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INTRODUZIONE
La terza guerra mondiale sarà combattuta
per la salvezza dell’ambiente
U Thant, segretario generale delle Nazioni Unite, 1969
Potete dire pure che sono un transfuga di Greenpeace. Ma non è l’e-
spressione più precisa per descrivere come e perché mi sono allontana-
to dall’organizzazione, quindici anni dopo aver contribuito a fondarla.
Mi piacerebbe credere che sia stata Greenpeace ad allontanarsi da me,
anziché l’inverso. Ma anche questo non è del tutto vero.
Semplicemente, Greenpeace e io abbiamo preso strade divergenti. Nel-
la mia evoluzione, io sono divenuto un ambientalista ragionevole.
Greenpeace, invece, man mano che ha adottato programmi ostili alla
scienza, all’economia e in ultima analisi all’umanità, è divenuta sempre
più irragionevole.
Questa è la storia della nostra trasformazione.
L’ultima metà del Ventesimo secolo si è caratterizzata per una diffu-
sa repulsione alla guerra e per una nuova coscienza ambientale. La ge-
nerazione beat, gli hippy, gli ecologisti radicali e i verdi hanno dato for-
ma, a loro volta, a una nuova filosofia che vedeva nella pace e nell’eco-
logia i principi cardine di un mondo civilizzato. Spronati per oltre
trent’anni dall’onnipresente paura di un olocausto nucleare globale in
grado di annientare l’umanità e gran parte del mondo vivente, abbiamo
intrapreso una nuova guerra: una guerra per la salvezza della Terra. Io
ho avuto la fortuna di essere un generale di questa guerra.
Nel mio centro di addestramento non vi erano né sergenti urlanti né
esercitazioni con le carabine. Ma avevamo un senso così acuto del dove-
re, e degli scopi della missione che ci eravamo dati all’inizio, che era co-
me se andassimo all’assalto di un comune nemico. Ci siamo battuti con-
tro i fabbricanti di bombe, contro i cacciatori di balene, contro chi in-
quina e contro chiunque altro minacciasse la civiltà o l’ambiente. Con le
nostre azioni, ci siamo conquistati il cuore e la mente della gente di tut-
to il mondo. Eravamo Greenpeace.
Sono entrato in Greenpeace prima ancora che l’organizzazione
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prendesse il suo nome attuale. Il «Don’t Make a Wave Committee» si
riuniva settimanalmente nel seminterrato della chiesa unitaria di Van-
couver. Nell’aprile 1971, lessi sul «Vancouver Sun» un articoletto che
parlava di un gruppo in procinto di salpare da Vancouver e attraversare
il nord del Pacifico per protestare contro gli esperimenti della bomba al-
l’idrogeno condotti dagli americani in Alaska. Immediatamente, capii che
potevo far qualcosa di concreto, che andava ben oltre quanto mi potes-
sero dare i corsi di ecologia e gli studi dietro a una scrivania. Scrissi dun-
que agli organizzatori e fui invitato a partecipare agli incontri settimanali
del gruppetto che di lì a poco avrebbe dato origine a Greenpeace.
I primi tempi di Greenpeace furono davvero eccitanti. Era il 1971, e
l’era hippy era al suo apice. Allora, mi ingegnavo a concludere il mio dot-
torato in ecologia all’università della Columbia Britannica, confrontan-
domi con l’ostilità di alcuni docenti che difendevano gli interessi delle
industrie e facevano pressioni sulla commissione di laurea. Mi radicaliz-
zai nelle mie posizioni e mi unii agli attivisti impegnati contro gli arma-
menti nucleari.
Avevamo compreso che una guerra nucleare a oltranza avrebbe si-
gnificato la fine della civiltà e dell’ambiente. Di qui, il nome che ben pre-
sto adottammo, Greenpeace: ovvero, diamoci da fare per una «pace ver-
de». Per raggiungere il nostro obiettivo e richiamare l’attenzione pub-
blica sugli esperimenti nucleari, noleggiammo un vecchio peschereccio.
Eravamo convinti che la rivoluzione dovesse essere festosa. E così into-
navamo canti di protesta, bevevamo birra, fumavamo erba e, in genera-
le, ce la spassavamo, anche quando venivamo sballottati qua e là dalle ac-
que notoriamente perigliose del Nord Pacifico.
