più marcata specializzazione maschile in uno dei tre grandi mestieri tradizionali: contadino, pastore,
artigiano, da una parte; e dall’altra, una più marcata specializzazione genericamente femminile nell’essere
e nel dover essere donna di casa, cioè addetta ai lavori domestici connessi con l’alimentazione, il vestiario




40 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
Folklore nuziale e identità sarda. I matrimoni alla sarda
Folklore nuziale e identità sarda. I matrimoni alla sarda
Folklore nuziale e identità sarda. I matrimoni alla sarda
Folklore nuziale e identità sarda. I matrimoni alla sarda
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Folklore nuziale e identità sarda. I matrimoni alla sarda

  • 1. Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN TEORIA E METODOLOGIA DELLA RICERCA ANTROPOLOGICA SULLA CONTEMPORANEITÀ FOLKLORE NUZIALE E IDENTITÀ SARDA L’ANTICO SPOSALIZIO SELARGINO Prova finale di Francesca Salis Relatore Prof. Fabio Viti Correlatore Prof. Gino Satta Anno Accademico 2005/2006
  • 2.
  • 3. Indice INTRODUZIONE 5 Tradizione e tradizionale 6 Dal dato folklorico al bene culturale attraverso la valorizzazione turistica 8 Identità, appartenenza. Il paese 10 Strategie e segni dell’appartenenza 14 Note sulla ricerca: posizione etnografica e metodologia della ricerca 15 1 “DELLE USANZE MARITALI” NEL CAMPIDANO DI CAGLIARI 21 1.1 Premessa 21 1.2 Su fastigiu - Il corteggiamento 25 1.3 La figura del paralimpu 27 1.4 Sa pregunta - La domanda della sposa 29 1.5 Fidanzamento o matrimonio? 30 1.5.1 La risposta della Chiesa romana 33 1.5.2 Le coabitazioni 35 1.6 L’esame dei contraenti 37 1.7 Su trasferimentu de is arrobas - Il trasporto del corredo 40 1.8 La benedizione degli sposi e il corteo nuziale 44 1.9 La cerimonia del matrimonio 45 1.10 Il ritorno del corteo nuziale. L’usanza detta s’arazza o de sa razia 48 1.11 Su cumbidu - Il banchetto nuziale 49 2 LA TRADIZIONE NELLA RAPPRESENTAZIONE DEI MATRIMONI ALLA SARDA 53 2.1 Le componenti tradizionali della festa 59 2.1.1 Il rituale della vestizione 59 2.1.2 Il commiato dai genitori 61 2.1.3 Il corteo nuziale 64 2.1.4 Dopo il rito ecclesiastico 67 2.1.5 La classificazione di Pirisinu 71 2.1.6 Il trasporto del corredo e Sa coja antiga ussassesa 72 2.1.7 Le particolarità di Su Hujviu Ulianesu - L'Antico Matrimonio Olianese 75 2.2 Le fonti etnografiche 77 2.3 Matrimonio tradizionale? 81 3 TRA FASCISMO E VALORIZZAZIONE TURISTICA REGIONALE 85 3.1 Il racconto degli informatori 86 3.1.1 Tasselli diversi di un unico mosaico? 88 3.2 Lo studio del folklore 89 3.3 Il foklorismo fascista 91 3.3.1 Analogie tra Matrimonio Selargino e foklorismo fascista 95 3.3.2 La festa dell’Uva 97 3.4 La valorizzazione turistica dell’isola 98
  • 4. 4 LA MESSA IN SCENA DELLA “SELARGINITÀ” 105 4.1 Da borgo del contado a città dell’hinterland 105 4.1.1 L’economia selargina nell’Ottocento 105 4.1.2 Boom demografico e abbandono dei campi 106 4.1.3 L’abbandono delle feste tradizionali 112 4.1.4 Appendici di Cagliari? 115 4.1.5 La reazione selargina 116 4.2 Una tradizione “tipicamente selargina” 121 4.2.1 Lo spessore temporale della festa 122 4.2.2 Bistiri a sa sarda a Selargius 122 4.2.3 Sa cadena de anca, la catena rituale del Matrimonio Selargino 136 5 IL FOLKLORE COME RICHIAMO TURISTICO E IDENTITARIO 143 5.1 Finanziamenti e spese 145 5.2 Il tempo della festa 151 5.3 Lo spazio della tradizione 154 5.3.1 Percorrendo il passato 154 5.3.2 Sa domu cerexina – La casa selargina 161 5.3.3 E se si trasferisse tutto a San Lussorio? 165 5.4 La partecipazione di gruppi in costume 168 5.5 Quale lingua? 175 BIBLIOGRAFIA 185 4 ▪ Indice
  • 5. Introduzione Sappiate adunque, ch' egli v'ha in Sardegna una quantità di costumi ricca di considerazioni, d'aspetti, e di riguardi, che non furono ancora posti sotto la speculazione della filosofia […]. Laonde i moderni Etnografi, che pei faticosi e incerti studi […] tanti rischi si mettono, e tante migliaia di leghe divorano, qui vicino nel seno del Mediterraneo, senza tanto travaglio, verrebbero al pienissimo loro intendimento. Ivi non molto discosto dalle marine d'Italia troverieno di che render paghi i desideri loro, meglio che nelle giogaie del monte Tauro, del Caucaso, e del Tibet […]. Bresciani, Dei costumi dell’isola di Sardegna, 1850 Il lavoro qui presentato intende proporre una lettura etnografica delle modalità di produzione e costruzione di una tradizione e di un’identità locali all’interno di processi storici e sociali di portata più ampia, messe in atto in un’area dell’hinterland del capoluogo sardo attraverso l’organizzazione di una manifestazione folkloristica relativa alle locali usanze nuziali. I matrimoni folkloristici sono un fenomeno culturale sardo ancora inesplorato, di cui si fornisce una prima contestualizzazione generale. La riproposta delle tradizioni sarde relative alle usanze matrimoniali messe in scena in una manifestazione folkloristica quale “L’Antico Sposalizio Selargino”, ma anche in altre simili manifestazioni organizzate in altri paesi dell’isola, si presenta come oggetto di studio di particolare interesse per analizzare e verificare sul campo alcuni dei temi dominanti della ricerca antropologica: tradizione, identità, turismo. La ricerca sul campo si sofferma in maniera prevalente su uno solo di questi “matrimoni alla sarda”, attraverso il quale vengono mostrate le forme di produzione della tradizionalità legate alla costruzione di un sentimento di appartenenza locale, a loro volta connesse a processi intellettuali, politici, sociali ed economici di portata più ampia. Uno studio che intende, da una parte, analizzare i modi di costruire un sentimento di appartenenza comunitaria e dall’altra le dinamiche e gli effetti che tale costruzione mette in atto. Le interpretazione locali della tradizione rappresentano strategie di elaborazione di una identità locale e nello stesso tempo della relazione di quest’ultima con i più ampi contesti regionale, nazionale, europeo. Il doppio (se non triplo) piano interpretativo secondo cui sono esaminati molti degli elementi che caratterizzano la manifestazione è l’effetto più evidente della compresenza di locale e globale. Si interpreta per sé e per i
  • 6. propri fini, ma anche in base all’idea che ci si fa delle aspettative degli Altri, categoria che include da una parte i sardi (esterni al paese), dall’altra i turisti (“continentali” o stranieri). Tradizione e tradizionale In quanto evocazione del passato, la rappresentazione folkloristica, si pone non solo come ricostruzione o riproposta autentica e fedele della tradizione, ma anche come forma di “salvaguardia e difesa della tradizione”. Dagli anni ’80 del secolo scorso la nozione di tradizione è stato oggetto di ampio dibattito antropologico il quale ha determinato uno spostamento nell’orientamento teorico ed empirico della disciplina folklorica o demologica, nella sua accezione di “studio della tradizione”. Attualmente la nozione di tradizione non è più intesa come eredità culturale accettata passivamente dai contemporanei per un suo valore intrinseco, quanto piuttosto “a process of interpretation, attributing meaning in the present though making reference to the past” [Handler, Linnekin, 1984:287], ”un meccanismo di selezione, e anche di invenzione, proiettato verso il passato per legittimare il presente” [Canclini, trad. it. 1998:160], “una strategia fondativa” [Ariño, 1997:14], “un punto di vista che gli uomini del presente sviluppano su ciò che li ha preceduti, una interpretazione del passato condotta in funzione di criteri rigorosamente contemporanei […] un processo di riconoscimento di paternità” [Lenclud, 2001:131] La disciplina non può allora limitarsi allo studio di ciò che preventivamente è stato etichettato come tradizionale, bensì cogliere i processi attraverso cui si giunge alla costruzione di oggetti che si pensano dotati di tale proprietà. L’obiettivo di questo lavoro non è studiare la manifestazione folkloristica in quanto oggetto dotato di tradizione, l’interesse non è rivolto ai comportamenti tradizionali come dati, quanto piuttosto come prodotto finale di pratiche sociali e di strategie discorsive. Oggetto della ricerca è la comprensione delle concrete modalità degli usi della tradizione, il come e il perché della conservazione nel presente, nonché il senso e l’effetto sociale prodotto. Attraverso quali strategie di valorizzazione e di attribuzione di senso la tradizione si impone come insieme oggettivo di dati di fatto? Come viene utilizzata, da quali attori sociali, in quali contesti? Per quali motivi? In questo senso, si è cercato di andare oltre l’impostazione di Hobsbawm e Ranger [1982]: sappiamo ormai che “tradizioni e identità, sentimenti nazionali e immaginari 6 ▪ Introduzione
  • 7. regionalisti, paesi e storie locali, pensieri e oggetti tipici sono invenzioni” [Palumbo, 2003:13]. Con il termine “invenzione” non si intende però implicare che la comunità inventata sia falsa, l’antropologia sembra aver definitivamente chiarito che invenzione non equivale a falsità1. È un dato acquisito che la forza della tradizione non si misuri sulla base del criterio dell’esattezza della ricostruzione storica [Lenclud, 2001:132]. I contenuti della memoria possono essere inventati, possono ignorare il passato o negarne la complessità. Tale consapevolezza ha permesso di mettere in secondo piano il problema dell’autenticità, quindi di aprire la ricerca ai fenomeni cosiddetti folkloristici o di revival, che l’approccio classico escludeva o cercava di gestire separando i tratti “autentici” da quelli “inventati” e ricorrendo a categorie sfuggenti come quelle di relitto, persistenza, recupero2. La dimensione fittizia delle appartenenze non va vista in termini di verità o falsità [Gallini (a cura di), 2003:19; Anderson, trad. it. 1996:25]. L’attenzione degli studiosi dovrebbe piuttosto concentrarsi sulla capacità di dire ”il vero anche quando dice il falso”, non “di corrispondere a dei fatti reali, o di riflettere ciò che è stato, quanto di enunciare delle proposizioni assunte, in definitiva, in anticipo come consensualmente vere” [Lenclud, 2001:132]. Se l’appartenenza, come nel caso studiato, si costruisce come forma di riferimento a un passato comune, trasmesso attraverso la modalità esplicita della rappresentazione pubblica, il suo punto nevralgico è la forza dell’interpretazione del passato proposta. Qual è dunque l’immaginario di cui si nutre un fenomeno come il Matrimonio Selargino? Quali sono le proposizioni assunte come vere? Su quali discorsi, oggetti, gesti, basa la sua capacità di essere accettata e vissuta come emotivamente coinvolgente, incorporata, vera? Poiché “non è tuttavia mai inutile saperne un po’ di più sui materiali di cui il presente si impadronisce per costituirne una tradizione” [Lenclud, 2001:132] e poiché un sostanziale accordo presenta tali manifestazioni come fedeli rappresentazioni di un modo tradizionale di fare le cose di cui si conservano dei frammenti, il primo capitolo getta uno sguardo sul tradizionale prototipo cui fanno riferimento i matrimoni folkloristici. In particolare, ho cercato di restringere lo studio alle usanze relative al Campidano di Cagliari, per tentare un’analisi più specifica della rassegna selargina, senz’altro la più significativa. 1 Si vedano a questo proposito gli articoli di Handler, Linnekin, 1984 e Hanson 1989 e 1991 2 Una definizione di queste categorie si trova in Delitala,1992 Introduzione ▪ 7
