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DANCE ME TO THE END OF LOVE


                                            MASSIMO BALDI




Non c'è nulla nella morte che ricordi l'amore. E come in una montagna di ricordi solo
contorcendosi dallo sforzo e dal tedio si riesce a estrapolare una parentesi di vera felicità, così in
qualcosa di puramente fortuito e nettamente accidentale capita di vedere risvegliato in noi il più
nitido dei desideri insoddisfatti che una giovinezza segnata dall'inappagamento ha lasciato
penzolare nel vuoto della memoria come un segnale indecifrabile e minaccioso.




Ho visto il bicchiere cadere dal davanzale della finestra e infrangersi nella strada incandescente e
deserta. La giornata era straordinariamente calda e nel mio appartamento c'era una aria che pareva
non scendere mai del tutto giù dalla gola. Il legno del pavimento, penetrato dall'umidore forte
dell'estate, emanava un odore di cartone bagnato. Io, per di più, avevo tirato il collo alla prima
bordolese alle dieci del mattino e a mezzogiorno ero a metà della seconda e fu proprio allora che,
appoggiato il bicchiere di vetro infrangibile sul piano di marmo della finestra quello oscillò
brevemente per finire giù nella strada. E mi affacciai e vidi quella miriade di cristalli sparsi come
lacrime sull'asfalto insieme alla macchia di vino che in breve tempo scomparve lasciando soltanto
un alone amaranto – e allora il mio braccio destro si contrasse in un piccolo spasmo e quello fu ciò
che ora devo chiamare un ricordo e anche una premonizione. Poiché con esso aveva a che fare una
stagione passata ma anche tutta un serie di eventi che sarebbero venuti dopo e di cui ho deciso di
tacere. Ma non c'è nulla nella morte che ricordi l'amore. E quello era un ricordo d'amore e il fatto
che l'amore appartenesse ormai alla preistoria di quella mia vita non implicava in alcun modo che
nell'immagine che lo risvegliò vi fosse qualcosa di luttuoso. L'amore era l'amore, e apparteneva a
un'era di felicità e coraggio, un'era in cui tutto – Barcellona, il vino, lo scrivere e persino la miseria
– concorreva alla costruzione di un complesso amoroso. Di una stagione d'amore.


Non c’è molto da dire del mio primo incontro con Simona. Non ci fu nulla di particolarmente
vivace ed eccentrico in quell'incontro. Niente di niente. L'amore venne dopo. E di quello vale la
pena raccontare, di quello e della sua fine. Di una stagione che fu una perfetta stagione d'amore e
che fu tale quando la vivemmo e così oggi che mi trovo costretto a ricordarla e che come tutte le
stagioni dovette finire.
La vita che conducevamo era quella che avevo letto nei libri e mai come allora la mia vita somigliò
alla letteratura e segnatamente alle mie scritture. Abitavamo in un bilocale non lontano dal Passieg
de Gracia. Simona tirava avanti con una piccola borsa di studio e con i pochi soldi che i genitori le
mandavano di tanto in tanto. Io ero persino messo peggio e se non sono morto di fame lo devo alla
traduzione dei bugiardini di alcuni farmaci e alle poche riviste che mi davano qualcosa per i miei
scritti. E la mia giornata era occupata dallo scrivere, nella speranza che un giorno o l'altro quello
scrivere mi avrebbe dato di che campare. Ciò, per inciso, non accadde mai. Ma questo riguarda il
dopo, quando la stagione d'amore era già finita ed erano già subentrati la rassegnazione prima e il
ridimensionamento poi.
I nostri pasti perfettamente miseri sono una delle cose che ricordo con maggiore gioia. Sulla nostra
tavola meno di un metro per uno c'erano minuscoli cartocci di ogni cosa e un pranzo era spesso
costituito da una fetta di salame, un cucchiaio da caffè di queso fresco e mezzo panino. Il vino,
però, non mancava mai, ed era sempre fresco e leggero.


La mattina mi svegliavo presto e quasi tutti i giorni riuscivo a prepararmi la colazione con una tazza
di surrogato di caffè e gli avanzi della cena precedente. Mi facevo una doccia e mi recavo in
qualche posto a scrivere. Se avevo qualche soldo andavo in un bar non lontano da casa, ordinavo un
caffelatte e me lo facevo bastare fino all'una, dandomi la regola di concedermi un sorso solo dopo
aver riempito almeno tre pagine del mio quaderno che spesso era un semplice quaderno da scolaro e
qualche volta un'agenda di anni passati. Quando non avevo soldi andavo in una piccola biblioteca di
quartiere dove approfittavo di una Olivetti a disposizione degli utenti e della carta da riciclo di cui si
poteva usufruire liberamente. Molti miei dattiloscritti di allora recano sul retro scritture di ogni
sorta, schede di libri catalogati, comunicazioni ai dipendenti, annunci affissi sulla porta.
Simona si alzava un po' più tardi, intorno alle otto e mezza. Si scaldava un po' di caffè e mangiava
quel che mi premuravo di farle avanzare. Si recava poi in un'altra biblioteca più grande della mia di
cui non ricordo il nome dove per qualche ora faceva le sue ricerche. Rientrava a casa intorno
all'una, dopo esser passata dal mercato ortofrutticolo del quartiere in cui lavorava. Io rientravo una
mezzora più tardi e buttavo giù quel che c'era insieme a un paio di bicchieri di vino leggero e
fresco. Durante il pranzo parlavamo sempre e a lungo e non credo di aver mai conosciuto un essere
umano, nemmeno il più caro degli amici, con cui abbia parlato tanto frequentemente e tanto a
lungo. Nel pomeriggio lei si aggirava per la città per tirare su qualche soldo vendendo torte ai
ristoranti, lavorando qualche ora in una birreria, dando lezioni d'inglese o in centinaia di altri modi.
Io rimanevo a casa dove correggevo e ribattevo a macchina quanto scritto al mattino. Fino alle
cinque, quando anch'io uscivo a rimediare qualcosa nei bar, nei cantieri o in centinaia di altri luoghi.
La cena, in confronto al resto, era sempre un banchetto. E il vino abbondava fresco e leggero.


So che non è possibile che facessimo l'amore tutte le sere. Eppure non ricordo di aver passato una
notte senza fare l'amore con Simona e ho in mente in modo chiarissimo quelle notti in cui per la
stanchezza e la fame facevamo l'amore piano piano, per non affaticarci e non indolenzirci, in
particolare quando durante il giorno lei aveva trottato per la città alla disperata ricerca di qualcosa
che somigliasse a un lavoro, oppure quando io avevo trovato da faticare qualche ora in un cantiere e
mi ero spezzato la schiena per una manciata di banconote così esigua che oggi non l'accetterei
neppure per stare un quarto d'ora a guardare un muro bianco. Dopo l'amore Simona andava al
lavandino a sciacquarsi e quasi sempre si accendeva una sigaretta che fumava affacciata alla finestra
e quando anch'io avevo finito di lavarmi mi passava la cicca e si metteva a letto e nonostante fosse
stanca e assonnata non si addormentava mai fino a che non la raggiungevo e parlavo ancora qualche
minuto con lei. Non saprei dire di che cosa parlassimo ogni giorno e così a lungo, e non me ne
importa niente. Delle conversazioni che ho avuto con altre donne della mia vita, e in genere con
altri individui che hanno avuto per me una qualche importanza, ricordo molte cose. Ma
evidentemente mi piaceva così tanto parlare con Simona che quello di cui si parlava non aveva
nessuna importanza. La sua voce era per me quello che dev'essere per un neonato la voce della
madre. E la cosa che più ci premeva era smettere il più tardi possibile.