Sopravvivemmo a quel primo viaggio. Ma non riuscimmo a raggiun-
gere il sito degli esperimenti. I guardacoste americani ci intercettarono
ad Akutan Harbor, costringendoci a fare dietro front. La missione fu tut-
tavia un successo, perché i media di tutto il Nord America diedero noti-
zia dell’evento. Il giorno degli esperimenti della bomba H, migliaia di
persone provenienti dal Canada e dagli Stati Uniti si misero in marcia
lungo i confini del continente, bloccando gli incroci. Subito dopo, il pre-
sidente Nixon annullò i restanti test della serie. Quasi non riuscivamo a
credere a quel che aveva compiuto in pochi mesi la nostra raccogliticcia
brigata di pacifisti. Ci rendemmo conto che poche persone erano in gra-
do di cambiare il mondo, se solo si alzavano in piedi e si davano da fare.
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Fu il principio di una corsa sfrenata, molto sfrenata.
All’inizio del ’72, eccitati all’idea di aver sconfitto una superpoten-
za mondiale, ripetemmo l’impresa, questa volta contro la Francia, che
all’epoca conduceva una serie di test atmosferici della bomba atomica e
all’idrogeno a Mururoa, un piccolo atollo del sud del Pacifico. Il gover-
no francese aveva rifiutato di aderire al trattato del 1963 – sottoscritto
da Unione sovietica, Gran Bretagna e Stati Uniti – che vietava i test in
atmosfera.
Trovammo un canadese che viveva in Nuova Zelanda, David Mc-
Taggart, il quale si disse disposto a salpare con la sua barchetta per il sud
del Pacifico. E così lanciammo la successiva operazione di protesta. Il
primo anno, la marina militare francese ci aprì un buco nella barca e ci
rimorchiò sino a terra. Il secondo anno, riempì di botte il nostro capita-
no, e l’episodio fu fotografato di nascosto da una nostra attivista che par-
tecipava all’operazione. I quotidiani francesi ne diedero notizia in prima
pagina. E, prima della fine dell’anno, il governo annunciò la sospensio-
ne dei test nucleari in atmosfera.
Nel giro di tre anni, il nostro gruppetto aveva obbligato due super-
potenze a modificare in modo sostanziale il proprio programma di spe-
rimentazione delle armi nucleari. Ancora una volta, dimostrammo che
un manipolo di persone impegnate era in grado di mettersi alla testa di
cambiamenti concreti a livello globale. Ormai niente poteva più fermar-
ci. Nel 1975, ci prefissammo di salvare le balene dall’estinzione per ma-
no delle enormi flotte di baleniere. Quella fu la campagna che fece dav-
vero da volano a Greenpeace, trasformandola in un’icona mondiale. Al-
l’inizio degli anni Ottanta, contrastammo l’annuale carneficina di foche
baby, osteggiammo l’industria della pesca a strascico, protestammo con-
tro lo scarico dei rifiuti tossici, bloccammo le superpetroliere e ci para-
cadutammo sui siti prescelti per la costruzione di reattori nucleari. Le
nostre iniziative contribuirono in maniera considerevole a cambiare l’o-
pinione pubblica e stimolare le intelligenze. Grazie alla forza dei media
e della gente, influenzammo costantemente le decisioni dei governi e co-
stringemmo l’industria a una maggiore attenzione ecologica. Ci eravamo
aggiudicati l’appoggio della maggioranza delle popolazioni delle demo-
crazie industrializzate.
Nel 1982, Greenpeace era cresciuta a tal punto da trasformarsi in un
movimento internazionale a pieno regime, con uffici e personale in tut-
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to il mondo. Potevamo contare su cento milioni di dollari in donazioni
all’anno, e organizzavamo contemporaneamente una mezza dozzina di
campagne di protesta.
Ma nei primi anni Ottanta si verificarono due fatti che modificaro-
no il mio giudizio sull’orientamento che stavano prendendo l’ambienta-
lismo in generale e Greenpeace in particolare. Il primo fatto fu la mia
scoperta del concetto di sviluppo sostenibile a un meeting mondiale di
ambientalisti. Il secondo, l’adozione da parte dei compagni di Green-
peace di politiche che mi sembravano estremistiche e irrazionali. Questi
due avvenimenti sono alla base della trasformazione che mi ha portato,
da attivista radicale, a divenire un ambientalista ragionevole.
Nel 1982, le Nazioni Unite organizzarono un convegno a Nairobi, a
cui partecipai anch’io, per celebrare il decimo anniversario della prima
Conferenza sull’ambiente dell’Onu a Stoccolma. Ero uno degli ottanta-
cinque ecologisti provenienti da tutto il mondo, invitati a formulare una
proposta di obiettivi collettivi per la protezione ambientale. Fu subito
chiaro che vi erano due prospettive pressoché opposte fra di noi: quella
ostile allo sviluppo, propria degli ambientalisti dei paesi ricchi e indu-
strializzati, e quella favorevole allo sviluppo, condivisa dagli ambientali-
sti dei paesi poveri in via di sviluppo.
