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Autore: Luca Gervasutti




Descrizione del Learning Object

 Questo Learning Object muove
 dall’esigenza di approfondire l’analisi
 del terzo e più importante romanzo di
 Italo Svevo, caratterizzato da una
 struttura fortemente sperimentale, da
 un tono ricco di spunti ironici e da
 tematiche estremamente attuali
Autore: Luca Gervasutti




Obiettivi del LO

    •    Saper individuare la poetica dell’autore
e le principali tematiche sviluppate nel suo
romanzo principale

   •     Acquisire un metodo per la lettura
analitica di un’opera letteraria

     • Saper ricavare elementi di attualità
dall’esame dei testi, con particolare riferimento
alla tematica dell’inettitudine
Autore: Luca Gervasutti




Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz) nacque
nel 1861 a Trieste, città cosmopolita e fervida di traffici
sotto il regime austroungarico. Di famiglia ebrea di
agiati commercianti, viene messo in collegio in
Baviera. Tornato a Trieste a 17 anni per completare
gli studi commerciali, in seguito al fallimento
dell'industria paterna, nel 1880 si trova nella necessità
di trovare un lavoro: entra come impiegato alla
viennese Banca Union, dove resterà vent'anni. Nelle
ore libere dal lavoro si dedica allo studio del violino e,
soprattutto la notte, a scrivere.
Nel 1892 pubblica Una vita , romanzo che guadagna
qualche segnalazione, ma passa sostanzialmente
inosservato.
Nel 1896 sposa una cugina, Livia Veneziani, figlia di
un ricco industriale e l'anno dopo nasce la figlia
Letizia.
Nel 1898 esce il secondo romanzo, Senilità,
pressoché ignorato da critica e pubblico. Dopo che il
suocero gli chiede di lasciare la banca e di diventare
socio nella sua fabbrica di vernici sottomarine, Svevo
viaggia spesso per l'Europa e si occupa intensamente
dell'azienda. Ma la sua vocazione letteraria e il piacere
della scrittura sono più forti della delusione che è in lui
per l'indifferenza che lo circonda.
Autore: Luca Gervasutti




Nel 1906 s'iscrive alla Berlitz School per migliorare il suo
inglese, che gli è necessario nei rapporti di lavoro e conosce
un insegnante irlandese eccezionale: lo scrittore James Joyce.
Fra il 1908 e il 1910 Svevo legge Freud e libri di psicoanalisi.
Ma non ha molta fiducia nell'applicazione terapeutica della
psicoanalisi e scrive che Freud è più importante per i
romanzieri che per gli ammalati.
Intanto, con lo scoppio della guerra, la fabbrica di vernici è
ferma: c'è molto tempo libero e il romanzo torna a prendere
forma in Svevo. Nel 1919 inizia a scrivere La coscienza di Zeno
che viene pubblicato, sempre a spese dell'autore, nel 1923.
L'anno dopo Joyce, che si è trasferito a Parigi e che è
entusiasta del libro, ne parla ai suoi amici, letterati italianisti,
che vogliono conoscere la sua opera. Nel '27 La coscienza di
Zeno viene tradotto in Francia e Svevo si batte per la
riabilitazione dei primi due romanzi, annegati nell'oblio della
critica italiana. In un clima di rinnovata fiducia continua a
scrivere novelle, poi inizia un nuovo romanzo. Un banale
incidente automobilistico ha conseguenze definitive: Svevo
muore nel settembre del 1928 a Motta di Livenza. Ha 67 anni.
Autore: Luca Gervasutti
Autore: Luca Gervasutti




                            La Coscienza di Zeno è l’autobiografia, seppur fittizia,
                            dello stesso protagonista, Zeno Cosini, il quale, spinto
                            dal suo psicanalista, si mette a scrivere la storia della
                            sua vita e il corso della sua nevrosi. Già nel titolo
                            appare evidente che Svevo vuole sottolineare, con il
                            personaggio di Zeno, la pluralità e l’ambiguità dell’Io. Il
                            termine coscienza può avere, infatti, due significati
                            ambivalenti e contraddittori: può essere intesa come
                            coscienza morale o come consapevolezza delle
                            proprie azioni.
                            Il vero punto di vista dell’autore non viene mai alla
                            luce. E' per questo che Svevo utilizza la tecnica dell’ io
                            narrante , cioè del protagonista narratore. Così
                            facendo crea volutamente una sorta di equivoca
                            ambiguità tra autore e voce narrante. E’ proprio per
Italo Svevo con la moglie   questo motivo che possiamo parlare di “opera aperta”:
                            il lettore deve completare il romanzo con il suo
                            apporto personale, interpretando i fatti e le parole,
                            decifrando i numerosi simboli cosparsi nel romanzo.
Autore: Luca Gervasutti




Perché Svevo decide di trasmettere un messaggio
deliberatamente ambiguo? Si potrebbe rispondere che
l’opera aperta è una delle forme tipiche della narrativa
novecentesca: il romanzo ottocentesco era esplicativo,
quello del Novecento è invece interrogativo. C’è però
anche un’altra spiegazione: Zeno è sia protagonista
che narratore, ma essendo colpito da nevrosi (malattia
che comporta l’allontanamento dalla coscienza degli
eventi più traumatizzanti, che vengono perciò sepolti
nell’’inconscio e dal quale riemergono mascherati nel
linguaggio oscuro e simbolico dei sintomi di tale
malattia) non è un narratore attendibile dei fatti che
sono in relazione con la sua nevrosi.
Se sono inattendibili l’esposizione dei fatti e la loro
interpretazione proposte da Zeno, e se l’autore non
interviene in prima persona a proporre una versione
plausibile degli eventi narrati, al lettore non resta che
avanzare in prima persona delle ipotesi interpretative.
La coscienza di Zeno appare per questo un’opera
aperta: un’opera, cioè, in cui il lettore è invitato a
collaborare alla costruzione del senso.
Autore: Luca Gervasutti