Ci fu un anno di quello che allora chiamammo benessere. Fu quando una rivista meno piccola e
codarda delle altre mi commissionò una sorta di romanzo di appendice o di serie narrativa. In quel
periodo fu la cosa più vicina a un lavoro stabile che mi sia capitata, anche se quello che allora
guadagnavo in un mese oggi lo prendo pigramente in tre giorni di lavoro. Ma l'oggi, come ho già
lasciato intendere, non è che il livido cielo capovolto della beatitudine di allora. In estate facemmo
addirittura una piccola vacanza. Con un treno, alcuni autobus e un po' di autostop riuscimmo a
raggiungere Saintes Maries de la Mer, in Camargue, dove piantammo la canadese prestataci da un
amico in un campeggio mediocre e rovente vicinissimo al mare. Facemmo amicizia con i nostri
vicini, una coppia di italiani che qualche volta ci prestavano la loro bicicletta con la quale, in due,
percorrevamo sotto il sole cocente le strade semiasfaltate della regione fino a raggiungere uno di
quei casotti di legno tipici della zona dove uomini dalla pelle rovinata dal sole e dal vino vendono
qualunque cosa. Lì ci sedevamo in mezzo agli sciami di zanzare e alla puzza di sterco di cavallo e di
toro e ci facevamo servire un po' di tutto, dai meloni alle albicocche alle sigarette al formaggio e al
salame, bagnando i nostri banchetti con un vin de sable che sembrava fatto apposta per noi e che
ricordava i vini freschi e leggeri di Barcellona.
Allora, più felici e sudati e leggeri, tornavamo al campeggio e con l'impazienza dei bambini
andavamo a tuffarci nel mare caldo e limpido. Simona, poi, si sdraiava sulla sabbia e schiacciava un
sonnellino mentre io rientravo alla tenda, prendevo la mia attrezzatura e mi mettevo a pescare
seduto sugli scogli intorno al lido. I miei compagni di pesca abituali sanno che pescatore incapace e
sfortunato io sia, quindi non mi crederanno, ma durante quella vacanza non passò giorno che io non
tirassi su un paio di succulenti bestioni che subito sbattevo e pulivo. Poi tornavamo al campeggio,
ci facevamo una doccia fredda e insieme grigliavamo il pesce sulla brace comune. Mangiavamo con
i nostri vicini, che gradivano la nostra mensa e di loro ci mettevano il vino. Dopo aver lavato i piatti
all'acquaio, restavamo con loro a goderci l'aria fresca della sera e a parlare tanto e bene, finché non
ci rintanavamo nella canadese per fare l'amore, con la gioia straordinaria di chi sa che il giorno
dopo ne avrà ancora abbastanza per fare tre pasti e per essere felice di non dover morire.


Mentirei se dicessi che tra noi non c'erano litigi, e mentirei ancora di più se volessi sostenere che i
nostri litigi non ebbero nulla a che fare con la fine di quella stagione d'amore. E non so se è ora di
parlare di Mrs Cohen, un'americana sulla quarantina che conobbi alla mostra di un amico e che mi
introdusse nel mondo, nelle pose e nelle atmosfere dei ricchi. Mi insegnò la lentezza, il reclinare la
schiena e l'accavallare le gambe sedendo su una poltrona comoda, il trattare le centinaia come unità
e in genere tutto quello che ha corrotto e maledetto la mia vita. Se Simona potesse sentirmi adesso
griderei la verità. Che non ho mai provato alcun interesse per quella sbruffona canadese con le
gambe corte e che adesso maledico l'attrazione che provai allora per quel mondo, quelle pose e
quelle atmosfere che attrassero e risvegliarono la parte peggiore di me.
Ma forse tutto questo non c’entra. Prima di Mrs Cohen e del resto, litigavamo solo per le piccole
cose, ma erano litigi lievi e appassionanti, in cui la rabbia era onesta e intensa e non si avvertiva
nessuna sensazione di pericolo e si litigava così, senza la paura né il desiderio di smarrirci, solo
perché la vita era anche quello.


Se dovessi richiamare dall’archivio un’istantanea della felicità questa ritrarrebbe me e Simona che
leggiamo. La domenica, mentre gli altri s’indaffaravano in mille modi per esorcizzare il tempo e
imporgli il ritmo della produttività, noi passavamo l’intera giornata a leggere. Simona di solito
rimaneva direttamente a letto, si sistemava due cuscini dietro la nuca e piegava le gambe sollevando
le ginocchia e in questa posizione poteva leggere per ore. Io invece ero più inquieto. Iniziavo a
leggere seduto al tavolo da pranzo, poi mi spostavo ai piedi del letto, sedendomi a terra e
appoggiando la testa al bordo del materasso e infine, dopo aver letto per alcuni minuti camminando
per la stanza, mi ritrovavo sdraiato accanto a lei, che generosamente mi passava uno dei cuscini.
Poiché tutta la settimana, soprattutto per lei, era normalmente dedicata alla lettura di saggi, la
domenica era il giorno dei romanzi. Simona era appassionata di letteratura americana e divorava
romanzi di Philip Roth, Saul Bellow e Paul Auster. I miei gusti erano più lunatici. Ricordo intere
stagioni di Simenon, intere stagioni di Thomas Bernhard, intere stagioni di Hemingway, intere
stagioni di Tommaso Landolfi. Di rado ci lasciavamo scappare un commento sulle nostre letture.
Capitava semmai che io leggessi uno dei suoi libri, più raramente che lei leggesse i miei.
Spesso non pranzavamo nemmeno, bevevamo una tazza di tè e mangiavamo frutta e fette di pane
senza niente. Quando potevamo permettercelo, verso le sette del pomeriggio scendevo a comprare
due birre fresche, che bevevamo parlando e fumando di fronte alla finestra.
L’amore era immanente e terrestre, non c’era nessuna maledetta differenza ontologica tra l’amore e
i nostri piedi che si sfioravano sul letto, mentre Nathan Zuckerman litigava con suo padre e il
cappellaio della Rochelle camminava furtivamente per le strade deserte. L’amore era lì, forte come
e più della morte, tenace come e più dell’inferno.


