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LO SGUARDO CINEMATOGRAFICO:
                 LINGUAGGIO E ANALISI DEL FILM.



                     L’analisi del testo audiovisivo
          (approccio narratologico vs. approccio comunicativo)


                                  Docente:
                               Matteo Asti

ARGOMENTI

              LA MACCHINA DEL RACCONTO: CINEMA E NARRAZIONE

Sin dai suoi esordi il cinema si è caratterizzato per una spiccata tendenza al
racconto. Più romanzo, insomma, che documento.
Ciò non significa però che la sua abitudine a proporci delle storie derivi
solamente dalle vicende messe in campo. E’ importante anche il modo in cui
nasce la storia, i vari livelli in cui si struttura e realizza, in poche parole
l’intreccio.
Si possono identificare almeno tre piani della narrazione: quello che succede
(gli eventi), i personaggi che vi sono coinvolti (esistenti) e le
trasformazioni che intervengono nel susseguirsi delle azioni.

GLI ESISTENTI – Il personaggio
Durante la visione di un film, così come nella lettura di un libro, ci
troviamo ad osservare una serie di vicende che vedono coinvolte uno o più
personaggi (esseri umani o no che siano).
In primo luogo esso ci si presenta in quanto PERSONA e cioè come un
individuo dotato di un proprio carattere, sentimenti, comportamenti ecc. In
base a quest’ottica possiamo ad esempio distinguere una serie di
discriminanti con cui cercare di individuare il personaggio che può essere
per esempio:
- piatto o a tutto tondo
- lineare o contrastato
- statico o dinamico
- uomo o donna
- giovane o vecchio
- ecc.

Tuttavia il personaggio può essere anche studiato attraverso il RUOLO che
rappresenta. Si tratta di un livello meno concreto e più profondo della
narrazione. Ad interessarci non è più l’individuo unico, ma il personaggio
codificato come l’eroe o la vittima. Facendo un salto nel mondo dei generi
si va dal poliziotto corrotto al criminale dal cuore d’oro, dai
melodrammatici amanti dei film del periodo del muto, al vendicatore
solitario di molte opere western. L’analisi si fa però ad un livello più
formale e vale la pena almeno di considerare se si tratta di un personaggio:
- attivo o passivo
- influenzatore o autonomo
- modificatore o conservatore
- protagonista o antagonista
Gli stereotipi che possiamo rinvenire nei vari generi cinematografici ha tali
caratteristiche (spesso come sfumatura, più che in forma estrema) che sono
già ben presenti nei personaggi principali: ma solo attraverso il risultato
della loro unione, il sistema di valori di cui si fanno portatori, potremo
scoprire quale sia uno dei messaggi che ci sta comunicando il film che
abbiamo preso in esame.

Infine il personaggio può anche essere analizzato come attante. Si tratta di
un livello ancora più profondo della narrazione che prende in
considerazione in modo puramente astratto sia l’essere, sia l’agire del
personaggio. Non conta più come la pensi, quale sia la sua origine storica o
sociale o come agisca, ma il modo in cui si pone rispetto agli eventi e agli
altri esistenti.
A questo livello si possono distinguere categorie quali:
- il Soggetto che è colui che muove alla conquista di un oggetto, e
     viceversa l’Oggetto che è il punto di confluenza del soggetto.
- Il Destinatore, fonte dell’oggetto e di tutto ciò che nella storia circola, e
     il Destinatario, che è chi riceve l’oggetto e ne trae beneficio.
- L’Aiutante, che soccorre il soggetto nella sua conquista, e l’Oppositore
     che invece agisce in direzione opposta, ostacolando in ogni modo la
     riuscita della sua missione.
Tale schema è ben evidente nella struttura di ogni fiaba (Pinocchio che per
diventare un bambino vero deve superare un certo numero di prove,
incontrando nel suo percorso altri attanti che ne facilitano o ostacolano il
cammino e che dalla fata riceve la grazia), e da questo possiamo almeno
dedurre due opposti percorsi che sono quello dell’eroe e dell’antieroe
(Biancaneve contro la strega cattiva, 007 contro i membri della Spectre).
In un film non sempre tali distinzioni possono essere eseguite con la stessa
facilità, a volte un personaggio può assumere più ruoli attanziali o lo stesso
ruolo attanziale può essere distribuito, a seconda dei momenti, su diversi
personaggi.
Ciò che ci conviene fare è cogliere da questo livello di analisi la
disposizione che i diversi personaggi assumono nei confronti della logica
narrativa.

GLI EVENTI – Le azioni
Anche le azioni possono essere considerate a diversi livelli di analisi e in
prima istanza come comportamento e cioè come la manifestazione
dell’attività di un personaggio in un contesto ben preciso:
• volontario o involontario
• individuale o collettivo
• cosciente o incosciente
• singolo o plurimo
• unico o ripetitivo
o al livello formale di funzione, cioè l’occorrenza singola di una classe
generale di eventi:
• privazione
• allontanamento o viaggio
• obbligo o divieto
• inganno
• prova
• ritorno
• vendetta
e a livello astratto come atto:
• mandato
• competenza
• performanza
• sanzione.
Greimas ritiene che ogni racconto sia organizzato da una grande struttura
sintagmatica. Al centro di ogni narrazione c’è un compito che deve essere
svolto, un valore da far proprio da parte di qualcuno: la performanza.
Ma affinché la performanza si realizzi c’è bisogno che qualcuno ottenga un
mandato, che qualcuno dia a qualcun altro un compito da svolgere e gli
prospetti la ricompensa della sua azione. A seguire c’è bisogno che il
soggetto acquisti la competenza necessaria affinché sia in possesso dei
mezzi concettuali o materiali per portare a termine la sua missione.
Il racconto si conclude con una sanzione e cioè il momento in cui la
realizzazione del soggetto è riconosciuta positivamente o negativamente.
La competenza e la performanza si possono ricondurre a due tipi di prove,
quella qualificante e quella decisiva. La sanzione invece può corrispondere
alla prova glorificante. Vale per Matrix ma anche per i Promessi sposi.

        Contratto                                                  Sanzione




              Competenza             Performanza


LE TRASFORMAZIONI
Lo stesso valga detto brevemente anche per le trasformazioni che si possono
leggere sia come cambiamenti (di carattere, di valori, di comportamenti),
sia come processi (di miglioramento o peggioramento), sia come variazioni
strutturali (saturazione, inversione, sostituzione, sospensione, stasi).

Dalla gestione di questi aspetti tipici della narrazione cinematografica
potremo così cercare di varcare con più strumenti la soglia della “storie” che
ci vengono offerte da ogni film.
Scoprendo che in ognuna di esse c’è una molteplicità di occasioni e livelli
del racconto, che dipendono in gran parte dalla singola opera, ma pure in
parte dal contesto in cui può essere collocata (sociale o cinematografico ad
esempio) ed in parte anche dalla struttura stessa che sottende ad ogni
espressione narrativa.



            UNA LUCE CHE PARLA: IL CINEMA COME COMUNICAZIONE
Capiremmo poco nella visione di una pellicola, se non tenessimo conto del
processo comunicativo che si svolge tra film e spettatore.
Qualsiasi lungometraggio, si presenta come il frutto del lavoro di un Autore
(che non necessariamente si riduce alla figura del regista) con una sua
propria mentalità e modalità di espressione.
Ed ogni volta che varchiamo la soglia della sala cinematografica lo
facciamo rivestendo i panni dello Spettatore. Un ruolo fortemente
connotato: guardiamo un film come singolo e collettività, lo valutiamo
secondo un preciso metro di giudizio composto dal nostro sistema di valori,
sentimenti, cultura, posizione sociale e carattere, così come dalla nostra
esperienza di fruitori di libri, riviste, videogiochi e televisione, dalle altre
pellicole che abbiamo visto e dai ricordi che hanno lasciato in noi.
Ma entrambi i ruoli di Autore e Spettatore si trovano ad essere formalizzati
già nel film stesso, proprio perché come ogni altro mezzo espressivo, il
cinema coglie la sua piena realizzazione all’interno di un processo
comunicativo, che influisce in maniera determinate durante le nostre
silenziose “osservazioni” davanti allo schermo del multisala, come della tv
di casa.