Il vizio del fumo è il primo tema trattato da Zeno Cosini, io
narrante del romanzo, nel diario che egli scrive su consiglio
dello psicoanalista, il dottor S., per guarire dalle fissazioni
che lo tormentano: la scelta è indotta proprio dal dottore,
che lo invita "a iniziare il suo lavoro con un'analisi storica
della sua propensione al fumo”. Nel testo che ti
presentiamo scopriamo che il protagonista è un accanito
fumatore fin dalla adolescenza e che ha iniziato a fumare
con un sigaro lasciato in giro per casa dal padre. Ma
l'aspetto che subito viene evidenziato da egli stesso è che
appena creatosi il vizio, Zeno cerca invano di liberarsene. Il
tentativo dura moltissimi anni, e non si realizza mai,
neanche dopo essersi recato in una clinica specialistica,
pur di scappare dalla quale corrompe l'infermiera. Il
continuo rimandare un evento è tipico del nevrotico, che
così, in questo caso, può gustare sempre di più l'ultima
sigaretta.
Autore: Luca Gervasutti




              L'ultima sigaretta
              (da La coscienza di Svevo , cap.III)

              Ricordo di aver fumato molto, celato in tutti i luoghi possibili. Perché seguito da un forte
              disgusto fisico, ricordo un soggiorno prolungato per una mezz'ora in una cantina oscura
              insieme a due altri fanciulli di cui non ritrovo nella memoria altro che la puerilità del vestito:
              due paia di calzoncini che stanno in piedi perché dentro c'è stato un corpo che il tempo
              eliminò. Avevamo molte sigarette e volevamo vedere chi ne sapesse bruciare di più nel breve
              tempo. Io vinsi, ed eroicamente celai il malessere che mi derivò dallo strano esercizio. Poi
              uscimmo al sole e all'aria. Dovetti chiudere gli occhi per non cadere stordito. Mi rimisi e mi
              vantai della vittoria. Uno dei due piccoli omini mi disse allora:- A me non importa di aver
              perduto perché io non fumo che quanto m'occorre. Ricordo la parola sana e non la faccina
              certamente sana anch'essa che a me doveva essere rivolta in quel momento.
              Ma allora io non sapevo se amavo o odiavo la sigaretta e il suo sapore e lo stato in cui la
              nicotina mi metteva. Quando seppi di odiare tutto ciò fu peggio. E lo seppi a vent'anni circa.
              Allora soffersi per qualche settimana di un violento male di gola accompagnato da febbre. Il
              dottore prescrisse il letto e l'assoluta astensione dal fumo. Ricordo questa parola: assoluta!
              Mi ferì e la febbre la colorò: un vuoto grande e niente per resistere all'enorme pressione che
              subito si produce attorno ad un vuoto.




http://www.radio.rai.it/radio3/terzo_anello/alta_voce/archivio_2003/eventi/2003_01_01_coscienza_zeno/index.cfm#

                    9.40
Autore: Luca Gervasutti




Quando il dottore mi lasciò, mio padre (mia madre era morta da molti anni) con tanto di sigaro in
bocca restò ancora per qualche tempo a farmi compagnia. Andandosene, dopo di aver passata
dolcemente la sua mano sulla mia fronte scottante, mi disse:- Non fumare, veh! Mi colse
un'inquietudine enorme. Pensai: ´Giacché mi fa male non fumerò mai più, ma prima voglio farlo per
l'ultima volta. Accesi una sigaretta e mi sentii subito liberato dall'inquietudine ad onta che la febbre
forse aumentasse e che ad ogni tirata sentissi alle tonsille un bruciore come se fossero state toccate
da un tizzone ardente. Finii tutta la sigaretta con l'accuratezza con cui si compie un voto. E, sempre
soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e veniva col suo
sigaro in bocca dicendomi:- Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!
Bastava questa frase per farmi desiderare ch'egli se ne andasse presto, presto, per permettermi di
correre alla mia sigaretta. Fingevo anche di dormire per indurlo ad allontanarsi prima. Quella malattia
mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo. Le mie giornate finirono
coll'essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più e, per dire subito tutto, di tempo in
tempo sono ancora tali. (...) Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con
bella scrittura e qualche ornato:´Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studi di legge a quelli di chimica.
Ultima sigaretta!!’. Era un'ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che
l'accompagnarono. M'ero arrabbiato col diritto canonico che mi pareva tanto lontano dalla vita e
correvo alla scienza ch'è la vita stessa benché ridotta in un matraccio. Quell'ultima sigaretta
significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo. Per
sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai alla legge.
Autore: Luca Gervasutti




Pur troppo! Fu un errore e fu anch'esso registrato da un'ultima sigaretta di cui trovo la data
registrata su di un libro. Fu importante anche questa e mi rassegnavo di ritornare a quelle
complicazioni del mio, del tuo e del suo coi migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene
del carbonio. M'ero dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità
manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un turco? Adesso che son
qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter
riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto
l'uomo ideale e forte che m'aspettavo?
Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di
credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza
giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige
qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa
significano oggi quei propositi? (...) Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand'è
l'ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L'ultima acquista il suo
sapore dal sentimento della vittoria su se stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di
salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta la propria libertà e il
futuro di forza e di salute permane, ma va un po' più lontano.
Autore: Luca Gervasutti




Zeno si rivolge a facoltosi medici, riempie libri e addirittura pareti
con la sigla U.S. (Ultima Sigaretta), ma non riesce a smettere. E’
evidente che in realtà Zeno non ha intenzione di guarire dal vizio
del fumo. Le sigarette rappresentano una volontà di auto
affermazione soprattutto nei confronti della figura paterna, figura
allo stesso tempo amata e odiata (come si vedrà nel brano
successivo). L’argomento serve a Svevo anche per evidenziare
quella dimensione di inettitudine che è una caratteristica del
protagonista de La coscienza di Zeno: la malattia della volontà
dell’io narrante trova dunque conferma anche nelle pagine che hai
letto, venate di brillante umorismo.
Autore: Luca Gervasutti




Il secondo tema trattato dal protagonista è anch'esso legato al vizio del fumo: infatti Zeno cerca di
spegnere l'ultima sigaretta anche il giorno della morte del padre. Il rapporto con il genitore è il primo
di una lunga serie di rapporti ambigui raccontati da Zeno: tra padre e figlio vi è una forte ostilità,
Zeno gioca continuamente a provocare il padre, il quale da parte sua non cerca di comprendere il
figlio, anzi lo disprezza per il suo carattere troppo ironico. La situazione ha una svolta solo il giorno
in cui il padre, per un edema polmonare, è costretto a letto, e Zeno si dedica a lui giorno e notte: una
sera, nel tentativo di impedirgli di alzarsi dal letto, il figlio lo trattiene, ma il padre in un ultimo
impeto di forza, rizzatosi nel letto, alza la mano verso Zeno per colpirlo... e muore.
Come vedrai nel testo che riportiamo, il protagonista vede nel gesto una punizione, ultima ed eterna,
del padre: e questo crea in lui un forte senso di colpa per avere desiderato la morte del genitore.
Autore: Luca Gervasutti