Anche Simona, a suo modo, subì la fascinazione del mondo vile e seducente del benessere e iniziò
ad accavallare le gambe e a reclinare la schiena. Una baldracchetta catalana, anche lei con le gambe
corte, prese a invitarla a tutta una teoria di serate, cene e feste.
Nel circolo della catalana si distingueva per esuberanza uno smilzo rappresentante italiano, che
commerciava qualcosa che non ricordo (sono indeciso tra orologi e ortaggi). Anche per lui,
incredibile, un orrendo paio di gambe corte. Ebbi modo di parlarci una sera che finii anch'io in
mezzo a quel branco di bestie addomesticate dalla viltà, ma nondimeno feroci. Eravamo nella hall
di un hotel sulle Ramblas e i camerieri servivano a ripetizione piatti di ostriche, cocktail di gamberi
e bicchieri di Philipponnat. La mia concentrazione durante la serata si era posata soprattutto su
Simona, che vedevo irriconoscibilmente a suo agio ascoltando facezie d'ogni genere e ricambiando i
volgari sorrisi con volgari sorrisi. Mentre Simona e la catalana si erano ritirate in bagno – andare in
bagno in compagnia: un'altra cosa che non le avevo mai visto fare – mi ritrovai spalla a spalla con
quel tale che ancora tossicchiava una risatina strozzandosi il gargarozzo con un sorso di champagne
andatogli di traverso. Avvertivo nitidamente, sotto le dita, il desiderio di stenderlo con un pugno,
ma al contempo sapevo che se avessi fatto una cosa del genere Simona si sarebbe risentita, e allora
io mi sarei risentito del suo risentimento e sarebbe stata la fine di tutto. L'ometto ingurgitava le
huitres dal suo piattino con lo stile con cui, c'era da scommetterlo, vuotava quotidianamente ciotole
di pasta e ceci e di pane e salsiccia. D'altro canto, c'è da dirlo, se io mangiavo con maggiore
parsimonia e maggiore eleganza era soltanto perché le cinque ostriche che mi trovai sul piatto
superavano di gran lunga, per volume, ciò che di solito chiamavo un pasto. Vuotai qualche bicchiere
e avviai con lui quella che si dice una conversazione del tutto amichevole. Non ricordo che cosa ci
dicemmo, ma non mi tolgo dalla testa la sua voce sciatta, strascicata, il suo abusare di parole che lo
dispensassero dal prendere sul serio qualsiasi argomento – mah, boh, eh, sai!... –, i suoi riccioletti
appiccicosi e composti tutti adesi alla forma del cranio. Ma di quello che disse non m'è rimasto in
mente nulla, fatta salva la frequenza con cui accennava alla sua macchina e ricordo che questo fece
crescere in me la voglia di stenderlo e di vederne il sangue uscire dalle narici e dalle gengive. E
questo non per il fatto che io una macchina non ce l'avevo e non ne avrei avuta alcuna per molto
tempo, ma perché era una cosa anomala, per me, e minacciosa, una cosa che minacciava di incrinare
tutto il mio sistema della felicità. E non sarei onesto se non dicessi che, in fondo, se desideravo
battermi con il piccolo uomo di commercio non era perché lo detestavo, ma perché detestavo il
modo in cui quel mondo stava entrando in contatto, in collisione col mio. Di ciò, se posso dirlo, io
ebbi coscienza fin dall'inizio, mentre Simona no.


Ormai mi sono infilato nella narrazione della fine. E in fondo mi spiace, perché qualcosa ancora di
quella stagione d’amore dovrà rimanere privo di menzione. Ma il demone della ricchezza entrò in
modo così feroce nella nostra vita che anche adesso che mi trovo a ricordare quel periodo è bastato
richiamare la sua comparsa per far passare tutto il resto in secondo piano. Vedete allora che non c’è
niente nella morte che ricordi l’amore.
Com’è stato possibile, mi chiedo ora con insistenza, che un insieme di fatti, pose, e uomini che solo
pochi mesi prima sarebbe stato così estraneo al nostro sistema di felicità e passione in poco, in
pochissimo tempo sia stato in grado di mandarlo a gamballaria? Quanto è fragile il nostro intessere
relazioni e quanto sono fiacchi i vincoli grazie ai quali ci orientiamo nella vita?
Lo stesso crogiolarmi in queste domande è una cosa che allora non avrei mai fatto. E’ un segno
della mia sopraggiunta viltà o forse solo l’emisfero più livido di quella specie di saggezza che si
acquisisce invecchiando, come contropartita della disillusione e del rimpianto.


«Io dico che va bene così com’è»
«Allora non capisci. Io non posso più vederlo così. Mi sono proprio stancata di vederlo così»
«Ma che te ne importa?»
«Me ne importa! Devo forse rendertene conto?»
«Non ti arrabbiare»
«Non sono arrabbiata. Ma non puoi voler sempre lasciare tutto così com’è. Proprio non capisci»
«E’ vero. Non capisco. Cazzo, non capisco»
«Ora sei tu che ti arrabbi»
«No, non sono arrabbiato»
«Invece sì. Dovresti sentirti»
«Non è vero. Guardami. Non è vero»
«Invece sì. Tu mi detesti. E smettila di toccarmi. Oggi non mi toccare»
«Va bene».
Stavamo parlando del letto. Quando ci trasferimmo in un nuovo bilocale, vicino alla spiaggia,
Simona voleva un letto nuovo e io invece non volevo comprare nessun mobile. Bastava questo,
ormai, a riempirci di collera. E a renderci così vili e aggressivi. Un letto. Un cazzo di letto. Perché
voleva a tutti i costi quel cazzo di letto?
Insomma, lo so che il letto non c’entra niente. Era una cosa come un'altra, un oggetto che la nostra
viltà riuscì a caricare di quella che qualche sprovveduto chiama “energia negativa” e che io non so
come chiamare. Ricordo di un episodio di quando ero bambino che non mi è mai uscito di testa. I
miei genitori guardavano la televisione e mio padre, en passant, commentò la notizia della
separazione di due cosiddette celebrità (se non erro, lui uno sportivo, lei una cantante). Non più di
trenta secondi dopo mio padre aveva già preso le difese della donna e mia madre quelle dell’uomo.
Cinque minuti dopo si stavano tirando addosso tutto quello che gli capitava a portata di mano. Un
anno dopo, se dio vuole, si erano già separati. Ecco: la storia della cantante e dello sportivo è come
quella del nostro letto. Un anno dopo, in effetti, eravamo già separati.




Lo sviluppo dell’individuo, in ogni specie ma in particolare in quella umana, è raffigurabile come
un processo di continuo indebolimento e disintegrazione, dalla solida unità dell’embrione alla
senilità di un corpo e di un’anima del tutto estraniatisi l’uno dall’altra. Ma anche questa è solo una
raffigurazione cui non corrisponde, nella vita, nessuna verità. Non ho mai trovato un’affidabile
raffigurazione del progresso di una vita. Mi appendo per questo alla verità dei fatti, o almeno di
quei fatti che tanto hanno scosso il nostro sentire da divenire indubitabili. Ciò che è vivace e onesto
è felice, e ciò che invece disperde la materia della passione nella stringa del riflettere è infelice.
L’amore ha a che fare evidentemente con questo e con quello. Perché le stagioni d’amore finiscono,
e il fatto che finiscano fa tutt’uno con l’amore. E in fondo anche questo algoritmo non va preso
troppo sul serio. Perché anche nel riflettere c’è felicità, se non altro quella felicità che provavo da
bambino quando risolvevo un problema di matematica. E ciò che è vivace e onesto può essere un
inferno. E poi cosa è veramente onesto? Solo il dolore. E non sempre. Dove sono andato a finire?


