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SOSTENERE CONCRETAMENTE LʼECONOMIA CIVILE
  ATTRAVERSO LA CREAZIONE DI UN MERCATO DI CAPITALI
                       PER IMPRESE A FINALITÀ SOCIALE
                                     Davide Dal Maso, Davide Zanoni




1. Premessa

    Il presente contributo non ha un carattere scientifico, non sviluppa unʼipotesi teorica, ma dà
conto di un progetto in essere, i cui esiti non sono, a tuttʼoggi, scontati. Negli ultimi mesi, infatti, si è
lavorato sullʼidea di un mercato finanziario dedicato alle Imprese a finalità sociale (Ifs), con
lʼobiettivo di creare uno strumento che consenta lʼincontro tra la domanda e lʼofferta di capitali
«responsabili» e quindi offra a imprese con una spiccata vocazione sociale di approvvigionarsi di
risorse a condizioni particolari. Il che non significa, come vedremo, delimitare unʼarea protetta per
soggetti deboli, ma valorizzare i benefici generati da questo tipo di imprese in tutta la loro
complessità.
    Lʼiniziativa, i cui risultati verranno di seguito descritti, consiste in un progetto di ricerca e
sperimentazione che tiene insieme elementi di approfondimento teorico con una fase di intervento
concreto [Dal Maso et al., 2009]. In altri termini, si è cercato da un lato di sviluppare il concetto di
Ifs, soggetto esistente in nuce nella prassi e del tutto nuovo al nostro ordinamento, e dallʼaltro di
definire regole e condizioni per il lancio di un mercato finanziario, chiamato borsa sociale, in cui
possano essere scambiati titoli emessi dalle Ifs. Il progetto ha beneficiato finora di un supporto
delle regioni Toscana e Lombardia, e ha prodotto uno studio di pre-fattibilità che sta evolvendo in
un tentativo di implementazione.
    Lʼidea di un mercato finanziario dedicato a Ifs nasce da una serie di considerazioni di base, in
parte riconducibili allʼevidenza empirica, in parte assunte come presupposti, un poʼ
apoditticamente.
    Un primo elemento è rappresentato dal fatto che la cultura economica e giuridica che ha
portato allʼattuale assetto dellʼordinamento propone una netta separazione tra, usando una
semplificazione, impresa for profit e impresa non profit, legando il riconoscimento dellʼuna o
dellʼaltra vocazione alla natura giuridica dellʼorganizzazione. Da un lato, le società (libro V del
Codice civile), il cui obiettivo principale è la creazione di valore economico, dallʼaltro, associazioni,
fondazioni e comitati (libro I del Codice civile), che realizzano scopi di varia utilità sociale e per i
quali le attività economiche, nella misura in cui vengano ammesse, sono in qualche modo
residuali. In altri termini, si determina una relazione necessaria tra i fini e le forme. Lʼidea di una
società per azioni senza scopo di lucro viene percepita come eversiva e, nei fatti, si realizza solo in
via eccezionale. Il recente decreto sullʼimpresa sociale ha invero aperto una nuova prospettiva, ma
imponendo limiti tali, come si vedrà più avanti, da comprometterne le possibilità di successo.
    Questa impostazione deriva da un approccio teorico che affida la responsabilità della cura dei
beni comuni essenzialmente allo stato, che agisce come regolatore dei mercati (dove invece si
produce la ricchezza), e come redistributore delle risorse generate appunto da questi e in parte
«scremate» attraverso la fiscalità. Solo in tempi recenti, grazie alle elaborazioni teoriche maturate
attorno al concetto di sussidiarietà, si è cominciato ad ammettere lʼipotesi che anche soggetti
privati, operanti nel mercato, possano collaborare con le istituzioni pubbliche al perseguimento di
obiettivi sociali, ma pur sempre nelle forme tipiche della partecipazione sociale, non dellʼimpresa di
capitali [sul concetto di economia civile, si veda, tra gli altri, Bruni e Zamagni, 2004].
    In questo contesto, la società cooperativa costituisce la «terra di mezzo», in quanto società di
persone che sviluppa unʼattività economica e che si configura come soggetto non profit per la
limitazione alla distribuzione degli utili. Non è un caso che le varie forme di imprenditorialità sociale
si siano finora realizzate proprio attraverso questo istituto. Tuttavia, lʼesistenza della società
cooperativa risolve solo in parte i problemi generati dalla rigidità del sistema.
    Lʼimpresa «classica», peraltro, è diventata oggetto di una riflessione teorica e, soprattutto,
laboratorio per un gran numero di esperimenti riconducibili tutti sotto lʼombrello definitorio della
«responsabilità sociale dʼimpresa». In questa sede, non vale la pena soffermarsi sui punti di forza
e di debolezza di questa proposta culturale [Sacconi, 2005], ma non vi è dubbio sul fatto che essa
rappresenti una evoluzione positiva del concetto neoclassico di impresa capitalistica piuttosto che
unʼidea di impresa «nuova». Lʼattenzione alla qualità delle relazioni con gli (altri) stakeholders,
infatti, si giustifica nella misura in cui garantisca un beneficio per quello principale, cioè lo
shareholder. Lo stakeholder non è un fine in sé, ma uno strumento per sostenere, nella migliore
delle ipotesi, la continuità dellʼimpresa. In altri termini, allo scopo di perseguire il proprio obiettivo
principale nel tempo, cioè il vantaggio economico (e che, secondo alcuni, è addirittura lʼunico
obiettivo legittimo), lʼimpresa può avere convenienza a ridurre i margini di profitto che potrebbe
altrimenti offrire agli azionisti, e distribuire varie forme di utilità anche agli altri portatori di interesse.
Questo perché lavoratori, clienti, o fornitori possono essere maggiormente incentivati a mantenere
o incrementare i propri investimenti specifici nellʼorganizzazione, in funzione del vantaggio che ne
ricavano. Il beneficio sociale dellʼattività dellʼimpresa for profit, che certamente esiste, e in alcuni
casi può arrivare a essere significativo, è un «sottoprodotto» dellʼattività principale, non certo
lʼobiettivo primo. Senza voler qui arrivare a conclusioni definitive sulla portata e sul significato della
pratica della corporate social responsibility, cioè la sovramenzionata responsabilità sociale
dʼimpresa, è possibile affermare che non è dalla sua applicazione, anche nelle forme più avanzate,
che nascerà un nuovo tipo di impresa, in grado di proporre un modello di economia alternativa.
   Di qui la necessità di immaginare forme di imprenditorialità radicalmente diverse da quelle
attuali. In questo senso, lʼidea dellʼIfs cerca di coniugare quegli elementi dellʼimpresa di capitale
che ne fanno un sistema di produzione straordinariamente efficiente con il portato valoriale
dellʼorganizzazione non profit. NellʼIfs, quindi, il rapporto tra mezzi e fini è rovesciato rispetto a
quanto accade nellʼimpresa for profit classica: nellʼimpresa capitalista, la funzione obiettivo è
rappresentata dal profitto, e il rispetto delle norme giuridiche ed etiche costituisce il vincolo cui è
sottoposta; nellʼIfs, accade il contrario: lʼobiettivo è la creazione di valore sociale, lʼequilibrio
economico-finanziario è il vincolo. Tuttavia questo modello – ecco lʼelemento di novità –, non è
incompatibile con la natura delle società di capitali: è possibile, cioè, pensare a organizzazioni che
esercitino unʼattività dʼimpresa attraverso la forma della società di capitali, ma determinino la
propria missione nel senso della produzione di valore sociale per la comunità.
   In altre parole, lʼidea, per certi versi eterodossa, è che anche attraverso la libera iniziativa
privata, realizzata nel mercato e non ai suoi margini, si possano produrre beni comuni. Che anche
lʼimpresa possa creare benefici sociali, non come sottoprodotto, ma come risultato voluto e
perseguito di una missione dichiarata. E che, infine, questa idea sia perfettamente compatibile con
le logiche del mercato, della concorrenza e della efficienza gestionale.