Lo schiaffo
(da La coscienza di Svevo , cap.IV)

La notte fu lunga ma, debbo confessarlo, non specialmente affaticante per me e per l'infermiere.
Lasciavamo fare all'ammalato quello che voleva, ed egli camminava per la stanza nel suo strano costume,
inconsapevole del tutto di attendere la morte. (...)Il dottore (...) mi esortò a dirgli che si forzasse di restare
più a lungo nel letto. Mio padre ascoltava solo le voci a cui era più abituato, la mia e quelle di Maria e
dell'infermiere. Non credevo all'efficacia di quelle raccomandazioni, ma tuttavia le feci mettendo nella mia
voce anche un tono di minaccia.- Sì, sì, - promise mio padre e in quello stesso istante si levò e andò alla
poltrona. Il medico lo guardò e, rassegnato, mormorò:- Si vede che un mutamento di posizione gli dà un
po' di sollievo. Poco dopo ero a letto, ma non seppi chiuder occhio. Guardavo nell'avvenire indagando per
trovare perché e per chi avrei potuto continuare i miei sforzi di migliorarmi. Piansi molto, ma piuttosto su
me stesso che sul disgraziato che correva senza pace per la sua camera. Quando mi levai, Maria andò a
coricarsi ed io restai accanto a mio padre insieme all'infermiere. Ero abbattuto e stanco; mio padre più
irrequieto che mai. Fu allora che avvenne la scena terribile che non dimenticherò mai e che gettò lontano
lontano la sua ombra, che offuscò ogni mio coraggio, ogni mia gioia. Per dimenticarne il dolore, fu d'uopo
che ogni mio sentimento fosse affievolito dagli anni.
L'infermiere mi disse:- Come sarebbe bene se riuscissimo di tenerlo a letto. Il dottore vi dà tanta
importanza!




http://www.radio.rai.it/radio3/terzo_anello/alta_voce/archivio_2003/eventi/2003_01_01_coscienza_zeno/index.cfm#
5 puntata 3.18
Autore: Luca Gervasutti




Fino a quel momento io ero rimasto adagiato sul sofà. Mi levai e andai al letto ove, in quel momento, ansante
più che mai, l'ammalato s'era coricato. Ero deciso: avrei costretto mio padre di restare almeno per mezz'ora
nel riposo voluto dal medico. Non era questo il mio dovere?Subito mio padre tentò di ribaltarsi verso la
sponda del letto per sottrarsi alla mia pressione e levarsi. Con mano vigorosa poggiata sulla sua spalla,
gliel'impedii mentre a voce alta e imperiosa gli comandavo di non moversi. Per un breve istante, terrorizzato,
egli obbedì. Poi esclamò:- Muoio! E si rizzò. A mia volta, subito spaventato dal suo grido, rallentai la
pressione della mia mano. Perciò egli potè sedere sulla sponda del letto proprio di faccia a me. Io penso che
allora la sua ira fu aumentata al trovarsi - sebbene per un momento solo - impedito nei movimenti e gli parve
certo ch'io gli togliessi anche l'aria di cui aveva tanto bisogno, come gli toglievo la luce stando in piedi
contro di lui seduto. Con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se
avesse saputo ch'egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia
guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento. Morto! Non lo sapevo morto, ma mi si contrasse il cuore
dal dolore della punizione ch'egli, moribondo, aveva voluto darmi. Con l'aiuto di Carlo lo sollevai e lo riposi
in letto. Piangendo, proprio come un bambino punito, gli gridai nell'orecchio:- Non è colpa mia! Fu quel
maledetto dottore che voleva obbligarti di star sdraiato!
Era una bugia. Poi, ancora come un bambino, aggiunsi la promessa di non farlo più:- Ti lascerò movere
come vorrai. L'infermiere disse:- E’ morto.
Autore: Luca Gervasutti




Dovettero allontanarmi a viva forza da quella stanza. Egli era morto ed io non potevo più provargli la mia innocenza!
Nella solitudine tentai di riavermi. Ragionavo: era escluso che mio padre, ch'era sempre fuori di sensi, avesse potuto
risolvere di punirmi e dirigere la sua mano con tanta esattezza da colpire la mia guancia. Come sarebbe stato possibile
di avere la certezza che il mio ragionamento era giusto? Pensai persino di dirigermi a Coprosich. Egli, quale medico,
avrebbe potuto dirmi qualche cosa sulle capacità di risolvere e agire di un moribondo. Potevo anche essere stato
vittima di un atto provocato da un tentativo di facilitarsi la respirazione! Ma col dottor Coprosich non parlai. Era
impossibile di andar a rivelare a lui come mio padre si fosse congedato da me. A lui, che m'aveva già accusato di aver
mancato di affetto per mio padre! Fu un ulteriore grave colpo per me quando sentii che Carlo, l'infermiere, in cucina, di
sera, raccontava a Maria: - Il padre alzò alto alto la mano e con l'ultimo suo atto picchiò il figliuolo. - Egli lo sapeva e
perciò Coprosich l'avrebbe risaputo. Quando mi recai nella stanza mortuaria, trovai che avevano vestito il cadavere.
L'infermiere doveva anche avergli ravviata la bella, bianca chioma. La morte aveva già irrigidito quel corpo che giaceva
superbo e minaccioso. Le sue mani grandi, potenti, ben formate, erano livide, ma giacevano con tanta naturalezza che
parevano pronte ad afferrare e punire. Non volli, non seppi più rivederlo. Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio padre
debole e buono come l'avevo sempre conosciuto dopo la mia infanzia e mi convinsi che quello schiaffo che m'era
stato inflitto da lui moribondo, non era stato da lui voluto. Divenni buono, buono e il ricordo di mio padre
s'accompagnò a me, divenendo sempre più dolce. Fu come un sogno delizioso: eravamo oramai perfettamente
d'accordo, io divenuto il più debole e lui il più forte.
Autore: Luca Gervasutti