Per prima cosa possiamo scoprire in ogni film degli elementi che rimandano
più o meno direttamente alle figure dell’autore e dello spettatore.
Tali rappresentazioni possono essere ridotte a quelle di:
- Autore implicito (la logica che ci informa e ci presenta il testo
    cinematografico)
- Spettatore implicito (la chiave che ci è data per decifrarlo)
E alle loro relative figurativizzazioni:
- Narratore extradiegetico e intradiegetico (i simboli del costituirsi
    dell’immagine, le figure di informatori, gli autori raffigurati);
- Narratario extradiegetico e intradiegetico (i simboli della ricezione, le
    figure di osservatori, le figure di spettatori).

IL PUNTO DI VISTA
Il rapporto tra queste figure comunicative e il diverso Punto di vista che
esse vengono a rivestire può dare origine a diverse situazioni comunicative.
Il focalizzatore è il personaggio il cui punto di vita orienta l’azione
narrativa.
• Senza addentrarci troppo, possiamo brevemente pensare al caso della
    focalizzazione zero in cui il pdv dell’autore implicito è superiore a
    quello di narratore e narratario (tutte le storie in cui chi guida il testo ne
    sa di più di tutti e soprattutto riesce a dominare i personaggi dall’alto).
    Come insegna Hitchcock la suspance di una bomba posta sotto il palco
    di nascosto dagli attori. Nel film Young and innocent (Giovane e
    innocente) c’è la suspance data dalle conoscenze in più che noi abbiamo
    rispetto al protagonista. Tutto ciò che sa il protagonista è che l’assassino
    ha un tic agli occhi. Lo spettatore ha già visto in precedenza l’omicida.
    Lo spettatore in quella sequenza si pone un’altra domanda rispetto a
    quella del protagonista.
• C’è poi il caso della focalizzazione interna, in cui i pdv sono
    equivalenti: un racconto in cui noi come chi racconta, conosciamo solo
    la realtà che ci viene presentata passo passo). Ne “Il sesto senso” siamo
    indotti a credere ad un mondo assolutamente fittizio, che non
    corrisponde all’universo narrativo sotteso, ma le informazioni che lo
descrivono e i punti di vista da cui ci arrivano ce ne danno un’idea
    distorta.
•   E infine il caso della focalizzazione esterna e cioè quello in cui il
    narratore non fa sapere tutto dei personaggi. Quindi l’autore implicito sa
    di meno di narratore e narratario. E’ il caso di detective come Poirot o
    Colombo, in cui abbiamo apparentemente le stesse possibilità dei
    protagonisti di risolvere il caso, ma loro sono sempre un passo avanti, si
    accorgono o sanno qualcosa che lo spettatore ignora.

Oppure si può considerare l’ampiezza del punto di vista e la conformità
tra il pdv di narratore/narratario e autore/spettatore implicito.
Ci sono tre casi:
• il pdv di vista di narratore e narratario si equivalgono: il vedere,
     sapere e credere delle tre fonti sono sovrapponibili;
• il pdv del narratore è superiore a quello del narratario, quindi il suo
     sapere, vedere e credere conta di più nello scambio comunicativo;
• il pdv del narratario è superiore a quello del narratore.
Quando un detective (Thompson in Quarto potere per esempio, ma anche
Montalbano) inizia gli interrogatori è un narratario che sa meno dei narratori
ma se le indagini lo portano su una buona strada sarà lui a saperne di più dei
suoi informatori.

Per quanto riguarda la conformità, nel caso in cui i pdv coincidano, l’autore
e i suoi personaggi ci stanno dicendo la stessa cosa.
Ma può anche succedere che il messaggio che ci è offerto dai protagonisti di
un film, non sia quello che in realtà il regista ci vuole trasmettere (tutti i casi
in cui ad esempio vince il “cattivo”, sono un modo diverso per promuovere
altri valori rispetto a quelli che rappresenta o quelli di un finto flashback). In
F for Fake per esempio Orson Welles distingue con precisione il suo ruolo
quando ci rivela che sta mentendo perché è scaduta l’ora in cui aveva
promesso che avrebbe detto la verità.


LE FORME DELLO SGUARDO
Non dobbiamo dimenticare che il cinema ci parla soprattutto per immagini
ed è proprio analizzando queste ultime che potremo capire quale sia la
prospettiva che ogni inquadratura ci offre rispetto alla realtà ripresa.
La scelta dell’autore non si limita a saper costruire una scena esteticamente
piacevole e coerente sul piano narrativo. Ogni immagine porta con se uno
sguardo che diventa il nostro di spettatore e che influenza notevolmente la
nostra comprensione dell’opera.
Per semplificare, possiamo individuare quattro tipi di sguardo che sono:
- L’OGGETTIVA: l’immagine ci è presentata, come in un romanzo
    naturalista, così com’è, senza travisamenti, ne interventi che ci possono
    far pensare alla presenza di una qualsiasi fonte individuale di
    osservazione. E’ una forma di sguardo neutra (che si manifesta di solito
    attraverso Totali, Primi piani, Campi-controcampi) e che mostra la sola
    presenza di un Autore e Spettatore impliciti. Non notiamo neppure la
    presenza della macchina da presa. C’è un vedere esauriente, un sapere
    diegetico e un credere saldo.
- La SOGGETTIVA: in essa l’immagine che ci è offerta corrisponde a
    quanto a livello del film un personaggio vede, sente, apprende e
    immagina. In sala vediamo con i suoi occhi e ragioniamo con la sua
mente. Un limite in un certo qual modo, rispetto alla più esaustiva
    visione Oggettiva. C’è un Autore implicito, ma soprattutto uno
    Spettatore implicito e un Narratario. C’è un vedere limitato, un sapere
    infradiegetico e un credere transitorio.
-   L’OGGETTIVA IRREALE: L’immagine mostra uno sguardo
    anomalo e non neutro, ma che non può appartenere ad alcun
    personaggio. È il caso di riprese dall’alto, che in forme più o meno
    accentuate mostra la presenza del medium e mette in rilievo un Autore
    implicito che si cala in un insolito Narratore: la macchina da presa. C’è
    un vedere totale, un sapere metadiscorsivo e un credere assoluto.
-   L’INTERPELLAZIONE: è il caso in cui è lo sguardo di un
    personaggio del film che si rivolge direttamente a noi svelando la nostra
    presenza e il meccanismo comunicativo del film. Se ne trovano di varie
    sfumature passando dalle didascalie al voice over, fino allo sguardo in
    macchina. Ci sono tutte le figure comunicative, tranne il Narratario, che
    è inevitabilmente posto fuori campo. L’Autore implicito si manifesta
    direttamente attraverso un narratore, interpellante. C’è un vedere
    parziale, un sapere discorsivo (attento più al discorso che alla diegesi)e
    un credere contingente (legato solo alle assicurazioni fatte
    dall’interpellante).

Si tratta anche in questo caso di modelli che non devono trasformare, ma
solo arricchire la nostra percezione di un’opera cinematografica. Notare la
costruzione, la comunicazione e la dimensione narrativa della sequenza
iniziale di un film come “Toro Scatenato” o di una delle infinite carrellate
usate da Kubrick nei suoi film, non significa perderne la bellezza e le
emozioni che ci possono trasmettere, ma al contrario coglierne ancor meglio
la complessità e la ricchezza di contenuti. La capacità dell’analista sta
nell’individuare le strade migliori da battere, quelle più proficue, la distanza
più indicata per studiare un certo fenomeno.
Un bravo cuoco, di solito, sa scegliere le dosi migliori per ogni sua ricetta.