  • 8. Nel secondo capitolo vengono invece descritti i tratti tradizionali che costituiscono il Matrimonio Selargino nella sua concretezza. Non si tratta tanto di un tentativo di descrizione della festa quanto di analisi degli elementi messi in scena. Da una parte questi sono stati messi a confronto con la tradizione nuziale in area campidanese, dall’altra con gli altri matrimoni folkloristici presenti in Sardegna. Tale strategia ha permesso di far emergere l’arbitrarietà nella scelta operata dai costruttori della tradizione, per cui sulla base di un canovaccio simile si ottengono messe in scena differenti, a seconda degli aspetti che si decide di privilegiare in termini di tempo e spazio. Dal dato folklorico al bene culturale attraverso la valorizzazione turistica Non tutto ciò che viene dal passato è considerato degno di essere conservato, trasmesso culturalmente o valorizzato come tradizionale. La nozione di tradizione rimanda piuttosto all’idea di un ambito determinato di fatti, un deposito culturale selezionato. Alcuni studiosi, ad esempio Lenclud, hanno visto nel processo di tradizionalizzazione la scelta consapevole, arbitraria e strumentale per cui “ogni gruppo, ogni entità sociale si procura la propria tradizione, andando ad attingere dal passato il vessillo che più gli conviene” [Lenclud, 2001:133]. Altri, come Dei, hanno criticato questa impostazione, mettendo in dubbio la consapevolezza della strumentalità del processo, nonché l’arbitrarietà della scelta, che “non tutte le tradizioni, in un certo contesto storico- sociale, sono ugualmente suscettibili di essere inventate” [Dei, 2002:87]. Nel caso in questione, le motivazioni emerse a livello locale non appaiono sufficienti a spiegare la nascita di una festa come il Matrimonio Selargino. La manifestazione è uno dei primissimi esempi di valorizzazione del folklore sardo, sorta in un periodo, gli anni ’60 del secolo scorso, in cui il richiamo alla tradizione stentava ancora ad acquisire quella connotazione positiva che costituisce il requisito fondamentale del suo costituirsi come bene culturale etnografico. Solo inserendo la manifestazione nel più ampio contesto delle politiche culturali intraprese durante il fascismo prima e di quelle adottate dalla Sardegna in seguito all’istituzione quale regione autonoma poi, è possibile comprendere le motivazioni che inizialmente portarono alla proposta di una manifestazione di questo tipo. 8 ▪ Introduzione
  • 9. Nel terzo capitolo ho quindi cercato di dare conto, almeno in parte, delle dinamiche storiche e culturali che hanno dato luogo al processo di “turisticizzazione del dato folklorico”, segnalato, forse per la prima volta, da Gallini nel 1971, cioè al recupero in un contesto diverso degli elementi della tradizione, trasformati in spettacolo per i turisti. Si noti che se molti aspetti del folklore sardo sono sopravvissuti sino ad oggi, la ragione va ricercata anche nell’aver concepito il folklore come un’importante risorsa fonte di richiamo turistico. Non è un caso dunque, che la valorizzazione delle tradizioni si presenti storicamente in strettissima connessione con la promozione turistica. La stessa gestione del folklore è stata affidata agli enti di promozione turistica. Da una parte la Regione, che si è preoccupata di stabilire leggi apposite di salvaguardia istituzionale e finanziamento pubblico, dall’altra i vari enti, a tutti i livelli istituzionali (dall’Esit alle Pro Loco, passando per Ept e Aziende di Soggiorno), che si occupano della distribuzione dei finanziamenti, gestendo, patrocinando, reinventando feste e sagre “tradizionali”. In generale sono state quelle feste a carattere devozionale che ancora resistevano, con difficoltà, nei vari centri, le prime espressioni di folklore valorizzate e finanziate dai vari enti regionali. Ma sin dall’inizio, si è cercato anche di incoraggiare la creazione di nuove feste che potessero essere oggetto di interesse turistico. Un esempio è appunto il Matrimonio Selargino, una manifestazione folkloristica che nasce come rappresentazione di aspetti di vita tradizionale per l’intrattenimento dei turisti. “Spettacolo folkloristico”, “rievocazione”, “ricostruzione storica” “rassegna”, “sagra”, “kermesse”, “festa”: l’assenza stessa di un’unica espressione per designare questi eventi è un sintomo del loro non essere facilmente riconducibili a un’unica categoria di analisi e di comprensione. Una precisazione terminologica: come si vedrà, ho scelto di indicare le feste oggetto di studio con gli stessi nomi con cui sono indicate dal pubblico e dagli organizzatori, lasciando cadere la distinzione tra folklore e folklorismo. La decisione è stata presa sulla base di due motivazioni principali. La prima è che il fenomeno Matrimonio Selargino - ma il discorso mi sembra possa essere esteso anche agli altri “matrimoni alla sarda” - non mi pare possa essere analizzato efficacemente se studiato come esempio di folklore trasformatosi in folklorismo. Non si tratterebbe cioè della trasposizione dal piano della realtà vissuta a quello della rappresentazione spettacolare, una consapevole manipolazione, una trasformazione strumentale del materiale folklorico per scopi diversi da quello per cui è stato creato. Il Matrimonio Selargino è piuttosto un prodotto pensato sin dall’inizio per la fruizione da parte di un Introduzione ▪ 9
  • 10. osservatore esterno, che riprende gli elementi del folklore (balli, canti, musiche, vestiario) che si pensa possano incuriosirlo maggiormente. Non solo vengono ripresi elementi caduti in disuso o abbandonati completamente da tempo, ma il cui accostamento simultaneo sulla scena non ha riscontro con una ricostruzione verosimile del passato. Non si dovrebbe guardare alla manifestazione come un caso di messa in spettacolo di ciò che prima spettacolo non era, quanto piuttosto come un caso di spettacolarizzazione tout court, cioè come scelta e realizzazione di qualcosa appositamente per essere esibito, per attrarre l’attenzione su di sé. La rappresentazione non evoca la realtà passata che si dice rappresentare, evoca piuttosto un’immaginaria realtà passata mai esistita, ma che appare verosimile per la presenza dei simboli (attuali) dell’identità. La seconda motivazione è che nei discorsi degli informatori i termini folklore e folkloristico sono usati alla stregua di sinonimi, il termine folkloristico non ha quella valenza negativa e svalutante assegnatagli da Cirese [1974:63], così come neppure mi è sembrato averla il termine turistico. La distinzione è stata avanzata solo da parte di alcuni informatori locali “colti”, per suggerirmi di distogliere l‘attenzione da un oggetto di ricerca non degno di seria attenzione. I termini folkloristico e turistico, utilizzati per segnalare i prodotti culturali non autentici, appaiono in questo contesto i referenti di una demarcazione accademica per ciò che merita di essere preso in considerazione dagli scienziati sociali. Identità, appartenenza. Il paese Nata come festa per i turisti, col tempo la manifestazione si radica nel paese e ne modella l’autorappresentazione secondo i dettami dello sguardo turistico. Il paese è la prima dimensione di appartenenza a cui ora fa riferimento la festa, ma non è l’unica, poiché inserita in quella più ampia dell’identità isolana. Con i termini identità e appartenenza, si intende fare riferimento alle strategie di identificazione (o di differenziazione) di individui e gruppi. Prendendo a prestito le parole di Gallini, il termine appartenenza rinvia ”alla dimensione soggettiva dei costruttori, in quanto attori sociali, e alle diverse, concrete situazioni al cui interno si mettono in atto procedure di condivisione o di competizione per definire appartenenze, 10 ▪ Introduzione
  • 11. esclusioni, inclusioni”3. Anche Clemente, scrivendo dell’identità locale, ne mette in luce la connessione con la dimensione dell’individuo, più che con quella del gruppo [Clemente, 1997:22]. Entrambi fanno riferimento all’espressione demartiniana di patria culturale, un “prodotto culturale mai definito una volta per tutte” che rinvia, sul piano soggettivo, “al duplice ordine delle fedeltà e delle scelte” [Gallini (a cura di), 2003:7], alla “possibilità paradossale di scegliersi le radici” [Clemente, 1997:23]. La prima e principale forma di appartenenza indagata in questo lavoro è quella di paese. “L’Isola ha una capitale che possiede un suo contado e poi, lontani, ci sono tanti piccoli regni disuniti, trecentosessanta comuni”, scrive Todde [2006:30]. Selargius è uno dei paesi del “contado”, la cui politica culturale può essere letta come tentativo di resistenza e salvaguardia della propria autonomia e identità dall’inglobamento da parte della “capitale”. La prima parte del quarto capitolo fornisce i dati sui notevoli cambiamenti subiti dal paese nel giro di pochissimi decenni, i quali potrebbero spiegare l’attaccamento a una manifestazione che si caratterizza anche come ricerca di un passato perduto, un recupero nostalgico di memorie che dia il senso di una continuità culturale là dove al contrario si è vissuta una profonda discontinuità. Nella sua ripetizione annuale l’evento si traduce in atto simbolico che operando una congiunzione di passato e presente fonda la comunità di paese definendola nei suoi termini sociali, politici e religiosi. Selargius è un paese non in ragione delle dimensioni dell’abitato (che allora sarebbe più giusto definirla città) quanto piuttosto in riferimento agli sforzi compiuti per definirsi come “primo centro di riferimento e relazione a una cultura ibrida e molteplice” [Clemente, 1997:39], quindi in sintonia con l’analisi di Clemente del concetto di paese nel nostro Paese, “un mondo della memoria e dell’identità comune” [ivi:24], nonché “una realtà dell’immaginazione” [ibidem]. Il richiamo alla dimensione immaginativa è piuttosto frequente nei lavori che si interessano dei processi di costruzione delle appartenenze. Il concetto di comunità immaginate è di Anderson, che lo applica all’idea di nazione mentre sembra negarne l’applicazione a quelle entità più piccole dove tutti i membri si conoscono tra di loro4. Messa da parte questa distinzione, oggi prevale l’impostazione che ritiene che ogni appartenenza, a qualsiasi livello, contenga un’importante dimensione immaginativa. “Di 3 Presentazione di Gallini in id. (a cura di), 2003:12. In questo lavoro i termini identità e appartenenza sono usati per lo più in modo interscambiabile, mentre per Gallini il primo si distingue dal secondo per “le eventuali implicazioni psicologiche”. Introduzione ▪ 11
  • 12. fatto, ogni appartenenza esiste e si manifesta attraverso un lavoro sociale di produzione dell’identità e della differenza, cioè attraverso l’attivazione di modalità – immaginarie e pratiche – atte a indicare che questo o quello è un gruppo, e come tale è dotato di determinate caratteristiche che lo rendono differente da un altro” [Gallini (a cura di), 2003:7]. L’immagine costruita attraverso il Matrimonio Selargino si inserisce pienamente nel discorso tracciato da Palumbo sulla “produzione di spazi culturali autentici, oggettivati all'interno del mercato delle identità turistiche: una comunità, una storia, un'identità, un patrimonio” [Palumbo, 2003:285]. Un’immagine turistico –commerciale capace di agire in scenari ben più ampi di quello locale, una risorsa di cui si è capito quasi subito il potenziale economico e di prestigio sociale. Ed ecco che, appena è stato possibile, la festa, riguardante una tradizione genericamente “sarda”, organizzata inizialmente dalla sezione provinciale dell’Enal, diventa la “nostra” festa, la festa delle tradizioni selargine, il cui controllo viene assunto interamente dalle organizzazioni del paese (a questo scopo si provvede a fondare la Pro Loco). Se uno dei problemi fondamentali per la costruzione delle appartenenze è la necessità di autenticarsi mediante un’interpretazione del passato che sia accettata dai membri della comunità, l’abilità dei selargini è stata quella di appropriarsi di una festa i cui contenuti erano stati già da tempo oggettivizzati da diversi, importanti intellettuali (Marcello Serra, Francesco Alziator5). Una festa quindi che non poneva i soliti problemi di acquisizione del consenso, già stabilito, permettendo ampia libertà di movimento in uno spazio da tempo condiviso, familiare. Qui il Matrimonio Selargino diventa oggetto di competizione ai fini del relativo controllo. La manifestazione dà la possibilità di sfruttare risorse economiche e simboliche legata alla costruzione di mondi tipici, provenienti dalle istituzioni regionali nonché dall’inserimento nei mercati internazionali (per fare un esempio, la manifestazione è regolarmente presente alla Bit, la Borsa Internazionale del Turismo che si tiene annualmente a Milano). L’evento è connesso, inoltre, alle logiche e all'immaginazione dei media (tv locali e nazionali, quotidiani e riviste), capaci d'inscrivere rapidamente 4 Anderson, trad. it. 1996:25 e ivi, prefazione a cura di D’Eramo, p. 10 5 Il coinvolgimento di Serra verrà esaminato nel secondo capitolo. Per quanto riguarda Alziator, alcuni informatori mi hanno fatto notare, quale motivo di vanto e di legittimazione, che l’importante studioso ha assistito di persona alla festa e ha usato le foto scattate durante la manifestazione per illustrare quanto scritto nella sezione “Amoreggiamento e nozze” in La città del sole [1963] 12 ▪ Introduzione