Nel racconto di Zeno la vicenda di ostilità fra padre e figlio viene nascosta dietro l’amore che secondo il
senso comune deve necessariamente esistere tra il figlio e il genitore. Ma poi ecco la “terribile” esperienza di
Zeno, che crede di ricevere uno schiaffo dal padre poco prima che questi muoia. Con ogni probabilità il gesto
del genitore, ormai privo di coscienza, è dovuto solo a motivi fisiologici: tuttavia Zeno non può fare a meno
di interpretarlo come l'estrema punizione che il padre ha voluto infliggergli. Il senso di colpa affiora in lui
perché egli aveva infatti sostenuto di fronte al medico l'opportunità di lasciar morire il padre, ormai
condannato, senza procurargli con cure inutili ulteriore sofferenza.
Il lettore deve però prescindere dalla corrispondenza o meno dell'interpretazione di Zeno a una realtà
oggettiva: il fatto stesso che il protagonista provi senso di colpa dimostra che egli è colpevole, dal momento
che effettivamente ha desiderato la morte del padre. Dal punto di vista dell'inconscio, infatti, non c'è
differenza se l'evento desiderato si è o no compiuto per responsabilità oggettiva del soggetto.
Autore: Luca Gervasutti




Il rapporto conflittuale con il padre fa affiorare la parte più
profonda della personalità di Zeno; infatti, tracciando il
profilo del padre egli crea il proprio autoritratto soprattutto
per quanto riguarda sentimenti e stati d’animo che prova per
il genitore.
Una causa della sua malattia è sicuramente il complesso di
Edipo: ciò viene subito alla luce anche se il protagonista
continua a negarlo. Egli oscilla tra conscio e inconscio, odia
profondamente il padre, lo vede come un nemico; lui, un
inetto, e il padre, figura virile e autoritaria.
Il dottor S. diagnostica che Zeno è affetto dal complesso di
Edipo; e lui maschera invece la sua aggressività in desiderio
di innocenza, soprattutto nella scena dove il padre muore e
gli dà uno schiaffo che “lascia cadere sulla guancia”.


                     http://it.wikipedia.org/wiki/Complesso_di_Edipo
Autore: Luca Gervasutti




Nel capitolo conclusivo (di cui fa parte il brano che leggerai nelle
slides successive), Zeno, in seguito alla guerra, racconta di sentirsi
pienamente guarito grazie ai successi commerciali raggiunti e alla
constatazione che la malattia è condizione di ogni uomo. Identificando
il progresso umano nella creazione di ordigni - comprese le idee - che
impediscono la soddisfazione delle più intime esigenze, auspica
un’enorme esplosione che riporti la Terra allo stato di nebulosa e
consenta agli uomini di ritrovare l’armonia.
Il brano contiene una evidente critica nei confronti della società
borghese, ma più che attribuirgli un significato profetico esso va visto
alla luce di tutto il romanzo, in cui consapevolezza e ironia si
fondono. Come scrisse il critico Geno Pampaloni, commentando
queste pagine, “soltanto la fine del mondo potrebbe liberarci dalla
malattia. L’uomo moderno, represso dalla inconsapevolezza del
proprio stato, incapace d’ironia, non può produrre che catastrofi.
Artifici, menzogne e impotenze vanno di pari passo. L’unica età
dell’oro possibile sulla terra è quella dell’uomo che accetta la sua
precarietà e il condizionamento prepotente della vita. Tolleranza,
autocoscienza e ironia sono le vie possibili, a portata di mano, della
salvezza”
Autore: Luca Gervasutti




La catastrofe finale
(da La coscienza di Zeno, cap.VIII)

La vita attuale è inquinata alle radici. L'uomo s'è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha
inquinata l'aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe
scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V'è una minaccia di questo genere in aria. Ne
seguirà una grande ricchezza... nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un
uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco!Ma non è questo,
non è questo soltanto.Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla
bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese
che per essa non c'era altra possibile vita fuori dell'emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le
sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s'interrò e tutto il suo corpo
si conformò al suo bisogno. Il cavallo s'ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non
sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.Ma l'occhialuto uomo, invece,
inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c'è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca
in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l'uomo diventa sempre più furbo e più
debole.



           14.03
Autore: Luca Gervasutti




Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano
prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai,
l'ordigno non ha più alcuna relazione con l'arto. Ed è l'ordigno che crea la malattia con l'abbandono della
legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro
che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno
malattie e ammalati.Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute.
Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di
questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti
saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri
un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo
effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma
di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.
Autore: Luca Gervasutti




La fase storica in cui Italo Svevo si dedicò alla scrittura era caratterizzata da una profonda
crisi sociale (la crisi delle certezze ), che portò l'uomo alla consapevolezza che non bastava
la sola razionalità a spiegare la realtà. A ciò gli scrittori reagirono in modo diverso:
D'Annunzio con la teoria del superuomo, Pascoli col mito del fanciullino, Svevo anziché
inventarsi eroi decise di parlare e descrivere l'uomo in crisi, così com'era, dandone
un'immagine in cui gli uomini del suo tempo - obbligati a riflettere su se stessi - non
amarono rispecchiarsi.
La tipologia che ne emerge è quella dell'inetto, che costituisce il tema cardine di tutta l'opera
sveviana, in pratica dell'uomo incapace, che non sa vivere e realizzare i suoi progetti.
L'inettitudine dell'uomo, secondo Svevo, è una debolezza interiore che rende inadatti alla
vita, e caratterizza tutti coloro che sono nella società borghese, ma si distinguono da essa
come dei diversi, soprattutto perché non ne condividono i valori come il culto del denaro e
del successo personale. Questa incapacità di adattarsi alla società diventa nei protagonisti
sveviani una vera impotenza psicologica, perché non riescono più a identificarsi con la
figura vincente tipica della borghesia, e si auto-escludono, rifugiandosi in mondi fittizi e
vedendo in ogni altro uomo un antagonista in grado di agire e reagire nelle varie situazioni.
Autore: Luca Gervasutti