IL SAGGIO
FRANCESCO CASETTI   E   FEDERICO   DI   CHIO, ANALISI   DEL FILM,   BOMPIANI, MILANO,
1990.

TESTI DI APPROFONDIMENTO
U. Volli, Manuale di semiotica, Laterza.
R. Eugeni, Film, sapere e società. Per un’analisi sociosemiotica del testo
cinematografico, Vita e pensiero.
F. Casetti, Dentro lo sguardo, Bompiani.
LO SGUARDO CINEMATOGRAFICO:
                  LINGUAGGIO E ANALISI DEL FILM.



                       Gli stili della rappresentazione
               (il cinema classico, moderno e postmoderno)


                                   Docente:
                                Matteo Asti
ARGOMENTI

Cinema classico , moderno e postmoderno. Tre età, tre modi di vedere e
farci vedere la realtà sullo schermo. Se nel cinema c’è una storia fatta di
artisti, artigiani, case di produzione, sguardi, movimenti artistici ed
economici, c’è anche un’evoluzione che può essere tratteggiata più
linearmente e con meno soste.
Tre in tutto, anzi quattro, se teniamo conto del cinema delle origini, fatto di
macchine da presa che imparano a muoversi, montaggi e piani che
acquistano un valore linguistico oltre al semplice utilizzo tecnologico del
dispositivo.
Mettere dei paletti precisi, degli anni con tanto di pareti divisorie, non è così
facile, ma analizzare il cinema anche sotto questo profilo si rivela utile,
perché ci permette di distinguere delle precise strategie narrative, degli
stili di rappresentazione che hanno contraddistinto nel loro insieme i film
prodotti negli ultimi cent’anni.
Strategie e stili che ci hanno anche insegnato che lo stesso mezzo di
comunicazione può mostrarsi di più o di meno e raccontare di più o di
meno, senza per questo diventare qualcosa di diverso, ma solo adattandosi
alle nostre aspettative, al nostro modo di sentire un certo tipo di testo
quando ne fruiamo, al grado in cui ne percepiamo la presenza. Magari
dimenticandocelo o tenendolo a mente o nella consapevolezza facendo finta,
un po’ come quando si sogna ad occhi aperti. Eyes wide shut.
IL CINEMA CLASSICO
C’è chi indica un preciso periodo, quello che va dal 1917 al 1960. Sono gli
anni tra l’inizio dell’età adulta del cinema ormai maggiorenne e l’avvento
del cinema moderno e la sua messa in gioco dei valori e delle regole su cui
si era basata la produzione e fruizione cinematografica.
Il concetto fondante del cinema classico è che quello che passa sullo
schermo è apparentemente vero, non filtrato da un mezzo tecnico. Vero
per l’autore che usa tutti i mezzi a sua disposizione (dall’accostamento delle
inquadrature, alla costruzione del quadro, dalla recitazione all’andamento
della storia) per rendere il film in qualche modo verosimile pur nella sua
evidente falsità.
Ma il primo ad essere convinto della verosimiglianza delle immagini in
pellicola è lo spettatore che per le due ore che trascorre in sala è come se
accantonasse il proprio senso critico. Certo non corre fuori dalla sala per
sfuggire al treno in corsa. Ma fa piuttosto un’azione che corrisponde ad un
enunciato come: “So che non è vero, ma ci credo”. E il film lo aiuta.
Lo aiuta in primo luogo con l’utilizzo del montaggio invisibile, cioè con
quella serie di norma linguistiche che rendono la rappresentazione il più
fluida e lineare possibile. Il cinema come racconto, che mette al centro
proprio lo spettatore, compartecipe alla narrazione.
All’interno della storia del cinema classico naturalmente non mancano i
fermenti “rivoluzionari” e anzi è proprio in quegli anni che si sviluppano le
avanguardie più originali ed estreme. Ma la dialettica tra narrativo e
antinarrativo, tra finzione e documentario (che paradossalmente corrisponde
a quella tra cinema come mezzo invisibile e visibile) vede la vittoria
incontrastata del modello hollywoodiano. Un modello che cresce e assorbe
molte dei suggerimenti della sua epoca, senza però rinunciare alle
prerogative di un cinema che sa raccontare senza farsi vedere, che sceglie
uno sguardo apparentemente neutro. Due tipi di sguardo incarnano in
particolare questo periodo, l’oggettiva e la soggettiva.



                             IL CINEMA MODERNO

Nel 1960 cambia tutto. Anzi un anno prima. Hiroshima mon amour e I
quattrocento colpi sono targati 1959, L’avventura e La dolce vita arrivano
l’anno successivo, insieme a Fino all’ultimo respiro e all’ondata di film che
non sono una reazione a tempo determinato.
Sono gli anni della crisi del cinema, della diminuzione degli spettatori che
vanno in sala, perché preferiscono vedere la televisione nel focolare
domestico.
Il pubblico che decide di investire il proprio denaro in un biglietto del
botteghino chiede cose nuove al grande schermo e forse la prima è quella di
smascherarsi e ridefinirsi come strumento di rappresentazione critica
della realtà.
In primo piano finisce la consapevolezza del mezzo, l’autoriflessività e di
conseguenza il tentativo di rottura di quell’idillio finzionale che stava alla
base del meccanismo di visione cinematografica.
Ciò avviene a diversi livelli. C’è il cinema-saggio e il cinemà-verité, come
c’è il cinema che si ferma invece ad un livello di metatestualità meno
diretto, che preferisce denunciare la propria presenza con dei piccoli
accorgimenti della messa in scena e dei modi di rappresentazione.
Sulle sedie cigolanti dei vecchi cinema cambia una volta per tutte il modo di
guardare le pellicole. E il “So che non è vero” nei confronti del film,
sembra prendere il sopravvento sia in fase produttiva, sia in quella della
fruizione sulla fiducia nei confronti delle immagini.

Il montaggio non è più visto come continuità ma è pone un forte accento
sulla discontinuità: non si rispettano i raccordi e i nessi casuali, si viola
volontariamente la regola dei 180°, non si tagliano i tempi morti e sembra
che il cinema inizi a non raccontare più nulla. Lo stile scelto coscientemente
da un regista che si sente sempre più artista non è più neutro, ma veicola a
sua volta un significato ben preciso, spesso una personale concezione del
cinema e del mondo.
A livello produttivo il cinema si fa indipendente grazie alla diminuzione
dei costi di realizzazione. L’esempio dei registi della Nouvelle vague
insegna ai cineasti al di qua e al di là dell’Atlantico che si può girare anche
senza una sceneggiatura, che le riprese possono essere fatte in esterni, senza
luci artificiali e registrando i suoni in presa diretta, che si può guardare in
macchina e anzi forse si deve, per essere sicuri che chi osserva capisca chi
ha di fronte e cosa gli si sta dicendo.
Il cinema cerca di seguire anche le correnti politiche e ideologiche
dell’epoca, calandole nel tessuto del racconto o nella forma stessa della
rappresentazione. Da una parte per esempio abbiamo i western all’italiana di
Sergio Sollima che dietro il velo della sfida tra messicani e gringo, nasconde
il tema Terzomondista e la rivalsa degli ultimi contro i loro oppressori.
Dall’altra c’è il cinema di Godard che affida parti brechtiane ai suoi
protagonisti, li racconta senza seguire un nesso logico e ce li figura
mostrandoci la presenza della macchina da presa, dei suoi movimenti, del
montaggio.
I movimenti, anche teorici, si fanno numerosi. Dopo la Nouvelle vague
arriva il Free cinema inglese, il Nuovo cinema Tedesco, il Nuovo cinema
svizzero,il Nuovo cinema greco, il Nuovo cinema brasiliano, il Nuovo
cinema giapponese, negli anni ’70 le cinematografie del Terzo Mondo.
L’America non può far finta di niente e reagisce negoziando con questi
nuovi suggerimenti che arrivano dal resto del mondo. Nasce e ha il massimo
sviluppo il cinema indipendente che tocca le sue vette di successo con film
come Easy rider e contemporaneamente Hollywood rilegge l’ormai
inattuale sistema dei generi, cercando di trovare delle chiavi che gli
permettano di parlare ancora della società.
Lo sguardo è tutto tranne che invisibile. Nuovi tipi di sguardo prendono il
sopravvento, la soggettiva e l’interpellazione soprattutto.