Un attivista del Terzo Mondo ebbe a dire che, se qualcuno in un
paese disgraziatamente povero come il suo avesse preso posizione con-
tro lo sviluppo, sarebbe stato ricoperto di risa di scherno. Era difficile
controbattere a una tale affermazione. Chi è ben nutrito ha molti pro-
blemi, chi ha fame ne ha solo uno. Lo stesso vale per lo sviluppo o per
l’assenza di sviluppo. La tragedia della povertà era del resto lì sotto i no-
stri occhi, nelle periferie della capitale keniota che ci ospitava. Quanti
di noi venivano dai paesi industrializzati riconobbero che bisognava per
forza essere favorevoli a qualche forma di sviluppo, preferibilmente uno
sviluppo che non danneggiasse l’ambiente. Nacque così il concetto di
sviluppo sostenibile.
Fu in quel momento che, per la prima volta, mi resi pienamente
conto che c’era un altro passo da compiere, oltre il puro attivismo am-
bientale. La vera sfida consisteva nell’inserire nel tessuto economico-so-
ciale della nostra cultura i valori ambientali che avevamo contribuito a
creare. E bisognava farlo senza mettere a repentaglio l’economia e, in-
sieme, in modi socialmente accettabili. Era chiaro che si trattava di in-
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dividuare il giusto equilibrio, non di aderire in maniera dogmatica a un
principio unico.
Capii subito che lo sviluppo sostenibile era un obiettivo molto più
difficile da mettere in pratica di quanto non fossero le campagne di pro-
testa che avevamo lanciato nei dieci anni precedenti. Occorrevano con-
senso e cooperazione, non scontri e demonizzazione. Greenpeace si tro-
vava a suo agio nello scontro – diamine, ne avevamo fatto una forma
d’arte – ma incontrammo tante difficoltà nel cooperare e nello scendere
a compromessi. Eravamo bravissimi a dire alla gente cosa doveva smet-
tere di fare, ma non sapevamo aiutarla a capire cosa invece avrebbe do-
vuto fare.
Mi sembrò inoltre che per me fosse venuto il momento di un cam-
biamento. Ero convinto che il nostro primo compito – ridestare la co-
scienza collettiva attorno all’importanza dell’ambiente – lo avessimo in
gran parte assolto. All’inizio degli anni Ottanta, la maggioranza del pub-
blico – almeno nelle democrazie occidentali – era ormai d’accordo con
noi che in ogni attività umana occorra tener conto dell’ambiente. Quan-
do la maggior parte della gente è d’accordo con te, probabilmente è ora
di cessare le ostilità e sedersi a un tavolo per cercare insieme le soluzio-
ni ai nostri problemi ambientali.
Nello stesso momento in cui io sceglievo di essere meno militante e
più diplomatico, i miei amici di Greenpeace divennero più estremisti e
intolleranti verso le manifestazioni interne di dissenso.
I primi tempi discutevamo spesso e apertamente di questioni com-
plesse. Eravamo un gruppo meraviglioso, e ci dilungavamo in discussio-
ni di politica ambientale a largo raggio. L’energia intellettuale dell’orga-
nizzazione era contagiosa. Anche se dissentivamo non di rado su pro-
blemi specifici, avevamo una visione delle cose sostanzialmente comune.
E, ciò che più conta, ci sforzavamo di essere scientificamente precisi. Da
anni, quello era l’argomento di molte nostre discussioni interne. Io ero
l’unico attivista di Greenpeace ad avere una laurea in ecologia e, poiché
non permettevo esagerazioni irragionevoli, ben presto mi affibbiarono il
soprannome di «dottor Verità». E non era proprio un complimento. Ma,
malgrado i miei sforzi, a metà degli anni Ottanta il movimento volse le
spalle alla scienza e alla logica, e ciò proprio mentre la società si appro-
priava dei temi più ragionevoli del nostro programma ambientale.
Per ironia della sorte, questa ritirata dalla scienza e dalla logica fu in
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parte una reazione al crescente acclimatamento dei valori ambientali nel-
la società. Semplicemente, alcuni attivisti non furono capaci di passare
dallo scontro al consenso. Sembrava che avessero bisogno di un comu-
ne nemico. E, quando la maggioranza delle persone si dichiara concor-
de con le tue idee ragionevoli, hai un solo modo per continuare a essere
contro e attaccare l’establishment: spostarti su posizioni sempre più
estremiste, finché non abbandoni del tutto la scienza e la logica a van-
taggio delle politiche a tolleranza zero.