«Volere» e «potere», ecco le parole che hanno fatto a pezzi quel nostro mondo. Attenzione però,
non c’entra molto il problema filosofico della libertà del volere o del rapporto – nell’uomo e in dio
– tra volontà e potenza. Dico piuttosto dell’effetto stregonesco che le semplici parole «volere» e
«potere» hanno sulla conversazione tra due persone che fino a un certo punto della loro vita si sono
intese perfettamente e quasi mai hanno avuto motivo di radicale e profondo dissenso.
Il cuore dei nostri litigi di allora, intendo nella fase finale di quella nostra stagione d’amore, era
sempre lo stesso. Io dicevo di non poter rifiutare un’offerta di lavoro – ottenuta grazie alla
mediazione di Mrs Cohen – che mi avrebbe portato lontano da Barcellona per qualche settimana. E
lei, puntuale: «non è che non puoi, tu non vuoi rifiutarla». Lei non poteva ignorare un certo invito
della catalana, perché avrebbe conosciuto persone importanti che l’avrebbero aiutata a ottenere una
borsa di studio eccetera eccetera e io immancabilmente, come la marionetta di un ventriloquo
cretino: «lo sai che puoi dire di no, il fatto è che non vuoi». I litigi peggiori erano quelli in cui tutto
questo avveniva in un clima di apparente e ostentata serenità, tra due persone sedute che,
accavallando lentamente le gambe e reclinando lentamente la schiena, sorridendo malevolmente si
scambiavano con un filo di civilissima voce questi pezzi di bravura e di crudeltà. Nei momenti in
cui ripenso con maggiore malinconia e minore lucidità a quei giorni, mi capita di dirmi che forse se
una sola volta ci fossimo azzuffati, picchiati, persino feriti tutto quel periodo si sarebbe trasformato
in qualcosa di diverso, in una versione dilatata nei nostri litigi abituali, e che dopo la fase della
crudeltà e del livore sarebbero seguiti il rimorso, la compassione, l’amore. Sì, questo l’ho pensato
spesso. Ringraziando il cielo non mi sono mai preso troppo sul serio e non ho mai picchiato una
donna, e solo raramente ne ho prese da una donna. E in fondo non credo alla verità rivelata della
farsa italiana, all’amore manesco e felice delle commedie, alle storie di vecchi consorti riottosi e
affiatati. Le mie sono solo ipotesi formulate per accendere la speranza là dove non ve n’è più e
fanno tutt’uno con l’atto della memoria che richiama a sé quella stagione d’amore: se avessi fatto,
se avessi detto… senza questi penosissimi «se» non ci sarebbe nemmeno il ricordo dell’amore, di
Barcellona, dei pasti miseri e felici, delle domeniche di lettura. Quando riuscirò a ricordare quei
fatti senza l’inserto penoso di quelle ipotesi sarò di nuovo felice. O rincretinito.


Scommetto che Simona è ancora convinta che l’abbia fatto apposta. Che stessi sospettando qualcosa
e che la tenessi d’occhio. Ma giuro che quel giorno fu davvero in modo repentino e immotivato che
decisi di rientrare nella nostra nuova casa vicino al mare per scrivere lì anziché al caffè o in
biblioteca. In molte commedie cinematografiche – che in fondo mi piacciono – l’epifania di un
tradimento è rappresentata da un percorso attraverso stanze e corridoi accompagnato da un
crescendo di segnali acustici dell’accoppiamento. Noi però abitavamo in un bilocale e a dividere il
piccolo soggiorno con cucinotto dalla stanza da letto c’era un arco senza porta. Quindi, quando
entrai, la scena mi si parò davanti in modo immediato. Simona era seduta sul letto, fumava una
sigaretta con i gomiti appoggiati alle cosce nude. Fumava e guardava il muro davanti a sé, distratta
e credo annoiata. Disteso sul letto, il commerciante di orologi o di ortaggi sulle prime nemmeno si
accorse nella mia comparsa e continuò a vantarsi del modo in cui era riuscito a fare una certa cosa
che non ricordo. Teneva la gamba destra piegata, sollevando il ginocchio, ma ciononostante non mi
fu risparmiata l’immagine del suo sesso – posso dirlo? – smilzo e ciondolante, triste almeno quanto
il suo fiero possessore. Non dissi nulla. Sedei al tavolo da pranzo e addentai una mela che avevo
comperato rientrando a casa. Simona rimase immobile sul fondo del letto. Non vidi sul suo volto
ombra d’imbarazzo o di vergogna, e a pensarci bene questa fu una delle cose che mi infastidì di più.
Solo il piccoletto andò su di giri. Si vestì rapidamente – dimenticandosi il preservativo infilato nel
suo cosino intraprendente – e iniziò a bofonchiare imprecazioni. Era evidente che la cosa che gli
dispiaceva di più era non avere nessun ruolo in quello che stava per avvenire. Per questo, credo, mi
si avvicinò e mi disse, rivolgendomi uno sguardo assai adulto, che mi pregava di essere delicato nei
suoi confronti, dal momento che – questo davvero mi stupì – era sposato e stava per nascere il suo
secondogenito.
Nell’immaginario collettivo quella di tirare un pugno in modo affatto repentino e imprevedibile
viene rappresentata come un’esperienza pienamente appagante. E per me è stato proprio così. Non
ero rabbioso e dopo averlo colpito non ho desiderato insistere. Per di più quello era al massimo il
quinto pugno che tiravo in tutta la mia vita, infanzia inclusa. E non sarei onesto se dicessi che a
spingermi a farlo fosse un sentimento di giustizia. Era, semmai, una percezione di legittimità:
finalmente potevo colpire quella nullità senza che nessuno me ne chiedesse conto. E lo colpii. E ne
vidi il sangue. E se ne andò. E non ho mai più saputo nulla di lui.
Simona, però, rimaneva lì. E finita la mia esibizione pugilistica mi ritrovai col problema di dover
parlare con lei che nel frattempo era rimasta esattamente dov’era, e potrei giurare che, poco prima
che le rivolgessi lo sguardo, stava sorridendo della scena a cui aveva assistito. Ma allora perché era
finita a letto con quel tizio? Ero talmente impreparato alla cosa da non sapere nemmeno cosa fossi
legittimato a dire, a recriminare, a pensare. Non eravamo coniugi, non solo non lo eravamo in senso
istituzionale, ma nemmeno in un qualche senso che avessimo mai chiarito, discusso, né
allegorizzato parlando d’altro. Ero deluso, questo sì, e ferito. E Simona stava lì apparentemente
imperturbabile o forse davvero imperturbata, come a dirmi che tutto ciò che era venuto prima era
stato da lei percepito come coerentemente propedeutico al suo rendez-vous con il mercante di
orologi o ortaggi. Sì, era proprio così; per lei essersi trastullata con il triste gingillo di quel volgare
figuro era qualcosa che si sottraeva a ogni questionabilità – e certo era qualcosa che non doveva
essere giustificato.
Io mi alzai dal tavolo, mi avvicinai al mobile della cucina e mi versai un bicchiere di vino rosso. Ne
bevvi un sorso, e un altro, e infine afferrai il bicchiere una terza volta e lo scaraventai a terra e il
bicchiere s’infranse in una miriade di cristalli e il vino formò una macchia amaranto al suolo.