  • 13. universi locali in contesti comunicativi globali, fornendo ai protagonisti del conflittuale campo politico locale nuovi motivi di competizione e di legittimazione. Nella complessa macchina organizzativa messa in moto dalla festa è possibile scorgere l'attivazione di reti clientelari; la determinazione del ruolo riservato a ciascuno fornisce informazioni importanti sul paese e sul gioco delle alleanze in esso presenti. Si tratta di un aspetto delicato della ricerca che si è preferito in gran parte non esplicitare ma di cui si è ovviamente tenuto conto. In generale, si può affermare che la gestione della festa è oggetto di contesa tra i membri di un notabilato locale che non può essere inquadrato facilmente se studiato in termini di appartenenza politica, posizione occupazione, grado di istruzione. Non pare neppure particolarmente utile, in questo contesto, poiché rischia di poter essere applicata praticamente a tutti, la categoria di pendolarismo, sviluppata da Gian Luigi Bravo e approfondita nei lavori di Piercarlo e Renato Grimaldi, per la quale si ipotizza che i membri della comunità più interessati e attivi nella riproposta, ma anche nella conservazione, delle feste e cerimonie tradizionali, sono le persone che quotidianamente o comunque frequentemente, per lavoro, per studio, per attività politiche o associative, si spostano tra formazioni sociali differenti. Ciò che accomuna gli organizzatori della festa sembra piuttosto il loro identificarsi primariamente come “selargini”. Si tratta in netta prevalenza di uomini, oggi tutti sulla sessantina, che gestiscono attivamente la vita politica e culturale del paese sia attraverso le posizioni occupate in consiglio comunale, sia occupando le posizioni più importanti in associazioni culturali quali Pro Loco, gruppo folkloristico, coro, confraternite, ecc. Un’altra osservazione che mi pare importante mettere qui in evidenza è l’idea condivisa da tutte queste persone e vissuta come ovvia, naturale, per cui la manifestazione è da considerarsi una risorsa fondamentale per lo sviluppo dell’economia locale. L’assessorato alla cultura si confonde con quello al turismo e la cultura popolare è classificata sotto la voce di patrimonio, valorizzata principalmente in relazione al suo ritorno turistico. Anche qui, come praticamente in tutta l’isola, tutto ciò che si pensa possa favorire il turismo è oggetto di cure particolari6. 6 Il ruolo del turismo come mezzo di sviluppo è un tema molto sentito in Sardegna. A questo proposito, una voce fuori dal coro è quella dell’intellettuale cagliaritano Giorgio Todde [2006:30] che si scaglia contro la politica prevalente per cui “l’unica crescita desiderata, progettata e accettata è quella turistica. Il turismo violento e nevrastenico dei due mesi anfetaminizzati durante i quali organismi semplificati - i turisti – confondono la vacanza (il vuoto nobile dei pensieri) con la vacuità (il pieno di pensieri vuoti)” Introduzione ▪ 13
  • 14. Strategie e segni dell’appartenenza Quali sono gli strumenti messi in campo dai soggetti per costruire una versione celebrativa della propria storia, del proprio patrimonio culturale, di una propria singolare appartenenza comunitaria? Per Palumbo è necessario concentrarsi sul ruolo centrale e attivo (performativo) giocato da simboli e oggetti, dai modi di dire e dai modi di fare, nel realizzare la naturalizzazione dell’evento presentato. Anche per Gallini [(a cura di), 2003:12] parole, oggetti, gesti, azioni sono il modo attraverso cui si riproducono nell’immaginario sociale i segni dell’appartenenza, gli strumenti con cui si è capaci sia di intervenire sul reale sia di rappresentarlo. Costumi, oggetti, gesti della tradizione veicolano un messaggio che è tanto più forte quanto riesce a sfruttare un terreno narrativo e ideologico comune sia, e in primo luogo, al singolo paese contesto della manifestazione, sia a tutti i sardi in generale. Per ognuno di questi elementi si è constatata la maggiore e minore efficacia simbolica sulla base dei discorsi che scaturiscono intorno alla manifestazione. L’obiettivo della seconda parte del quarto e del quinto capitolo è appunto quello di esaminare il ruolo giocato da specifici elementi nel contesto del Matrimonio Selargino. Nel quarto capitolo vengono esaminati in particolare i discorsi intorno agli elementi chiamati a mostrare la selarginità della festa: l’abbigliamento tradizionale, la catena, la riproduzione di una tavola del 1800 scelta come logo dell’evento. Nel quinto capitolo sono esaminati altri elementi quali la questione dell’uso della lingua sarda, le motivazioni sottese all’uso dello spazio, quale la scelta di ambientare parte della rappresentazione in tipiche case campidanesi e la scelta del percorso del corteo nuziale, le motivazioni che hanno spinto a situare la festa in settembre, le voci di spesa e gli enti finanziatori dell’evento. La rappresentazione folkloristica è per certi aspetti assimilabile a una rappresentazione metonimica per cui una parte rappresenta il tutto. Da questo punto di vista viene esaminato il ruolo dei gruppi folkloristici, in cui una parte della comunità rappresenta l’intera comunità. Se per Clemente “l’asse del mondo paesano laica e moderna è rappresentata piuttosto dalla banda municipale che non dalla chiesa e dal campanile” [Clemente, 1997:38], nel contesto sardo il ruolo di “ibrido societario” e “perno della vita paesana di oggi”, di associazione “laica e regolamentata, interclassista, disponibile per le circostanze istituzionali politiche, civili e religiose, per quelle del ciclo della vita, e per il ballo” mi sembra piuttosto attribuibile alle associazioni folkloristiche locali. 14 ▪ Introduzione
  • 15. Nella costruzione del prodotto “matrimonio tradizionale” si nota una continua manipolazione degli assi cronologici e degli ordini di antecedenza -successione, causa- effetto. Inoltre, in tutti i matrimoni folkloristici è presente la tendenza alla ritualizzazione di ogni oggetto e gesto. Particolarmente evidente nei casi in cui è la “tradizione” a prescrivere una certa formalità (ad esempio per la benedizione materna), si parla di comportamento rituale anche per ogni altro elemento che presenti una certa regolarità nelle sequenza delle azioni. La vestizione degli sposi si trasforma così in “rituale della vestizione”, la consegna delle chiavi in “rituale della consegna delle chiavi”, ecc. Anche senza arrivare agli eccessi del caso olianese, in cui ogni cosa, oltre ad essere ritualizzata, è dotata di un preciso significato simbolico, l’effetto ricercato è l’attribuzione di una certa solennità e gravità all’evento, un modo per affermare la fierezza e l’orgoglio che sembra debba caratterizzare ogni rappresentazione identitaria sarda. Note sulla ricerca: posizione etnografica e metodologia della ricerca Ho sempre partecipato al Matrimonio Selargino, sin da piccola. Era emozionante venire svegliati la domenica presto dall’allegro frastuono dei tamburini di Oristano, in giro per le vie del paese a ricordare alla “comunità” selargina il grande evento (ora i tamburini non ci sono più: la pro loco ha scoperto che non sono “filologicamente” corretti). Quei colori, quelle forme, un costume per ogni paese, uno più bello dell’altro, il suono delle launeddas, i buoi inghirlandati, i balli improvvisati durante le pause del corteo, poi quelle anziane donne che fermavano la sfilata per rompere dei piatti mentre formulavano oscure benedizioni: tutto mi pareva così ricco di fascino, così suggestivo. Ho sempre trovato la manifestazione suggestiva e affascinante, è vero, ma anche, come per tutti quelli della mia età, così ridicola, di cattivo gusto, in qualche modo umiliante. Si era orgogliosi di non conoscere il sardo, di non aver nulla a cha fare con balli e canti sardi, ed era difficile comprendere le ragioni per le quali ci fossero sardi che insistessero nell’esaltare figure “ridicole” come quella del pastore in mastruca col viso deformato dallo sforzo di suonare sa launeddas. La sardità era qualcosa che si lasciava volentieri venisse attribuito agli abitanti di Orgosolo o ai Nuoresi, in ogni modo agli abitanti di un interno arretrato e isolato. E allora perché una tesi su questo argomento? “Un altro sardo che scrive di Sardegna” mi sono sentita ripetere più e più volte, scoprendo di far parte di una numerosa compagnia. Perché gli studiosi sardi di antropologia tendono a confinare le proprie Introduzione ▪ 15
  • 16. ricerche nell’ambito dell’Isola? Se i casi fossero in numero limitato si potrebbe parlare di coincidenza, di comodità o comunque si potrebbe cercare una risposta personalizzata per ogni caso, ma quando si ha di fronte un comportamento generalizzato la questione diventa complessa. A parte il mito persistente di una terra ancora in gran parte da scoprire, a parte la conclamata predilezione di settore per le isole, è difficile trovare una risposta. Sospetto però che abbia in qualche modo a che fare con un certo senso di inferiorità culturale che serpeggia tra i sardi, i quali, stanchi di venir derisi con le solite battute sulla dizione o sulle pecore, reagiscono rinnegando qualsiasi legame con l’isola oppure, al contrario, approfondendone la conoscenza. Nel mio caso penso sia stata fatale la combinazione di amore-odio resa affascinante dallo “sguardo antropologico” e amplificata dallo scoprirmi improvvisamente identificata come “sarda” dagli amici “continentali”, oggetto di quegli stessi pregiudizi e stereotipi con cui i cagliaritani si fanno beffe degli abitanti del nuorese. Il luogo di partenza di questa ricerca non è semplicemente situato in Sardegna, è il paese in cui sono cresciuta e ho vissuto la maggior parte del tempo. Ero informata delle difficoltà di fare ricerca sul campo, avevo letto degli svantaggi dell’essere un estraneo per il gruppo che si studia, ma non ero preparata alle difficoltà dell’essere identificata come “membro del gruppo”. Sin dall’inizio, sapendo di non poter prevedere le conseguenze, la mia idea è stata quella di evitare il più possibile ogni riferimento alla mia famiglia e al mio parentado. L’obiettivo era quello di passare inosservata, cercando di lavorare nel modo più autonomo possibile, rimanendo estranea a tutte le eventuali reti di relazioni in cui sarei stata inserita mio malgrado. Ma il tentativo di presentarmi solamente come studentessa di antropologia culturale a Modena, è caduto quasi sempre nel vuoto. Oltre una certa fascia di età, questo tipo di presentazione non è mai stato accettato come valido: la reazione era invariabilmente “Ah… E fill’e di chini sesi?” da parte degli interlocutori più anziani o l’equivalente in italiano (“Chi sono i tuoi genitori?”) da parte degli altri. Se il riferimento al nome, poi alla professione, poi al luogo di nascita dei miei genitori non era sufficiente, si passava alle stesse domande per i nonni, e se questo non bastava si passava agli zii. Solo al termine di un più o meno lungo processo di inquadramento, mi veniva chiesto quale fosse l’oggetto delle domande che intendevo rivolgere. Seppure continui a non sopportare l’idea che il giudizio sulla mia persona e la disponibilità nei miei confronti possa dipendere, almeno in una prima fase, da questioni su cui non ho il minimo controllo, quali l’essere la figlia o la nipote di, è giocoforza ammettere che in certi contesti sia stato così. 16 ▪ Introduzione