Alla fine degli anni Ottanta, il collasso del comunismo mondiale e
la caduta del muro di Berlino irrobustirono la deriva estremistica. Fi-
nita la guerra fredda, il movimento pacifista era in gran parte allo sban-
do. Si trattava del resto di un movimento che aveva attecchito soprat-
tutto in Occidente ed era stato in linea di massima antiamericano. Mol-
ti di coloro che vi avevano fatto parte aderirono allora al movimento
ambientalista, portandosi dietro le proprie priorità, ispirate ai presup-
posti del neomarxismo e dell’estrema sinistra. In gran parte, pertanto,
il movimento ambientalista venne dirottato dai suoi obiettivi originari
dagli attivisti politico-sociali che si servivano del linguaggio verde per
camuffare programmi che avevano più a che fare con anticapitalismo e
l’antiglobalizzazione che non con la scienza o l’ecologia. Ricordo che,
quando nel 1985 mi recai nel nostro ufficio di Toronto, rimasi sorpre-
so vedendo quanti neofiti sfoggiassero uniformi militari e berretti ros-
si a sostegno dei sandinisti.
Non incolpo nessuno di aver preso la palla al balzo. Il nostro movi-
mento era divenuto potente, e costoro avevano intravisto la possibilità di
piegarlo al servizio dei propri programmi di cambiamento rivoluziona-
rio e di lotta di classe. Ma non potevo seguirli su quella strada: erano
estremisti che confondevano sia i temi che il pubblico, trasmettendo
un’immagine sbagliata della natura dell’ambiente e del posto che gli uo-
mini occupano in esso. Ancora oggi, industria per loro è una parolaccia,
come multinazionale, chimica, genetica, società per azioni, globalizzazio-
ne, e tanti altri vocaboli assolutamente utili. La loro campagna propa-
gandistica mira a promuovere un’ideologia, a mio avviso, molto nociva
per la civiltà e per l’ambiente.
All’inizio degli anni Ottanta, Greenpeace era cresciuta così tanto che
nessuno avrebbe potuto fermarla. Nelle riunioni di consiglio, fui prota-
gonista di vivaci discussioni su molti punti. Ma chi detiene la maggio-
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ranza ribatte che quella è la democrazia. Poco alla volta, capii da tante
questioni che non ero in linea con l’opinione politicamente corretta al-
lora dominante.
Una delle prime manifestazioni di estremismo di Greenpeace fu la
campagna per vietare il cloro in tutto il mondo. L’iniziativa fu avviata in
modo abbastanza innocente, mettendo in discussione l’acido 2,4,5-triclo-
rofenossiacetico e la diossina: sostanze entrambe abbastanza esecrabili,
che è opportuno limitare agli usi strettamente necessari. Entrambe con-
tengono cloro, e non ci volle molto perché questo importantissimo ele-
mento della tavola periodica venisse ribattezzato «elemento del demo-
nio» dalla maggior parte dei membri del nostro consiglio direttivo. No-
nostante avessi fatto notare che bandire un elemento non era probabil-
mente un obiettivo alla nostra portata, gli irriducibili ebbero la meglio.
Poco importava che quasi l’85% dei farmaci siano prodotti utiliz-
zando la chimica dei composti del cloro o che l’aggiunta di cloro all’ac-
qua potabile sia il più grande progresso della storia della salute pubbli-
ca. Nel 1991, quattro anni dopo la mia uscita, Greenpeace adottò una ri-
soluzione che sollecitava a por fine «all’uso, all’esportazione e all’impor-
tazione di tutti gli organocloruri, il cloro elementare e gli agenti ossidanti
clorati», con la motivazione che «non vi sono usi del cloro che noi con-
sideriamo sicuri».1 A questa stregua, tanto vale lanciare un appello per
vietare la vita, dal momento che neppure essa è sicura. Sapevo di aver
preso la decisione giusta andandomene, ma mi rattristava profondamen-
te che la mia Greenpeace fosse arrivata sino a quel punto. L’«elemento
del demonio», infatti, è fra tutte le sostanze la più importante per la sa-
lute pubblica e per la medicina. Ai miei colleghi questo non importava.
E per me questa era una prova sufficiente per convincermi che il loro
fondamentalismo fosse sostanzialmente antiumano.
Il crescente interesse per lo sviluppo sostenibile mi aveva portato a
interessarmi di acquicoltura: una pratica per «allevare» gli oceani ridu-
cendo la pesca di pesce selvatico. Molte risorse ittiche erano state grave-
mente depauperate, e a me sembrava chiaro che il modo migliore per ab-
bassare la pressione sulle riserve selvatiche fosse quello di allevare il pe-
sce. Una transizione analoga è già avvenuta, in Europa, sulla terraferma
diecimila anni fa con l’agricoltura e, poi, duecentocinquanta anni fa con
la selvicoltura (la coltivazione delle piante). Ero convinto che, se voleva
contribuire in modo positivo alla protezione dell’ambiente marino,
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Greenpeace dovesse adottare una politica di supporto all’acquicoltura
sostenibile. Non solo la mia proposta non venne accolta, ma molti soci
si dissero apertamente ostili a quell’idea. Mi domandai: se sono contrari
alla coltivazione ittica, a cosa sono favorevoli?