Vidi Simona un’altra volta qualche giorno dopo, a casa. E facemmo l’amore per l’ultima volta,
come capita quasi sempre anche agli altri. Poi fumammo una sigaretta e ci sdraiammo insieme sul
letto. Lei intonò distrattamente una canzone italiana che ci piaceva tanto. E mentre lei cantava, io
uscivo dalla stanza, e nulla seppi mai più di lei.




Mb 8.12.2012

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Dance me to the end of love

  • 1. DANCE ME TO THE END OF LOVE MASSIMO BALDI Non c'è nulla nella morte che ricordi l'amore. E come in una montagna di ricordi solo contorcendosi dallo sforzo e dal tedio si riesce a estrapolare una parentesi di vera felicità, così in qualcosa di puramente fortuito e nettamente accidentale capita di vedere risvegliato in noi il più nitido dei desideri insoddisfatti che una giovinezza segnata dall'inappagamento ha lasciato penzolare nel vuoto della memoria come un segnale indecifrabile e minaccioso. Ho visto il bicchiere cadere dal davanzale della finestra e infrangersi nella strada incandescente e deserta. La giornata era straordinariamente calda e nel mio appartamento c'era una aria che pareva non scendere mai del tutto giù dalla gola. Il legno del pavimento, penetrato dall'umidore forte dell'estate, emanava un odore di cartone bagnato. Io, per di più, avevo tirato il collo alla prima bordolese alle dieci del mattino e a mezzogiorno ero a metà della seconda e fu proprio allora che, appoggiato il bicchiere di vetro infrangibile sul piano di marmo della finestra quello oscillò brevemente per finire giù nella strada. E mi affacciai e vidi quella miriade di cristalli sparsi come lacrime sull'asfalto insieme alla macchia di vino che in breve tempo scomparve lasciando soltanto un alone amaranto – e allora il mio braccio destro si contrasse in un piccolo spasmo e quello fu ciò che ora devo chiamare un ricordo e anche una premonizione. Poiché con esso aveva a che fare una stagione passata ma anche tutta un serie di eventi che sarebbero venuti dopo e di cui ho deciso di tacere. Ma non c'è nulla nella morte che ricordi l'amore. E quello era un ricordo d'amore e il fatto che l'amore appartenesse ormai alla preistoria di quella mia vita non implicava in alcun modo che nell'immagine che lo risvegliò vi fosse qualcosa di luttuoso. L'amore era l'amore, e apparteneva a un'era di felicità e coraggio, un'era in cui tutto – Barcellona, il vino, lo scrivere e persino la miseria – concorreva alla costruzione di un complesso amoroso. Di una stagione d'amore. Non c’è molto da dire del mio primo incontro con Simona. Non ci fu nulla di particolarmente vivace ed eccentrico in quell'incontro. Niente di niente. L'amore venne dopo. E di quello vale la pena raccontare, di quello e della sua fine. Di una stagione che fu una perfetta stagione d'amore e che fu tale quando la vivemmo e così oggi che mi trovo costretto a ricordarla e che come tutte le
  • 2. stagioni dovette finire. La vita che conducevamo era quella che avevo letto nei libri e mai come allora la mia vita somigliò alla letteratura e segnatamente alle mie scritture. Abitavamo in un bilocale non lontano dal Passieg de Gracia. Simona tirava avanti con una piccola borsa di studio e con i pochi soldi che i genitori le mandavano di tanto in tanto. Io ero persino messo peggio e se non sono morto di fame lo devo alla traduzione dei bugiardini di alcuni farmaci e alle poche riviste che mi davano qualcosa per i miei scritti. E la mia giornata era occupata dallo scrivere, nella speranza che un giorno o l'altro quello scrivere mi avrebbe dato di che campare. Ciò, per inciso, non accadde mai. Ma questo riguarda il dopo, quando la stagione d'amore era già finita ed erano già subentrati la rassegnazione prima e il ridimensionamento poi. I nostri pasti perfettamente miseri sono una delle cose che ricordo con maggiore gioia. Sulla nostra tavola meno di un metro per uno c'erano minuscoli cartocci di ogni cosa e un pranzo era spesso costituito da una fetta di salame, un cucchiaio da caffè di queso fresco e mezzo panino. Il vino, però, non mancava mai, ed era sempre fresco e leggero. La mattina mi svegliavo presto e quasi tutti i giorni riuscivo a prepararmi la colazione con una tazza di surrogato di caffè e gli avanzi della cena precedente. Mi facevo una doccia e mi recavo in qualche posto a scrivere. Se avevo qualche soldo andavo in un bar non lontano da casa, ordinavo un caffelatte e me lo facevo bastare fino all'una, dandomi la regola di concedermi un sorso solo dopo aver riempito almeno tre pagine del mio quaderno che spesso era un semplice quaderno da scolaro e qualche volta un'agenda di anni passati. Quando non avevo soldi andavo in una piccola biblioteca di quartiere dove approfittavo di una Olivetti a disposizione degli utenti e della carta da riciclo di cui si poteva usufruire liberamente. Molti miei dattiloscritti di allora recano sul retro scritture di ogni sorta, schede di libri catalogati, comunicazioni ai dipendenti, annunci affissi sulla porta. Simona si alzava un po' più tardi, intorno alle otto e mezza. Si scaldava un po' di caffè e mangiava quel che mi premuravo di farle avanzare. Si recava poi in un'altra biblioteca più grande della mia di cui non ricordo il nome dove per qualche ora faceva le sue ricerche. Rientrava a casa intorno all'una, dopo esser passata dal mercato ortofrutticolo del quartiere in cui lavorava. Io rientravo una mezzora più tardi e buttavo giù quel che c'era insieme a un paio di bicchieri di vino leggero e fresco. Durante il pranzo parlavamo sempre e a lungo e non credo di aver mai conosciuto un essere umano, nemmeno il più caro degli amici, con cui abbia parlato tanto frequentemente e tanto a lungo. Nel pomeriggio lei si aggirava per la città per tirare su qualche soldo vendendo torte ai ristoranti, lavorando qualche ora in una birreria, dando lezioni d'inglese o in centinaia di altri modi. Io rimanevo a casa dove correggevo e ribattevo a macchina quanto scritto al mattino. Fino alle cinque, quando anch'io uscivo a rimediare qualcosa nei bar, nei cantieri o in centinaia di altri luoghi.