  • 17. Un aspetto interessante della mia posizione sul campo è stata quella di essere identificata come selargina, ma non al 100%. Per essere una selargina doc mio padre, mia madre e i miei nonni sarebbero dovuti nascere e vivere a Selargius, ma solo mio padre e la sua famiglia sono di Selargius, mentre mia madre e la sua famiglia di Quartucciu, per cui, nonostante abbia sempre vissuto a Selargius, non faccio parte della ristretta cerchia dei selargini a tutti gli effetti. Ma se fossi stata completamente di un altro paese, per quanto confinante, molte cose non mi sarebbero state dette perché non sarebbe sembrato opportuno rivelarle a un estraneo e comunque non avrei potuto capirle. Mi è stato riferito cosa è stato raccontato ad altre due ragazze, entrambe di Cagliari, che quest’anno si sono presentate a Selargius interessate a scrivere la tesi sul Matrimonio Selargino (anche loro!): niente, niente di più di quello che è riportato sul dépliant della manifestazione. Probabilmente, se non si fossero accontentate di quelle informazioni, col tempo avrebbero anche potuto superare l’iniziale diffidenza e raccogliere, in molto più tempo e con molta più fatica, le mie stesse informazioni. Se invece fossi stata una selargina doc molte cose non mi sarebbero state dette per due motivi: uno, perché ovvio che le sapessi già e comunque non sarebbe stato affar loro, ma della mia famiglia, mettermene al corrente, due, perché avrei potuto usarle impropriamente, e nessuno vuole essere accusato di aver messo in giro pettegolezzi e voci sul conto di qualcun altro. E in effetti molte domande sono rimaste a lungo senza risposta (molte lo sono ancora), in alcuni casi non mi è stato permesso di registrare, in altri casi qualcuno è stato zittito in mia presenza con eloquenti segni non verbali. Alcuni però, di fronte alla disarmante ingenuità delle domande e all’evidente completa ignoranza dei giochi di potere e del sistema delle alleanze selargine, si sono assunti la responsabilità di spiegarmi il non-detto di molti discorsi, giustificando la mia disinformazione col fatto che, dopotutto, mia madre è di Quartucciu. Una delle principali difficoltà della ricerca sul campo nel proprio paese è stata quella di mantenere le distanze dalle categorie del discorso locale, cercando di mantenere una posizione equidistante dalle parti. Ma è davvero possibile parlare di un evento pubblico così importante per il paese senza entrare nel gioco politico locale? In alcuni casi è stato esplicito che la franchezza con la quale si rispondeva alle mie domande era motivata dalla possibilità di convincermi a sostenere un punto di vista piuttosto che un altro, e di inserirmi, in quanto selargina, nel proprio sistema di alleanze. Ad esempio mi è stata proposta una candidatura per le prossime elezioni amministrative, ma anche un lavoro da “antropologa” in un museo etnografico di prossima (?) apertura. Introduzione ▪ 17
  • 18. Da questo punto di vista, il risultato proposto non accontenterà nessuno dei miei informatori, ma d’altronde neppure me, a cui dispiace dover omettere una parte consistente del mio lavoro. La conoscenza pregressa della manifestazione mi ha aiutato a superare ben presto la facciata della festa per scoprirne il dietro le quinte, ma purtroppo il risultato sono aneddoti, voci, affermazioni sospese tra il detto e il non-detto il cui status di dichiarazioni appare troppo fragile per essere inserite in questo lavoro. Mi rendo conto che molte considerazioni non verrebbero mai ripetute in pubblico e che di molte altre si negherebbe la paternità, inoltre sono consapevole del fatto che alcune mi sono state riferite perché gli interlocutori non si sarebbero mai immaginati che potessero entrare a far parte di un lavoro di tesi, così come altre mi sono state riferite sulla base di un rapporto reciprocamente fiduciatario tra informatore e ricercatore, che preferisco non mettere in crisi. Per tutti questi motivi ho deciso di inserire solo le considerazioni che sono state avanzate da più parti e quelle il cui autore non è immediatamente riconoscibile. Inoltre ho cercato di bilanciare lo status incerto delle prime ricorrendo alle fonti scritte. Buona parte del tempo di ricerca è stata dedicata proprio al reperimento e all’analisi delle fonti scritte, soprattutto dei documenti contenuti nell’archivio comunale e gli articoli di giornali e riviste, sebbene debba ammettere di aver constatato più volte che le informazioni contenute negli articoli di giornale sono soggette a errori, falsità, approssimazioni, tanto quanto le fonti orali. Inoltre, nonostante si dedichi ampio spazio alla descrizione della manifestazione, il materiale utile ai fini di un’indagine approfondita è scarso. I mass media tendono a restare prigionieri dei propri stereotipi: troviamo sempre le stesse foto (solitamente i due sposi “incatenati”) e gli stessi tipi di descrizione con pochissimi cambiamenti (in alcuni casi il taglia e incolla da un anno all’altro è palese). La ricerca empirica si basa dunque su interviste e osservazioni informali (spesso a più voci), ma anche su scambi di e-mail e conversazioni telefoniche, l’esame di collezioni fotografiche e video. Per quanto riguarda il Matrimonio Selargino e il Matrimonio Mauritano si aggiunge l’osservazione diretta. In particolare, per quanto riguarda il primo, si sono rivelati preziosi i ricordi personali delle numerose angolazioni dalle quali ho partecipato alla festa negli anni passati: in alcuni come addetta al servizio d’ordine, in altri alla distribuzione dei dépliant e ancora come punto di riferimento locale per i gruppi folkloristici ospiti. La decisione di affrontare l’argomento dal punto di vista antropologico è del 2004, anno in cui, basandomi sul classico metodo dell’osservazione partecipante, mi sono inserita nell’attività oggetto di ricerca 18 ▪ Introduzione
  • 19. indossando l’abito tradizionale. Durante l’edizione del 2005 ho raccolto i commenti e le osservazioni del pubblico, estendendo i rilievi non solo alla giornata principale dell’evento, ma anche agli eventi collaterali organizzati nei giorni precedenti. Nel 2006 sono riuscita infine ad avere accesso a momenti più privati, tra cui il banchetto nuziale. Come hanno affermato ironicamente alcuni miei amici, ora manca solo che mi sposi anch’io in questo modo… Introduzione ▪ 19
  • 20.
  • 21. 1 “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari Dal che voi vedete quanto degli antichissimi riti abbiano custodito i Sardi nella solennità de' maritaggi: riti che contengono la storia non solo della divina istituzione, ma degli esordi altresì della prima civiltà delle genti occidentali. Tradizioni importantissime, che i Sardi senza punto conoscerlo, ci conservarono inviolate. [Bresciani, Dei costumi dell’Isola di Sardegna] 1.1 Premessa L’area denominata Campidano di Cagliari corrisponde approssimativamente ai territori dell’area cagliaritana, cioè di quell’area che può essere identificata “nel territorio compreso nei 1.1 Comuni del Campidano di Cagliari limiti di una circonferenza che, con centro in Cagliari, si stenda per un raggio di una ventina di chilometri” [Alziator, 1984:15]. È un’estensione che si presta facilmente ad essere delimitata come unità di ricerca, in quanto relativamente omogenea dal punto di vista geografico, storico, linguistico, economico e delle tradizioni culturali. Fin dalle origini tale estensione è stata sottoposta alle medesime influenze culturali, derivanti dalla sudditanza a uno stesso centro politico e ecclesiastico e favorite dalla presenza di una vasta area pianeggiante che ha consentito scambi relativamente facili e frequenti tra i vari paesi della zona, come pure una medesima lingua, la variante campidanese della lingua sarda. Alziator propone alcuni esempi a dimostrazione di questa uniformità: il tipo della casa a pianta rettangolare che gravita sul cortile interno, il tipo del vestiario, sia maschile che femminile, i motivi dell’oreficeria popolare, i motivi del patrimonio leggendario tradizionale, la diffusione e la persistenza della launedda nella musica popolare, una sostanziale unità nella paremiologia, nella
  • 22. religiosità popolare, nella gastronomia ed in non poche manifestazioni del ciclo dell’uomo e dell’anno [Alziator, 1984:32] Non esistono al momento studi che si occupino in modo specifico delle usanze matrimoniali nell’isola. Affrontarne lo studio significa dunque fare i conti con una documentazione scarsa e lacunosa, per di più prodotta con fini e metodologie eterogenei. Inoltre, la scelta di circoscrivere l’ambito di approfondimento a una specifica zona complica ulteriormente la ricerca. Gli studi concernenti l’area campidanese sono senza dubbio pochi, specialmente se si prendono in considerazione i lavori dedicati alla raccolta e all’analisi delle tradizioni popolari, fatto tra l’altro costantemente evidenziato dagli autori presi in esame. È opinione diffusa che la “vera” Sardegna sia altrove, la “sardità” viene presentata - nei dépliant turistici, alla televisione, nei discorsi quotidiani - come una qualità localizzata per lo più nel nuorese e specie tra i pastori (cfr. Satta 2003). Tendenza che coinvolge anche gli studiosi; basterebbe una rapida occhiata nelle biblioteche sarde per accorgersi della netta predilezione per lo studio delle zone più interne dell’isola, più “tradizionali”1. Il Campidano appare, al confronto, un’area poco conservativa, da sempre soggetta alle mode “continentali” del momento, per cui l’attenzione a esso rivolta è di natura per lo più storica e sociologica, mentre l’elemento folklorico è trascurato. Nel tentare una ricostruzione il materiale utilizzabile è essenzialmente di tre tipi differenti: i resoconti dei viaggiatori dell’Ottocento in Sardegna, il diritto ecclesiastico locale, i saggi storici e antropologici pubblicati a partire dagli anni ’70. Il primo tipo di fonti ha il vantaggio di fornire una testimonianza diretta, di prima mano, su realtà culturali ormai scomparse, la cui descrizione è spesso molto dettagliata. Tale materiale ha però tutti i limiti della tradizione della letteratura esotica e di viaggio a cui appartiene di diritto: è costituito da resoconti di politici, uomini di chiesa, esploratori, geografi, che non possiedono un’adeguata preparazione di tipo antropologico e non sono guidati da un progetto scientifico esplicito e coerente. L’attenzione tende a concentrarsi sulla diversità, sulla raccolta di curiosità folkloriche di tipo aneddotico, 1 Angioni è stato uno dei primi antropologi a riequilibrare il quadro degli studi sulla Sardegna, pubblicando diversi importanti lavori sul lavoro contadino, per di più su aree sarde sino a quel momento poco studiate, tra cui ad esempio Rapporti di produzione e culture subalterne. Contadini in Sardegna, Edes, Cagliari, 1974 e Sa Laurera. Il lavoro contadino in Sardegna, Edes, Cagliari, 1975. 22 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