La divergenza di opinioni su come andare avanti divenne così pale-
se. Io ero per un approccio equilibrato ai problemi, che riconoscesse la
necessità di tener conto, nelle valutazioni, dei bisogni di quasi sette mi-
liardi di persone. Credevo che potessimo continuare a rifornirci del ci-
bo, dell’energia e dei materiali necessari alla civiltà, imparando al con-
tempo a ridurre il nostro impatto negativo sull’ambiente.
Gli ambientalisti hanno a volte la scellerata tendenza a dipingere la
specie umana come una disgrazia per la Terra. Siamo stati paragonati a
un cancro maligno che, espandendosi, minaccia di distruggere la biodi-
versità, di sconvolgere l’equilibrio naturale, di portare al collasso l’inte-
ro ecosistema. Il grande mito del movimento ambientalista è che gli es-
seri umani non fanno realmente parte della natura: in qualche modo sa-
remmo «innaturali», estranei al «puro» mondo della natura. Per qualche
ragione, questo concetto – questa sorta di peccato originale – fa presa su
quanti si sentono in colpa per il solo fatto di esistere. Sono convinti non
meritiamo ciò che abbiamo.
In realtà, uno degli insegnamenti fondamentali dell’ecologia è pro-
prio che gli esseri umani fanno parte della natura e sono inestricabilmen-
te legati a essa, come tutte le altre forme di vita. In questo senso, non sia-
mo diversi dai gabbiani, dalle stelle di mare o dai vermi. Ma, in qualche
modo, gli ecologisti «pensosi» sono riusciti a ribaltare le cose, sino a ren-
derci inferiori persino a vermi, quasi che tutte le altre forme di vita ci fos-
sero superiori. A me questa filosofia dell’automortificazione non piace.
Da quando ho lasciato Greenpeace, i suoi membri hanno adottato,
insieme alla maggior parte del movimento verde, politiche che riflettono
una tendenza antiumana, sorrette dal rifiuto della scienza e della tecno-
logia, e che in realtà finiscono con l’accrescere il rischio di danni alle per-
sone e all’ambiente. Si oppongono alla silvicoltura, anche se ci fornisce
la più abbondante risorsa naturale rinnovabile. Sono contrari agli ali-
menti geneticamente modificati, anche se questa tecnologia riduce l’im-
piego di pesticidi e migliora la nutrizione delle popolazioni che soffrono
la fame. Contestano l’energia nucleare, anche se è la tecnologia migliore
per rimpiazzare i carburanti fossili e ridurre le emissioni di gas serra. Ma-
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nifestano contro la costruzione di centrali idroelettriche, anche se l’e-
nergia idroelettrica è di gran lunga la più abbondante fonte rinnovabile
di elettricità. E sostengono una viziosa e sconsiderata campagna contro
l’allevamento di salmoni, un’industria che produce ogni anno oltre un
milione di tonnellate di cibo che fa bene al cuore.
Questa divergenza di opinioni e di orientamento politico è frutto di
una differenza di prospettiva. Per gli ambientalisti estremisti, gli esseri
umani sono il problema, un ostacolo alla salvezza, un influsso malefico
sul paesaggio. Per gli ambientalisti ragionevoli, gli esseri umani sono par-
te della natura, individui capaci di analisi intelligente, di prendere deci-
sioni e di imparare a integrarsi nella rete della vita. Un esempio perfetto
di questa dicotomia lo offre la questione delle foreste e della silvicoltura.
Gli attivisti contrari alla silvicoltura, come quelli di Rainforest Ac-
tion Network, sostengono che dovremmo ridurre al minimo gli alberi da
tagliare e limitare il consumo di legno. A loro avviso, così «salveremo» le
foreste. Certo, senza gli esseri umani le foreste starebbero benissimo. Ma
gli esseri umani ci sono, esistono: siamo quasi sette miliardi sulla Terra.
Abbiamo necessità di materiali per costruire case, uffici, fabbriche e mo-
bili, e abbiamo bisogno di campi da coltivare per produrre cibo e fibre.
Non possiamo smettere di nutrirci o di consumare risorse: è una que-
stione di sopravvivenza. Se riduciamo il consumo di legno, aumentereb-
be automaticamente il consumo di acciaio, di cemento e di altre risorse
non rinnovabili. E ciò comporterebbe un incremento enorme del con-
sumo di energia – in gran parte derivata da combustibili fossili – neces-
saria per produrre l’acciaio e il cemento, per tacere dell’inquinamento
dell’aria e delle emissioni di gas serra. A conti fatti, il minor utilizzo di
legno finirebbe con l’accrescere i danni all’ambiente.