Se inizialmente per Svevo questa figura fu estremamente negativa, lentamente il
suo punto di vista mutò, perché l'analisi su sé e sugli altri a cui porta la malattia
mostrò come fosse relativo il concetto di sanità, perché ognuno ha i suoi
problemi, le sue "inettitudini", ma l'inetto risulta forse il più avvantaggiato nella
vita: infatti, non avendo sviluppato le proprie possibilità in nessun ambito della
società ha in sé un grande potenziale, che lo rende adatto a emergere in qualsiasi
situazione. L'inetto diventa dunque colui che sa osservare il mondo dal di fuori, e
può criticarlo, evidenziandone i difetti, minando alla base le certezze che lo
guidano, e per questo diventa un personaggio positivo.
Un'altra tematica fondamentale dell'opera sveviana, strettamente legata al tema
precedente, è la malattia; lo scrittore triestino sostiene che i veri malati sono
coloro che hanno delle certezze immodificabili su cui basano la propria esistenza
e che non sanno analizzare se stessi; pertanto il confine fra sanità e malattia si
assottiglia notevolmente, in un clima di malattia universale, in cui tutto è soggetto
a una generale degradazione. Questo atteggiamento è sintomo della “crisi delle
certezze” che caratterizza l'inizio del '900.

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  • 1. Autore: Luca Gervasutti Descrizione del Learning Object Questo Learning Object muove dall’esigenza di approfondire l’analisi del terzo e più importante romanzo di Italo Svevo, caratterizzato da una struttura fortemente sperimentale, da un tono ricco di spunti ironici e da tematiche estremamente attuali
  • 2. Autore: Luca Gervasutti Obiettivi del LO • Saper individuare la poetica dell’autore e le principali tematiche sviluppate nel suo romanzo principale • Acquisire un metodo per la lettura analitica di un’opera letteraria • Saper ricavare elementi di attualità dall’esame dei testi, con particolare riferimento alla tematica dell’inettitudine
  • 3. Autore: Luca Gervasutti Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz) nacque nel 1861 a Trieste, città cosmopolita e fervida di traffici sotto il regime austroungarico. Di famiglia ebrea di agiati commercianti, viene messo in collegio in Baviera. Tornato a Trieste a 17 anni per completare gli studi commerciali, in seguito al fallimento dell'industria paterna, nel 1880 si trova nella necessità di trovare un lavoro: entra come impiegato alla viennese Banca Union, dove resterà vent'anni. Nelle ore libere dal lavoro si dedica allo studio del violino e, soprattutto la notte, a scrivere. Nel 1892 pubblica Una vita , romanzo che guadagna qualche segnalazione, ma passa sostanzialmente inosservato. Nel 1896 sposa una cugina, Livia Veneziani, figlia di un ricco industriale e l'anno dopo nasce la figlia Letizia. Nel 1898 esce il secondo romanzo, Senilità, pressoché ignorato da critica e pubblico. Dopo che il suocero gli chiede di lasciare la banca e di diventare socio nella sua fabbrica di vernici sottomarine, Svevo viaggia spesso per l'Europa e si occupa intensamente dell'azienda. Ma la sua vocazione letteraria e il piacere della scrittura sono più forti della delusione che è in lui per l'indifferenza che lo circonda.
  • 4. Autore: Luca Gervasutti Nel 1906 s'iscrive alla Berlitz School per migliorare il suo inglese, che gli è necessario nei rapporti di lavoro e conosce un insegnante irlandese eccezionale: lo scrittore James Joyce. Fra il 1908 e il 1910 Svevo legge Freud e libri di psicoanalisi. Ma non ha molta fiducia nell'applicazione terapeutica della psicoanalisi e scrive che Freud è più importante per i romanzieri che per gli ammalati. Intanto, con lo scoppio della guerra, la fabbrica di vernici è ferma: c'è molto tempo libero e il romanzo torna a prendere forma in Svevo. Nel 1919 inizia a scrivere La coscienza di Zeno che viene pubblicato, sempre a spese dell'autore, nel 1923. L'anno dopo Joyce, che si è trasferito a Parigi e che è entusiasta del libro, ne parla ai suoi amici, letterati italianisti, che vogliono conoscere la sua opera. Nel '27 La coscienza di Zeno viene tradotto in Francia e Svevo si batte per la riabilitazione dei primi due romanzi, annegati nell'oblio della critica italiana. In un clima di rinnovata fiducia continua a scrivere novelle, poi inizia un nuovo romanzo. Un banale incidente automobilistico ha conseguenze definitive: Svevo muore nel settembre del 1928 a Motta di Livenza. Ha 67 anni.
  • 6. Autore: Luca Gervasutti La Coscienza di Zeno è l’autobiografia, seppur fittizia, dello stesso protagonista, Zeno Cosini, il quale, spinto dal suo psicanalista, si mette a scrivere la storia della sua vita e il corso della sua nevrosi. Già nel titolo appare evidente che Svevo vuole sottolineare, con il personaggio di Zeno, la pluralità e l’ambiguità dell’Io. Il termine coscienza può avere, infatti, due significati ambivalenti e contraddittori: può essere intesa come coscienza morale o come consapevolezza delle proprie azioni. Il vero punto di vista dell’autore non viene mai alla luce. E' per questo che Svevo utilizza la tecnica dell’ io narrante , cioè del protagonista narratore. Così facendo crea volutamente una sorta di equivoca ambiguità tra autore e voce narrante. E’ proprio per Italo Svevo con la moglie questo motivo che possiamo parlare di “opera aperta”: il lettore deve completare il romanzo con il suo apporto personale, interpretando i fatti e le parole, decifrando i numerosi simboli cosparsi nel romanzo.
  • 7. Autore: Luca Gervasutti Perché Svevo decide di trasmettere un messaggio deliberatamente ambiguo? Si potrebbe rispondere che l’opera aperta è una delle forme tipiche della narrativa novecentesca: il romanzo ottocentesco era esplicativo, quello del Novecento è invece interrogativo. C’è però anche un’altra spiegazione: Zeno è sia protagonista che narratore, ma essendo colpito da nevrosi (malattia che comporta l’allontanamento dalla coscienza degli eventi più traumatizzanti, che vengono perciò sepolti nell’’inconscio e dal quale riemergono mascherati nel linguaggio oscuro e simbolico dei sintomi di tale malattia) non è un narratore attendibile dei fatti che sono in relazione con la sua nevrosi. Se sono inattendibili l’esposizione dei fatti e la loro interpretazione proposte da Zeno, e se l’autore non interviene in prima persona a proporre una versione plausibile degli eventi narrati, al lettore non resta che avanzare in prima persona delle ipotesi interpretative. La coscienza di Zeno appare per questo un’opera aperta: un’opera, cioè, in cui il lettore è invitato a collaborare alla costruzione del senso.