  • 23. espressione di una realtà selvaggia nei cui confronti l’atteggiamento varia dalla condanna morale, alla spiegazione tramite pregiudizi, allo stupore divertito. La cautela nell’utilizzo di questo materiale è quindi d’obbligo: si rischia di attribuire ai più il comportamento di una minoranza, di estendere a tutte le classi sociali il comportamento di una sola, a tutta un’area un’usanza di paese. Da questo punto di vista tale letteratura offre un’immagine omogenea di cultura che non soddisfa la ricerca di una verosimiglianza storica: è un’impresa riuscire a determinare l’estensione di un’attività o di un’usanza in termini di spazio, di tempo, di classe sociale. Inoltre, spesso le osservazioni contenute in questi lavori non derivano da osservazione diretta, bensì dal plagio, dal riassunto spesso erroneo, e altrettanto spesso non dichiarato, di passaggi di opere di viaggiatori precedenti2. Una grande quantità di notizie sulle usanze relative al matrimonio si ricava in maniera indiretta dalle fonti ecclesiastiche: documenti di diritto ecclesiastico locale, annotazioni nei Quinque Libri3, atti matrimoniali, manuali di catechismo. I divieti, le prescrizioni e le punizioni con cui la Chiesa tendeva a regolamentare la condotta dei fedeli svelano quale fosse il reale comportamento delle persone registrando con estrema precisione le circostanze dell’evento da sanzionare e i dati delle persone coinvolte. Sempre a differenza dei resoconti di viaggio, l’analisi dei documenti della Chiesa richiede una discreta preparazione, che consenta di attivare la giusta chiave di lettura del testo, eliminare le considerazioni negative espresse da parte dei redattori, capire il significato nascosto dietro le circonlocuzioni e le formule utilizzate. Da tale documentazione possiamo ricavare ciò che si dovrebbe fare (e con quali modalità) e ciò che non si dovrebbe fare ma si fa lo stesso (con quali sanzioni), ma ben poco possiamo conoscere a proposito di quei comportamenti ritenuti talmente normali, ovvi, tali da non aver bisogno di essere prescritti esplicitamente, o al contrario di essere vietati in quanto accettati anche dalla Chiesa. È solo a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, che la ricerca storica e antropologica si mostra più attenta nei confronti di questioni quali il matrimonio e la famiglia nella 2 A questo riguardo si veda Delitala, 1981 3 Sono così chiamati i registri parrocchiali che in seguito alle normative emanate dal Concilio di Trento ogni parroco era tenuto a compilare e aggiornare costantemente. I registri parrocchiali erano composti da cinque libri (da cui il nome): il libro dei battesimi, delle cresime, dei matrimoni, dei defunti, dei confessati e comunicati (il quale era suddiviso in stati d’anime, elenchi nominativi, dichiarazioni generiche del parroco). Fonte: Anatra, Puggioni, 1983 “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 23
  • 24. Sardegna “tradizionale”. Rispetto ai lavori precedenti, di carattere prevalentemente descrittivo e documentario, questi cercano di stabilire il senso delle regolarità statistiche: le strategie matrimoniali, la struttura delle famiglie, il ruolo della parentela, in contesti ben delimitati in termini di spazio e di tempo. Il più utile in questo caso è sicuramente Famiglia e matrimonio nella società sarda tradizionale a cura di Anna Oppo, raccolta di saggi scaturiti da un convegno dallo stesso titolo tenutosi a Cagliari nel 1988. Purtroppo, però, per ovvie ragioni, le testimonianze degli informatori sono limitate temporalmente al XX, o, al massimo, alla seconda metà del XIX secolo. Per limitare i possibili errori di fraintendimento del testo, legati alla natura e all’eterogeneità del materiale di ricerca, si è privilegiato un approccio di tipo selettivo nella lettura dei documenti. Partendo dalle informazioni ricavate dal lavoro di ricerca sul campo, su ciò che sanno o ricordano le generazioni viventi a proposito delle consuetudini relative a nozze e fidanzamento, si è proceduto all’analisi della letteratura di viaggio, dando la precedenza al materiale che facesse esplicito riferimento a paesi del Campidano di Cagliari, ma utilizzando anche quanto riferito alla Sardegna in generale, in cui fosse possibile riconoscere elementi della tradizione campidanese. Per quanto riguarda il resto delle fonti, la cui contestualizzazione è stata meno problematica, mi sono limitata a una selezione sulla base del criterio geografico. Ciò premesso, si può ora passare ad esaminare il contenuto delle opere che si occupano di fidanzamento e matrimonio in area cagliaritana. 24 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
  • 25. 1.2 Su fastigiu - Il corteggiamento Come è noto, la letteratura antropologica sul matrimonio è vastissima. A seconda della prospettiva con la quale si è affrontato il tema, l’istituzione matrimoniale risulta essere uno dei mezzi privilegiati per sanare conflitti diversamente non sanabili tra famiglie rivali, un modo per spartirsi il potere con un accordo anziché con una lotta aperta, un espediente per non frammentare il patrimonio economico familiare. La scelta del coniuge non appare mai totalmente libera, in quanto ampiamente condizionata da elementi quali la difesa di posizioni sociali, le norme morali vigenti, la salvaguardia del patrimonio economico4. Nella Sardegna tradizionale la questione coinvolgeva solitamente il parentado, impegnato al fine di conseguire il risultato più soddisfacente dal punto di vista della posizione sociale e del vantaggio economico, ma coinvolgeva anche la comunità che poteva stigmatizzare la scelta con più o meno pesanti sanzioni sociali5. Lascerei dunque da parte le questioni relative al grado di libertà individuale nella scelta dei pretendenti, poiché difficilmente le questioni relative al fidanzamento e al matrimonio erano decise unicamente dai diretti interessati. Va comunque precisato che vere e proprie forme di strategie matrimoniali erano per lo più limitate ai “ceti proprietari”. “Calidadi cun calidadi”6, come si sente ripetere ancora, ossia l’endogamia sociale prima di tutto. Anche quando si diffonde la moda del corteggiamento - una pratica sociale che si afferma in Sardegna, come nel resto d’Europa, a partire dal XVIII secolo - questo è rigidamente sottoposto al rispetto della separazione tra le classi. Gli incontri tra i giovani dei due sessi sono sottoposti a un severo controllo affinché avvengano 4 Per un approfondimento di queste tematiche si rimanda a Zonabend, 1988. 5 Un esempio concreto di come le questioni relative alla fondazione di una nuova famiglia non riguardassero solo i diretti interessati e le loro famiglie, ma l’intera comunità, deriva dalla disamina di Gallini (1977, secondo capitolo) delle forme di charivari in Sardegna. L’infrazione della norma che prevedeva che la famiglia fosse monogamica oltre la stessa morte di uno dei partner e che la sessualità fosse finalizzata alla procreazione legittima, era oggetto di una plateale disapprovazione pubblica che prendeva il nome di sa coredda (o suo equivalente linguistico). Nei casi di seconde nozze di un vedovo o una vedova, nozze di un anziano con una giovane, cambiamento di fidanzato di una ragazza, gravidanza illegittima, cioè nei casi di famiglia “rotta” (per morte di uno dei due membri o per abbandono di uno dei due fidanzati) ricomposta su altre alleanze, e nei casi di famiglia incompleta (perchè formata solo di madre e di figlio), veniva organizzata una chiassata satirico-ingiuriosa davanti alla casa dei colpevoli di infrazione delle norme morali, della durata di alcuni giorni. 6 Nel vocabolario del Canonico Giovani Spano il termine sardo calidadi è tradotto come “qualità, stato, condizione”. “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 25
  • 26. nell’ambito di famiglie dello stesso ceto7. Pillai [1991:44] rileva forme di endogamia tecnica, per cui i vignaioli sposano figlie di vignaioli, i muratori figlie di muratori, mentre Alziator [1963:65], accenna a una forma di endogamia non di paese, ma di rione, diffusa a Cagliari “a tal punto da stabilizzare, anche fisiognomicamente, il tipo di ogni quartiere”. Purché sia rispettata questa condizione, si può far posto anche all’amore romantico: Già nel XVIII secolo, similmente a quanto accadeva in altre parti d’Europa “anche tra il popolo si diffonde il linguaggio dell’amore-passione” e sempre più spazio si riserva agli slanci del cuore, alle passioni travolgenti, il tutto unito alla superstizione che i figli dell’amore nascano più belli degli altri. [Pillai, 1991:46- 47] La lunga dominazione spagnola in Sardegna ha fatto sì che soprattutto nell’area cagliaritana l’amore sia stato concepito alla maniera del galanteo spagnolo. Il carattere tipicamente spagnolo dell’amoreggiare in area cagliaritana sarebbe testimoniato da molteplici termini e espressioni: primo fra tutti il termine fastigiu (da cui il verbo fastigiai). Il sostantivo fastigiu deriva dallo spagnolo fasteig o dal catalano festej, che indica il “far festa, rendere omaggio, fare la corte, galanteggiare” [Alziator, 1963:65; Caredda, 1993:33]. Sino alla metà del secolo scorso, il termine fastigiu è servito a indicare le forme attraverso cui poteva esprimersi il corteggiamento cagliaritano: solitamente tra strada e balcone, poteva essere del tutto muto, fatto di soli sguardi, oppure per cenni e attraverso il linguaggio dei gesti, i più intraprendenti si servivano di un rudimentale telefono, costruito con dei barattoli uniti da spaghi tesi. Alziator sottolinea come la distanza tra i due giovani sia una discriminante di classe: a classe più elevata corrisponde una maggiore e più rigida distanza. Il fastigiu si esprime anche attraverso le serenate che il giovane, accompagnato da chitarra, mandolino o mandola, dedica alla sua bella. Alcune di queste serenate di corteggiamento sono giunte sino a noi, raccolte da scrittori italiani e stranieri. Saper gestire i propri spasimanti è una questione di abilità e intelligenza. Le donne che si espongono troppo rischiano di essere occasione di critiche e di scherzi da parte della 7 A questo proposito ci si potrebbe chiedere, con Angioni (1990:18) se l’endogamia di ceto vada intesa come una “una forma di dominanza delle esigenze della famiglia, della parentela” o invece come “una forma di dominanza, di ingerenza, dei rapporti di produzione, di proprietà, anche all’interno dei rapporti di parentela”. 26 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