Una volta che si accetta l’idea che siamo quasi sette miliardi di per-
sone sulla Terra, cambia l’equazione. Oggi, vogliamo massimizzare lo
sfruttamento di fonti rinnovabili e conservare quanto più possibile i bo-
schi. Uno dei modi migliori per riuscirci, consiste nell’incoraggiare un
consumo sostenibile di legno. In effetti, quanto più legno utilizziamo
tanti più alberi dobbiamo piantare per rispondere alla domanda e tanto
maggiore sarà l’incentivo economico a rimboschire le terre. Questa è la
principale ragione per cui oggi il Nord America possiede, grosso modo,
la stessa area di foreste che aveva cento anni fa. Poiché consumiamo tan-
to legno, i proprietari di terre piantano alberi e mantengono boscosi i lo-
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ro appezzamenti, per rispondere alla domanda. Non occorre essere dei
geni per capire questo fondamentale rapporto economico. Eppure esso
è sfuggito all’attenzione di molti attivisti, ideologicamente convinti che
per salvare la foresta si debba diminuire il consumo di legno.
Certo, vi sono esempi di sfruttamento insostenibile delle foreste: os-
sia di spreco. Ma i casi noti non hanno nulla da spartire con l’industria
della foresta, sono piuttosto effetto della povertà. Nei paesi poveri e sot-
tosviluppati – dove il legno è il combustibile principale per cucinare e ri-
scaldarsi – le foreste soffrono pesantemente. È vero, per esempio, per
molte delle regioni più secche dei tropici, dove interi paesaggi sono sta-
ti denudati per ricavarne legna e carbone. Si aggiunga a ciò la pressione
esercitata sui paesaggi dagli animali da pascolo – capre, pecore, vac-
che… – e si avrà una situazione insostenibile. In molti paesi tropicali in
via di sviluppo dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina, le foreste si re-
stringono perché centinaia di milioni di persone disboscano pezzi di ter-
ra per coltivarli, allevare il bestiame e ricavarne cibo a sufficienza per la
famiglia. Non hanno i fondi necessari per ripristinare gli alberi che ta-
gliano per ricavarne combustibile o legname, e l’inevitabile risultato è un
disboscamento permanente.
Ma, a parte le nazioni afflitte da una povertà estrema, se cessassimo
di consumare legno, i proprietari terrieri – privati o pubblici che siano –
non avrebbero incentivi a rimboschire la terra. Per loro, sarebbe più
conveniente sbarazzarsi degli alberi e piantare mais, cotone o semi di
soia, i cui raccolti vanno comunque benissimo per ricavarne un reddito
e pagare le tasse. Per il Nord America, è una fortuna che la domanda di
legno sia alta, perché questo significa un rimboschimento continuo dei
paesaggi.
Purtroppo il pubblico è stato indotto a credere che le cause del di-
sboscamento siano da attribuire al legno utilizzato per costruire le case,
imballare la merce e produrre la carta per la stampa, la confezione dei
prodotti e l’igiene. Le industrie fornitrici di legno sono tutte impegnate,
quasi senza eccezioni, in attività di rimboschimento: l’opposto del di-
sboscamento. In realtà, per oltre il 90% le terre vengono disboscate per
convertirle all’agricoltura. Gli scompensi sono in gran parte il risultato
di una raccolta insostenibile di legno combustibile e dell’abbattimento
illegale di alberi che fa seguito dalla conversione all’agricoltura.
È chiaro che non possiamo risolvere il problema mettendo al bando
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la coltivazione dei campi o il consumo di legna per cucinare e riscaldarsi.
Più oltre analizzeremo la questione in profondità, soffermandoci in par-
ticolare sul ruolo dell’agricoltura intensiva e dell’amministrazione della
foresta nella conservazione delle foreste naturali e della biodiversità.
Negli scorsi quindici anni, la Cina – che ha un ceto medio in cresci-
ta – ha dato vita a un’area boschiva superiore a quella di qualsiasi altro
paese. L’India – un altro paese che si sta arricchendo – ha raddoppiato
l’area boschiva rispetto a quella di solo vent’anni fa. Come mai? Perché
il ceto medio emergente ha bisogno di legno e carta, può permettersene
l’acquisto e gli imprenditori hanno piantato alberi per rispondere alla ri-
chiesta, incrementando così la quantità di bosco. Senza dubbio i pro-
grammi governativi di rimboschimento e conservazione delle foreste
hanno giocato un forte ruolo nell’incremento dell’area verde in Cina e in
India. Ma è chiaro che tali programmi nascono dal fatto che vi è una ric-
chezza sufficiente per sostenerli. Si tratta di uno scenario che torna van-
taggioso sia per la popolazione che per l’ambiente, e ciò anche se gli at-
tivisti si rifiutano di riconoscere il collegamento fra consumo di foresta e
rimboschimento. Questo è solo un esempio del fatto che il movimento
ambientalista ha smarrito la propria strada, e di quanto le sue politiche,
a prima vista ragionevoli, siano alla lunga nocive. Invece, il concetto di
sostenibilità comporta politiche a lungo termine.
Lo scopo principale di questo libro è indicare un nuovo approccio
all’ambientalismo, che faccia della sostenibilità lo strumento chiave per
conseguire obiettivi ambientali. Questa impostazione impone di consi-
derare gli esseri umani come elementi positivi dell’evoluzione, anziché
come un errore. Un celebre autore canadese, Farley Mowat, ha scritto
che gli uomini sono una «specie fatalmente guasta». Questo tipo di pes-
simismo appare oggi politicamente corretto, ma è fortemente mortifi-
cante. Al di là del suicidio di massa, non lascia intravedere soluzioni ap-
propriate. Credo invece che dovremmo essere felici del fatto di esistere
e impegnarci a far sì che il mondo sia un posto migliore, per noi e per
tutte le altre specie con cui lo dividiamo.
Molti ambientalisti, rimasti fermi agli anni Settanta, continuano a
coltivare un romantico sogno di sinistra: un’idilliaca vita rurale alimen-
tata dalle pale eoliche e dai pannelli solari. Costoro idealizzano la po-
vertà, riconoscendo in essa una nobile condotta di vita, e si oppongono
a ogni sviluppo consistente. James Cameron, il multimilionario regista e
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produttore di Avatar (il film che ha fatto registrare maggiori incassi nel-
la storia), si è dipinto il volto per partecipare alle manifestazioni di pro-
testa contro la costruzione di una diga idroelettrica in Amazzonia. Ma
chi ha bisogno di luci e di aggeggi elettrici ipermoderni? Così, che im-
porta se l’energia idroelettrica è di gran lunga la più importante fonte
rinnovabile di elettricità? Tutti questi sognatori farebbero meglio a guar-
dare all’esempio di Stewart Brand, il fondatore del Whole Earth Catalog
e leader negli anni Sessanta e Settanta del movimento «back to the
land». Oggi, nella sua saggezza, Brand difende l’energia nucleare, l’inge-
gneria genetica e l’urbanizzazione. Celebra il genere umano per la sua
creatività e la sua natura operosa. Non è fermo agli anni Settata, e nep-
pure io lo sono.
Spero che, prima di arrivare all’ultima pagina di questo libro, avrete
una nuova prospettiva sugli importanti argomenti dell’ambientalismo
odierno.
Come si vedrà, credo che:
• dovremmo piantare più alberi e utilizzare più legno, e non tagliare
meno alberi e usare meno legno, come affermano Greenpeace e i
suoi alleati: il legno è il più importante materiale rinnovabile e una
fonte di energia;
• i paesi che dispongono di riserve potenziali di energia idroelettrica
dovrebbero costruire le dighe necessarie a produrre quel tipo di
energia: non c’è niente di male a creare più laghi al mondo;
• l’energia nucleare è essenziale per il fabbisogno energetico del futu-
ro, soprattutto se intendiamo diminuire la nostra dipendenza dai
combustibili fossili: il nucleare ha dimostrato di essere una fonte del
tutto sicura, affidabile ed economicamente vantaggiosa.