  • 8. Autore: Luca Gervasutti Il vizio del fumo è il primo tema trattato da Zeno Cosini, io narrante del romanzo, nel diario che egli scrive su consiglio dello psicoanalista, il dottor S., per guarire dalle fissazioni che lo tormentano: la scelta è indotta proprio dal dottore, che lo invita "a iniziare il suo lavoro con un'analisi storica della sua propensione al fumo”. Nel testo che ti presentiamo scopriamo che il protagonista è un accanito fumatore fin dalla adolescenza e che ha iniziato a fumare con un sigaro lasciato in giro per casa dal padre. Ma l'aspetto che subito viene evidenziato da egli stesso è che appena creatosi il vizio, Zeno cerca invano di liberarsene. Il tentativo dura moltissimi anni, e non si realizza mai, neanche dopo essersi recato in una clinica specialistica, pur di scappare dalla quale corrompe l'infermiera. Il continuo rimandare un evento è tipico del nevrotico, che così, in questo caso, può gustare sempre di più l'ultima sigaretta.
  • 9. Autore: Luca Gervasutti L'ultima sigaretta (da La coscienza di Svevo , cap.III) Ricordo di aver fumato molto, celato in tutti i luoghi possibili. Perché seguito da un forte disgusto fisico, ricordo un soggiorno prolungato per una mezz'ora in una cantina oscura insieme a due altri fanciulli di cui non ritrovo nella memoria altro che la puerilità del vestito: due paia di calzoncini che stanno in piedi perché dentro c'è stato un corpo che il tempo eliminò. Avevamo molte sigarette e volevamo vedere chi ne sapesse bruciare di più nel breve tempo. Io vinsi, ed eroicamente celai il malessere che mi derivò dallo strano esercizio. Poi uscimmo al sole e all'aria. Dovetti chiudere gli occhi per non cadere stordito. Mi rimisi e mi vantai della vittoria. Uno dei due piccoli omini mi disse allora:- A me non importa di aver perduto perché io non fumo che quanto m'occorre. Ricordo la parola sana e non la faccina certamente sana anch'essa che a me doveva essere rivolta in quel momento. Ma allora io non sapevo se amavo o odiavo la sigaretta e il suo sapore e lo stato in cui la nicotina mi metteva. Quando seppi di odiare tutto ciò fu peggio. E lo seppi a vent'anni circa. Allora soffersi per qualche settimana di un violento male di gola accompagnato da febbre. Il dottore prescrisse il letto e l'assoluta astensione dal fumo. Ricordo questa parola: assoluta! Mi ferì e la febbre la colorò: un vuoto grande e niente per resistere all'enorme pressione che subito si produce attorno ad un vuoto. http://www.radio.rai.it/radio3/terzo_anello/alta_voce/archivio_2003/eventi/2003_01_01_coscienza_zeno/index.cfm# 9.40
  • 10. Autore: Luca Gervasutti Quando il dottore mi lasciò, mio padre (mia madre era morta da molti anni) con tanto di sigaro in bocca restò ancora per qualche tempo a farmi compagnia. Andandosene, dopo di aver passata dolcemente la sua mano sulla mia fronte scottante, mi disse:- Non fumare, veh! Mi colse un'inquietudine enorme. Pensai: ´Giacché mi fa male non fumerò mai più, ma prima voglio farlo per l'ultima volta. Accesi una sigaretta e mi sentii subito liberato dall'inquietudine ad onta che la febbre forse aumentasse e che ad ogni tirata sentissi alle tonsille un bruciore come se fossero state toccate da un tizzone ardente. Finii tutta la sigaretta con l'accuratezza con cui si compie un voto. E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi:- Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito! Bastava questa frase per farmi desiderare ch'egli se ne andasse presto, presto, per permettermi di correre alla mia sigaretta. Fingevo anche di dormire per indurlo ad allontanarsi prima. Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo. Le mie giornate finirono coll'essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono ancora tali. (...) Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato:´Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studi di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta!!’. Era un'ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l'accompagnarono. M'ero arrabbiato col diritto canonico che mi pareva tanto lontano dalla vita e correvo alla scienza ch'è la vita stessa benché ridotta in un matraccio. Quell'ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo. Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai alla legge.
  • 11. Autore: Luca Gervasutti Pur troppo! Fu un errore e fu anch'esso registrato da un'ultima sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa e mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo coi migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M'ero dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un turco? Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l'uomo ideale e forte che m'aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? (...) Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand'è l'ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L'ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su se stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po' più lontano.
  • 12. Autore: Luca Gervasutti Zeno si rivolge a facoltosi medici, riempie libri e addirittura pareti con la sigla U.S. (Ultima Sigaretta), ma non riesce a smettere. E’ evidente che in realtà Zeno non ha intenzione di guarire dal vizio del fumo. Le sigarette rappresentano una volontà di auto affermazione soprattutto nei confronti della figura paterna, figura allo stesso tempo amata e odiata (come si vedrà nel brano successivo). L’argomento serve a Svevo anche per evidenziare quella dimensione di inettitudine che è una caratteristica del protagonista de La coscienza di Zeno: la malattia della volontà dell’io narrante trova dunque conferma anche nelle pagine che hai letto, venate di brillante umorismo.
  • 13. Autore: Luca Gervasutti Il secondo tema trattato dal protagonista è anch'esso legato al vizio del fumo: infatti Zeno cerca di spegnere l'ultima sigaretta anche il giorno della morte del padre. Il rapporto con il genitore è il primo di una lunga serie di rapporti ambigui raccontati da Zeno: tra padre e figlio vi è una forte ostilità, Zeno gioca continuamente a provocare il padre, il quale da parte sua non cerca di comprendere il figlio, anzi lo disprezza per il suo carattere troppo ironico. La situazione ha una svolta solo il giorno in cui il padre, per un edema polmonare, è costretto a letto, e Zeno si dedica a lui giorno e notte: una sera, nel tentativo di impedirgli di alzarsi dal letto, il figlio lo trattiene, ma il padre in un ultimo impeto di forza, rizzatosi nel letto, alza la mano verso Zeno per colpirlo... e muore. Come vedrai nel testo che riportiamo, il protagonista vede nel gesto una punizione, ultima ed eterna, del padre: e questo crea in lui un forte senso di colpa per avere desiderato la morte del genitore.