  • 27. comunità, fatto che può pregiudicare l’onore di una donna e quindi ogni sua possibilità di accasarsi. In ogni modo, dal XVIII secolo, la diffusione di alcuni modi di dire mostra che le donne non sono più disposte ad accettare passivamente le imposizioni dei genitori o le pretese degli spasimanti, come nei secoli precedenti; la donna si appropria della libertà di donai crocoriga8, donai ciascus9, donai su pagliettu10, tutte espressioni per indicare che la ragazza respinge il corteggiamento. Si dice che le forbicine appese nella cintola di ogni donna, oltre alla funzione di tagliare i fili del cucito, avessero anche un significato simbolico: ai corteggiatori non graditi venivano mostrate nell’atto di tagliare11. I pretendenti respinti si vendicavano con canzoni infamatorie (cantai de malas), imbrattando le porte, sparando schioppettate in direzione della casa della donna. All’irrompere di una maggiore libertà nei rapporti tra i due sessi, una lunga serie di disposizioni normative tenta di ristabilire la sottomissione all’autorità familiare. Si rafforza la consuetudine per la quale è consentito al padre rinchiudere in convento i figli che si fossero messi a corteggiare donne di condizione sociale diversa dalla propria, oppure che volessero sposarsi senza il loro permesso. Si aggrava la condanna per le canzoni infamatorie, punite con mesi di carcere. Baci e abbracci in pubblico continuano a non essere permessi né dal costume, né dalle leggi [Pillai, 1991:47]. 1.3 La figura del paralimpu Quando un giovane proprietario del Campidano vuole sposare una ragazza d’un paese vicino e di condizione pari alla sua, cerca prima di tutto di avere il consenso del proprio padre12 8 Dal greco korkoros, crocoriga o corcoriga è il termine campidanese con il quale si indica la zucca; donai, pigai c. significa “dare (o prendere) un rifiuto” (in amore), calco sullo spagnolo dar calabazag. Vedi Spano, 1972:171 e Wagner, 1989:380. 9 Il termine ciàscu è tradotto sia da Spano [1972:157] sia da Wagner [1989:445] come “scherzo, burla, dispetto”. Secondo Alziator [1963:65] l’espressione donai ciascus deriva dall’espressione spagnola dar chasque, “disingannare”. 10 Wagner [1989:208] assegna un senso dispregiativo all’espressione campidanese donai su paliéttu che traduce con “mandar via, dar la gambata (specialmente in fatto di amore)”. 11 Puxeddu in Camboni (a cura di), 2000:154 12 Della Marmora 1826, ediz. 1995:105. Alberto Ferrero conte di La Marmora (Torino 1789- ivi 1863). Generale piemontese, il La Marmora trascorse lunghi periodi della sua vita in Sardegna come comandane militare. Alle sue eccelenti capacità di studioso si devono il Voyage e l’Itinéraire, e inoltre la costruzione di una carta della Sardegna (1845) che è stata per oltre mezzo secolo la più perfetta rappresentazione cartografica della Sardegna. Il nome di Alberto Ferrero conte di La Marmora si trova citato a volte come “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 27
  • 28. Questi, se ritiene che la ragazza sia degna dell’attenzione del ragazzo, chiama una persona di fiducia che si presti a saggiare il parere della famiglia di lei. Alziator [1963] sostiene che sia il padre o il tutore di lui a recarsi direttamente a casa della famiglia di lei, ma probabilmente questo avveniva solo quando si era già sicuri dell’esito positivo della richiesta; il rischio di subire un rifiuto fungeva da deterrente nei casi incerti. Un rifiuto esplicito e diretto sarebbe stato un affronto imperdonabile, cui ovviava la figura dell’intermediario (di cui si poteva disconoscere l’operato). Tutta la letteratura in materia tende a soffermarsi sulla figura degli intermediari. Alziator scrive di “comari compiacenti, vere professioniste in materia, precisa edizione cagliaritana delle casamenteras spagnole” cui si ricorreva in contesti urbani, mentre nell’area non urbana “esisteva il paralimpu, che a nozze concluse riceveva in dono un paio di scarpe” [Alziator, 1963:67]. Lai Roggero [1995:63] ne descrive le caratteristiche: la paraninfa doveva possedere la parlantina facile ed essere dotata di una certa dose di diplomazia e di molta discrezione. Nonostante le proibizioni ecclesiastiche, su cui ci soffermeremo più avanti, questa funzione era spesso assegnata ai sacerdoti: come esempio si può citare quanto affermato nel sinodo celebrato nel 1576-77 a Cagliari in cui si impone tassativamente ai curati sotto pena di dieci denari a non immischiarsi in nessun modo nella trattazione dei matrimoni come intermediari […], a non intromettersi in alcuna maniera e a non portare dall’una all’altra parte nessun segno d’oro o d’argento o qualunque altro dono13 Uomo o donna, si trattava comunque di una figura che doveva aver facile accesso alla casa della donna, per non destare sospetti sul vero oggetto della sua visita. Questi, ricevuto l’incarico, si recava a casa della giovane prescelta, di preferenza a sera inoltrata, per dare meno nell’occhio. Dopo i “necessari” convenevoli, entrava subito in argomento, e con molta abilità metteva in evidenza le doti del richiedente, sottolineando in particolare i suoi pregi e le sue qualità [Lai Roggero, 1995:63] La risposta alla richiesta era solitamente differita nel tempo (Lai Ruggero precisa: non prima di “due settimane”) anche in caso di risposta affermativa, affinché il parentado La Marmora, altre come Lamarmora oppure Della Marmora; in questo lavoro si è scelto di usare l’ultimo tipo di trascrizione. 13 Synodus Diocesana Calaritana, (D.F.Perez, 1576-77), Decretum II (De requisitis ad matrimonium certe contrahendum), cap.V, citato in Pala, 1985:67 28 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
  • 29. potesse accertare l’assenza di impedimenti di alcuna sorta all’unione dei due giovani. Una frase è rivelatrice della posizione della donna in tutta la vicenda: alla giovane interessata non era consentito mostrare un eccessivo compiacimento [Lai Roggero, 1995:63] 1.4 Sa pregunta - La domanda della sposa Se la famiglia di lei si mostrava favorevole all’unione dei due ragazzi, il passo successivo era la visita ufficiale da parte dei genitori di lui in casa della ragazza, per regolare le questioni relative a eredità e proprietà destinate ai futuri sposi. Giunti a un accordo, si stabiliva il giorno per la richiesta ufficiale di matrimonio, chiamata sa pregunta (o precunta), dal verbo spagnolo “preguntar”, cioè chiedere. Il giorno fissato, parenti e amici dello sposo si recano in abito di festa a casa della futura sposa. Giunti sulla soglia della casa, ci si accorge che il portone è sbarrato e nessuno risponde al ripetuto bussare, da dentro la casa s’inizia a dare una qualche risposta ai pretendenti solo quando questi, dopo aver bussato ripetutamente, fanno finta di spazientirsi. Gli si chiede che cosa vogliano e che cosa portino e la risposta è: “Onore e virtù”. A questo punto la porta viene aperta e il padrone di casa, facendo credere di non sapere di averli fatti attendere, li accoglie nella stanza degli ospiti dove è riunita tutta la famiglia in abito da festa [Della Marmora 1826, ediz. 1995:105] Nel resoconto di Smyth, questo momento è seguito da un profondo silenzio finché uno dei più anziani, di provata onestà, invitato espressamente, chiede la ragione per la quale c’è tanta buona gente in casa dell’amico [Smyth in Boscolo (a cura di), 2003:92] La persona incaricata, che può essere il padre dello sposo, lo sposo stesso o un altro uomo, risponde affermando di avere bisogno di aiuto per ritrovare un animale perduto (o rubato? 14) che ritengono si sia nascosto nella casa. La richiesta ufficiale di matrimonio collega la tradizione popolare sarda alla tradizione di buona parte dell’Europa. Il rito della fidanzata nascosta è conosciuto in Francia come fiancée cachée o substituée, in Inghilterra come mock bride, nel mondo germanico con 14 In Animali perduti. Abigeato e scambio sociale in Barbagia (1989:129 e sgg.) Caltagirone mette in evidenza come questa fase della cerimonia del fidanzamento possa essere descritta come una vera e propria azione di abigeato. Tra le diverse similitudini si nota ad esempio che la dichiarazione riguardante l’aver perduto del bestiame è la stessa che si usa per la ricerca del bestiame rubato (“in circa ‘e perdimentu” nel dialetto barbaricino) “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 29
  • 30. la falsche braut; si tratta in sostanza di un dialogo nel quale la richiesta di matrimonio è trasfigurata nella scusa della ricerca di un animale smarrito [Alziator, 2005:41]. In alcuni casi, l’animale che simboleggia metaforicamente la donna è un’agnella, altre volte una colombella, una pecora o una giovenca; ciò che accomuna questi animali è il fatto di essere di sesso femminile e di essere solitamente bianchi, per evidenti ragioni simboliche legate all’idea di purezza, castità, ecc.. Un esempio del discorso dell’uomo è il seguente: Siamo venuti per chiedere il vostro aiuto, affinché possiamo ritrovare la colombella smarrita che cerchiamo da lungo tempo. Essa è così bella, così modesta, così dolce ed unica, che la vita senza di lei non ha più senso. Siamo sicuri che si trova in questa casa, perciò non andremo via se prima non la consegnerete a noi [Lai Roggero, 1995:64] Il padrone di casa può far finta di non capire, e presentare uno alla volta i propri figli maschi e poi le figlie femmine dicendo “Cercate questo?” finché nella stanza viene portata la futura sposa, tenuta nascosta fino a quel momento, accolta dalle esclamazioni di gioia di amici e parenti del fidanzato. 1.5 Fidanzamento o matrimonio? Secondo i resoconti di alcuni viaggiatori dell’800, la domanda della sposa ha luogo in un giorno diverso da quello del fidanzamento ufficiale, mentre per altri ne costituirebbe parte integrante. Nel primo caso, il cerimoniale prevede che si fissi il valore dei rispettivi doni e il giorno in cui si farà lo scambio, nell’altro si procede direttamente al reciproco scambio. Tali doni sono chiamati segnali, dal latino “signa”, “senyals” in catalano. La ragazza, invitata dal padre, consegnava al futuro suocero il dono destinato al fidanzato; il suocero ricambiava con un altro dono. Il dono per la ragazza consisteva generalmente in elementi del vestiario oppure gioielli. Un tipo di anello di fidanzamento molto diffuso era il maninfide, di origine bizantina, il cui nome significherebbe “le mani (strette) in (atto di) fede”, dal fatto che sulla lamina sono incise due mani che si stringono; la stretta di mano simboleggia il patto d’amore 30 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
  • 31. suggellato15. Pare che nella Sardegna tradizionale gli uomini non usassero anelli, per cui, all’atto di ufficializzazione del fidanzamento, la promessa sposa donava non un anello, bensì oggetti quali elementi del vestiario, gioielli o anche un coltello finemente lavorato. Secondo Gometz [1995:63] la donna metteva nella mani dell’uomo il coltello, cioè un’arma di difesa (oltre che strumento di lavoro quotidiano), “quasi a pretendere dal futuro sposo protezione e difesa”. Ciò che segue è di grande interesse perché è stato frainteso dalla stragrande maggioranza degli studiosi. Viene detto che durante il pranzo che segue, i due giovani mangiano nello stesso piatto e, da questo momento, si considerano come uniti da un vincolo indissolubile [Bottiglioni, 2001:29], mutavano di abito, mettendo alcuni capi di abbigliamento propri degli sposati [Loi S., 1988:133], il fidanzamento ha luogo generalmente in presenza del rettore o di un altro sacerdote, per conferirgli maggiore validità [Smyth in Boscolo (a cura di), 2003:92], il fidanzamento veniva festeggiato quasi al pari di un matrimonio [Lai Roggero, 1995:65], inoltre viene riferito che al fidanzamento segue spesso una lunga convivenza dei fidanzati more uxorio avanti il matrimonio, senza che la coscienza comune trovi alcunché da riprovare […] Quello che avviene durante questo periodo non è più fatto della comunità, ma rientra negli affari personali dei due [Alziator 2005:38 e sgg.] la donna iurata era già considerata come appartenente allo sposo. Dada sa paraula, questi poteva anche possederla senza riprovazione salvo a subire le conseguenze della vendetta se fosse venuto al suo impegno: la violenza usata da altri sulla sposa fu pareggiata a quella usata sulla donna maritata.16 Detto questo, viene da chiedersi: non sarà che quello che gli studiosi chiamano fidanzamento o “sponsali” sia piuttosto da intendere come un vero e proprio matrimonio? 15 Gometz, 1995:61. Nella stessa pagina aggiunge che “un tempo, in quasi tutti i paesi dell’isola, non era consentito alle donne non maritate o non fidanzate portare l’anello, che era il simbolo esteriore della donna che aveva contratto un patto di fede o il vincolo matrimoniale”. 16 Citazione di Besta, La Sardegna medievale, Palermo, Reber, 1908:171, in Murru Corriga [in Oppo (a cura di), 1990:237] “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 31
