Quel 27 gennaio mio papà mi ha liberata dalle zavorre della nostalgia; mi ha permesso di accettare la mia identità composta da due anime, da due culture, da due patrie: non potrei consistere senza una delle due.
Storia di un reduce dai campi di sterminio nazisti, fra i molti che racchiude, è questo forse il messaggio conclusivo del libro memoria-romanzo di Centonze. Quello che condensa i caratteri del suo animo esuberante e mette in luce il legame profondo con il padre. Legame che non è banale attaccamento al genitore preferito, ma elogio della paternità – il senso acuto della responsabilità sopravvissuto in uomo pur così ferito e segnato da una esperienza atroce - e della maternità. Perché Cosetta (colei che scrive in prima persona) l’ha preso veramente per mano, come quei bambini che si sono persi in un contesto non più familiare, e che il sentimento materno spinge a raccogliere per “riportare a casa”. Rapporto unico ed esemplare sul quale fiorisce come sentimento maturo il perdono di Lui ai suoi aguzzini e la sapiente - sperimentata sulla sua carne - fraternità di Lei.
2. Prisca, dopo la morte di Naida, si recava ogni
giorno a casa delle sue sorelle per consolarle e
aiutare Renata che con le faccende non era
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3. mai stata abile.
Per semplificare tutto Miranda fu iscritta alla
vicina scuola privata.
Prisca e Miranda tornavano a casa nel
pomeriggio.
Io terminata la scuola, ti aspettavo da donna
Rirì.
Tu passavi di là a prendermi e scambiavi
qualche parola con lei che ti burlava:
"Ah sei proprio nato per fare il pascià: Prisca ti
avrà lasciato una buon pranzetto prima di
andare a fare la stessa cosa per le sue sorelle
ed ora Cosetta te lo riscalderà."
Tu ridevi sollevato perché donna Rirì aveva un
modo tutto suo di scherzare senza ferire e
dicevi educatamente:
"Favorite, donna Rirì."
"Grazie no."
Rispondeva lei che capiva benissimo che lo
dicevi per pura cortesia; e una volta te lo
rinfacciò apertamente:
"Favorite, ma non venite! E' vero Palmiro?
E sì che posso vantarmi che tua madre mi ha
trattato come una sorellina; frequentavo la sua
casa quando lei era ragazza, quasi quanto ora
Cosetta la mia bottega.
Non sei superbo, sei solo timido e se ti viene
qualcuno per casa non lo sai trattare".
Anche allora ridesti arrossendo, per essere così
scoperto e ti decidesti a farle delle confidenze:
"La verità è che ho un impegno grosso.
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4. Domandatelo a Cosetta se non è vero che
studio.
Anzi ho bisogno di quaderni nuovi e penne
come si deve. Ne avete?"
"Accidenti: è il mio mestiere."
Entrammo nell'emporio: tu ti aggiravi tra gli
scaffali e sceglievi quaderni e penne come uno
studente affetto da grafomania.
Io mi compiacevo di Porfirio che gracidava dalla
sua gabbia innervosito dalla tua presenza e
ascoltavo quello che, infervorato, andavi
spiegando alla padrona del citrato: l’eterna
ricerca del sistema che ci avrebbe dato in preda
ad una smodata ricchezza.
Ti lagnasti dei tuoi soci di puntate che
procedevano con troppa prudenza.
E fremevi perché avresti voluto sciogliere la
società e puntare da solo una grossa somma.
"Vedrete, donna Rirì, vincerò la somma che mi
cambierà la vita da così a così."
La nostra amica fece segno di sì con la testa.
Osservando Porfirio immaginai che noi due
assieme al pappagallo formassimo un numero
di artisti di strada.
Anche il circo, infatti, pur nel suo nomadismo,
non faceva per noi che non volevamo
mescolarci a nessuno perché ci sentivamo
sempre o troppo in alto o troppo in basso e così
non riuscivamo né ad atterrare, né a prendere
quota all’unisono con gli altri.
Quindi percorrevamo il mondo con il pappagallo
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5. variopinto che ci indicava la strada come la
colomba nelle edicole che da bambina mi
facevano da posta.
Di tanto in tanto ci saremmo fermati in luoghi in
cui nessuno ci conosceva né ci riconosceva.
Avremmo montato una tenda e subito si
sarebbe diffusa la notizia del mago del
totocalcio che dispensava sistemi infallibili.
Accadeva quindi che tu permettevi ad altri di
vincere ricevendo piccoli compensi che ci
permettevano di continuare a girovagare
giacché non so quale sorte ti aveva condannato
a non vincere mai.
Mi riscuotevo e scacciavo quella perversa
fantasticheria.
Non credevo ad una tua vincita epocale o
semplicemente non pensavo che essa sarebbe
stata sufficiente a liberarti?
Intanto ti eri fornito dell'occorrente ed io decisi
di portare da noi, finalmente, Porfirio.
Donna Rirì ti disse:
"In bocca al lupo."
Io presi finalmente la gabbia con il pappagallo e
tornammo a casa.
La vita scorreva così: Prisca e Miranda se ne
uscivano ogni mattina per andare nel rione
dalle zie.
Io nel pomeriggio, quando le lezioni me lo
permettevano, facevo la spola tra le due case.
Tornavo per darti una sbirciatina, ma potevo
stare tranquilla perché tutto il tempo libero dal
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6. lavoro ti immergevi in quella certosina e
paziente registrazione dei risultati delle partite.
La domenica mi svegliavo già pensando alle
schedine e al sistema.
Nel pomeriggio niente ti smuoveva: trascorrevi
quelle ore attaccato alla radio, controllando
tutte le schedine.
Siccome Porfirio gracidava e tu ti innervosivi,
imitando la mia amica, gettavo sulla gabbia un
panno che tacitava il pappagallo.
A volte salivo sulla rampa di scale del primo
terrazzino a leggere, ma sempre con l'orecchio
teso ad ascoltare le parole che tu gridavi:
"Rete! Goal!"
In genere riportavi qualche vincita di poco
conto, giusto sufficiente a riprendere le spese.
Nel rione si parlava di quella novità: conoscenti,
forse resi edotti da donna Rirì riguardo al tuo
progetto, si mostravano incuriositi.
Nessuno però riusciva a comprendere le basi
matematiche del tuo sistema e quando
sbirciavano in casa nostra si limitavano a
domandare:
"Che fa Palmiro al totocalcio?"
"Pizzica."
Avevo imparato a rispondere io.
Le vincite significavano i materassi a molle che
sostituirono quelli di crine e di lana e l'orologio
Longines che avevi acquistato per te e un paio
di orecchini d'oro per mamma.
Erano tutte occasioni che ti mettevano di buon
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7. umore sia perché dicevi che "tanto va la gatta al
lardo..." sia perché quei piccoli flash di
benessere, proprio in quegli anni in cui si
affermava il miracolo economico, di cui erano
espressione le famose cooperative e le prime
cinquecento, toccava anche noi.
Quando andavamo a trovare le zie, loro
esaminavano i nostri acquisti approvando
laconicamente.
Vollero ricomprarci i materassi di lana e di crine
che erano dote di famiglia.
Ma facevano di tutto per darti scarsa
importanza dedicandosi a vezzeggiare Miranda
che era la loro cocca.
Mi chiedevo se, prima di darvi a spendere,
aveste saldato i debiti che inevitabilmente
continuavate a contrarre con loro.
Una volta volesti festeggiare al “Bar Lux”.
Anche in questo caso dovesti faticare a
convincere Prisca che, a sei mesi dalla morte di
zia Naida, non aveva ancora smesso il lutto.
Mamma era reticente e ripeteva:
"Che cosa diranno? Che ho già dimenticato mia
sorella che pure mi aveva fatto da madre? No,
non posso."
"Ma in fin dei conti, non siamo morti con lei!
Guardati: hai preso il colore delle pareti; e
Miranda poi e Cosetta?
Ed io?
Cosa ti costa farci contenti?"
Sospirando mamma si decise a dirti di sì e ci
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8. recammo nel locale.
Il "Bar Lux" si era ingrandito e non era più un
bar con un angolino per il forno a legna, ma una
vera pizzeria.
Prisca, nonostante i suoi scrupoli, mangiò di
gusto: nel movimento della testa tra i riccioli
neri si vedeva il lampeggiare degli orecchini
d'oro: mai mia madre mi era sembrata tanto
bella.
Tu accarezzavi il tuo Longines.
Io trattenni il respiro perché, per un istante,
percepì la felicità di quella mattina d'estate, nel
parco, che si riaffacciava, riprendeva forma,
trasmutava ogni cosa.
Poi mamma osservò:
"Un uomo che indossa un orologio di quella
marca non dovrebbe fare il fattorino, ma il
ragioniere: ah se dessi l'esame per il diploma!"
E subito l'aura della felicità si ritirò.
Tuttavia Prisca si limitò a quel rimprovero e tu
non la prendesti di petto e così la serata andò
avanti garbatamente anche se mi sembrò che
la pizza non avesse il sapore che aveva avuto
quella sera in cui mi avevi portata lì, invece che
al cinema, per incontrare la tua setta di amici
giocatori.
Fu una bella serata, ma non reggeva il
confronto con quella mattina di qualche anno
prima nel parco rosso di sole nascente, piena
della dolcezza dei wafer e dell'assenza della
paura.
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9. Di lì a poco sembrò che la sorte ti voltasse le
spalle e cessarono anche quelle piccole vincite.
Ora sbuffavi quando qualche conoscente
passava da casa a chiedere:
"Hai pizzicato, Palmiro?"
Eri incupito e fumavi senza interruzioni: il
rumore della molla del posacenere era il
termometro del tuo malumore.
Infine avesti un'idea:
"Secondo me- dicesti parlando con mia madre
che piegava il bucato con il mio aiuto- si tratta
di quel maledetto nero che indossate a portarmi
male."
Mia madre scoppiò a piangere:
"Sei un turco, un miscredente! Come puoi
pretendere che io non porti il lutto per la povera
Naida che mi ha fatto da madre?"
Tu comprendesti di aver passato il limite e ci
voltasti le spalle restando di fronte ai vetri della
finestra con le mani nelle tasche.
Quella notte io, invece, rivoltandomi nel
sommier pensavo:
"E se avesse ragione zia Estrella che ha
chiamato Porfirio uccellaccio del malaugurio?
Sarà è a causa sua che papà ha smesso di
vincere?
Se è così occorre che lo porti via.
Povero Porfirio e povera donna Rirì se
sapesse."
Il pomeriggio successivo, mentre tu eri immerso
nel sistema, alzai la testa dai libri e dissi a mia
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10. mamma:
"Sono stanca di prendermi cura di Porfirio. Mi fa
schifo pulire ogni giorno la sua gabbia."
Mia madre mi guardò:
"Te lo avevo detto che l'impegno toccava a te.
Io ho già tanto da fare con Miranda, la casa, le
mie sorelle."
Mi guardò come se sospettasse che non le
dicevo tutta la verità:
"Come mai questo cambiamento? Sembravi
così affezionata al pappagallo; e Miranda si
diverte tanto."
"Regaliamolo"
Insistevo io.
"E donna Rirì?
Come faremo a portarlo via sotto i suoi occhi?
"Sceglieremo un momento in cui non ci vede."
E quando si accorgerà che non c'è più, cosa
diremo?"
"Non lo voglio più."
Ripetevo con ostinazione perché quanto più
mia madre cercava di farmi ragionare tanto più
io mi confermavo che Porfirio, con il suo brutto
verso e con quello che diceva di lui zia Estrella,
fosse la causa della tua sfortuna al gioco.
"Insomma Cosetta tu lo hai avuto in regalo e tu
devi decidere.
Bada poi di non pentirti."
Tu compilavi le schedine con meticolosità
volgendomi- mi sembrava- la tua nuca in attesa
della mia indecisione.
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11. Mia madre mi guardava con compassione e
Miranda mi seguiva ovunque.
"Dunque cosa aspetti!?"
Diceva la parte di me che si era votata a te.
"Ma cosa dirò a donna Rirì? Non vorrai mica
tirare il collo a Porfirio?"
Rispondeva l'altra parte di me.
La tua nuca non mi aiutava ed io ero
vicinissima alle tue spalle e speravo che ti
voltassi verso di me con la faccia di Dean
Martin e la risata di Jerry Lewiss.
Ma non accadeva e rimanendoti alle spalle
guardai, come se le vedessi per la prima volta, i
quadratini del quaderno su cui raccoglievi i
risultati delle partite, ma non vidi che le linee
nere che si incrociavano come delle grate.
Possibile?
Ancora una volta, come anni prima con la
scacchiera, esprimevi il lager. Oppure era il
carcere in cui continuavi a vivere per via delle
tue cognate ?
L’elenco di ciò che la vincita al totocalcio
avrebbe dovuto pagato si allungava: c’era
sempre la casa nuova, le pendenze con le
cognate che pagavano ora la retta per Miranda,
e il viaggio di ritorno verso i luoghi della tua
prigionia con Giorgio e tutti gli altri.
Questa idea, intuizione o immaginazione che
fosse, mi diede la forza di decidermi.
Un pomeriggio, in cui eri a lavoro, in casa
c'eravamo solo mamma, Miranda ed io.
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12. Passai un po' di tempo a spiegare tutto a
Porfirio con il solo fissarlo.
Mi sembrò che egli mi parlasse con la voce di
donna Rirì:
"Per me fai pure.
Io credo che tu ti sbagli, ma da parte mia non fa
differenza perché sono stanca di stare in vostra
compagnia.
Stanca, sì, perché sono una femmina anche se
mi chiamate Porfirio."
Feci un cenno a mamma che staccò dal chiodo
la gabbia.
Prisca prese in braccio Miranda, io presi la
gabbia con Porfirio.
Passammo davanti all'emporio: fortuna che la
saracinesca era abbassata!
Pensai che tutto era favorevole al mio
tradimento.
Ed io che avevo immaginato di girare il mondo
con te e con Porfirio...
Giungemmo in periferia che era il crepuscolo.
Non era più la bella periferia dei primi anni del
dopoguerra, quella fatta di ruderi e cespugli di
fiori di cappero e margheritoni gialli: quella era
stata ormai cancellata dall'espandersi della
città.
Al suo posto era sorto un quartiere anonimo a
cui soltanto la presenza dei gatti randagi dava
una certo calore.
Aprii la gabbia e afferrai il pappagallo, ma fu
questione di un attimo: già alcuni gatti facevano
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13. la festa al povero Porfirio mentre io e mamma,
esclamavamo inorridite e Miranda scoppiava a
piangere.
Abbandonammo la gabbia e ritornammo
indietro tutte e tre scosse.
Possibile che Prisca avesse scelto a bella posta
quel luogo pieno di gatti?
A sera tu non facesti caso all'assenza di
Porfirio.
Miranda, che doveva essere rimasta assai
impressionata dallo spettacolo del povero
uccello divorato dai gatti, fissava il chiodo a cui
era stata appesa la gabbia, ma, per fortuna, era
troppo scossa per raccontare ed il segreto della
fine raccapricciante di Porfirio fu conservato.
Al mattino sentii mamma parlare con donna
Rirì: spiegava come, mentre ripuliva la gabbia
l'avesse lasciata aperta e Porfirio fosse volato
via.
Donna Rirì, da quella buona persona che era,
mi aspettava per dirmi qualche parola di
conforto:
"Vedrai che tornerà! Porfirio non ama la libertà:
tornerà."
Insisteva di fronte alla mia tristezza:
"Cosetta, tornerà... o te ne regalerò un altro."
Corsi via.
Non potei fare caso se l'uscita di Porfirio dalla
nostra vita avesse rimesso in moto per te la
ruota della fortuna perché Miranda ebbe un
malore che ci spaventò moltissimo.
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14. Mia sorella, che da qualche giorno sembrava
un po’ abbacchiata, mostrava difficoltà a
respirare.
Vi vedevo vagare per casa, in attesa del
medico
mentre
Miranda
respirava
affannosamente ed emetteva sibili.
Nei
vostri
andirivieni
vi
affacciavate
nell'ingresso in cui c'era una grande immagine
del Cuore di Gesù.
Capii che avevate paura di perdere Miranda ed
io pensai al barone Francesco e ai morti
giovani.
Il medico venne e visitò la piccola.
Terminata la visita, egli si lavò le mani nella
bacinella smaltata e mamma gli versava l'acqua
dalla brocca e gli porgeva l'asciugamano di lino.
Mi sembrava un cerimoniale che rendeva
ancora più serio il malessere di Miranda.
Mamma aveva detto che il nostro gabinetto non
era abbastanza decoroso per un medico.
Aspettavamo la diagnosi ed io per tenere a
bada la paura mi concentravo sul bel telo con
gli intarsi di zia Naida: chissà se il dottore aveva
apprezzato quella finezza!
Egli però continuava a tacere: sedette e prese il
ricettario, scrisse il nome delle medicine e
finalmente ci comunicò la diagnosi:
"Si tratta di asma. Questa casa è molto umida."
Indicò le grandi macchie di muffa che
sembrarono incombere minacciose sul letto di
Miranda.
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15. “Insomma un ambiente del genere è
sconsigliabile per la malattia della piccina. "
Poche parole che cambiarono l'assetto
familiare.
Le zie, vennero a sera per prendere notizie di
Miranda.
Se zia Renata piagnucolava, zia Estrella ti
tenne testa in nome della salute di Miranda:
"Il dottore ha ragione: la casa è umida."
"La imbiancherò." Rispondesti tu.
"La muffa verrà fuori di nuovo."
"Sono vecchie case con tanta parietaria attorno
e con il fumo delle tue sigarette dentro...
occorre che Miranda viva in una casa asciutta e
arieggiata."
Ecco che i capelli ti si increspavano per il
dispetto.
Estrella prese un tono più accomodante:
"Almeno per un po' potrà stare da noi. Questi
vai e vieni tra casa nostra e qui la affaticano
ulteriormente.”
La faccenda andò così: Miranda con i suoi
giocattoli e con il suo corredo e mamma si
trasferì definitivamente dalle zie.
A sera, quando chiudevi il portone che
separava il cortile dalla strada, mi domandavo
se era Miranda ad averci abbandonato o noi.
In principio tu, quasi a ribadire la tua paternità
sulla piccola che ti sembrava ti avessero tolto, ti
recavi a trovarla ogni sera.
Devo riconoscere che facesti ogni sforzo per
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16. mascherare il disagio che ti ispiravano le tue
cognate: le salutavi compitamente e ti dedicavi
tutto a Miranda.
Miranda ci mancava e in quelle mezze ore
tentavamo di ripristinare il nostro legame,
temendo di estraniarci.
Mamma si rendeva conto delle amarezze e
disagi che la situazione ci aveva creato.
La sua natura pratica aveva pronta la soluzione
ed una sera ti disse che la casa delle zie era
talmente grande che potevamo benissimo
trasferirci tutti da loro.
Tu rispondesti che volevi rifletterci e Prisca ti
lasciò del tempo.
Tuttavia sera dopo sera ti guardava in modo
espressivo con qualche accenno di impazienza.
La decisione fu preceduta da un nuovo attacco
del tuo esaurimento: l’inizio dell’attacco era
sempre il medesimo: semplicemente al mattino
te ne rimanevi a letto invece di andare a lavoro.
Solita prassi, solita diagnosi, stesse iniezioni a
cui ora provvedeva Prisca stessa che aveva
imparato da donna Rirì.
E dopo se ne andava a cuor leggero dalle sue
sorelle.
Tu, allora, ti alzavi e giravi per casa in pigiama
con i capelli irti, con la barba incolta e osservavi
la muffa, ed annusavi l’aria.
Tornavi poi ad infilarti nel letto e fumavi
dispettosamente.
Benché quel tuo periodico rifiuto della vita non
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17. ci impressionasse più, mi domandai se non
fosse il caso di pregare per la tua salute
mentale.
Ero un po’ incerta sulla mia innocenza, ma mi
sembrò ben fatto recitare il padre nostro in
greco: ora frequentavo il ginnasio e la preghiera
era stato il primo brano imparato in quella
lingua.
Passò il solito lasso di tempo; quindi, fosse
merito delle iniezioni o il potere del greco,
riprendesti ad alzarti e ad uscire.
Apparivi proprio in ottime condizioni: sereno ed
attivo.
Notammo che frequentavi meno i tuoi quaderni
come se anche quella fissa del sistema avesse
concluso il suo ciclo.
Io, però, ero vigile e mi aspettavo un altro dei
tuoi tiri: infatti facesti, a nostra insaputa, tutti i
passi che occorrevano per cambiare di nuovo
lavoro.
Ti eri ormai pienamente ristabilito quando
Prisca volle farti la sorpresa di portare Miranda
a trascorrere un giorno intero con noi.
Era passato un bel po’ dall’ultima volta che
l’avevi vista.
La piccina, però, appena entrò in casa si
abbracciò strettissima a Prisca: teneva il volto
affondato nell’incavo del suo collo, tanto che
mamma dovette quasi strapparla da quella
posizione.
E anche allora Miranda se ne stette con gli
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18. occhi bassi.
Ci guardavamo desolati.
Mamma la incoraggiava ripetendo:
“E’ il tuo papà, Miranda! Tua sorella Cosetta!”
“Andiamo a fare un giro della casa.” Le dissi
dandole la mano.
“Ti ricordi che qui tenevamo l’otre con i
sottaceti? Ti piacciono ancora?”
Lei sorrise.
“E’ brava mamma a fare buoni mangiarini,
vero?”
“E’ più brava mamma o zia Renata?”
Andavo sul sicuro perché sapevo che zia
Renata non era speciale in nulla.
Infatti Miranda rispose:
“Mamma!”
Dopo quella risposta la piccina prese coraggio.
Continuando il giro arrivammo di fronte al
chiodo della gabbia di Porfirio.
Mia sorella si fermò pensierosa, poi guardò me
e Prisca e di nuovo il chiodo, ma non disse
nulla.
Possibile che il ricordo della fine cruenta del
pappagallo fosse svanito? Pensai che fosse più
probabile che anche Miranda, crescendo,
avesse imparato a tenere i segreti.
Dopo il giro per la casa, dopo che le ebbi
raccontato, con le dovute omissioni, del
rinfresco tenutosi per il suo battesimo non c’era
più molto da dire e finimmo col giocare a fiori ,
frutta, città.
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19. Tu eri mortificato della reazione della piccola e
rimproverasti Prisca:
“Bella idea che hai avuto: per mia figlia sono un
estraneo!”
Prisca lo ricambiò con uno sguardo di
rimprovero rivolto alla sigaretta che fumava:
“Impara piuttosto a rinunciare a qualcosa per il
bene di Miranda! Sai che il fumo per lei è
veleno!”
Spegnesti subito la sigaretta ed uscisti: fu
un’assenza brevissima: il tempo di tornare con
quattro gelati confezionati.
Fu una benedizione perché, occupati a
mangiare, non davamo l’impressione che non
avessimo niente da dirci.
Miranda finalmente si lasciò coccolare e
vezzeggiare da te fino a permetterti di tenerla in
braccio.
Infine le facesti fare cavalluccio sulle tue
ginocchia.
"Arri, arri cavalluccio.
Ma che cavalluccio tesoro mio, in treno ti porta
il papà, in treno.
Vuoi venire in treno con me, Miranda?
Il treno che fa tu-tu-tu."
"Tu-Tu-Tu."
Ripeteva Miranda, tutta contenta.
"Assieme a Cosetta e a mamma.
Vero mamma che ci vieni anche tu in treno con
me?
Le famiglie dei ferrovieri hanno i biglietti gratis.
182
20. Lo sapevi?"
Mamma, che si era messa a stirare, sollevò gli
occhi:
"E cosa c'entriamo noi con i ferrovieri?"
Tu ridesti la tua risata fanciullesca e
accattivante:
"Altro se non c'entriamo! Sono diventato
ferroviere!"
La signora del limoncello ti guardò con tanto di
occhi mentre tu continuavi compiaciuto:
"Oramai ero stufo di correre come fattorino
sotto padroni giovani che non hanno rispetto!
Così mi sono dato da fare; ho letto del bando
del concorso in ferrovia, mi sono presentato e
ho vinto.
Ora sono a tutti gli effetti un dipendente delle
ferrovie della sud-est."
Eri proprio fiero di te.
Prisca, invece, strinse le labbra, staccò la spina
del ferro, prese Miranda tra le sue braccia, mi
baciò e fuggì.
Fuggì letteralmente, mentre tu la richiamavi
indietro.
Fu in questo modo che per la seconda volta ci
annunciasti il tuo cambiamento di lavoro.
Eri entrato nelle ferrovie locali.
D'altra parte questa novità ne portò con sé
un’altra: la decisione di accettare l'invito delle
zie di andare a vivere da loro.
Così avevamo e davamo l'impressione di riunire
la famiglia.
183
21. In realtà i turni del tuo nuovo lavoro ti
consentivano di abitare con noi, ma di vivere
per conto tuo.
Il peso del trasloco e dei saluti dal quartiere in
cui avevo abitato per quindici anni toccò tutto a
mia madre e a me.
Quando salutai donna Rirì, fui sul punto di
rivelarle la verità sul pappagallo, ma pensai che
non se lo meritava, tanto più che si prodigò a
farmi coraggio con la sua bella filosofia:
"E' così cara mia: la vita è cambiamento!
Non si deve mica rimanere attaccati agli scogli
come un'ostrica.
Alla tua età, poi, sarebbe una colpa grave!
Ora ti sembra di morire dalla nostalgia, ma
piano, piano ti passerà e riderai di te stessa che
pensavi di trascorrere tutta la tua vita seduta
sui sacchi dei coloniali.
E poi non vai mica su un altro pianeta."
Baciò mia madre:
"Verrò a trovarvi.
Devo proprio ripassare con tua sorella Estrella
due, tre cosette.
Non me lo ricordo più.
Ah la testa! Fra poco i fornitori mi potranno
derubare a loro piacimento."
"Non credo proprio donna Rirì: avete una testa
tagliata per gli affari.- Rispose mia madre
ricambiando commossa il suo bacio- Venite a
trovarci quando volete.
Anche voi, però, potreste rinnovare il vostro
184
22. esercizio.
Adesso attirano i locali moderni."
"Ci saranno sempre poveretti che non hanno il
coraggio di entrare nei locali moderni e si
sentiranno sollevati nel frequentare il mio.
Questo fino a quando anche i poveri non
giocheranno a fare i ricchi e vi dico che
andando avanti così, arriveremo a vedere
persino questo.
Per lo meno lo vedrà chi vivrà.
Ma io, grazie a Dio, non sono eterna.
Arrivederci carissime."
E se ne andò a servire qualche avventore.
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