  • 14. Autore: Luca Gervasutti Lo schiaffo (da La coscienza di Svevo , cap.IV) La notte fu lunga ma, debbo confessarlo, non specialmente affaticante per me e per l'infermiere. Lasciavamo fare all'ammalato quello che voleva, ed egli camminava per la stanza nel suo strano costume, inconsapevole del tutto di attendere la morte. (...)Il dottore (...) mi esortò a dirgli che si forzasse di restare più a lungo nel letto. Mio padre ascoltava solo le voci a cui era più abituato, la mia e quelle di Maria e dell'infermiere. Non credevo all'efficacia di quelle raccomandazioni, ma tuttavia le feci mettendo nella mia voce anche un tono di minaccia.- Sì, sì, - promise mio padre e in quello stesso istante si levò e andò alla poltrona. Il medico lo guardò e, rassegnato, mormorò:- Si vede che un mutamento di posizione gli dà un po' di sollievo. Poco dopo ero a letto, ma non seppi chiuder occhio. Guardavo nell'avvenire indagando per trovare perché e per chi avrei potuto continuare i miei sforzi di migliorarmi. Piansi molto, ma piuttosto su me stesso che sul disgraziato che correva senza pace per la sua camera. Quando mi levai, Maria andò a coricarsi ed io restai accanto a mio padre insieme all'infermiere. Ero abbattuto e stanco; mio padre più irrequieto che mai. Fu allora che avvenne la scena terribile che non dimenticherò mai e che gettò lontano lontano la sua ombra, che offuscò ogni mio coraggio, ogni mia gioia. Per dimenticarne il dolore, fu d'uopo che ogni mio sentimento fosse affievolito dagli anni. L'infermiere mi disse:- Come sarebbe bene se riuscissimo di tenerlo a letto. Il dottore vi dà tanta importanza! http://www.radio.rai.it/radio3/terzo_anello/alta_voce/archivio_2003/eventi/2003_01_01_coscienza_zeno/index.cfm# 5 puntata 3.18
  • 15. Autore: Luca Gervasutti Fino a quel momento io ero rimasto adagiato sul sofà. Mi levai e andai al letto ove, in quel momento, ansante più che mai, l'ammalato s'era coricato. Ero deciso: avrei costretto mio padre di restare almeno per mezz'ora nel riposo voluto dal medico. Non era questo il mio dovere?Subito mio padre tentò di ribaltarsi verso la sponda del letto per sottrarsi alla mia pressione e levarsi. Con mano vigorosa poggiata sulla sua spalla, gliel'impedii mentre a voce alta e imperiosa gli comandavo di non moversi. Per un breve istante, terrorizzato, egli obbedì. Poi esclamò:- Muoio! E si rizzò. A mia volta, subito spaventato dal suo grido, rallentai la pressione della mia mano. Perciò egli potè sedere sulla sponda del letto proprio di faccia a me. Io penso che allora la sua ira fu aumentata al trovarsi - sebbene per un momento solo - impedito nei movimenti e gli parve certo ch'io gli togliessi anche l'aria di cui aveva tanto bisogno, come gli toglievo la luce stando in piedi contro di lui seduto. Con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch'egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento. Morto! Non lo sapevo morto, ma mi si contrasse il cuore dal dolore della punizione ch'egli, moribondo, aveva voluto darmi. Con l'aiuto di Carlo lo sollevai e lo riposi in letto. Piangendo, proprio come un bambino punito, gli gridai nell'orecchio:- Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di star sdraiato! Era una bugia. Poi, ancora come un bambino, aggiunsi la promessa di non farlo più:- Ti lascerò movere come vorrai. L'infermiere disse:- E’ morto.
  • 16. Autore: Luca Gervasutti Dovettero allontanarmi a viva forza da quella stanza. Egli era morto ed io non potevo più provargli la mia innocenza! Nella solitudine tentai di riavermi. Ragionavo: era escluso che mio padre, ch'era sempre fuori di sensi, avesse potuto risolvere di punirmi e dirigere la sua mano con tanta esattezza da colpire la mia guancia. Come sarebbe stato possibile di avere la certezza che il mio ragionamento era giusto? Pensai persino di dirigermi a Coprosich. Egli, quale medico, avrebbe potuto dirmi qualche cosa sulle capacità di risolvere e agire di un moribondo. Potevo anche essere stato vittima di un atto provocato da un tentativo di facilitarsi la respirazione! Ma col dottor Coprosich non parlai. Era impossibile di andar a rivelare a lui come mio padre si fosse congedato da me. A lui, che m'aveva già accusato di aver mancato di affetto per mio padre! Fu un ulteriore grave colpo per me quando sentii che Carlo, l'infermiere, in cucina, di sera, raccontava a Maria: - Il padre alzò alto alto la mano e con l'ultimo suo atto picchiò il figliuolo. - Egli lo sapeva e perciò Coprosich l'avrebbe risaputo. Quando mi recai nella stanza mortuaria, trovai che avevano vestito il cadavere. L'infermiere doveva anche avergli ravviata la bella, bianca chioma. La morte aveva già irrigidito quel corpo che giaceva superbo e minaccioso. Le sue mani grandi, potenti, ben formate, erano livide, ma giacevano con tanta naturalezza che parevano pronte ad afferrare e punire. Non volli, non seppi più rivederlo. Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio padre debole e buono come l'avevo sempre conosciuto dopo la mia infanzia e mi convinsi che quello schiaffo che m'era stato inflitto da lui moribondo, non era stato da lui voluto. Divenni buono, buono e il ricordo di mio padre s'accompagnò a me, divenendo sempre più dolce. Fu come un sogno delizioso: eravamo oramai perfettamente d'accordo, io divenuto il più debole e lui il più forte.
  • 17. Autore: Luca Gervasutti Nel racconto di Zeno la vicenda di ostilità fra padre e figlio viene nascosta dietro l’amore che secondo il senso comune deve necessariamente esistere tra il figlio e il genitore. Ma poi ecco la “terribile” esperienza di Zeno, che crede di ricevere uno schiaffo dal padre poco prima che questi muoia. Con ogni probabilità il gesto del genitore, ormai privo di coscienza, è dovuto solo a motivi fisiologici: tuttavia Zeno non può fare a meno di interpretarlo come l'estrema punizione che il padre ha voluto infliggergli. Il senso di colpa affiora in lui perché egli aveva infatti sostenuto di fronte al medico l'opportunità di lasciar morire il padre, ormai condannato, senza procurargli con cure inutili ulteriore sofferenza. Il lettore deve però prescindere dalla corrispondenza o meno dell'interpretazione di Zeno a una realtà oggettiva: il fatto stesso che il protagonista provi senso di colpa dimostra che egli è colpevole, dal momento che effettivamente ha desiderato la morte del padre. Dal punto di vista dell'inconscio, infatti, non c'è differenza se l'evento desiderato si è o no compiuto per responsabilità oggettiva del soggetto.