  • 32. Di Tucci [1922:13-17] si interroga sulla questione, avanzando delle ipotesi che però non lo convincono del tutto. Gli sponsali sardi sarebbero costituiti da una combinazione di elementi: su di un fondo romano si innesterebbero consuetudini germaniche con altre di incerta provenienza, nel dubbio attribuite all’inventiva dei sardi. Come gli sponsalia romani, si tratterebbe di una promessa di matrimonio, ma diversamente dalla tradizione romana, richiede una forma speciale e un tipo di contratto particolare. Il contratto stabilisce il periodo approssimativo delle nozze, ma non prevede un limite massimo di tempo, a differenza dei due anni contemplati sia dal diritto romano, sia dal diritto longobardo; fissa il regime economico dei coniugi: “la dote”, per il sistema dotale, la comunione generale per i matrimoni a ladus a pare, quella degli utili per i matrimoni assa sardisca”; impone una sanzione in caso di scioglimento della promessa, per cui, a differenza del fidanzamento romano, ma similmente alle usanze longobarde, ha carattere di obbligazione. Non è stipulato direttamente dalle parti, ma dai genitori, che assumono la posizione di fideiussori rispetto alle future nozze dei figli; la figura dei genitori è quindi equiparata a quella dei “mundualdi” del diritto germanico, piuttosto che a quella di “paterfamilias” romani, anche se poi è difficile spiegare come mai, a differenza degli sponsali “barbarici”, è completamente sconosciuto il prezzo del mundio, vero o simbolico, termine col quale, nell’antico diritto germanico, si definiva la signoria esercitata dal capofamiglia su tutte le persone e cose componenti il gruppo familiare. Alziator, nel 1957, accenna al problema, ammettendo la difficoltà di individuare le origini di tale situazione. Non trovando di meglio, si appella a quella che tradizionalmente è considerata la causa prima di ogni problema sardo, cioè l’isolamento, il quale avrebbe reso lenta e difficoltosa l’assimilazione delle istituzioni cristiane, favorendo il persistere di antiche usanze. Gli effetti determinati dagli sponsali, prima di tutto la coabitazione all’infuori del matrimonio, potrebbero essere la traccia di un periodo precristiano in cui l’istituto del matrimonio era considerato nella coniunctio maris et foeminae e nulla più, all’infuori di ogni diritto positivo o di ogni norma morale o religiosa [Alziator, 2005:38] La realtà sembra molto diversa. Nel rituale bizantino la celebrazione del matrimonio prevede due momenti distinti: nel primo i fidanzati, interrogati dal sacerdote, esprimono il loro consenso con decisione irrevocabile, nel secondo si celebra il sacramento in chiesa in modo solenne, senza replicare il consenso [Pala, 1985:102]. A seguito della totale affermazione degli usi bizantini da parte della Chiesa sarda [Pala, 1985:61], la 32 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
  • 33. celebrazione tradizionale in casa, preceduta, come abbiamo visto, dal contratto familiare, era considerata un vero e proprio matrimonio, mentre la celebrazione in chiesa una semplice formalità. Si noti che nella lingua sarda mancano i termini “fidanzamento” e “fidanzata/o” così come li intendiamo attualmente, mentre sono presenti i termini mulleri (dallo spagnolo “mujer”) e sposa. È plausibile avanzare l’ipotesi del mutamento semantico dei termini in seguito al Concilio di Trento? La mia ipotesi (tutta da verificare) è che in seguito al Concilio il primo termine - mulleri - prese a significare che quest’ultima era riconosciuta come tale anche dalla Chiesa e dallo Stato (in quanto la cerimonia nuziale si era celebrata seguendo le prescrizioni canoniche), mentre il secondo termine - sposa - cominciò ad essere utilizzato per la donna sposata agli occhi della comunità, ma che Chiesa e Stato consideravano solo come ufficialmente fidanzata. 1.5.1 La risposta della Chiesa romana La Chiesa Romana interviene in Sardegna per disciplinare le usanze matrimoniali sin dal sec. IX; ma è con il Concilio Lateranense IV del 1235 che vengono sancite nello specifico le formalità per il matrimonio: accertamento della mancanza di impedimenti, obbligo delle tre pubblicazioni, scambio del consenso di fronte al sacerdote, benedizione nuziale. Celebrare il matrimonio senza osservare tali norme comportava il rischio di sanzioni molto severe, tuttavia, sebbene la celebrazione nuziale familiare non fosse ritenuta “lecita”, era comunque considerata “valida” [vedi Loi 1988 e Pala 1985]. Le cose cambiano radicalmente con il Concilio di Trento, durante il quale, nella VII Sessione del 3 marzo 1547 e nella XXIV Sessione dell’11 novembre 1563, si riformula la dottrina sul matrimonio. Viene stabilito che il matrimonio, per essere valido (non più solo per essere lecito), deve essere celebrato di fronte al parroco o a un suo delegato, alla presenza di almeno due testimoni. Contemporaneamente si vieta ai parroci di prendere parte alle celebrazioni in famiglia. La Chiesa romana tende dunque a limitare l’ambito di partecipazione del sacerdote - prima indispensabile sia nella formulazione degli sponsali che nella celebrazione del matrimonio - soprattutto per non avallare l’equivoco che la conclusione degli sponsali, presente il parroco, dovesse ritenersi vero matrimonio. Nonostante queste prescrizioni, il basso clero continua a intervenire alla celebrazione familiare del rito nuziale, creando in tal modo una divaricazione tra base e vertice che confonde i fedeli. A Selargius, ancora nel 1849, Angius scrive nel dizionario del Casalis che “quando si contraggono gli sponsali, il prete assiste alle consuete “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 33
  • 34. cerimonie ed è testimone della parola di uno all’altra” [Angius, Casalis 1849:794, voce Selargius] Con il Concilio di Trento, il tradizionale rito familiare assume per la Chiesa il valore di promessa matrimoniale, ma tra il basso clero e la popolazione la confusione è tale che ancora nel sinodo del Cariñena - tenutosi a Cagliari circa due secoli dopo il Concilio - si ritiene necessario precisare in modo esplicito e chiaro la differenza tra sponsali e matrimonio: Gli sponsali consistono in una promessa legittima e mutua di accasarsi, fatta tra i contraenti e anteriore al matrimonio che intendono contrarre, ma non sono il matrimonio, poiché questo si contrae solo con parole al presente e con l’immediata consegna e accettazione17 La differenza tra sponsali e matrimonio è dunque che nel primo si parla al futuro, mentre nel secondo i verbi sono al presente e il proposito espresso ha validità immediata. Da questo momento la celebrazione domestica assume valore di matrimonio solo se: 1) viene consentita dal vescovo tramite dispensa, 2) si svolge alla presenza di sacerdote e testimoni, 3) si segue scrupolosamente il rituale ecclesiastico, evitando ogni intromissione legata ai riti tradizionali. La frequenza con la quale si concede la dispensa è inizialmente molto alta, ma scema progressivamente nei secoli, sino ad arrestarsi: il matrimonio deve essere celebrato interamente in chiesa per evidenziare che è questa a detenere il potere sulla giurisdizione matrimoniale, in contrapposizione coi principi illuministici tendenti a trasferire tale giurisdizione allo Stato. La cerimonia domestica non è comunque completa senza la ricezione della benedizione nuziale, questa volta obbligatoriamente e senza eccezioni in chiesa. In caso contrario, agli sposi non è consentita la coabitazione. Non concludere tutte le formalità ecclesiastiche e vivere comunque come marito e moglie, è una pratica comune a molte parti d’Italia prima del Concilio, ed è un comportamento che persiste in Sardegna addirittura sino al XX secolo, nonostante le pesanti multe e le pubbliche pene comminate ai trasgressori. La Chiesa, come apprendiamo dai sinodi, continua per secoli a non comprendere le tradizioni locali e le 17 Constituciones Synodales del Arzobispado de Caller, Caller-S.Domingo 1715, pp. 74 -75, traduzione di Pala, 1985:68, nota 8. 34 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
  • 35. motivazioni che portano all’inosservanza delle norme, attribuendo gli abusi a lussuria e superstizione. Secondo studiosi come Turtas, Loi e Pala, la tradizione culturale sarda sul matrimonio resistette per secoli rifiutando quegli elementi imposti “per legge”, ma mancanti di un radicamento nella realtà locale. 1.5.2 Le coabitazioni In particolare, la condanna della Chiesa si rivolge contro la coabitazione - sia dei fidanzati, sia degli sposi che non abbiano ricevuto la benedizione nuziale - terminologia ecclesiastica colla quale non si indica necessariamente che i due abitino insieme, quanto il sospetto che siano colpevoli di avere rapporti carnali [Loi S., 1988:133, nota 83]. La pratica delle coabitazioni è un fenomeno diffuso che persiste non solo nelle zone più interne e isolate, ma anche nel Campidano di Cagliari, come rileva Pillai analizzando le fonti archivistiche e segnalando casi a Selargius nel 1808, a Sinnai nel 1817, a Quartu Sant’Elena nel 1844, a Settimo San Pietro nel 1851. A Maracalagonis, nel 1828, si arriva addirittura a ritenere lo “scandalo delle coabitazioni” causa di siccità, castigo inviato da Dio per punire tali peccatori [Pillai, 1992:443]. Angius annota per Selargius una media di 20 matrimoni l’anno, con punte che sorpassano i 30 quando per ordine superiore furono obbligati a contrarlo quelli che erano fidanzati da qualche anno e anche evatitavano [abitavano?!] [Angius, Casalis 1849:793, voce Selargius] Simile offesa a Dio veniva punita tramite multa e penitenza pubblica. Le multe dovevano essere pagate più o meno da tutti, perché il significato della coabitazione poteva essere esteso sino a includervi qualunque frequentazione dei due fidanzati. Così, denuncia l’arcivescovo de la Cabra nel 1647, i più ritenevano, avendo pagato la pena imposta, di aver provveduto all’espiazione della propria colpa e continuavano a coabitare. Le sanzioni erano estese a tutti quelli che sapevano, ma non denunciavano immediatamente la situazione, compreso il prete. Se la multa poteva essere evitata a causa delle misere condizioni economiche, la penitenza era d’obbligo. Il sinodo del Cariñena (1715) è estremamente chiaro al riguardo: Quando lo stato di povertà sia tale, da costringere la nostra pietà a condonare la multa pecuniaria, in nessun caso verrà perdonata la penitenza pubblica da compiersi in un giorno di precetto nel corso della Messa Maggiore stando in piedi, tenendo ciascuno in mano una candela accesa scalzo l’uomo, e la donna unita a “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 35