   La recente operazione di quotazione allʼAim Italia – il mercato di Borsa italiana dedicato alle
piccole e medie imprese italiane ad alto potenziale di crescita – della società editoriale Vita
rappresenta un esempio calzante di come i termini della questione stiano evolvendo. Vita è una
società per azioni le cui quote, fino a metà del 2010, erano tutte nelle mani di un gruppo di
organizzazioni non profit espressione della società civile. Di fronte alla necessità di provvedere dei
capitali per finanziare un progetto di sviluppo, Vita ha deciso di rivolgersi al mercato. Ha raggiunto
rapidamente gli obiettivi fissati allʼinizio del collocamento e può ora accingersi agli investimenti che
aveva pianificato. La quotazione non ha snaturato la sua missione (il cui perseguimento è garantito
dalla larga maggioranza in capo ai soci storici) né, presumibilmente, produrrà delle pressioni da
parte degli altri investitori nella direzione di una gestione più aggressiva – visto che la società ha
dichiarato che, comunque, non distribuirà dividendi.

   A ben vedere, anche la più recente produzione normativa in materia cerca di superare quelle
che sono state definite le «colonne dʼErcole della cooperazione sociale» [Iris Network, 2010], cioè
di contemplare forme di imprenditorialità sociale diverse da quella cooperativa. La legge delega
188/05 e il successivo decreto delegato 155/06 prevedono infatti la possibilità di attribuire la
qualifica di impresa sociale a una più vasta gamma di forme giuridiche, comprese quelle
commerciali [Randazzo, 2006]. La disciplina, tuttavia, è talmente limitante in termini di oggetto
dellʼattività e di vincoli alla gestione da far sembrare questo istituto più unʼevoluzione del modello
associativo che dellʼimpresa in senso proprio. Non è un caso che questa riforma abbia prodotto
esiti tanto deludenti: sono infatti assai poco numerose le organizzazioni che hanno deciso di
rientrare in questo nuovo quadro giuridico.

   Il legislatore del 2006 sembra quindi aver intuito la necessità di unʼinnovazione, muovendosi
nella direzione giusta, ma in modo ancora timido, senza arrivare a proporre un vero salto di
qualità. Non è peraltro necessario che sia lo stato a farlo; anzi, lʼesperienza dimostra come sia nei
terreni del privato che si realizza lʼinnovazione sociale.

   Peraltro, come ha argomentato A. Propersi (cfr. il cap. VIII del presente volume) anche in
termini di strumenti di governance le organizzazioni del Terzo settore potrebbero mutuare formule
e strumenti tipici delle società commerciali. Opportunamente adattate, talune prassi sviluppate
nellʼambito delle imprese for profit si possono rivelare utili anche per enti di natura diversa,
soprattutto per il governo dei processi di pianificazione strategica e di controllo interno.

   La domanda che a questo punto potrebbe sorgere è perché occorra ibridare due modelli che
finora hanno coesistito, mantenendo ciascuno una chiara riconoscibilità. La risposta può essere
ricavata dallʼosservazione del mercato, nel senso dellʼevoluzione della domanda e dellʼofferta di
beni e di servizi con un contenuto sociale: negli ultimi anni, la domanda di beni è certamente
cresciuta ed è ragionevole ipotizzare che aumenterà ancora. Per converso, questa domanda, reale
e potenziale, non viene oggi soddisfatta completamente né potrà esserlo in futuro finché
rimarranno inalterate le condizioni attuali. E ciò perché da un lato le imprese for profit classiche
soffrono di un deficit di credibilità politica, dallʼaltro le organizzazioni del non profit classico
mancano di risorse e di mezzi sufficienti per proporsi come soggetti autorevoli nel mercato.
Il problema che rende la proposta di una borsa sociale quasi temeraria è che si vuole creare un
mercato per soggetti che (ancora) non esistono, o meglio che ancora non hanno chiara
riconoscibilità pur operando con logiche e finalità proprie delle Ifs. Per converso, la convinzione è
che ci siano tutte le condizioni per innescare un circolo virtuoso e avviare forme nuove di
economia civile. Da questo punto di vista, la creazione del mercato finanziario dedicato può
costituire un catalizzatore, cioè un fattore di accelerazione di un processo latente.
   Nellʼordine, le questioni che si cercherà di affrontare sono:
   1. come possano essere concretamente definite quelle che abbiamo chiamato Imprese a
       finalità sociale, cioè non solo quali caratteristiche debbano avere, ma anche in quali ambiti
       dovrebbero operare e a quali mercati dovrebbero rivolgersi;

   2. quali siano i bisogni finanziari delle Ifs e se e come un mercato borsistico possa soddisfarli,
       e in quali condizioni;

   3. quali possano essere gli investitori disposti a fornire capitali alle Ifs;

   4. come dovrebbe realizzarsi lʼincontro della domanda e dellʼofferta di capitali, cioè quali
       debbano essere le regole di funzionamento del mercato.

   Prima di entrare nel merito di ciascuna questione, è utile proporre una breve analisi delle
iniziative realizzate o in progettazione a livello internazionale che abbiano promosso o cercato di
promuovere un mercato di capitali per soggetti simili allʼImpresa a finalità sociale.



2. Uno sguardo al panorama internazionale

   Lʼidea di un mercato italiano di capitali per Ifs nasce anche da alcune interessanti esperienze in
ambito internazionale che hanno come obiettivo la costruzione di mercati finanziari in grado di
favorire lʼinvestimento in attività economiche a forte valenza socio-ambientale. Queste esperienze
hanno caratteristiche molto diverse fra loro ma possono essere considerate elementi di un unico
mercato globale di social capital. Si tratta di piattaforme di scambio on-line o di vere e proprie
borse che facilitano il contatto e la transazione tra investitori e Imprese a finalità sociale; lo
scambio può avvenire in termini di finanziamento diretto a progetti specifici o tramite lʼacquisto di
quote (azioni) di partecipazione al capitale di rischio.
   Alcune iniziative sono già in una fase avanzata di sviluppo, se non già operative, altre sono
ancora a uno stadio embrionale. I progetti operativi attualmente sono di vario tipo e si possono
differenziare per tipologia di ritorno garantito agli investitori: nei primi modelli, meno sofisticati, si
prevedeva la possibilità di un ritorno esclusivamente sociale, ma in seguito sono nate alcune realtà
che permettono di ottenere anche un ritorno economico sul capitale.
   Tra i primi si annoverano i progetti Bvs&a - Bolsa de valores sociais y ambietais, in Brasile,
promosso da Bovespa, la borsa di San Paolo, e SA Social Investment Exchange (Sasix), un
progetto dʼinvestimenti in ambito sociale posto in essere dallʼorganizzazione sudafricana
GreaterGood South Africa, finalizzati alla raccolta di fondi per il finanziamento di progetti specifici,
che hanno in qualche modo innovato il modello tradizionale di filantropia, conferendo maggior
rendicontazione e trasparenza ai progetti, condizioni necessarie per attrarre un maggior numero di
donatori. I risultati di Bvs&a e di Sasix – rispettivamente di 2,4 milioni di euro e di 1,95 milioni di
raccolta – sono stati soddisfacenti, soprattutto considerando che rappresentano unʼidea
pionieristica in questo campo. Altri casi interessanti che rientrano in questa tipologia di mercato
sono: GiveIndia (in India); HelpArgentina (in Argentina); GlobalGiving (promosso da
unʼorganizzazione con sede a Washington, negli Stati Uniti), Conexión Colombia (in Colombia);
GreaterGood South Africa (per il Sudafrica), MissionFish (unʼorganizzazione statunitense che, dal
2003, promuove raccolte di fondi attraverso il portale eBay), BetterPlace (una piattaforma tedesca
di donazioni on-line); Rang De (promosso da unʼorganizzazione non profit indiana); Wokai (una
piattaforma di microfinanza on-line, ideata da unʼéquipe statunitense, nata per promuovere le
iniziative delle popolazioni rurali in Cina); GiveMeaning (un portale web di fund raising gestito da
una fondazione canadese).
   Esperienze successive, quali la statunitense Kiva e Gexsi (The Global Exchange for Social
Investment), fondata nel Regno Unito, pur simulando in misura inferiore il mercato borsistico,
rappresentano un passo in avanti rispetto a Bvs&a e a Sasix, in quanto consentono il ritiro della
quota conferita. I risultati maggiori sono stati raggiunti da Kiva, la quale ha raccolto in cinque anni
lʼequivalente di 49 milioni di euro.
   Negli ultimi tempi sono stai sviluppati veri e propri mercati borsistici, alcuni dei quali sono già
stati lanciati sul mercato. Ci riferiamo, in particolare, al London Social Stock Exchange Ltd, nel
Regno Unito, al Sasix, e al Social Stock Exchange Asia (SSXA), la prima vera e propria
esperienza di borsa sociale lanciata sul mercato asiatico. Tali iniziative si differenziano dalle
precedenti in quanto non quotano i singoli progetti delle organizzazioni, ma le organizzazioni
stesse, permettendo loro lʼacquisto di azioni o quote.
   Lʼaspetto forse più interessante di tutte queste esperienze è il potenziale di sviluppo insito nella
creazione di un mercato unico per capitali e imprese sociali, ovvero in una rete estesa di
piattaforme/borse che accresca le opportunità di investimento e i volumi di scambio. È quanto
studiato nellʼambito del progetto GSIX (The Global Social Investment Exchange), promosso dal
Greater Good South Africa Trust group e sostenuto dalla Fondazione Rockfeller. Il progetto è
finalizzato appunto alla definizione di un mercato unitario che rafforzi le iniziative locali e
rappresenti un soggetto istituzionale di riferimento.
    Il quadro di riferimento è dunque molto interessante e dinamico: almeno da un punto di vista
«macro», esistono tutti i presupposti per dare piena operatività al mercato italiano ancorandolo ad
altri sistemi di scambio.
3. Un mercato di capitali «responsabili»: perché e come


    Il punto più critico della proposta di una borsa sociale nel contesto nazionale, come accennato,
sta nel fatto che non esiste una domanda già esplicitata in termini chiari da parte dei soggetti
potenzialmente interessati a partecipare al mercato, ma che piuttosto essa si fondi su una serie di
assunti. Occorre quindi analizzare puntualmente questi ultimi per verificarne la fondatezza, e
perché, dalla loro solidità, dipende la credibilità complessiva del progetto.
    La prima serie di questioni afferisce alle organizzazioni che, una volta lanciato il mercato,
dovrebbero intervenirvi come emittenti, cioè le Imprese a finalità sociale.

3.1. Dal lato della domanda di capitale

Definizione di Impresa a finalità sociale


    Il progetto di borsa sociale presuppone lʼesistenza di una domanda e di unʼofferta di capitali
che possano essere utilizzati per obiettivi di natura mista, al contempo finanziari e sociali. Le due
dimensioni non sono in totale contrapposizione: possono essere integrate, attraverso
lʼindividuazione di un punto di equilibrio. In verità, ogni attività umana è il risultato di una pluralità di
pulsioni: il lavoro, lʼimpresa, lo scambio vengono realizzati certamente per generare un ritorno di
tipo economico. Tuttavia, sarebbe sbagliato affermare che questo ritorno sia lʼunico obiettivo di chi
li intraprende: sempre, in misura più o meno grande, si ricerca anche una componente sociale,
così come può accadere che dalle relazioni interpersonali si generi una qualche forma di utilità
pratica oltre alla gratificazione di aspettative di tipo affettivo o, genericamente, sociale. In altre
parole, tra la relazione totalmente interessata e quella totalmente disinteressata alla dimensione
economica cʼè una serie di possibili gradi intermedi che si sviluppano senza soluzione di
continuità. LʼIfs si pone quindi più o meno a metà di questa scala, tra il for profit puro e il non profit
puro.
    È bene rimarcare che, da un punto di vista giuridico, lʼIfs non rappresenta una categoria che si
aggiunge alle forme di organizzazione oggi previste dallʼordinamento. Si tratta piuttosto di una
qualifica che può essere attribuita a soggetti, più precisamente a società, che decidano di darsi
una missione sociale e realizzino unʼattività dʼimpresa avendo come principale obiettivo la
generazione di valore sociale e perseguano lʼequilibrio economico e finanziario in quanto
presupposto per assicurarne la continuità. Quindi, le Ifs non sono affatto organizzazioni non profit,
quanto piuttosto imprese che offrono un dividendo misto, risultante di componenti economiche
(profitto calmierato), sociali e ambientali. Naturalmente, il punto è dimostrare lʼesistenza del valore
sociale, e definire una metodologia credibile per misurarlo.
    Come si diceva, esiste un mercato, vasto e crescente, di beni e di servizi a elevato contenuto
sociale che gli attuali operatori, sul lato dellʼofferta, non sono in grado di soddisfare. Per dimostrare
questa affermazione risulta utile riprendere la definizione di Ifs e approfondirne alcuni aspetti di
dettaglio.



I mercati per le Imprese a finalità sociale


    In ordine allʼesistenza, alle dimensioni, e alle caratteristiche di una domanda oggi solo in parte
definita, e in larga misura ancora latente, si registrano numerose evidenze empiriche che
testimoniano il consolidarsi di una serie di tendenze coerenti tra loro. Esse si esprimono sul piano
delle scelte di acquisto, negli stili di vita e negli orientamenti politici e dʼopinione. Questi processi di
cambiamento sociale sono accelerati dalla accessibilità alle informazioni e dalla loro rapidità di
circolazione, che facilita lʼaumento di consapevolezza da parte dellʼopinione pubblica.
    Una prima linea è quella secondo cui il concetto di qualità atteso da parte di utenti e
consumatori non si limiti alle caratteristiche intrinseche del prodotto-servizio, ma venga esteso sino
a ricomprendere anche gli impatti ambientali e sociali del processo condotto per realizzarlo. In altre
parole, un «buon» capo di abbigliamento, per esempio, non è solo quello che propone un equo
rapporto tra qualità e prezzo, ma quello che, altresì, è stato prodotto nel rispetto delle regole a
tutela dellʼambiente, dei diritti dei lavoratori, e così via. Naturalmente, per regole si intendono sia
quelle giuridiche sia quelle etiche, con la consapevolezza del valore relativo del loro significato. Di
questo fenomeno si sono prontamente accorti numerosi operatori che hanno lanciato nuove
iniziative imprenditoriali o ne hanno convertito di esistenti nel campo della salvaguardia
ambientale, dellʼagricoltura biologica, dei trasporti e dellʼedilizia sostenibili, delle energie
rinnovabili, del riciclo di materiali, del commercio equo e solidale, dei gruppi di acquisto solidali,
dellʼeducazione, della cultura, del turismo responsabile, della finanza e degli investimenti
sostenibili. Tuttavia, non è solo il campo di attività che determina il carattere «sociale» di
unʼimpresa, bensì anche le modalità operative (missione, politiche, sistemi di gestione, ecc.) in
base alle quali essa viene esercitata. La finalità sociale può essere propria non solo di
unʼorganizzazione che opera, per esempio, nel campo del risparmio energetico, ma anche di una
«normale» attività produttiva o commerciale che sia esercitata con lʼobiettivo di generare valore
sociale: unʼazienda agricola che operi in unʼarea controllata dalla criminalità organizzata cercando
di sottrarsi alle logiche mafiose e offrendo delle opportunità di promozione sociale, per esempio,
potrebbe essere un buon esempio di Ifs.
    Un secondo ambito è quello che si va creando a seguito della riforma dei sistemi di welfare
pubblico. Nel nostro paese (lʼesempio vale per tutte le economie avanzate, soprattutto in Europa),
il Libro bianco sul futuro del modello sociale. La vita buona nella società attiva1, pubblicato, a
maggio 2009, dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, indica tra i principi guida
lʼimportanza del ruolo sussidiario della famiglia, dellʼimpresa (sia non profit che for profit) e di tutti i
corpi intermedi, dellʼeconomia sociale di mercato, in unʼottica di superamento della rigida
distinzione tra pubblico e privato. Partendo dalle tendenze demografiche in atto, il testo considera
gli scenari critici che si prospettano per la sostenibilità della spesa sociale nel nostro paese. Si
osserva come lʼinvecchiamento della popolazione determinerà un aumento esponenziale della
spesa previdenziale e sanitaria, circostanza che richiede di «rivisitare, attraverso la formula della
sussidiarietà, quella forma di governance per cui il monopolio statale sulle decisioni di spesa sui
servizi sociali ha spesso favorito gli interessi dei fornitori anziché quelli dei destinatari». In
questʼottica, lʼattore pubblico « (…) invece di essere il monopolista della erogazione è chiamato a
determinare le linee guida degli interventi e assicurare il controllo sulla qualità dei servizi». Nel
Libro bianco del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali si arriva a proporre «il superamento
della distinzione tra pubblico e privato attraverso il riconoscimento alle formazioni sociali di una
soggettività di rilievo pubblico anche nella programmazione dei servizi». Il tema del superamento


1Il Libro bianco è consultabile e scaricabile dal sito del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali al link: http://
www.lavoro.gov.it/NR/rdonlyres/376B2AF8-45BF-40C7-BBF0-F9032F1459D0/0/librobianco.pdf.
della distinzione tra ruolo del settore pubblico e di quello privato è ulteriormente ribadito laddove si
giudica come un grave errore lʼadozione di una visione del welfare che ne ha interpretato lo
sviluppo «sulla contrapposizione tra pubblico e privato, ove ciò che era pubblico veniva
assiomaticamente associato a «morale» perché si dava per scontato che fosse finalizzato al bene
comune, e il privato a «immorale» proprio per escluderne la valenza a fini sociali». E ancora, nel
Libro bianco: «Per      farsi carico delle persone e dei loro bisogni si rende necessario, in molti
contesti, il coinvolgimento di organizzazioni diverse che cooperino, attraverso la combinazione di
diverse capacità e competenze, nella progettazione ed erogazione dei servizi. Si tratta di favorire,
in chiave sussidiaria, lo sviluppo di reti di servizio (partecipate da operatori pubblici e privati, profit
e non profit) capaci di bilanciare aspetti di competitività e di collaborazione, nella ottica di
migliorare efficacia ed efficienza dei servizi.
    Lʼattore pubblico, da unico erogatore di servizi, diventa ora, mediante i regimi di autorizzazione
e accreditamento definiti nella Legge Biagi, il soggetto che favorisce la crescita e lo sviluppo sul
territorio del mercato dei servizi». Un ruolo di primo piano viene quindi riconosciuto al Terzo settore
«[…] soggetto flessibile e particolarmente adeguato a inserirsi nella nuova organizzazione dei
servizi e del lavoro nellʼera post-industriale […]». Sicché «enormi, e in parte non ancora esplorate,
sono dunque le potenzialità del Terzo settore, nella rifondazione del nostro sistema sociale […]».
In particolare, un ruolo strategico è attribuito anche al mondo cooperativo, «sintesi tra sviluppo
imprenditoriale, economico e sociale […]». Insomma, un esplicito richiamo al ruolo dei soggetti che
già oggi sono protagonisti dellʼeconomia sociale, e una sollecitazione a quello che il privato – for
profit e non profit – dovrà assumere nel welfare sociale di mercato prossimo venturo. Non è
irragionevole immaginare, quindi, che si possano delineare significative opportunità per nuovi
operatori del sociale. Allʼinterno di questo quadro di riferimento, si apre uno spazio di grande
rilevanza, sotto il profilo sia qualitativo che quantitativo, per unʼeconomia civile modernamente
sussidiaria, sostenibile e aperta alla sfida dellʼinnovazione sociale [Becchetti, 2010].
    Un terzo ambito in cui le Ifs potrebbero operare con successo è quello dei servizi pubblici
locali, dalla fornitura di energia elettrica e di gas, alla gestione dei servizi idrici integrati o del ciclo
dei rifiuti, ai servizi di trasporto e mobilità, fino alla gestione di infrastrutture. Nel tempo, si è passati
da un sistema in cui le amministrazioni pubbliche garantivano questi servizi in prima persona a
quello attuale, in cui la gestione è stata trasferita in capo a società di natura privatistica, e la cui
proprietà può essere pubblica, privata o mista.
    In alcuni casi, porzioni più o meno ampie del capitale di queste società sono state cedute a
soggetti finanziari o industriali, o addirittura collocate sui mercati, attraverso la quotazione in borsa.
È evidente come, se da un lato la trasformazione in società per azioni può aver reso più efficienti
le strutture aziendali, agendo sul piano delle procedure e degli stili manageriali, per converso la
privatizzazione del capitale (che rappresenta la vera soluzione di continuità) ha finito in molti casi
con lʼinfluenzare la missione stessa delle imprese, che è passata dal servizio al cittadino in
condizioni di economicità alla creazione di valore per gli azionisti attraverso la fornitura di servizi ai
cittadini. Questa situazione conduce inevitabilmente a frizioni tra parti portatrici di interessi
divergenti, composte solo grazie al fatto che, gestendo queste società i servizi spesso in condizioni
di monopolio naturale o di concorrenza limitata, non hanno dovuto confrontarsi con un contesto
realmente competitivo, circostanza che avrebbe esacerbato le contraddizioni. Un esempio
emblematico della problematicità di questo stato delle cose è rappresentato dalla polemica
scatenatasi qualche tempo fa attorno alla qualità dei servizi di Amsa (lʼAzienda milanese servizi
ambientali) in materia di pulizia della città. Come riportato su «Il Corriere della Sera» del 13
novembre 2009: «Per alcuni, politici e tecnici, lʼinizio del decadimento del servizio va fatto risalire a
un passaggio preciso: lʼincorporazione di Amsa nel gruppo A2A, nato il primo gennaio 2008 dalla
fusione di Aem S.p.a Milano e Asm S.p.a Brescia. Fino a quel momento, ricordano in azienda,
lʼinput del comune allʼAmsa (prima con il sindaco Gabriele Albertini e poi allʼinizio del mandato
dellʼattuale sindaco Letizia Moratti) era stato di chiudere il bilancio con utili modesti ma di riversare
tutte le efficienze realizzate sul servizio. Ora la situazione è diversa: il comune ha un peso ridotto
nellʼassetto societario, circa il 27%, e non è difficile immaginare che le indicazioni degli azionisti
siano cambiate. Amsa lo scorso anno ha fatto 16 milioni di euro di utili e la previsione per lʼanno in
corso è di 21. Fin qui tutto bene, se non fosse che […] la città è sporca». Ancora, dalla stessa
fonte: «Gli utili devono essere allʼultimo posto – rincara lʼassessore Maurizio Cadeo, che gestisce i
rapporti con lʼazienda Amsa di via Olgettina – prima devono essere garantite qualità, efficienza e
flessibilità». Una affermazione del genere tranquillizza certamente i cittadini (in quanto utenti dei
servizi di Amsa), ma probabilmente preoccupa o irrita gli altri azionisti, che peraltro rappresentano
la maggioranza del capitale di una società quotata in borsa. Appare evidente la contraddizione tra
una missione formalmente orientata al servizio alla comunità e una struttura proprietaria che
spinge per la massimizzazione del profitto. Il fatto che la situazione richieda un intervento di
riforma è testimoniato anche dal successo della raccolta di firme per il referendum sulla cosiddetta
privatizzazione dellʼacqua, che ha dimostrato la forte sensibilità dei cittadini su questo fronte.
Tuttavia, a ben vedere, da dove nasce il problema? Non tanto dalla natura della società, quanto
dalle divergenti aspettative degli azionisti: infatti, non tutti gli investitori, solo perché tali,
condividono i medesimi obiettivi; ce ne possono essere alcuni (come la amministrazioni locali)
interessati alla continuità dellʼimpresa, altri (come taluni investitori istituzionali) alla crescita di
valore del titolo nel lungo periodo, altri ancora (come gli investitori speculativi) al ritorno nel breve
termine. Ecco che, allora, la quotazione in un mercato specifico, dedicato a imprese che dichiarino
e perseguano una missione innanzitutto sociale, finisce col selezionare gli investitori in base alla
natura dei loro obiettivi e riduce la contrapposizione tra interessi. Un investitore con un obiettivo
(anche) sociale può accettare lʼidea che unʼazienda di trasporto pubblico locale, per esempio,
riduca i propri margini per mantenere attive delle linee poco o per nulla profittevoli, ma che
mantengono un legame con una comunità remota, che, senza quel collegamento, rimarrebbe
isolata. La questione, come abbiamo già accennato e meglio diremo avanti, riguarda quindi la
misurazione del valore sociale di questo servizio, al fine di dimostrare agli azionisti che la loro
rinuncia a una parte della componente economica dellʼinvestimento è stata bilanciata dalla
produzione di un beneficio per la comunità.
Il vantaggio competitivo delle Imprese a finalità sociale


   Dopo aver fornito una prima definizione di Ifs e dopo aver indicato una serie di ambiti in cui
esse potrebbero operare con successo, occorre spiegare perché le Ifs potrebbero riuscire meglio
delle imprese for profit tradizionali o delle altre organizzazioni non profit. Su questo argomento, vi
sono, allʼinterno di questo volume, altre riflessioni, lucide e calzanti, supportate da argomentazioni
che partono da teorie solide (si veda in questo volume, ad esempio, il contributo di I. Colozzi sulla
«distintività» come elemento di valorizzazione delle imprese dellʼeconomia civile). Per parte nostra,
si ritiene che una possibile risposta sia collegata allʼosservazione di due fattori: la natura dei beni e
dei servizi oggetto di scambio, e la scalabilità dei modelli di business a essi collegati.
   Come si diceva, il carattere sociale delle Ifs non è determinato tanto o solo dal tipo di prodotto/
servizio offerto, quanto più dal fine (cui si collegano intimamente mezzi e risorse) per cui questi
vengono realizzati. La medesima attività – per esempio la cura di un anziano – può essere fatta
per motivi puramente economici (lo stipendio per la badante, la retta per la casa di riposo) o per
motivi non economici, bensì sociali, in senso ampio (la relazione affettiva). Per conseguenza, nel
primo caso lʼanziano curato (anche bene, non è questo il punto) diventa il mezzo per un fine altro
da lui. Nei due casi, anche la più banale delle operazioni assume un senso e un valore diverso e
ciò perché sono in gioco beni relazionali. Questa rappresentazione ovviamente semplifica
oltremodo la realtà: le motivazioni possono essere miste (non è detto, per esempio, che la badante
o lʼinfermiere della casa di cura siano necessariamente privi di alcun legame affettivo con
lʼanziano), ma, in ultima analisi, la prevalenza dellʼuna o dellʼaltra componente finisce col
determinare la natura della relazione. Ora, non vʼè dubbio sul fatto che il modello di servizio
proposto dal non profit abbia teso a enfatizzare il valore della relazione rispetto a quello del
corrispettivo economico e viceversa, per i soggetti for profit. Se lʼobiettivo di unʼimpresa che
gestisce una residenza per anziani è quello di ricavare da questa attività il massimo profitto
possibile, chi ne ha la responsabilità è portato ad aumentare i ricavi, per esempio cercando di
alzare le tariffe o forzando lʼerogazione di prestazioni anche non necessarie, oppure a ridurre i
costi, per esempio utilizzando materiali di scarsa qualità o impiegando personale con basse
qualifiche, o a contenere i rischi, per esempio evitando di accogliere ospiti con limitata capacità di
reddito. Probabilmente, questa tensione finirà con lʼinfluenzare anche la relazione con i dipendenti,
che potrebbero trasferire la loro insoddisfazione nel modo in cui, per esempio, si rapportano con i
pazienti. E tutto questo senza incorrere in violazioni esplicite di norme di legge o contrattuali.
Semplicemente, il manager sarà inevitabilmente portato a privilegiare gli interessi del gruppo cui
sente di dover rispondere in prima istanza, cioè gli azionisti. Lʼesperienza peraltro dimostra come,
in una situazione del genere, la prevenzione di comportamenti opportunistici sia possibile solo a
costo di un sistema di controllo non sempre efficace e comunque molto costoso. Quindi, possiamo
affermare che la formula che prevede lʼassenza di scopi di lucro, per definizione, funzioni meglio ai
fini della qualità della relazione col beneficiario del servizio. Questa circostanza si realizza peraltro
anche in ambiti in cui la componente relazionale è meno evidente: nellʼacquisto di un prodotto
alimentare biologico, per esempio, la relazione è quasi esclusivamente commerciale; nondimeno, il
grado di fiducia che può ottenere un fornitore che sia animato da obiettivi meramente lucrativi è
evidentemente minore rispetto a quello che riesce a garantirsi uno che abbia una forte e dichiarata
motivazione intrinseca. Come detto, insomma, lʼimpresa for profit «pura» che si qualifichi come
socialmente responsabile è, in generale, meno credibile, perché utilizza la leva sociale come
mezzo e non come fine e quindi strumentalizza la relazione con i propri interlocutori.
   Per converso, proprio questi soggetti portatori di un capitale fiduciario e di reputazione di così
grande valore, difettano di mezzi e di risorse per candidarsi a svolgere un ruolo da protagonisti nel
mercato. Oggi, il mondo del Terzo settore inteso in senso ampio – dal volontariato alla
cooperazione sociale – appare complessivamente inadeguato. Esso è caratterizzato dalla
presenza di una moltitudine di operatori, mediamente molto piccoli, poco coordinati tra loro,
spesso privi di strumenti manageriali avanzati, dotati di risorse materiali, finanziarie e culturali non
allʼaltezza di una sfida che appare fuori dalla loro portata. Questi operatori difendono (per certi
versi molto giustamente) il proprio portato identitario, e si dimostrano sospettosi verso forme di
contaminazione con gli strumenti dellʼeconomia di mercato. Realizzano una funzione di
testimonianza fondamentale, ma sembrano volersi limitare a svolgerla per quel che è, senza
cogliere il potenziale di cambiamento che si potrebbe realizzare tentando un salto di scala. Lo
stesso Forum nazionale del Terzo Settore, nel Libro verde del Terzo settore. Le sfide dellʼItalia che
investe sul futuro, pubblicato a giugno del 2010, stigmatizza la delicata fase di transizione del
movimento, e individua alcune importanti prospettive strategiche per uscire da una situazione di
empasse politica e organizzativa attraverso una «nuova stagione costituente».
   La situazione, nel suo complesso, presenta le caratteristiche di un circolo vizioso: si profila
lʼopportunità di una domanda ampia e in crescita, che rischia di rimanere insoddisfatta perché
quelli che avrebbero le capacità imprenditoriali e le risorse per coglierla mancano della credibilità
necessaria e, viceversa, quelli che lʼavrebbero difettano delle prime.
Lʼidea dellʼIfs propone, quindi, una sintesi felice del buono dellʼuno e dellʼaltro modello: da un
lato, ha la natura giuridica della società commerciale e quindi è adatta allʼesercizio dellʼattività
imprenditoriale nella sua forma più limpida, può accedere al mercato dei capitali, si presta a una
crescita di scala; dallʼaltro, conserva le motivazioni intrinseche dellʼorganizzazione non profit,
essendo la missione orientata non alla massimizzazione del profitto, ma alla creazione di valore
sociale.
    La proposta dellʼIfs non viene formulata «contro» il Terzo settore né «contro» lʼeconomia
capitalista: può rappresentare unʼevoluzione per entrambi. Lʼauspicio, infatti, è che non solo
possano nascere soggetti del tutto nuovi che si vogliano dare questa struttura, ma anche che
operatori che oggi utilizzano le forme tradizionali di organizzazione aziendale vogliano convergere
verso il modello dellʼIfs. Da questo punto di vista, borsa sociale si pone un ambizioso obiettivo di
civilizzazione del mercato, cioè di trasformazione di meccanismi consolidati verso forme nuove,
orientate a fini non egoistici. Oltre a offrire una soluzione per specifici problemi finanziari, il
successo di borsa sociale potrebbe avviare un percorso di cambiamento più vasto, contaminando
gli «altri» mercati e innescando processi di imitazione orientati a modelli più virtuosi.
    Si potrà obiettare che le forme attraverso cui lʼeconomia sociale ha operato sino a oggi,
tipicamente, quelle dellʼassociazione e della cooperativa, siano per loro natura più democratiche
(basandosi sul principio «una testa, un voto»), e quindi riescano meglio a esprimere la
componente di promozione della persona umana che è insita nellʼidea di unʼimpresa a finalità
sociale. Nelle società di capitali (che si basano, nella migliore delle ipotesi, sul principio
«unʼazione, un voto»), invece, il potere di ultima istanza sta nelle mani di chi ha la maggioranza
delle quote. In unʼottica di democrazia economica, quindi, il modello delle organizzazioni di
persone offrirebbe un quadro più favorevole. Ciò è senzʼaltro vero, però, a ben vedere, più in teoria
che in pratica. Anzitutto, lʼesperienza ci dimostra come in realtà le cooperative e le associazioni –
sia le piccole sia, per motivi e con modalità diversi, le grandi – possano essere gestite in modo
tuttʼaltro che democratico, in più, da un punto di vista fattuale, non esistono ostacoli insuperabili
allʼapplicazione di regole democratiche alle società di capitale. La partecipazione degli
stakeholders, infatti, dipende più dalle regole autonome dellʼorganizzazione (a partire dallo statuto)
che dalle norme dellʼordinamento giuridico generale. Gli stili di gestione e i sistemi di corporate
governance2 dipendono solo in parte dagli assetti proprietari, e possono essere anche fortemente

2  È lʼinsieme di regole, relazioni, processi e sistemi aziendali che definiscono la distribuzione dei diritti e delle
responsabilità tra i partecipanti (dirigenti, amministratori, azionisti, dipendenti e altre parti interessate) alla vita di una
società.
orientati in un senso o nellʼaltro, previo lʼaccordo dei soggetti che collaborano alla realizzazione del
sistema-impresa. Peraltro, abbiamo affermato pocʼanzi che la qualifica di Ifs rappresenta un
attributo delle società di capitale, quindi non tanto un dato che si acquisisce una volta per tutte, in
base a una dichiarazione dʼintenti, quanto piuttosto una circostanza la cui sussistenza deve essere
continuamente provata, attraverso una serie di dimostrazioni verificabili.
    Si può naturalmente discutere se lʼidea dellʼIfs così come qui definita sia la migliore possibile,
ma occorre anche considerare i rischi del criticarla senza proporre alternative e finendo per non
fare alcunché. Lʼevoluzione del mercato, per amore o per forza, avverrà comunque, perché le
tendenze sopra delineate sono ormai nelle cose. Il pericolo è che questi nuovi mercati vengano
coperti dai soggetti «sbagliati». Già oggi, per fare un esempio, le gare per la fornitura di servizi nel
settore socio-sanitario bandite dalla pubblica amministrazione pongono requisiti di partecipazione
sempre più stringenti e richiedono i livelli di efficienza gestionale tipici di soggetti che realizzano
economie di scala. Le piccole cooperative sociali, che hanno svolto in passato e continuano a
svolgere un ruolo di innovazione sociale importante, rischiano di venire tagliate fuori e di vedersi
sopraffare da grandi operatori for profit che hanno a disposizione risorse inimmaginabili per loro.
Alla fine, anche il favore di cui il Terzo settore ha in qualche modo beneficiato (a volte anche solo
in nome del «politicamente corretto») non potrà più garantire condizioni di vantaggio o di privilegio.
Occorrerà perciò concorrere nel mercato, con gli strumenti del mercato, ma – e qui risiede il fattore
di vantaggio competitivo fondamentale – mantenendo le finalità sociali dellʼimpresa, circostanza
che qualifica lʼoperatore e distingue i servizi e i prodotti che offre.