• le pompe di calore geotermiche – purtroppo ancora ignote alla mag-
gior parte delle persone – sono di gran lunga più importanti e van-
taggiose, come fonte di energia rinnovabile, sia dei pannelli solari
che dei parchi eolici: dovrebbero essere utilizzate in tutti i nuovi edi-
fici a meno che non vi siano buoni motivi per impiegare un’altra tec-
nologia per riscaldare, rinfrescare e far bollire l’acqua;
• il modo più efficace per ridurre la nostra dipendenza dai combusti-
bili fossili consiste nell’incoraggiare lo sviluppo di tecnologie che per
il loro funzionamento non hanno bisogno di combustibile fossile o
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13. L'ambientalista.qxp 9-05-2011 10:28 Pagina 23
L’ambientalista ragionevole
ne hanno bisogno in percentuali minime: le auto elettriche, le pom-
pe di calore, l’energia nucleare, l’energia idroelettrica e i biocarbu-
ranti sono una valida risposta, e per giunta non sono sistemi ingom-
branti che soffocano l’attività economica;
• le scienze genetiche, compresa l’ingegneria genetica, miglioreranno
la nutrizione, porranno fine alla denutrizione, miglioreranno il ren-
dimento delle colture, ridurranno l’impatto ambientale dell’agricol-
tura e renderanno più sani la popolazione e l’ambiente;
• molte campagne ecologiste mirate a mettere al bando sostanze chi-
miche utili si basano sulla disinformazione e su paure infondate;
• l’acquicoltura – tra cui l’allevamento dei salmoni e dei gamberi – sarà
in futuro una delle più importanti fonti di cibo sano. Inoltre, ridurrà
lo sfruttamento delle depauperate riserve di pesce selvatico e darà la-
voro a milioni di persone;
• non c’è motivo di essere allarmati dal cambiamento climatico. Il cli-
ma cambia sempre. Alcune delle «soluzioni» proposte sarebbero di
gran lunga peggiori delle possibili conseguenze del riscaldamento
globale, che peraltro con tutta probabilità saranno largamente posi-
tive. Quello da temere è il raffreddamento;
• la povertà costituisce il peggiore problema ambientale. La ricchezza
e l’urbanizzazione stabilizzeranno la popolazione umana. L’agricol-
tura dovrebbe essere automatizzata in tutti i paesi in via di sviluppo.
Le malattie e la denutrizione possono essere in gran parte eliminate
applicando la moderna tecnologia. A tutti dovrebbero essere garan-
tite assistenza sanitaria, igiene, alfabetizzazione ed elettrificazione;
• non si dovrebbero né uccidere né catturare balene o delfini, mai e in
nessun luogo. Ecco una delle mie poche convinzioni religiose. Queste
specie animali sono le uniche sulla Terra ad avere un cervello più gros-
so del nostro, ed è impossibile ucciderle o catturarle in modo mite;
• questo libro non vuol essere una trattazione esaustiva dei problemi
affrontati, né si tratta di un lavoro specialistico. L’ho scritto per il
pubblico comune, interessato a conoscere l’ampia gamma degli at-
tuali problemi ambientali. Ho fornito riferimenti bibliografici solo
laddove penso che possano essere utili a una controprova o a una let-
tura più approfondita. Per quanto riguarda i testi tratti da siti web,
sono tutti accessibili direttamente da Internet andando su
www.beattystreetpublishing.com
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14. L'ambientalista.qxp 9-05-2011 10:28 Pagina 24
Patrick Moore
Questa è semplicemente la mia storia, ed è anche la mia interpreta-
zione degli elementi chiave, dal punto di vista scientifico e filosofico, ri-
guardo alle questioni dell’ambiente e della sostenibilità. In particolare,
mi sono sforzato di mettere in risalto le connessioni fra le principali aree
d’interesse: la biodiversità, il cambiamento climatico, le foreste, l’ener-
gia, i fiumi, i laghi, gli oceani, l’agricoltura, le sostanze chimiche e la po-
polazione. Questa impostazione lascia affiorare un quadro radicalmente
diverso da quello comune oggi alla maggior parte dei gruppi di attivisti.
È un programma positivo che mira a trovare soluzioni concrete ai pro-
blemi affrontati. Si colloca, quindi, agli antipodi rispetto a chi alimenta
le profezie catastrofiste, il panico per il cibo, e i sensi di colpa, tutta mer-
ce comune ormai nelle pubblicazioni di Greenpeace e dei suoi alleati.
Nei capitoli che seguono, ho cercato di fare del mio meglio per rias-
sumere le questioni ambientali con cui mi sono confrontato nel mio qua-
rantennale impegno di ecologista e ambientalista militante. Il racconto
inizia con la mia trasformazione da studente entusiasta della scienza in
ambientalista radicale militante. Dopo quindici anni passati a condurre
campagne di protesta in tutto il mondo, si è verificata un’altra trasfor-
mazione. Da attivista radicale sono divenuto un diplomatico dell’am-
bientalismo. In quanto tale, vado in cerca di soluzioni più che di pro-
blemi. Da venticinque anni sono impegnato a definire il concetto di so-
stenibilità e a metterlo in pratica, con lo stesso fervore ed entusiasmo che
quindici anni prima ho manifestato nelle mie battaglie ambientaliste. Ho
avuto la fortuna di passare tutta la mia carriera a riflettere, discutere e la-
vorare su un’ampia gamma di argomenti legati all’ambiente. Spero che
lo sforzo compiuto nel libro per render conto di quella storia e di quel
pensiero contribuisca a rafforzare un nuovo punto di vista sul rapporto
esistente fra noi e la nostra bella Terra.
1. I. Amato, The Crusade Against chlorine, in «Science», 9 luglio 1993, pp. 152-154.
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