                           IL CINEMA POSTMODERNO

Anche qui c’è chi identifica una data di riferimento, il 1977, l’anno di uscita
di Star wars, il primo episodio di una saga che dura ancora e che ha tutte le
caratteristiche del postmoderno cinematografico.
Cinematografico occorre specificarlo perché di postmoderno si parla
riferendosi a differenti aspetti della cultura novecentesca, con accezioni non
sempre equivalenti.
In filosofia il postmoderno è l’epoca del pensiero debole, la crisi dell’idea di
progresso e con essa la messa in discussione di ogni principio.
A livello sociale il postmoderno arriva dopo la guerra fredda, con la
globalizzazione, l’informativizzazione, la diffusione dei nuovi media, la
new economy.
C’è infine un postmoderno estetico che si rifà alle tendenze dell’architettura
che per rispondere al modernismo gioca la carta della riscoperta del passato,
del tutto permesso e dell’eclettismo. In letteratura a partire dagli anni ’70
avviene più o meno lo stesso, con un revival delle esperienze più diverse e
soprattutto un ritrovato gusto del racconto.
E’ a quest’ultimo tipo di postmoderno che fa riferimento il cinema, che tra
la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 vira in forma generalizzata verso un
nuovo stile, fatto di citazioni del passato e ammiccamenti verso lo
spettatore, di una nuova ricerca e costruzione attenta del racconto,
come se fosse giunta una nuova epoca della finzione. Di nuovo: “So che
non è vero ma ci credo. Ma so che non è vero”.

La disillusione e il disincanto sono gli aspetti fondanti della spettatorialità
postmoderna. Al di là di ogni commozione e moto sentimentale, sia l’autore
sia lo spettatore del film non smettono un momento di ricordarsi che è tutta
fiction, tutto ricostruito per emozionare i pubblici di mezzo mondo. E’ il
segno lasciato dall’esperienza del cinema moderno dopo il quale non si può
pretendere che la semplice evidenza fotografica del mezzo sia prova di
verità.
La frattura per certi aspetti è insanabile. Ma il piacere di vedere la storia su
uno schermo è troppo forte per essere trascurata, anzi cresce sempre più sul
piano emotivo, per riuscire a rispondere alla ragion pratica dello spettatore
di fine ‘900.

Le caratteristiche principali dell’immagine postmoderna sono la densità, la
sovraeccitazione, l’assenza di significati, la seduzione, la tecnologia, la
finzione.
Per molti studiosi il paragone più immediato è stato con l’arte del Barocco.
L’arte per l’arte, il rifacimento, il procedimento attento alla forma e non al
contenuto, quasi privo di contenuto, perché quello dell’opera a cui ci si
ispira si perde e la novità si spiega più come un gioco. L’unico progetto
estetico è innovare e stupire.
Ma in cosa consiste la crisi del cinema postmoderno? Nella crisi
dell’egemonia dello sguardo, la perdita del legame ontologico tra
immagine e realtà, l’avvento di una nuova forma di rappresentazione che
entra in un regime di simulazione manifesta.

RITORNO DELLA NARRAZIONE
Il primo dato inequivocabile è il ritorno al piacere del racconto. Il cinema
classico ha privilegiato il modello discorsivo. Quello moderno ha negato il
racconto per privilegiare il commento. La nuova narrazione però si distingue
per debolezza, leggerezza, commistione e frammentazione: per certi versi
si dice che sia la fine del tragico. Insieme alla storia torna spesso un
narratore extradiegetico e autoironico. Inoltre il racconto molte volte è
imperfetto, anche a livello di storia ci viene fatto capire che si tratta di
bugie, di una favola. Verità e finzione sono continuamente negoziate.

VEROSIMIGLIANZA
Il cinema mette in scena le proprie contraddizioni epistemiche. Mostro ma
non è vero, sembro ma non sono.
Il patto finzionale viene continuamente rifiutato e rafforzato, il pubblico
viene inscritto nella storia, scontrandosi però con tutti i limiti di un mezzo
come il cinema che sa costruire il suo spettatore, ma non è certo interattivo.
Lo spettatore diventa dunque una vittima consapevole, ma con una
fisionomia del sentire tutta nuova: non riflette ma sente, non chiede ma
prova.

L’ESTETICA DEL DETTAGLIO
Si fanno sempre più frequenti le inquadrature ravvicinate su corpi e
oggetti, i particolari e i dettagli. L’autore ha spostato la sua attenzione dalla
linearità della visione verso lo spettacolo delle meraviglie. Un
caleidoscopio di forme, colori e suoni in cui a perdersi per primo è lo
sguardo.
Hollywood era cresciuta nei binari di un montaggio analitico, una
successione di immagini scelte per descrivere il contesto e il cuore di ogni
scena, i diversi campi e piani capaci di rappresentare al meglio le vite
pubbliche e private, senza mai saltare i passi di inizio e fine di una
sequenza.
Nel postmoderno invece la rappresentazione si trasforma in superficie pura
e in immagine della propria materialità. Essere tanto vicini alle cose da
l’impressione di possederle ma anche quella di esserne distanti ed estranei.
Lo stesso vale per l’avvicinamento in senso temporale che si realizza nel
rallenty. C’è un surplus di visione ma la conseguenza non è una maggior
conoscenza, ma una perdita sul piano razionale. Il coinvolgimento è
puramente sensoriale. Uno sguardo che a forza di aver troppo, si libera
da ogni responsabilità.

LA CITAZIONE
I film del postmoderno lavorano per estrapolazioni e ricontestualizazzioni.
In latino citare significa chiamare e anche mettere in movimento. La
citazione è vincolata alle conoscenze previe dello spettatore: funziona solo
se fa parte di una memoria collettiva. Il testo cinematografico diventa
quindi un terreno di verifica e di ratifica di una certa enciclopedia
spettatoriale. Perché il cinema cita soprattutto se stesso, i film del passato. E
cambia anche il valore proprio dell’immagine che non conta più in se, ma
anche in base a cosa accende nei ricordi e nei saperi dello spettatore. A volte
fa ridere, quando potrebbe far paura.

LA FORMA
Il nuovo punto di vista del cinema si trova senza più riferimenti, o
perlomeno senza più riferimenti umani. Lo sguardo della macchina da presa
è sempre meno attribuibile a quello di un osservatore invisibile. Inoltre c’è
un continuo allargamento del visibile: si vede ovunque può arrivare la
macchina da presa e soprattutto ovunque possono arrivare le immagini
ricostruite al computer.
Lo spettatore non riesce a costruirsi un’identità e uno sguardo. O
meglio individua nuove forme di sensazione. “La ricezione nella
distrazione, che non comporta necessariamente una perdita ma può essere
un captare tutto senza mettere a fuoco nulla. Il film e il suo spettatore si
toccano, si sfiorano e si annusano”.
Inoltre il disincanto del cinema stesso, la sua rinuncia ad essere un mezzo
di conoscenza del reale, affranca lo spettacolo da ogni statuto di verità
delle immagini. Conta che siano intense ed eccitanti.
Lo spettatore non può più contare sulla centralità del proprio sguardo,
ma non per questo rinuncia ad utilizzarlo. Occhi ne aperti ne chiusi. Eyes
wide shut.
Gli sguardi che caratterizzano quest’epoca sono l’interpellazione (simulata),
la soggettiva (vuota) e l’oggettiva irreale.