  • 3. La cena, in confronto al resto, era sempre un banchetto. E il vino abbondava fresco e leggero. So che non è possibile che facessimo l'amore tutte le sere. Eppure non ricordo di aver passato una notte senza fare l'amore con Simona e ho in mente in modo chiarissimo quelle notti in cui per la stanchezza e la fame facevamo l'amore piano piano, per non affaticarci e non indolenzirci, in particolare quando durante il giorno lei aveva trottato per la città alla disperata ricerca di qualcosa che somigliasse a un lavoro, oppure quando io avevo trovato da faticare qualche ora in un cantiere e mi ero spezzato la schiena per una manciata di banconote così esigua che oggi non l'accetterei neppure per stare un quarto d'ora a guardare un muro bianco. Dopo l'amore Simona andava al lavandino a sciacquarsi e quasi sempre si accendeva una sigaretta che fumava affacciata alla finestra e quando anch'io avevo finito di lavarmi mi passava la cicca e si metteva a letto e nonostante fosse stanca e assonnata non si addormentava mai fino a che non la raggiungevo e parlavo ancora qualche minuto con lei. Non saprei dire di che cosa parlassimo ogni giorno e così a lungo, e non me ne importa niente. Delle conversazioni che ho avuto con altre donne della mia vita, e in genere con altri individui che hanno avuto per me una qualche importanza, ricordo molte cose. Ma evidentemente mi piaceva così tanto parlare con Simona che quello di cui si parlava non aveva nessuna importanza. La sua voce era per me quello che dev'essere per un neonato la voce della madre. E la cosa che più ci premeva era smettere il più tardi possibile. Ci fu un anno di quello che allora chiamammo benessere. Fu quando una rivista meno piccola e codarda delle altre mi commissionò una sorta di romanzo di appendice o di serie narrativa. In quel periodo fu la cosa più vicina a un lavoro stabile che mi sia capitata, anche se quello che allora guadagnavo in un mese oggi lo prendo pigramente in tre giorni di lavoro. Ma l'oggi, come ho già lasciato intendere, non è che il livido cielo capovolto della beatitudine di allora. In estate facemmo addirittura una piccola vacanza. Con un treno, alcuni autobus e un po' di autostop riuscimmo a raggiungere Saintes Maries de la Mer, in Camargue, dove piantammo la canadese prestataci da un amico in un campeggio mediocre e rovente vicinissimo al mare. Facemmo amicizia con i nostri vicini, una coppia di italiani che qualche volta ci prestavano la loro bicicletta con la quale, in due, percorrevamo sotto il sole cocente le strade semiasfaltate della regione fino a raggiungere uno di quei casotti di legno tipici della zona dove uomini dalla pelle rovinata dal sole e dal vino vendono qualunque cosa. Lì ci sedevamo in mezzo agli sciami di zanzare e alla puzza di sterco di cavallo e di toro e ci facevamo servire un po' di tutto, dai meloni alle albicocche alle sigarette al formaggio e al salame, bagnando i nostri banchetti con un vin de sable che sembrava fatto apposta per noi e che ricordava i vini freschi e leggeri di Barcellona. Allora, più felici e sudati e leggeri, tornavamo al campeggio e con l'impazienza dei bambini
  • 4. andavamo a tuffarci nel mare caldo e limpido. Simona, poi, si sdraiava sulla sabbia e schiacciava un sonnellino mentre io rientravo alla tenda, prendevo la mia attrezzatura e mi mettevo a pescare seduto sugli scogli intorno al lido. I miei compagni di pesca abituali sanno che pescatore incapace e sfortunato io sia, quindi non mi crederanno, ma durante quella vacanza non passò giorno che io non tirassi su un paio di succulenti bestioni che subito sbattevo e pulivo. Poi tornavamo al campeggio, ci facevamo una doccia fredda e insieme grigliavamo il pesce sulla brace comune. Mangiavamo con i nostri vicini, che gradivano la nostra mensa e di loro ci mettevano il vino. Dopo aver lavato i piatti all'acquaio, restavamo con loro a goderci l'aria fresca della sera e a parlare tanto e bene, finché non ci rintanavamo nella canadese per fare l'amore, con la gioia straordinaria di chi sa che il giorno dopo ne avrà ancora abbastanza per fare tre pasti e per essere felice di non dover morire. Mentirei se dicessi che tra noi non c'erano litigi, e mentirei ancora di più se volessi sostenere che i nostri litigi non ebbero nulla a che fare con la fine di quella stagione d'amore. E non so se è ora di parlare di Mrs Cohen, un'americana sulla quarantina che conobbi alla mostra di un amico e che mi introdusse nel mondo, nelle pose e nelle atmosfere dei ricchi. Mi insegnò la lentezza, il reclinare la schiena e l'accavallare le gambe sedendo su una poltrona comoda, il trattare le centinaia come unità e in genere tutto quello che ha corrotto e maledetto la mia vita. Se Simona potesse sentirmi adesso griderei la verità. Che non ho mai provato alcun interesse per quella sbruffona canadese con le gambe corte e che adesso maledico l'attrazione che provai allora per quel mondo, quelle pose e quelle atmosfere che attrassero e risvegliarono la parte peggiore di me. Ma forse tutto questo non c’entra. Prima di Mrs Cohen e del resto, litigavamo solo per le piccole cose, ma erano litigi lievi e appassionanti, in cui la rabbia era onesta e intensa e non si avvertiva nessuna sensazione di pericolo e si litigava così, senza la paura né il desiderio di smarrirci, solo perché la vita era anche quello. Se dovessi richiamare dall’archivio un’istantanea della felicità questa ritrarrebbe me e Simona che leggiamo. La domenica, mentre gli altri s’indaffaravano in mille modi per esorcizzare il tempo e imporgli il ritmo della produttività, noi passavamo l’intera giornata a leggere. Simona di solito rimaneva direttamente a letto, si sistemava due cuscini dietro la nuca e piegava le gambe sollevando le ginocchia e in questa posizione poteva leggere per ore. Io invece ero più inquieto. Iniziavo a leggere seduto al tavolo da pranzo, poi mi spostavo ai piedi del letto, sedendomi a terra e appoggiando la testa al bordo del materasso e infine, dopo aver letto per alcuni minuti camminando per la stanza, mi ritrovavo sdraiato accanto a lei, che generosamente mi passava uno dei cuscini. Poiché tutta la settimana, soprattutto per lei, era normalmente dedicata alla lettura di saggi, la domenica era il giorno dei romanzi. Simona era appassionata di letteratura americana e divorava
  • 5. romanzi di Philip Roth, Saul Bellow e Paul Auster. I miei gusti erano più lunatici. Ricordo intere stagioni di Simenon, intere stagioni di Thomas Bernhard, intere stagioni di Hemingway, intere stagioni di Tommaso Landolfi. Di rado ci lasciavamo scappare un commento sulle nostre letture. Capitava semmai che io leggessi uno dei suoi libri, più raramente che lei leggesse i miei. Spesso non pranzavamo nemmeno, bevevamo una tazza di tè e mangiavamo frutta e fette di pane senza niente. Quando potevamo permettercelo, verso le sette del pomeriggio scendevo a comprare due birre fresche, che bevevamo parlando e fumando di fronte alla finestra. L’amore era immanente e terrestre, non c’era nessuna maledetta differenza ontologica tra l’amore e i nostri piedi che si sfioravano sul letto, mentre Nathan Zuckerman litigava con suo padre e il cappellaio della Rochelle camminava furtivamente per le strade deserte. L’amore era lì, forte come e più della morte, tenace come e più dell’inferno. Anche Simona, a suo modo, subì la fascinazione del mondo vile e seducente del benessere e iniziò ad accavallare le gambe e a reclinare la schiena. Una baldracchetta catalana, anche lei con le gambe corte, prese a invitarla a tutta una teoria di serate, cene e feste. Nel circolo della catalana si distingueva per esuberanza uno smilzo rappresentante italiano, che commerciava qualcosa che non ricordo (sono indeciso tra orologi e ortaggi). Anche per