  • 36. lui, scarmigliata con i capelli sciolti, e tale penitenza vogliamo sia compiuta prima di sposarsi da tutti i colpevoli di coabitazione, qualunque sia il grado e la condizione cui appartengono18 Più avanti nello stesso testo si legge che tutta la comunità parrocchiale è tenuta a vigilare sui comportamenti dei promessi sposi e a denunciarne la coabitazione al parroco, che, da parte sua, sotto pena di scomunica, è obbligato a tentare di separare i due fidanzati; se al terzo tentativo non ottiene risultati può vietarne l’ingresso in chiesa. Come è possibile spiegare questa contrapposizione tra Chiesa e popolazione? Quali sono le motivazioni che spingevano le persone a incorrere nelle pesanti sanzioni della Chiesa piuttosto che rinunciare alle pratiche tradizionali? Una prima risposta attribuisce l’inosservanza delle leggi a ignoranza e superstizione. L’ignoranza, l’abbiamo visto, è dovuta al repentino cambiamento della legislazione matrimoniale, che lo stesso clero fatica ad accettare. Per quanto riguarda la superstizione, il sinodo cagliaritano del 1651 riporta quanto già affermato nel sinodo del 1586, la credenza secondo cui gli sposi dovevano avere rapporti sessuali prima del matrimonio ecclesiastico, altrimenti sarebbero morti entro l’anno. La chiesa sarda, nello stesso sinodo, si oppone a questa superstizione accrescendo, sulla base di alcuni racconti biblici, le considerazioni negative sulla sessualità e consigliando l’astensione dai rapporti sessuali ancora per tre giorni dopo aver ricevuto la benedizione nuziale [Loi S., 1988:125]. Ma la motivazione più importante, probabilmente, è un’altra, legata alle spese necessarie per pagare le pratiche della celebrazione ecclesiastica. Loi Salvatore riporta la situazione del XVI secolo in cui la sola lletra de sposar, la licenza di matrimonio, costava 12 lire; poiché la paga di un lavoratore dipendente di basso livello era di circa 25 lire l’anno, si può ben capire la difficoltà di affrontare simili spese [Loi S., 1988:135, nota 90]. Alle spese si aggiunga il tempo necessario a ottenere le dispense, specie quelle per cui era necessario il ricorso alla Santa Sede, come nel caso dei matrimoni tra consanguinei. La dispensa poteva essere concessa gratuitamente solo se i contraenti non possedevano beni di alcun tipo, dietro richiesta della curia; diversamente, erano costretti a vendere tutti i loro beni al fine di racimolare il quantitativo richiesto. 18 Constitutiones Synodales del Arzobispado de Caller, Caller-S.Domingo 1715, p. 180, citazione e traduzione in Pala, 1985:69 nota 12 36 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
  • 37. Nel Campidano, a queste motivazioni, si deve aggiungere la consuetudine (talmente radicata da essere valida tutt’oggi), che vuole che il matrimonio sia celebrato solo dopo che l’uomo abbia procurato la casa e la donna il necessario per viverci: “non ci si sposa se non ci sono le condizioni dell’autonomia” [Ortu in Oppo (a cura di), 1990:39]. Nella stragrande maggioranza dei casi, la struttura familiare era ed è caratterizzata dalla mononuclearità, rafforzata dalla regola della neolocalità: questo significa che la coppia si trasferisce in una nuova casa, in cui risiede coi propri figli. A conferma di quanto affermato, riporto i risultati della ricerca condotta da Anna Oppo [in id. (a cura di), 1990:101] sulla struttura delle famiglie in alcuni paesi del Campidano di Cagliari fra Ottocento e Novecento. Soddisfare questa esigenza comportava lunghi anni di sacrifici, lunghi anni di fidanzamento che le famiglie tendevano ad alleviare concedendo ai futuri sposi la possibilità di frequentarsi senza troppi controlli. 1.2 Tabella tratta da Oppo in id. (a cura di), 1990:101 1.6 L’esame dei contraenti Il matrimonio in Chiesa era reso problematico anche dalle condizioni poste affinché fosse riconosciuto come valido. La dottrina dogmatica della Chiesa cattolica sviluppata nel Concilio di Trento, concepiva il matrimonio come sacramento e contratto indissolubile, unione di un uomo con una donna. Affinché tale contratto fosse valido, i contraenti dovevano rispettare questi presupposti [Pala, 1985:68 nota 4]: 1. aver raggiunto l’età legittima ; 2. non essere parenti entro il quarto grado; 3. non aver fatto voto solenne di castità; 4. non essere incorsi in nessuno dei 15 impedimenti; “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 37
  • 38. 5. esprimere il consenso di fronte a un sacerdote e dei testimoni; 6. esprimere il consenso in modo libero e non estorto, in modo esplicito con parole o segnali equivalenti. L’età minima per convolare a nozze era di 14 anni per l’uomo e di 12 per la donna; la Chiesa, da un certo momento, stabilisce anche l’età minima perché si potesse essere coinvolti in contratti sposalizi, sette anni per entrambi [Atzori, 1997:34]. Effettivamente, l’età non è mai stata un grosso problema: per le motivazioni descritte precedentemente (preparazione del corredo, spese per la celebrazione), era molto più frequente che gli sposi si sposassero tardi, causando tassi di fecondità ridotti rispetto alla media europea. Da una ricerca condotta da Anna Oppo in alcuni paesi del Campidano di Cagliari sull’età del primo matrimonio di piccoli e medi proprietari coltivatori (nati prima del 1910), si ricava che l’età media degli uomini è di 29 anni, mentre per le donne di 24,7 [vedi sotto]. 1.3 Tavola tratta da Oppo, in id. (a cura di), 1990:108 Per quanto riguarda la posizione della Chiesa nei confronti dei vincoli parentali, sembra che il comportamento fosse differente a seconda che la richiesta provenisse dall’ambiente popolare o da quello nobiliare [Atzori, 1997:25]. Nei confronti dei nobili, la dispensa veniva concessa più facilmente, mentre i ceti popolari, di fronte al rifiuto della Chiesa, erano costretti a subire l’infamia di autodenunciare la consumazione di rapporti 38 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari
  • 39. carnali, anche quando questo non era vero, extrema ratio per ottenere la dispensa in questi casi. Gli impedimenti al matrimonio, così come fissati dal Concilio di Trento, si dividevano in dirimenti e impedienti: i primi (sono 15) rendevano nullo il matrimonio, i secondi (sono 4) lo rendevano illecito; mi sembra necessario, per l’importanza che ad essi veniva attribuita, riportare integralmente, almeno in nota, la spiegazione di Pala per ognuno di essi19. 19 Pala, 1985:56-57 1) ERROR: l'errore di persona ha luogo quando si contrae matrimonio con persona diversa da quella con la quale si voleva contrarre; 2) CONDITIO: si verifica quando si contrae matrimonio con persona che appartenga a condizione totalmente diversa da quella dichiarata; 3) VOTUM: l'emissione del voto di castità perpetua rende nullo il successivo matrimonio sia per l'uomo che per la donna; 4) COGNATIO: la parentela, che può essere di ordine spirituale, ed è quella che ha origine dal battesimo e dalla cresima tra padrini e i figliocci; di ordine legale, che si stabilisce tra l'adottante e l'adottato; di ordine naturale ed è la vera consanguineità. Quest'ultima, in linea retta invalida qualunque matrimonio, in linea collaterale fino al quarto grado compreso; 5) CRIMEN: in quattro modi si configura questo impedimento: a) quando si uccide il coniuge con la collaborazione o consenso del coniuge dell'ucciso; b) quando l'uccisione del coniuge è stata preceduta dall'adulterio consumato con il coniuge superstite; c) quando l'adulterio è accompagnato dalla promessa di contrarre matrimonio dopo la morte del coniuge; d) quando, vivendo la legittima consorte, si contrae e si consuma il matrimonio con altra persona, consapevole dell'esistenza del vincolo precedente. 6) CULTUS DISPARITAS: quando il matrimonio viene contratto tra persone di diversa religione, p.e. tra un cristiano e un giudeo, un pagano, un maomettano; 7) VIS: è la violenza morale esercitata sulla volontà di uno dei contraenti con castighi, vessazioni o minacce, per indurlo a contrarre matrimonio senza la necessaria libertà. Deve essere esercitata in forma grave ed ingiusta. 8) ORDO: è l'impedimento derivante dall'aver ricevuto uno degli ordini maggiori; suddiaconato, diaconato o sacerdozio, che comporta l'obbligo del celibato permanente. 9) LIGAMEN: è dato dal vincolo matrimoniale validamente contratto e non sciolto legittimamente, che vieta di stringere matrimonio con altri. 10) HONESTAS: detto anche di quasi-affinità, esiste tra l'uomo e i consanguinei in linea retta della donna con la quale ha celebrato valido fidanzamento o contratto matrimonio non consumato; nel primo caso si ferma al primo grado, nel secondo caso si estende fino al quarto grado compreso. 11) AMENTIA: la pazzia nella forma che privi l'individuo della ragione e, conseguentemente, della possibilità di emettere valido senso. 12) AFFINITAS: nasce dal vincolo tra uno dei coniugi e i parenti dell’altro coniuge a seguito di matrimonio valido, anche se non consumato. Circa il grado di estensione del divieto, bisogna distinguere: se nasce da copula lecita, si estende fino al quarto grado compreso, se illecita, fino al secondo grado. I gradi dell'affinità vanno computati con quelli della consanguineità. 13) CLANDESTINITAS: si verifica quando il matrimonio viene celebrato in assenza del Parroco proprio, o di due o tre testi. 14) IMPOTENTIA: consiste nell'incapacità al compimento della copula matrimoniale, antecedente al matrimonio e perpetua, cioè inguaribile; 15) RAPTUS: ha luogo con il sequestro violento della donna per scopo di matrimonio. Può effettuarsi o in forma violenta o con lusinghe e seduzione. 1) TEMPUS: riguardava il tempo della celebrazione che restava interdetto in due periodi dell'anno “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 39
  • 40. Nulla sfuggiva alle strette maglie della Chiesa, che predisponeva nel dettaglio le modalità di esame non solo dei contraenti, ma anche dei loro testimoni. L’interrogatorio, che si svolgeva sotto giuramento, prevedeva che i testimoni rispondessero in modo convincente e preciso riguardo alla possibilità che fossero stati pagati per testimoniare il falso, le basi sulle quali si fondava la sicurezza della mancanza di impedimenti, le circostanze dell’avvenuta conoscenza dei fidanzati [Pala, 1985:58-59]. Se si superava il controllo, nella parrocchia dei due fidanzati, per tre settimane di seguito, veniva pubblicizzato il futuro matrimonio durante la messa maggiore, per dare la possibilità a quanti ne fossero a conoscenza, di rivelare eventuali impedimenti di cui non si fosse ancora accertata l’esistenza. 1.7 Su trasferimentu de is arrobas - Il trasporto del corredo Con il matrimonio si voleva costituire un nuovo nucleo familiare che fosse autonomo e autosufficiente. Perché questo fosse possibile, occorreva disporre dei beni e dei mezzi che consentissero un’attività remunerativa e le attività quotidiane da svolgersi in casa. Nel caso di famiglie contadine - la maggioranza nel Campidano - il minimo indispensabile per cominciare una vita a due, consisteva di un posto dove stare, dell’essenziale per la cucina e la camera da letto, biancheria, un minimo di provviste e di sementi, e possibilmente una coppia di buoi da giogo [Ortu e Angioni in Oppo (a cura di), 1990]. Tutti i cultori di tradizioni popolari si trovano d'accordo su quanto spetti all’uomo e alla donna nel provvedere al necessario per la casa. L’uomo deve provvedere alla casa, che deve essere nuova o almeno accuratamente ripulita e re-imbiancata, e deve inoltre provvedere a tutto ciò che attiene al proprio lavoro20; mentre alla donna spetta liturgico: dall'avvento all'epifania; dal mercoledì delle ceneri all'ottava di Pasqua inclusa; 2) VOTUM: il voto semplice di entrare in religione o il voto di castità, di non sposarsi, il voto di accedere agli ordini sacri rendevano illecito il matrimonio anche se tale voto fosse stato emesso privatamente; 3) SPONSALIA: gli sponsali contratti validamente e non sciolti con atto legale; 4) ECCLESIAE VETITUM: il divieto apposto dalla Chiesa a contrarre matrimonio fino a che non venisse chiarita l'esistenza o meno di un impedimento di legge. 20 Per un’analisi approfondita della divisione sessuale del lavoro nella Sardegna tradizionale si veda Da Re, 1990. In generale, rispetto al resto d’Europa, per la Sardegna tradizionale gli studiosi hanno notato “una più marcata specializzazione maschile in uno dei tre grandi mestieri tradizionali: contadino, pastore, artigiano, da una parte; e dall’altra, una più marcata specializzazione genericamente femminile nell’essere e nel dover essere donna di casa, cioè addetta ai lavori domestici connessi con l’alimentazione, il vestiario 40 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari