Il caso raggi svela la truffa legale del m5s il foglio
Putinismo come ideologia
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14 marzo 2014
Il putinismo come ideologia
Dal Cremlino s’irradia un misto di conservatorismo e panslavismo che seduce anche in
Europa
Uno zar incontra un papa. Un incontro semi
ufficiale, cortese, ma non privo di dossier
delicati: il Pontefice fa un elenco di
rimostranze, il sovrano risponde con
freddezza di non poter cedere in quanto è
custode dell’ortodossia. Salutandosi si
scambiano dei doni, e il Papa dice: “Si
ricordi che i sovrani esistono per il bene dei
popoli e non i popoli per la volontà dei
sovrani”. Lo zar scuote la testa, e scrive al
ritorno nelle sue stanze: “Le due grandezze
passate, quella di Roma e quella del papato, quasi incredibili potenze che furono,
sulle cui rovine oggi giocano le ombre cinesi di un potere quasi inesistente, con
appena un filo di respiro, portando in se stesso il germe della propria distruzione”.
Lo zar aveva problemi con la Lituania e la Polonia e stava per imbarcarsi in una
guerra in Crimea, e dal Papa voleva una strigliata contro i cattolici che
fomentavano il gregge polacco contro i russi. Sul suo interlocutore al Vaticano
dirà: “Un uomo onesto e di buone intenzioni, ma che fin dall’inizio voleva troppo
accontentare lo spirito del tempo”.
Lo zar non si chiamava Vladimir, ma Nicola I, venuto in visita privata (ai romani si
presenterà come Nikolay Pavlovich Romanov, nobile russo) da Gregorio XVI.
Correva l’anno 1845 e l’obiettivo del sovrano russo (entrato nella storia con il
soprannome di “Bastone”) era convincere l’Europa ad allearsi contro i fermenti
rivoluzionari, “salvare il cristianesimo e soffocare l’idra della rivoluzione nella
culla”, spiega Mark Smirnov, vicedirettore della rivista Scienza e religione e autore
di un singolare saggio dedicato all’incontro tra Putin e papa Francesco, pubblicato
qualche mese fa. La tentazione di tracciare paralleli storici ispirati alla cronaca è
ovvia, ma il ragionamento merita attenzione se non altro perché è uno dei pochi
segnali che arrivano dal laboratorio intellettuale del putinismo. Un’occhiata oltre la
cortina fumogena della propaganda e le esternazioni di politologi di corte, che
permette non soltanto di interrogarsi sui meccanismi decisionali e le prossime
mosse in uno scacchiere incandescente, ma di aprire uno spiraglio sul sistema di
valori e idee che muove un uomo, e il sistema che si è costruito intorno.
Dunque, l’uomo che per 20 anni ha portato in tasca una tessera del Partito
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comunista, e ha fatto parte del Kgb che lavorava per espandere la rivoluzione
proletaria in tutto il mondo, si ispira invece a uno dei sovrani più conservatori della
storia russa. Del resto, lo stesso Putin lo ammise già all’inizio della sua carriera:
interrogato dai direttori dei giornali italiani nella sua prima visita a Roma, quando
agli occhi del mondo era ancora un oggetto non identificato, si definì
“conservatore”. Allora la battuta rimase incompresa, anche perché non era chiaro
quanto un russo potesse usare il termine nella stessa accezione dell’Europa,
visto che a Mosca fino a pochi anni prima venivano chiamate “sinistra” le forze
anti comuniste liberali e “destra” i reazionari del Pcus. Dieci anni dopo, Putin cita
in continuazione Nikolai Berdiaev (“Il senso del conservatorismo non è
nell’ostacolare il movimento in alto e in avanti, ma nell’ostacolare il moto
all’indietro e verso il basso, il buio caotico, il ritorno allo stato primordiale”), si
propone come difensore dei “valori tradizionali” dimenticati dall’Europa degradata
nella sua “tolleranza asessuata e sterile” (e la crociata contro i gay e
l’abbondanza di icone e santi nell’estetica del regime ne sono soltanto le
espressioni più visibili), ed è terrorizzato dal “caos rivoluzionario” del Maidan. E
diventa chiaro che non ha mai frainteso le terminologie, intendeva proprio questo:
lui non promuove le rivoluzioni, è colui che le ferma.
I metodi ai quali ricorre sono quelli sovietici, presi di peso dai manuali del Pcus e
del Kgb. Ma il messaggio è opposto. Il pantheon putiniano fa l’operazione inversa
a quella della perestroika, dimentica Lenin per osannare Stalin come “nation-
builder” e riesumatore dei valori conservatori dopo la sbornia rivoluzionaria.
L’Urss si proponeva di esportare il nuovo, il progresso come lo vedeva,
l’emancipazione delle donne e delle classi subalterne, l’industria, la scuola per
tutti. Putin difende il vecchio, e ha intuitivamente ragione John Kerry quando lo
accusa di usare una logica da Ottocento. Per Putin non è una critica, ma un
complimento: l’“altro mondo” nel quale lo accusa di vivere Angela Merkel è fatto
ancora di potere militare, territori da annettere, popoli da conquistare. In Russia la
sindrome post imperiale superata da Londra, Istanbul e Vienna, è ancora in piena
evoluzione, “size matters”, e si capisce perché i tentativi di “soft power” fatti dal
Cremlino con le Olimpiadi e Russia Today vengono alla fine oscurati da una
propaganda usata come arma contundente.
Visto da fuori sembra la seconda volta in cui la storia si ripete, una farsesca
ricerca della potenza che fu. Visto da dentro, da quei pensatoi che circondano il
Cremlino e che non hanno molta ansia di spartire le loro idee con il pubblico, è un
progetto, e di nuovo nientemeno che globale. E’ un prodotto per l’esportazione.
“Non ci fermeremo in Crimea”, annuncia Alexandr Dugin, direttore della rivista
Geopolitica, ideologo degli euroasiatici con buone connessioni anche tra la destra
europea e americana, e a quanto dicono una delle voci ascoltate nell’entourage
ristretto del potere russo. E snocciola un piano in dieci punti, che porta la nuova
rivoluzione russa “dalla Crimea fino a Lisbona”. La penisola sul mar Nero “ieri era
una vittoria, oggi è infinitesimale, la posta in gioco cresce”. E dunque, dopo aver
spaccato l’Ucraina nell’est russofono (che si chiamerà “Novorossia”, nuova
Russia), e aver sobillato il Maidan per farlo rivoltare contro i suoi leader
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rivelandogli che a uccidere la gente in piazza non è stato Yanukovich, ma “la Cia
e il Mossad”, si può anche concedere uno stato nazionalista all’ovest della
Galizia. Ma sono minuzie: il vero obiettivo è il Grande Impero Continentale
Europeo, un progetto “euroasiatico” che i russi porteranno avanti guidati da un
“Uomo del Destino” in quella che è “una guerra contro gli Stati Uniti”. Prima che
Washington applichi la tecnica del “golpe nazista” in altri paesi, e con l’aiuto dei
nazionalisti europei, spinti dall’odio che “immigrati, musulmani e Lgbt provano
verso gli abitanti autoctoni”.
Può sembrare un delirio paranoico nella confusione di “nazisti sionisti liberali
americani”, che però ha il vantaggio di mettere in chiaro quello che si legge tra le
righe dei media e degli esponenti del governo russo. Perfino personaggi moderati
per mestiere come il ministro degli Esteri Lavrov hanno cominciato a usare
termini come “scontro di civiltà” e “valori antagonisti”. Mentre in Europa si cerca di
ragionare sugli interessi di Putin in Crimea, cercando di trovare una motivazione
anche sbagliata ma comunque razionale del suo agire, per Mosca è solo un
lembo di terra simbolico in uno scontro globale. Perfino la retorica panslavista,
così cara a un altro zar che piace a Putin, quell’Alessandro III che diceva che gli
unici alleati della Russia sono l’esercito e la flotta, passa in secondo piano, anche
perché quasi tutti gli slavi sono ormai scappati verso la Nato proprio per evitare la
“fratellanza” invadente di Mosca. Non si tratta di territori, accessi al mare e
gasdotti, ma di valori, e quindi non c’è nulla su cui mediare e negoziare, è una
“contraddizione antagonista” direbbe quel Marx che a Mosca a quanto pare è
stato archiviato. In un certo senso Putin è il vero becchino del comunismo. La sua
ideologia non passa per le classi, abbandona il sociale per il morale, e non è un
caso che i militari russi riempiono la Crimea di volantini contro la “Gayropa” e le
madri crimeane ringraziano in tv Putin per averle salvate dall’Ue dove “saremmo
diventati genitore 1 e genitore 2, noi vogliamo crescere i figli nella cultura russa”.
Cosa sia questa cultura alternativa, a parte il malcapitato Puskin tirato in ballo per
lo più a sproposito, è ancora da chiarire. Anche perché la verità resta difficilmente
eludibile: a venire attratti dal “modello russo” sono per ora in buona parte tagiki e
ucraini in cerca di un salario migliore, mentre gli ammiratori europei della Russia
– non pochi sia tra le sinistre post comuniste che tra le destre non liberali, in
particolare il Front national di Marine Le Pen – preferiscono applaudirla da casa,
forse diffidando del suo clima, della sua sanità e della sua giustizia. Ma i contorni
della proposta putiniana – al di là dell’autoesaltazione con tratti di training
autogeno, sintetizzata nell’idea del portavoce di Putin, Peskov, che “il mondo ci
invidia perché siamo forti ricchi e sani” – appaiono sempre più nitidi. E’ un
progetto tutto in difensiva, nel quale le parole chiave del 2000 come libertà,
mobilità, liquidità, rete, il multi e il micro, sono tutte aborrite. E’ un mondo che
rincorre l’autorità e la solidità, dove gli uomini sono uomini e le donne donne,
dove ogni cosa ha il suo posto, e il capo ha ragione anche quando ha torto. Nella
Russia di Putin gli psicologi del governo inseriscono tra i criteri del reato di
“propaganda gay” l’incitamento ai figli “a mancare di rispetto ai genitori”. E’ la
“verticale del potere” che non a caso Putin usò come uno dei primi mantra del suo