IL SAGGIO
GIANNI CANOVA, L’ALIENO E IL PIPISTRELLO, BOMPIANI, MILANO, 2000.

TESTI DI APPROFONDIMENTO
A. Negri, Lucidi disincanti. Forme e strategie del cinema postmoderno,
           Bulzoni editore.

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Ep 6 asti analisi racconto e comuncativa e i tre periodi del cinema

  • 1. LO SGUARDO CINEMATOGRAFICO: LINGUAGGIO E ANALISI DEL FILM. L’analisi del testo audiovisivo (approccio narratologico vs. approccio comunicativo) Docente: Matteo Asti ARGOMENTI LA MACCHINA DEL RACCONTO: CINEMA E NARRAZIONE Sin dai suoi esordi il cinema si è caratterizzato per una spiccata tendenza al racconto. Più romanzo, insomma, che documento. Ciò non significa però che la sua abitudine a proporci delle storie derivi solamente dalle vicende messe in campo. E’ importante anche il modo in cui nasce la storia, i vari livelli in cui si struttura e realizza, in poche parole l’intreccio. Si possono identificare almeno tre piani della narrazione: quello che succede (gli eventi), i personaggi che vi sono coinvolti (esistenti) e le trasformazioni che intervengono nel susseguirsi delle azioni. GLI ESISTENTI – Il personaggio Durante la visione di un film, così come nella lettura di un libro, ci troviamo ad osservare una serie di vicende che vedono coinvolte uno o più personaggi (esseri umani o no che siano). In primo luogo esso ci si presenta in quanto PERSONA e cioè come un individuo dotato di un proprio carattere, sentimenti, comportamenti ecc. In base a quest’ottica possiamo ad esempio distinguere una serie di discriminanti con cui cercare di individuare il personaggio che può essere per esempio: - piatto o a tutto tondo - lineare o contrastato - statico o dinamico - uomo o donna - giovane o vecchio - ecc. Tuttavia il personaggio può essere anche studiato attraverso il RUOLO che rappresenta. Si tratta di un livello meno concreto e più profondo della narrazione. Ad interessarci non è più l’individuo unico, ma il personaggio codificato come l’eroe o la vittima. Facendo un salto nel mondo dei generi si va dal poliziotto corrotto al criminale dal cuore d’oro, dai melodrammatici amanti dei film del periodo del muto, al vendicatore
  • 2. solitario di molte opere western. L’analisi si fa però ad un livello più formale e vale la pena almeno di considerare se si tratta di un personaggio: - attivo o passivo - influenzatore o autonomo - modificatore o conservatore - protagonista o antagonista Gli stereotipi che possiamo rinvenire nei vari generi cinematografici ha tali caratteristiche (spesso come sfumatura, più che in forma estrema) che sono già ben presenti nei personaggi principali: ma solo attraverso il risultato della loro unione, il sistema di valori di cui si fanno portatori, potremo scoprire quale sia uno dei messaggi che ci sta comunicando il film che abbiamo preso in esame. Infine il personaggio può anche essere analizzato come attante. Si tratta di un livello ancora più profondo della narrazione che prende in considerazione in modo puramente astratto sia l’essere, sia l’agire del personaggio. Non conta più come la pensi, quale sia la sua origine storica o sociale o come agisca, ma il modo in cui si pone rispetto agli eventi e agli altri esistenti. A questo livello si possono distinguere categorie quali: - il Soggetto che è colui che muove alla conquista di un oggetto, e viceversa l’Oggetto che è il punto di confluenza del soggetto. - Il Destinatore, fonte dell’oggetto e di tutto ciò che nella storia circola, e il Destinatario, che è chi riceve l’oggetto e ne trae beneficio. - L’Aiutante, che soccorre il soggetto nella sua conquista, e l’Oppositore che invece agisce in direzione opposta, ostacolando in ogni modo la riuscita della sua missione. Tale schema è ben evidente nella struttura di ogni fiaba (Pinocchio che per diventare un bambino vero deve superare un certo numero di prove, incontrando nel suo percorso altri attanti che ne facilitano o ostacolano il cammino e che dalla fata riceve la grazia), e da questo possiamo almeno dedurre due opposti percorsi che sono quello dell’eroe e dell’antieroe (Biancaneve contro la strega cattiva, 007 contro i membri della Spectre). In un film non sempre tali distinzioni possono essere eseguite con la stessa facilità, a volte un personaggio può assumere più ruoli attanziali o lo stesso ruolo attanziale può essere distribuito, a seconda dei momenti, su diversi personaggi. Ciò che ci conviene fare è cogliere da questo livello di analisi la disposizione che i diversi personaggi assumono nei confronti della logica narrativa. GLI EVENTI – Le azioni Anche le azioni possono essere considerate a diversi livelli di analisi e in prima istanza come comportamento e cioè come la manifestazione dell’attività di un personaggio in un contesto ben preciso: • volontario o involontario • individuale o collettivo • cosciente o incosciente • singolo o plurimo • unico o ripetitivo o al livello formale di funzione, cioè l’occorrenza singola di una classe generale di eventi:
  • 3. • privazione • allontanamento o viaggio • obbligo o divieto • inganno • prova • ritorno • vendetta e a livello astratto come atto: • mandato • competenza • performanza • sanzione. Greimas ritiene che ogni racconto sia organizzato da una grande struttura sintagmatica. Al centro di ogni narrazione c’è un compito che deve essere svolto, un valore da far proprio da parte di qualcuno: la performanza. Ma affinché la performanza si realizzi c’è bisogno che qualcuno ottenga un mandato, che qualcuno dia a qualcun altro un compito da svolgere e gli prospetti la ricompensa della sua azione. A seguire c’è bisogno che il soggetto acquisti la competenza necessaria affinché sia in possesso dei mezzi concettuali o materiali per portare a termine la sua missione. Il racconto si conclude con una sanzione e cioè il momento in cui la realizzazione del soggetto è riconosciuta positivamente o negativamente. La competenza e la performanza si possono ricondurre a due tipi di prove, quella qualificante e quella decisiva. La sanzione invece può corrispondere alla prova glorificante. Vale per Matrix ma anche per i Promessi sposi. Contratto Sanzione Competenza Performanza LE TRASFORMAZIONI Lo stesso valga detto brevemente anche per le trasformazioni che si possono leggere sia come cambiamenti (di carattere, di valori, di comportamenti), sia come processi (di miglioramento o peggioramento), sia come variazioni strutturali (saturazione, inversione, sostituzione, sospensione, stasi). Dalla gestione di questi aspetti tipici della narrazione cinematografica potremo così cercare di varcare con più strumenti la soglia della “storie” che ci vengono offerte da ogni film. Scoprendo che in ognuna di esse c’è una molteplicità di occasioni e livelli del racconto, che dipendono in gran parte dalla singola opera, ma pure in parte dal contesto in cui può essere collocata (sociale o cinematografico ad esempio) ed in parte anche dalla struttura stessa che sottende ad ogni espressione narrativa. UNA LUCE CHE PARLA: IL CINEMA COME COMUNICAZIONE
  • 4. Capiremmo poco nella visione di una pellicola, se non tenessimo conto del processo comunicativo che si svolge tra film e spettatore. Qualsiasi lungometraggio, si presenta come il frutto del lavoro di un Autore (che non necessariamente si riduce alla figura del regista) con una sua propria mentalità e modalità di espressione. Ed ogni volta che varchiamo la soglia della sala cinematografica lo facciamo rivestendo i panni dello Spettatore. Un ruolo fortemente connotato: guardiamo un film come singolo e collettività, lo valutiamo secondo un preciso metro di giudizio composto dal nostro sistema di valori, sentimenti, cultura, posizione sociale e carattere, così come dalla nostra esperienza di fruitori di libri, riviste, videogiochi e televisione, dalle altre pellicole che abbiamo visto e dai ricordi che hanno lasciato in noi. Ma entrambi i ruoli di Autore e Spettatore si trovano ad essere formalizzati già nel film stesso, proprio perché come ogni altro mezzo espressivo, il cinema coglie la sua piena realizzazione all’interno di un processo comunicativo, che influisce in maniera determinate durante le nostre silenziose “osservazioni” davanti allo schermo del multisala, come della tv di casa. Per prima cosa possiamo scoprire in ogni film degli elementi che rimandano più o meno direttamente alle figure dell’autore e dello spettatore. Tali rappresentazioni possono essere ridotte a quelle di: - Autore implicito (la logica che ci informa e ci presenta il testo cinematografico) - Spettatore implicito (la chiave che ci è data per decifrarlo) E alle loro relative figurativizzazioni: - Narratore extradiegetico e intradiegetico (i simboli del costituirsi dell’immagine, le figure di informatori, gli autori raffigurati); - Narratario extradiegetico e intradiegetico (i simboli della ricezione, le figure di osservatori, le figure di spettatori). IL PUNTO DI VISTA Il rapporto tra queste figure comunicative e il diverso Punto di vista che esse vengono a rivestire può dare origine a diverse situazioni comunicative. Il focalizzatore è il personaggio il cui punto di vita orienta l’azione narrativa. • Senza addentrarci troppo, possiamo brevemente pensare al caso della focalizzazione zero in cui il pdv dell’autore implicito è superiore a quello di narratore e narratario (tutte le storie in cui chi guida il testo ne sa di più di tutti e soprattutto riesce a dominare i personaggi dall’alto). Come insegna Hitchcock la suspance di una bomba posta sotto il palco di nascosto dagli attori. Nel film Young and innocent (Giovane e innocente) c’è la suspance data dalle conoscenze in più che noi abbiamo rispetto al protagonista. Tutto ciò che sa il protagonista è che l’assassino ha un tic agli occhi. Lo spettatore ha già visto in precedenza l’omicida. Lo spettatore in quella sequenza si pone un’altra domanda rispetto a quella del protagonista. • C’è poi il caso della focalizzazione interna, in cui i pdv sono equivalenti: un racconto in cui noi come chi racconta, conosciamo solo la realtà che ci viene presentata passo passo). Ne “Il sesto senso” siamo indotti a credere ad un mondo assolutamente fittizio, che non corrisponde all’universo narrativo sotteso, ma le informazioni che lo
  • 5. descrivono e i punti di vista da cui ci arrivano ce ne danno un’idea distorta. • E infine il caso della focalizzazione esterna e cioè quello in cui il narratore non fa sapere tutto dei personaggi. Quindi l’autore implicito sa di meno di narratore e narratario. E’ il caso di detective come Poirot o Colombo, in cui abbiamo apparentemente le stesse possibilità dei protagonisti di risolvere il caso, ma loro sono sempre un passo avanti, si accorgono o sanno qualcosa che lo spettatore ignora. Oppure si può considerare l’ampiezza del punto di vista e la conformità tra il pdv di narratore/narratario e autore/spettatore implicito. Ci sono tre casi: • il pdv di vista di narratore e narratario si equivalgono: il vedere, sapere e credere delle tre fonti sono sovrapponibili; • il pdv del narratore è superiore a quello del narratario, quindi il suo sapere, vedere e credere conta di più nello scambio comunicativo; • il pdv del narratario è superiore a quello del narratore. Quando un detective (Thompson in Quarto potere per esempio, ma anche Montalbano) inizia gli interrogatori è un narratario che sa meno dei narratori ma se le indagini lo portano su una buona strada sarà lui a saperne di più dei suoi informatori. Per quanto riguarda la conformità, nel caso in cui i pdv coincidano, l’autore e i suoi personaggi ci stanno dicendo la stessa cosa. Ma può anche succedere che il messaggio che ci è offerto dai protagonisti di un film, non sia quello che in realtà il regista ci vuole trasmettere (tutti i casi in cui ad esempio vince il “cattivo”, sono un modo diverso per promuovere altri valori rispetto a quelli che rappresenta o quelli di un finto flashback). In F for Fake per esempio Orson Welles distingue con precisione il suo ruolo quando ci rivela che sta mentendo perché è scaduta l’ora in cui aveva promesso che avrebbe detto la verità. LE FORME DELLO SGUARDO Non dobbiamo dimenticare che il cinema ci parla soprattutto per immagini ed è proprio analizzando queste ultime che potremo capire quale sia la prospettiva che ogni inquadratura ci offre rispetto alla realtà ripresa. La scelta dell’autore non si limita a saper costruire una scena esteticamente piacevole e coerente sul piano narrativo. Ogni immagine porta con se uno sguardo che diventa il nostro di spettatore e che influenza notevolmente la nostra comprensione dell’opera. Per semplificare, possiamo individuare quattro tipi di sguardo che sono: - L’OGGETTIVA: l’immagine ci è presentata, come in un romanzo naturalista, così com’è, senza travisamenti, ne interventi che ci possono far pensare alla presenza di una qualsiasi fonte individuale di osservazione. E’ una forma di sguardo neutra (che si manifesta di solito attraverso Totali, Primi piani, Campi-controcampi) e che mostra la sola presenza di un Autore e Spettatore impliciti. Non notiamo neppure la presenza della macchina da presa. C’è un vedere esauriente, un sapere diegetico e un credere saldo. - La SOGGETTIVA: in essa l’immagine che ci è offerta corrisponde a quanto a livello del film un personaggio vede, sente, apprende e immagina. In sala vediamo con i suoi occhi e ragioniamo con la sua
  • 6. mente. Un limite in un certo qual modo, rispetto alla più esaustiva visione Oggettiva. C’è un Autore implicito, ma soprattutto uno Spettatore implicito e un Narratario. C’è un vedere limitato, un sapere infradiegetico e un credere transitorio. - L’OGGETTIVA IRREALE: L’immagine mostra uno sguardo anomalo e non neutro, ma che non può appartenere ad alcun personaggio. È il caso di riprese dall’alto, che in forme più o meno accentuate mostra la presenza del medium e mette in rilievo un Autore implicito che si cala in un insolito Narratore: la macchina da presa. C’è un vedere totale, un sapere metadiscorsivo e un credere assoluto. - L’INTERPELLAZIONE: è il caso in cui è lo sguardo di un personaggio del film che si rivolge direttamente a noi svelando la nostra presenza e il meccanismo comunicativo del film. Se ne trovano di varie sfumature passando dalle didascalie al voice over, fino allo sguardo in macchina. Ci sono tutte le figure comunicative, tranne il Narratario, che è inevitabilmente posto fuori campo. L’Autore implicito si manifesta direttamente attraverso un narratore, interpellante. C’è un vedere parziale, un sapere discorsivo (attento più al discorso che alla diegesi)e un credere contingente (legato solo alle assicurazioni fatte dall’interpellante). Si tratta anche in questo caso di modelli che non devono trasformare, ma solo arricchire la nostra percezione di un’opera cinematografica. Notare la costruzione, la comunicazione e la dimensione narrativa della sequenza iniziale di un film come “Toro Scatenato” o di una delle infinite carrellate usate da Kubrick nei suoi film, non significa perderne la bellezza e le emozioni che ci possono trasmettere, ma al contrario coglierne ancor meglio la complessità e la ricchezza di contenuti. La capacità dell’analista sta nell’individuare le strade migliori da battere, quelle più proficue, la distanza più indicata per studiare un certo fenomeno. Un bravo cuoco, di solito, sa scegliere le dosi migliori per ogni sua ricetta. IL SAGGIO FRANCESCO CASETTI E FEDERICO DI CHIO, ANALISI DEL FILM, BOMPIANI, MILANO, 1990. TESTI DI APPROFONDIMENTO U. Volli, Manuale di semiotica, Laterza. R. Eugeni, Film, sapere e società. Per un’analisi sociosemiotica del testo cinematografico, Vita e pensiero. F. Casetti, Dentro lo sguardo, Bompiani.
  • 7. LO SGUARDO CINEMATOGRAFICO: LINGUAGGIO E ANALISI DEL FILM. Gli stili della rappresentazione (il cinema classico, moderno e postmoderno) Docente: Matteo Asti ARGOMENTI Cinema classico , moderno e postmoderno. Tre età, tre modi di vedere e farci vedere la realtà sullo schermo. Se nel cinema c’è una storia fatta di artisti, artigiani, case di produzione, sguardi, movimenti artistici ed economici, c’è anche un’evoluzione che può essere tratteggiata più linearmente e con meno soste. Tre in tutto, anzi quattro, se teniamo conto del cinema delle origini, fatto di macchine da presa che imparano a muoversi, montaggi e piani che acquistano un valore linguistico oltre al semplice utilizzo tecnologico del dispositivo. Mettere dei paletti precisi, degli anni con tanto di pareti divisorie, non è così facile, ma analizzare il cinema anche sotto questo profilo si rivela utile, perché ci permette di distinguere delle precise strategie narrative, degli stili di rappresentazione che hanno contraddistinto nel loro insieme i film prodotti negli ultimi cent’anni. Strategie e stili che ci hanno anche insegnato che lo stesso mezzo di comunicazione può mostrarsi di più o di meno e raccontare di più o di meno, senza per questo diventare qualcosa di diverso, ma solo adattandosi alle nostre aspettative, al nostro modo di sentire un certo tipo di testo quando ne fruiamo, al grado in cui ne percepiamo la presenza. Magari dimenticandocelo o tenendolo a mente o nella consapevolezza facendo finta, un po’ come quando si sogna ad occhi aperti. Eyes wide shut.
  • 8. IL CINEMA CLASSICO C’è chi indica un preciso periodo, quello che va dal 1917 al 1960. Sono gli anni tra l’inizio dell’età adulta del cinema ormai maggiorenne e l’avvento del cinema moderno e la sua messa in gioco dei valori e delle regole su cui si era basata la produzione e fruizione cinematografica. Il concetto fondante del cinema classico è che quello che passa sullo schermo è apparentemente vero, non filtrato da un mezzo tecnico. Vero per l’autore che usa tutti i mezzi a sua disposizione (dall’accostamento delle inquadrature, alla costruzione del quadro, dalla recitazione all’andamento della storia) per rendere il film in qualche modo verosimile pur nella sua evidente falsità. Ma il primo ad essere convinto della verosimiglianza delle immagini in pellicola è lo spettatore che per le due ore che trascorre in sala è come se accantonasse il proprio senso critico. Certo non corre fuori dalla sala per sfuggire al treno in corsa. Ma fa piuttosto un’azione che corrisponde ad un enunciato come: “So che non è vero, ma ci credo”. E il film lo aiuta. Lo aiuta in primo luogo con l’utilizzo del montaggio invisibile, cioè con quella serie di norma linguistiche che rendono la rappresentazione il più fluida e lineare possibile. Il cinema come racconto, che mette al centro proprio lo spettatore, compartecipe alla narrazione. All’interno della storia del cinema classico naturalmente non mancano i fermenti “rivoluzionari” e anzi è proprio in quegli anni che si sviluppano le avanguardie più originali ed estreme. Ma la dialettica tra narrativo e antinarrativo, tra finzione e documentario (che paradossalmente corrisponde a quella tra cinema come mezzo invisibile e visibile) vede la vittoria incontrastata del modello hollywoodiano. Un modello che cresce e assorbe molte dei suggerimenti della sua epoca, senza però rinunciare alle prerogative di un cinema che sa raccontare senza farsi vedere, che sceglie uno sguardo apparentemente neutro. Due tipi di sguardo incarnano in particolare questo periodo, l’oggettiva e la soggettiva. IL CINEMA MODERNO Nel 1960 cambia tutto. Anzi un anno prima. Hiroshima mon amour e I quattrocento colpi sono targati 1959, L’avventura e La dolce vita arrivano l’anno successivo, insieme a Fino all’ultimo respiro e all’ondata di film che non sono una reazione a tempo determinato. Sono gli anni della crisi del cinema, della diminuzione degli spettatori che vanno in sala, perché preferiscono vedere la televisione nel focolare domestico. Il pubblico che decide di investire il proprio denaro in un biglietto del botteghino chiede cose nuove al grande schermo e forse la prima è quella di smascherarsi e ridefinirsi come strumento di rappresentazione critica della realtà. In primo piano finisce la consapevolezza del mezzo, l’autoriflessività e di conseguenza il tentativo di rottura di quell’idillio finzionale che stava alla base del meccanismo di visione cinematografica. Ciò avviene a diversi livelli. C’è il cinema-saggio e il cinemà-verité, come c’è il cinema che si ferma invece ad un livello di metatestualità meno
  • 9. diretto, che preferisce denunciare la propria presenza con dei piccoli accorgimenti della messa in scena e dei modi di rappresentazione. Sulle sedie cigolanti dei vecchi cinema cambia una volta per tutte il modo di guardare le pellicole. E il “So che non è vero” nei confronti del film, sembra prendere il sopravvento sia in fase produttiva, sia in quella della fruizione sulla fiducia nei confronti delle immagini. Il montaggio non è più visto come continuità ma è pone un forte accento sulla discontinuità: non si rispettano i raccordi e i nessi casuali, si viola volontariamente la regola dei 180°, non si tagliano i tempi morti e sembra che il cinema inizi a non raccontare più nulla. Lo stile scelto coscientemente da un regista che si sente sempre più artista non è più neutro, ma veicola a sua volta un significato ben preciso, spesso una personale concezione del cinema e del mondo. A livello produttivo il cinema si fa indipendente grazie alla diminuzione dei costi di realizzazione. L’esempio dei registi della Nouvelle vague insegna ai cineasti al di qua e al di là dell’Atlantico che si può girare anche senza una sceneggiatura, che le riprese possono essere fatte in esterni, senza luci artificiali e registrando i suoni in presa diretta, che si può guardare in macchina e anzi forse si deve, per essere sicuri che chi osserva capisca chi ha di fronte e cosa gli si sta dicendo. Il cinema cerca di seguire anche le correnti politiche e ideologiche dell’epoca, calandole nel tessuto del racconto o nella forma stessa della rappresentazione. Da una parte per esempio abbiamo i western all’italiana di Sergio Sollima che dietro il velo della sfida tra messicani e gringo, nasconde il tema Terzomondista e la rivalsa degli ultimi contro i loro oppressori. Dall’altra c’è il cinema di Godard che affida parti brechtiane ai suoi protagonisti, li racconta senza seguire un nesso logico e ce li figura mostrandoci la presenza della macchina da presa, dei suoi movimenti, del montaggio. I movimenti, anche teorici, si fanno numerosi. Dopo la Nouvelle vague arriva il Free cinema inglese, il Nuovo cinema Tedesco, il Nuovo cinema svizzero,il Nuovo cinema greco, il Nuovo cinema brasiliano, il Nuovo cinema giapponese, negli anni ’70 le cinematografie del Terzo Mondo. L’America non può far finta di niente e reagisce negoziando con questi nuovi suggerimenti che arrivano dal resto del mondo. Nasce e ha il massimo sviluppo il cinema indipendente che tocca le sue vette di successo con film come Easy rider e contemporaneamente Hollywood rilegge l’ormai inattuale sistema dei generi, cercando di trovare delle chiavi che gli permettano di parlare ancora della società. Lo sguardo è tutto tranne che invisibile. Nuovi tipi di sguardo prendono il sopravvento, la soggettiva e l’interpellazione soprattutto. IL CINEMA POSTMODERNO Anche qui c’è chi identifica una data di riferimento, il 1977, l’anno di uscita di Star wars, il primo episodio di una saga che dura ancora e che ha tutte le caratteristiche del postmoderno cinematografico.
  • 10. Cinematografico occorre specificarlo perché di postmoderno si parla riferendosi a differenti aspetti della cultura novecentesca, con accezioni non sempre equivalenti. In filosofia il postmoderno è l’epoca del pensiero debole, la crisi dell’idea di progresso e con essa la messa in discussione di ogni principio. A livello sociale il postmoderno arriva dopo la guerra fredda, con la globalizzazione, l’informativizzazione, la diffusione dei nuovi media, la new economy. C’è infine un postmoderno estetico che si rifà alle tendenze dell’architettura che per rispondere al modernismo gioca la carta della riscoperta del passato, del tutto permesso e dell’eclettismo. In letteratura a partire dagli anni ’70 avviene più o meno lo stesso, con un revival delle esperienze più diverse e soprattutto un ritrovato gusto del racconto. E’ a quest’ultimo tipo di postmoderno che fa riferimento il cinema, che tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 vira in forma generalizzata verso un nuovo stile, fatto di citazioni del passato e ammiccamenti verso lo spettatore, di una nuova ricerca e costruzione attenta del racconto, come se fosse giunta una nuova epoca della finzione. Di nuovo: “So che non è vero ma ci credo. Ma so che non è vero”. La disillusione e il disincanto sono gli aspetti fondanti della spettatorialità postmoderna. Al di là di ogni commozione e moto sentimentale, sia l’autore sia lo spettatore del film non smettono un momento di ricordarsi che è tutta fiction, tutto ricostruito per emozionare i pubblici di mezzo mondo. E’ il segno lasciato dall’esperienza del cinema moderno dopo il quale non si può pretendere che la semplice evidenza fotografica del mezzo sia prova di verità. La frattura per certi aspetti è insanabile. Ma il piacere di vedere la storia su uno schermo è troppo forte per essere trascurata, anzi cresce sempre più sul piano emotivo, per riuscire a rispondere alla ragion pratica dello spettatore di fine ‘900. Le caratteristiche principali dell’immagine postmoderna sono la densità, la sovraeccitazione, l’assenza di significati, la seduzione, la tecnologia, la finzione. Per molti studiosi il paragone più immediato è stato con l’arte del Barocco. L’arte per l’arte, il rifacimento, il procedimento attento alla forma e non al contenuto, quasi privo di contenuto, perché quello dell’opera a cui ci si ispira si perde e la novità si spiega più come un gioco. L’unico progetto estetico è innovare e stupire. Ma in cosa consiste la crisi del cinema postmoderno? Nella crisi dell’egemonia dello sguardo, la perdita del legame ontologico tra immagine e realtà, l’avvento di una nuova forma di rappresentazione che entra in un regime di simulazione manifesta. RITORNO DELLA NARRAZIONE Il primo dato inequivocabile è il ritorno al piacere del racconto. Il cinema classico ha privilegiato il modello discorsivo. Quello moderno ha negato il racconto per privilegiare il commento. La nuova narrazione però si distingue per debolezza, leggerezza, commistione e frammentazione: per certi versi si dice che sia la fine del tragico. Insieme alla storia torna spesso un narratore extradiegetico e autoironico. Inoltre il racconto molte volte è
  • 11. imperfetto, anche a livello di storia ci viene fatto capire che si tratta di bugie, di una favola. Verità e finzione sono continuamente negoziate. VEROSIMIGLIANZA Il cinema mette in scena le proprie contraddizioni epistemiche. Mostro ma non è vero, sembro ma non sono. Il patto finzionale viene continuamente rifiutato e rafforzato, il pubblico viene inscritto nella storia, scontrandosi però con tutti i limiti di un mezzo come il cinema che sa costruire il suo spettatore, ma non è certo interattivo. Lo spettatore diventa dunque una vittima consapevole, ma con una fisionomia del sentire tutta nuova: non riflette ma sente, non chiede ma prova. L’ESTETICA DEL DETTAGLIO Si fanno sempre più frequenti le inquadrature ravvicinate su corpi e oggetti, i particolari e i dettagli. L’autore ha spostato la sua attenzione dalla linearità della visione verso lo spettacolo delle meraviglie. Un caleidoscopio di forme, colori e suoni in cui a perdersi per primo è lo sguardo. Hollywood era cresciuta nei binari di un montaggio analitico, una successione di immagini scelte per descrivere il contesto e il cuore di ogni scena, i diversi campi e piani capaci di rappresentare al meglio le vite pubbliche e private, senza mai saltare i passi di inizio e fine di una sequenza. Nel postmoderno invece la rappresentazione si trasforma in superficie pura e in immagine della propria materialità. Essere tanto vicini alle cose da l’impressione di possederle ma anche quella di esserne distanti ed estranei. Lo stesso vale per l’avvicinamento in senso temporale che si realizza nel rallenty. C’è un surplus di visione ma la conseguenza non è una maggior conoscenza, ma una perdita sul piano razionale. Il coinvolgimento è puramente sensoriale. Uno sguardo che a forza di aver troppo, si libera da ogni responsabilità. LA CITAZIONE I film del postmoderno lavorano per estrapolazioni e ricontestualizazzioni. In latino citare significa chiamare e anche mettere in movimento. La citazione è vincolata alle conoscenze previe dello spettatore: funziona solo se fa parte di una memoria collettiva. Il testo cinematografico diventa quindi un terreno di verifica e di ratifica di una certa enciclopedia spettatoriale. Perché il cinema cita soprattutto se stesso, i film del passato. E cambia anche il valore proprio dell’immagine che non conta più in se, ma anche in base a cosa accende nei ricordi e nei saperi dello spettatore. A volte fa ridere, quando potrebbe far paura. LA FORMA Il nuovo punto di vista del cinema si trova senza più riferimenti, o perlomeno senza più riferimenti umani. Lo sguardo della macchina da presa è sempre meno attribuibile a quello di un osservatore invisibile. Inoltre c’è un continuo allargamento del visibile: si vede ovunque può arrivare la macchina da presa e soprattutto ovunque possono arrivare le immagini ricostruite al computer. Lo spettatore non riesce a costruirsi un’identità e uno sguardo. O meglio individua nuove forme di sensazione. “La ricezione nella
  • 12. distrazione, che non comporta necessariamente una perdita ma può essere un captare tutto senza mettere a fuoco nulla. Il film e il suo spettatore si toccano, si sfiorano e si annusano”. Inoltre il disincanto del cinema stesso, la sua rinuncia ad essere un mezzo di conoscenza del reale, affranca lo spettacolo da ogni statuto di verità delle immagini. Conta che siano intense ed eccitanti. Lo spettatore non può più contare sulla centralità del proprio sguardo, ma non per questo rinuncia ad utilizzarlo. Occhi ne aperti ne chiusi. Eyes wide shut. Gli sguardi che caratterizzano quest’epoca sono l’interpellazione (simulata), la soggettiva (vuota) e l’oggettiva irreale. IL SAGGIO GIANNI CANOVA, L’ALIENO E IL PIPISTRELLO, BOMPIANI, MILANO, 2000. TESTI DI APPROFONDIMENTO A. Negri, Lucidi disincanti. Forme e strategie del cinema postmoderno, Bulzoni editore.