  • 18. Autore: Luca Gervasutti Il rapporto conflittuale con il padre fa affiorare la parte più profonda della personalità di Zeno; infatti, tracciando il profilo del padre egli crea il proprio autoritratto soprattutto per quanto riguarda sentimenti e stati d’animo che prova per il genitore. Una causa della sua malattia è sicuramente il complesso di Edipo: ciò viene subito alla luce anche se il protagonista continua a negarlo. Egli oscilla tra conscio e inconscio, odia profondamente il padre, lo vede come un nemico; lui, un inetto, e il padre, figura virile e autoritaria. Il dottor S. diagnostica che Zeno è affetto dal complesso di Edipo; e lui maschera invece la sua aggressività in desiderio di innocenza, soprattutto nella scena dove il padre muore e gli dà uno schiaffo che “lascia cadere sulla guancia”. http://it.wikipedia.org/wiki/Complesso_di_Edipo
  • 19. Autore: Luca Gervasutti Nel capitolo conclusivo (di cui fa parte il brano che leggerai nelle slides successive), Zeno, in seguito alla guerra, racconta di sentirsi pienamente guarito grazie ai successi commerciali raggiunti e alla constatazione che la malattia è condizione di ogni uomo. Identificando il progresso umano nella creazione di ordigni - comprese le idee - che impediscono la soddisfazione delle più intime esigenze, auspica un’enorme esplosione che riporti la Terra allo stato di nebulosa e consenta agli uomini di ritrovare l’armonia. Il brano contiene una evidente critica nei confronti della società borghese, ma più che attribuirgli un significato profetico esso va visto alla luce di tutto il romanzo, in cui consapevolezza e ironia si fondono. Come scrisse il critico Geno Pampaloni, commentando queste pagine, “soltanto la fine del mondo potrebbe liberarci dalla malattia. L’uomo moderno, represso dalla inconsapevolezza del proprio stato, incapace d’ironia, non può produrre che catastrofi. Artifici, menzogne e impotenze vanno di pari passo. L’unica età dell’oro possibile sulla terra è quella dell’uomo che accetta la sua precarietà e il condizionamento prepotente della vita. Tolleranza, autocoscienza e ironia sono le vie possibili, a portata di mano, della salvezza”
  • 20. Autore: Luca Gervasutti La catastrofe finale (da La coscienza di Zeno, cap.VIII) La vita attuale è inquinata alle radici. L'uomo s'è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l'aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V'è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza... nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco!Ma non è questo, non è questo soltanto.Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c'era altra possibile vita fuori dell'emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s'interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s'ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.Ma l'occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c'è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l'uomo diventa sempre più furbo e più debole. 14.03
  • 21. Autore: Luca Gervasutti Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l'ordigno non ha più alcuna relazione con l'arto. Ed è l'ordigno che crea la malattia con l'abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.
  • 22. Autore: Luca Gervasutti La fase storica in cui Italo Svevo si dedicò alla scrittura era caratterizzata da una profonda crisi sociale (la crisi delle certezze ), che portò l'uomo alla consapevolezza che non bastava la sola razionalità a spiegare la realtà. A ciò gli scrittori reagirono in modo diverso: D'Annunzio con la teoria del superuomo, Pascoli col mito del fanciullino, Svevo anziché inventarsi eroi decise di parlare e descrivere l'uomo in crisi, così com'era, dandone un'immagine in cui gli uomini del suo tempo - obbligati a riflettere su se stessi - non amarono rispecchiarsi. La tipologia che ne emerge è quella dell'inetto, che costituisce il tema cardine di tutta l'opera sveviana, in pratica dell'uomo incapace, che non sa vivere e realizzare i suoi progetti. L'inettitudine dell'uomo, secondo Svevo, è una debolezza interiore che rende inadatti alla vita, e caratterizza tutti coloro che sono nella società borghese, ma si distinguono da essa come dei diversi, soprattutto perché non ne condividono i valori come il culto del denaro e del successo personale. Questa incapacità di adattarsi alla società diventa nei protagonisti sveviani una vera impotenza psicologica, perché non riescono più a identificarsi con la figura vincente tipica della borghesia, e si auto-escludono, rifugiandosi in mondi fittizi e vedendo in ogni altro uomo un antagonista in grado di agire e reagire nelle varie situazioni.
  • 23. Autore: Luca Gervasutti Se inizialmente per Svevo questa figura fu estremamente negativa, lentamente il suo punto di vista mutò, perché l'analisi su sé e sugli altri a cui porta la malattia mostrò come fosse relativo il concetto di sanità, perché ognuno ha i suoi problemi, le sue "inettitudini", ma l'inetto risulta forse il più avvantaggiato nella vita: infatti, non avendo sviluppato le proprie possibilità in nessun ambito della società ha in sé un grande potenziale, che lo rende adatto a emergere in qualsiasi situazione. L'inetto diventa dunque colui che sa osservare il mondo dal di fuori, e può criticarlo, evidenziandone i difetti, minando alla base le certezze che lo guidano, e per questo diventa un personaggio positivo. Un'altra tematica fondamentale dell'opera sveviana, strettamente legata al tema precedente, è la malattia; lo scrittore triestino sostiene che i veri malati sono coloro che hanno delle certezze immodificabili su cui basano la propria esistenza e che non sanno analizzare se stessi; pertanto il confine fra sanità e malattia si assottiglia notevolmente, in un clima di malattia universale, in cui tutto è soggetto a una generale degradazione. Questo atteggiamento è sintomo della “crisi delle certezze” che caratterizza l'inizio del '900.