lui, incredibile, un orrendo paio di gambe corte. Ebbi modo di parlarci una sera che finii anch'io in mezzo a quel branco di bestie addomesticate dalla viltà, ma nondimeno feroci. Eravamo nella hall di un hotel sulle Ramblas e i camerieri servivano a ripetizione piatti di ostriche, cocktail di gamberi e bicchieri di Philipponnat. La mia concentrazione durante la serata si era posata soprattutto su Simona, che vedevo irriconoscibilmente a suo agio ascoltando facezie d'ogni genere e ricambiando i volgari sorrisi con volgari sorrisi. Mentre Simona e la catalana si erano ritirate in bagno – andare in bagno in compagnia: un'altra cosa che non le avevo mai visto fare – mi ritrovai spalla a spalla con quel tale che ancora tossicchiava una risatina strozzandosi il gargarozzo con un sorso di champagne andatogli di traverso. Avvertivo nitidamente, sotto le dita, il desiderio di stenderlo con un pugno, ma al contempo sapevo che se avessi fatto una cosa del genere Simona si sarebbe risentita, e allora io mi sarei risentito del suo risentimento e sarebbe stata la fine di tutto. L'ometto ingurgitava le huitres dal suo piattino con lo stile con cui, c'era da scommetterlo, vuotava quotidianamente ciotole di pasta e ceci e di pane e salsiccia. D'altro canto, c'è da dirlo, se io mangiavo con maggiore parsimonia e maggiore eleganza era soltanto perché le cinque ostriche che mi trovai sul piatto superavano di gran lunga, per volume, ciò che di solito chiamavo un pasto. Vuotai qualche bicchiere e avviai con lui quella che si dice una conversazione del tutto amichevole. Non ricordo che cosa ci dicemmo, ma non mi tolgo dalla testa la sua voce sciatta, strascicata, il suo abusare di parole che lo dispensassero dal prendere sul serio qualsiasi argomento – mah, boh, eh, sai!... –, i suoi riccioletti
  • 6. appiccicosi e composti tutti adesi alla forma del cranio. Ma di quello che disse non m'è rimasto in mente nulla, fatta salva la frequenza con cui accennava alla sua macchina e ricordo che questo fece crescere in me la voglia di stenderlo e di vederne il sangue uscire dalle narici e dalle gengive. E questo non per il fatto che io una macchina non ce l'avevo e non ne avrei avuta alcuna per molto tempo, ma perché era una cosa anomala, per me, e minacciosa, una cosa che minacciava di incrinare tutto il mio sistema della felicità. E non sarei onesto se non dicessi che, in fondo, se desideravo battermi con il piccolo uomo di commercio non era perché lo detestavo, ma perché detestavo il modo in cui quel mondo stava entrando in contatto, in collisione col mio. Di ciò, se posso dirlo, io ebbi coscienza fin dall'inizio, mentre Simona no. Ormai mi sono infilato nella narrazione della fine. E in fondo mi spiace, perché qualcosa ancora di quella stagione d’amore dovrà rimanere privo di menzione. Ma il demone della ricchezza entrò in modo così feroce nella nostra vita che anche adesso che mi trovo a ricordare quel periodo è bastato richiamare la sua comparsa per far passare tutto il resto in secondo piano. Vedete allora che non c’è niente nella morte che ricordi l’amore. Com’è stato possibile, mi chiedo ora con insistenza, che un insieme di fatti, pose, e uomini che solo pochi mesi prima sarebbe stato così estraneo al nostro sistema di felicità e passione in poco, in pochissimo tempo sia stato in grado di mandarlo a gamballaria? Quanto è fragile il nostro intessere relazioni e quanto sono fiacchi i vincoli grazie ai quali ci orientiamo nella vita? Lo stesso crogiolarmi in queste domande è una cosa che allora non avrei mai fatto. E’ un segno della mia sopraggiunta viltà o forse solo l’emisfero più livido di quella specie di saggezza che si acquisisce invecchiando, come contropartita della disillusione e del rimpianto. «Io dico che va bene così com’è» «Allora non capisci. Io non posso più vederlo così. Mi sono proprio stancata di vederlo così» «Ma che te ne importa?» «Me ne importa! Devo forse rendertene conto?» «Non ti arrabbiare» «Non sono arrabbiata. Ma non puoi voler sempre lasciare tutto così com’è. Proprio non capisci» «E’ vero. Non capisco. Cazzo, non capisco» «Ora sei tu che ti arrabbi» «No, non sono arrabbiato» «Invece sì. Dovresti sentirti» «Non è vero. Guardami. Non è vero» «Invece sì. Tu mi detesti. E smettila di toccarmi. Oggi non mi toccare»
  • 7. «Va bene». Stavamo parlando del letto. Quando ci trasferimmo in un nuovo bilocale, vicino alla spiaggia, Simona voleva un letto nuovo e io invece non volevo comprare nessun mobile. Bastava questo, ormai, a riempirci di collera. E a renderci così vili e aggressivi. Un letto. Un cazzo di letto. Perché voleva a tutti i costi quel cazzo di letto? Insomma, lo so che il letto non c’entra niente. Era una cosa come un'altra, un oggetto che la nostra viltà riuscì a caricare di quella che qualche sprovveduto chiama “energia negativa” e che io non so come chiamare. Ricordo di un episodio di quando ero bambino che non mi è mai uscito di testa. I miei genitori guardavano la televisione e mio padre, en passant, commentò la notizia della separazione di due cosiddette celebrità (se non erro, lui uno sportivo, lei una cantante). Non più di trenta secondi dopo mio padre aveva già preso le difese della donna e mia madre quelle dell’uomo. Cinque minuti dopo si stavano tirando addosso tutto quello che gli capitava a portata di mano. Un anno dopo, se dio vuole, si erano già separati. Ecco: la storia della cantante e dello sportivo è come quella del nostro letto. Un anno dopo, in effetti, eravamo già separati. Lo sviluppo dell’individuo, in ogni specie ma in particolare in quella umana, è raffigurabile come un processo di continuo indebolimento e disintegrazione, dalla solida unità dell’embrione alla senilità di un corpo e di un’anima del tutto estraniatisi l’uno dall’altra. Ma anche questa è solo una raffigurazione cui non corrisponde, nella vita, nessuna verità. Non ho mai trovato un’affidabile raffigurazione del progresso di una vita. Mi appendo per questo alla verità dei fatti, o almeno di quei fatti che tanto hanno scosso il nostro sentire da divenire indubitabili. Ciò che è vivace e onesto è felice, e ciò che invece disperde la materia della passione nella stringa del riflettere è infelice. L’amore ha a che fare evidentemente con questo e con quello. Perché le stagioni d’amore finiscono, e il fatto che finiscano fa tutt’uno con l’amore. E in fondo anche questo algoritmo non va preso troppo sul serio. Perché anche nel riflettere c’è felicità, se non altro quella felicità che provavo da bambino quando risolvevo un problema di matematica. E ciò che è vivace e onesto può essere un inferno. E poi cosa è veramente onesto? Solo il dolore. E non sempre. Dove sono andato a finire? «Volere» e «potere», ecco le parole che hanno fatto a pezzi quel nostro mondo. Attenzione però, non c’entra molto il problema filosofico della libertà del volere o del rapporto – nell’uomo e in dio – tra volontà e potenza. Dico piuttosto dell’effetto stregonesco che le semplici parole «volere» e «potere» hanno sulla conversazione tra due persone che fino a un certo punto della loro vita si sono intese perfettamente e quasi mai hanno avuto motivo di radicale e profondo dissenso. Il cuore dei nostri litigi di allora, intendo nella fase finale di quella nostra stagione d’amore, era
  • 8. sempre lo stesso. Io dicevo di non poter rifiutare un’offerta di lavoro – ottenuta grazie alla mediazione di Mrs Cohen – che mi avrebbe portato lontano da Barcellona per qualche settimana. E lei, puntuale: «non è che non puoi, tu non vuoi rifiutarla». Lei non poteva ignorare un certo invito della catalana, perché avrebbe conosciuto persone importanti che l’avrebbero aiutata a ottenere una borsa di studio eccetera eccetera e io immancabilmente, come la marionetta di un ventriloquo cretino: «lo sai che puoi dire di no, il fatto è che non vuoi». I litigi peggiori erano quelli in cui tutto questo avveniva in un clima di apparente e ostentata serenità, tra due persone sedute che, accavallando lentamente le gambe e reclinando lentamente la schiena, sorridendo malevolmente si scambiavano con un filo di civilissima voce questi pezzi di bravura e di crudeltà. Nei momenti in cui ripenso con maggiore malinconia e minore lucidità a quei giorni, mi capita di dirmi che forse se una sola volta ci fossimo azzuffati, picchiati, persino feriti tutto quel periodo si sarebbe trasformato in qualcosa di diverso, in una versione dilatata nei nostri litigi abituali, e che dopo la fase della crudeltà e del livore sarebbero seguiti il rimorso, la compassione, l’amore. Sì, questo l’ho pensato spesso. Ringraziando il cielo non mi sono mai preso troppo sul serio e non ho mai picchiato una donna, e solo raramente ne ho prese da una donna. E in fondo non credo alla verità rivelata della farsa italiana, all’amore manesco e felice delle commedie, alle storie di vecchi consorti riottosi e affiatati. Le mie sono solo ipotesi formulate per accendere la speranza là dove non ve n’è più e fanno tutt’uno con l’atto della memoria che richiama a sé quella stagione d’amore: se avessi fatto, se avessi detto… senza questi penosissimi «se» non ci sarebbe nemmeno il ricordo dell’amore, di Barcellona, dei pasti miseri e felici, delle domeniche di lettura. Quando riuscirò a ricordare quei fatti senza l’inserto penoso di quelle ipotesi sarò di nuovo felice. O rincretinito. Scommetto che Simona è ancora convinta che l’abbia fatto apposta. Che stessi sospettando qualcosa e che la tenessi d’occhio. Ma giuro che quel giorno fu davvero in modo repentino e immotivato che decisi di rientrare nella nostra nuova casa vicino al mare per scrivere lì anziché al caffè o in biblioteca. In molte commedie cinematografiche – che in fondo mi piacciono – l’epifania di un tradimento è rappresentata da un percorso attraverso stanze e corridoi accompagnato da un crescendo di segnali acustici dell’accoppiamento. Noi però abitavamo in un bilocale e a dividere il piccolo soggiorno con cucinotto dalla stanza da letto c’era un arco senza porta. Quindi, quando entrai, la scena mi si parò davanti in modo immediato. Simona era seduta sul letto, fumava una sigaretta con i gomiti appoggiati alle cosce nude. Fumava e guardava il muro davanti a sé, distratta e credo annoiata. Disteso sul letto, il commerciante di orologi o di ortaggi sulle prime nemmeno si accorse nella mia comparsa e continuò a vantarsi del modo in cui era riuscito a fare una certa cosa che non ricordo. Teneva la gamba destra piegata, sollevando il ginocchio, ma ciononostante non mi fu risparmiata l’immagine del suo sesso – posso dirlo? – smilzo e ciondolante, triste almeno quanto
  • 9. il suo fiero possessore. Non dissi nulla. Sedei al tavolo da pranzo e addentai una mela che avevo comperato rientrando a casa. Simona rimase immobile sul fondo del letto. Non vidi sul suo volto ombra d’imbarazzo o di vergogna, e a pensarci bene questa fu una delle cose che mi infastidì di più. Solo il piccoletto andò su di giri. Si vestì rapidamente – dimenticandosi il preservativo infilato nel suo cosino intraprendente – e iniziò a bofonchiare imprecazioni. Era evidente che la cosa che gli dispiaceva di più era non avere nessun ruolo in quello che stava per avvenire. Per questo, credo, mi si avvicinò e mi disse, rivolgendomi uno sguardo assai adulto, che mi pregava di essere delicato nei suoi confronti, dal momento che – questo davvero mi stupì – era sposato e stava per nascere il suo secondogenito. Nell’immaginario collettivo quella di tirare un pugno in modo affatto repentino e imprevedibile viene rappresentata come un’esperienza pienamente appagante. E per me è stato proprio così. Non ero rabbioso e dopo averlo colpito non ho desiderato insistere. Per di più quello era al massimo il quinto pugno che tiravo in tutta la mia vita, infanzia inclusa. E non sarei onesto se dicessi che a spingermi a farlo fosse un sentimento di giustizia. Era, semmai, una percezione di legittimità: finalmente potevo colpire quella nullità senza che nessuno me ne chiedesse conto. E lo colpii. E ne vidi il sangue. E se ne andò. E non ho mai più saputo nulla di lui. Simona, però, rimaneva lì. E finita la mia esibizione pugilistica mi ritrovai col problema di dover parlare con lei che nel frattempo era rimasta esattamente dov’era, e potrei giurare che, poco prima che le rivolgessi lo sguardo, stava sorridendo della scena a cui aveva assistito. Ma allora perché era finita a letto con quel tizio? Ero talmente impreparato alla cosa da non sapere nemmeno cosa fossi legittimato a dire, a recriminare, a pensare. Non eravamo coniugi, non solo non lo eravamo in senso istituzionale, ma nemmeno in un qualche senso che avessimo mai chiarito, discusso, né allegorizzato parlando d’altro. Ero deluso, questo sì, e ferito. E Simona stava lì apparentemente imperturbabile o forse davvero imperturbata, come a dirmi che tutto ciò che era venuto prima era stato da lei percepito come coerentemente propedeutico al suo rendez-vous con il mercante di orologi o ortaggi. Sì, era proprio così; per lei essersi trastullata con il triste gingillo di quel volgare figuro era qualcosa che si sottraeva a ogni questionabilità – e certo era qualcosa che non doveva essere giustificato. Io mi alzai dal tavolo, mi avvicinai al mobile della cucina e mi versai un bicchiere di vino rosso. Ne bevvi un sorso, e un altro, e infine afferrai il bicchiere una terza volta e lo scaraventai a terra e il bicchiere s’infranse in una miriade di cristalli e il vino formò una macchia amaranto al suolo. Vidi Simona un’altra volta qualche giorno dopo, a casa. E facemmo l’amore per l’ultima volta, come capita quasi sempre anche agli altri. Poi fumammo una sigaretta e ci sdraiammo insieme sul letto. Lei intonò distrattamente una canzone italiana che ci piaceva tanto. E mentre lei cantava, io
  • 10. uscivo dalla stanza, e nulla seppi mai più di lei. Mb 8.12.2012