I bisogni finanziari delle Ifs e i fattori di resistenza alla quotazione


    Per le Ifs, così come per qualsiasi tipo di impresa, un buon equilibrio finanziario è dato da un
mix di capitale di rischio, di debito a lungo e di debito a breve termine. Ciascuna di queste forme di
finanziamento risponde a determinate esigenze dellʼimpresa, che a propria volta dipendono dalla
natura della sua attività, dalla fase di sviluppo che sta attraversando e, soprattutto, dai suoi
obiettivi strategici. Se è fondato uno dei presupposti di partenza del nostro ragionamento, e cioè
che il mercato potenziale delle Ifs non sia una nicchia per operatori politicamente orientati, ma una
porzione importante del mainstream, allora la prospettiva da sostenere è una strategia di crescita
duratura. Di qui la necessità di dotarsi di provviste consistenti di capitale di rischio.
    Uno degli effetti dei fenomeni di globalizzazione dei mercati è proprio il premio alle economie di
scala; questo non significa che sia auspicabile la nascita di multinazionali del sociale, ma che i
fattori che hanno consentito la sopravvivenza delle forme imprenditoriali del non profit fino a oggi
(specializzazione, radicamento territoriale, cura delle relazioni locali) non saranno più sufficienti in
un quadro di concorrenza allargata, in cui contano anche le dimensioni. Le Ifs, siano essi soggetti
del tutto nuovi o risultato della trasformazione di soggetti esistenti (for profit o non profit) dovranno
quindi dotarsi di robusti mezzi finanziari propri se vorranno giocare un ruolo da protagonisti nel
mercato. Per ragioni diverse, né il credito bancario né il debito, né tantomeno lʼautofinanziamento
possono soddisfare efficacemente questo bisogno. In verità, lʼeccessivo ricorso al credito a breve
è un problema più generale che riguarda quasi tutte le piccole e medie imprese italiane, che sono
mediamente sottocapitalizzate sia rispetto al giro dʼaffari che sviluppano, sia alle esigenze di
crescita richieste dal mercato.
    È di tutta evidenza che il problema dellʼequity stia nel fatto che al possesso delle quote sono
collegati i diritti di voto in assemblea, cosa che, ovviamente, ha un impatto sul governo societario.
Gli imprenditori italiani, sociali o meno che siano, hanno sempre visto con sospetto la presenza di
investitori esterni nel capitale della «propria» impresa. In società in cui non cʼè per nulla o quasi
distinzione tra proprietà e gestione, manca la cultura dellʼazione guidata da strategie formalizzate e
condivise, ispirata da principi di trasparenza e verificata dallʼapplicazione di regole di accountability
(cioè di responsabilità, intesa come rendiconto sulle attività svolte, condivisione e capacità di
fornire prestazioni). Questi limiti si ritrovano addirittura accentuati nelle diverse forme di
organizzazioni sociali oggi operanti, per il fatto che la nobiltà della missione è stata talvolta
utilizzata come alibi per giustificare lʼinefficienza, lʼopacità, il familismo. Per altri versi, nel non profit
italiano, i richiami a una gestione più manageriale dellʼorganizzazione sono stati visti come una
pericolosa deriva aziendalista, la cui applicazione non poteva che snaturare la missione sociale. In
ultima analisi, imprenditori for profit e manager del non profit, per una ragione o per lʼaltra,
preferiscono la protezione di una confortante autoreferenzialità ed evitare di realizzare una misura,
come lʼaccesso al mercato dei capitali, che invece in molti casi sarebbe salutare per lʼimpresa. Da
questo punto di vista, la proposta di una borsa sociale si pone anche come sfida, nella prospettiva
di unʼevoluzione del mercato nel senso di una maggiore efficienza e di una maggiore trasparenza.
    Come detto in precedenza, al momento le Ifs rappresentano più un riferimento a cui tendere
che una realtà ben definita, ma esistono tuttavia diversi soggetti caratterizzati da un sistema
gestionale responsabile e dallʼesercizio di attività specifiche che potrebbero rientrare in questa
definizione, o comunque evolvere verso il modello in questione.
    Ci riferiamo in particolare a tre tipologie di imprese: Ifs di capitali, Ifs cooperative, e Ifs derivate
da Organizzazioni non profit (Onp).
    Le Ifs di capitali sono società per azioni che possono accedere al mercato delle partecipazioni
al capitale solo a seguito di una valutazione rigorosa del modello gestionale e degli impatti socio-
ambientali generati dallʼattività. La trasformazione di una impresa tradizionale in una Ifs può
apparire un passaggio semplice, come fosse una certificazione, ma in realtà si tratta di una
profondo cambiamento della cultura e del modello aziendale. Le azioni emesse da imprese sociali
devono avere caratteristiche uniformi e standardizzate e soprattutto non avere formalità di
cessione che ne impediscano il trasferimento in modo efficiente e immediato. Le quote di società a
responsabilità limitata non sono quotabili, in quanto non sono rappresentate da titoli di credito e
potenzialmente sono diverse tra di loro, dato che le caratteristiche vengono decise volta per volta
dai soci, e non sono scambiabili liberamente a causa delle formalità richieste per la loro cessione.
    Una seconda tipologia di Ifs potrebbe derivare dalle cooperative che svolgono attività ad alto
valore sociale, e da cooperative sociali di tipo A e B. Anche in questo caso è necessaria una
trasformazione molto importante che intacchi la natura stessa del modello cooperativo, ovvero
lʼeliminazione dal proprio statuto del divieto alla distribuzione degli utili ai soci. In linea di principio
le cooperative sociali, istituite dalla l. 381/1991, sono enti non profit che non hanno come obiettivo
la distribuzione del reddito ai soci quanto piuttosto il perseguimento dellʼinteresse generale della
comunità attraverso la realizzazione della missione produttiva. Tuttavia, al pari delle cooperative
ordinarie, una cooperativa sociale può prevedere entro certi limiti la distribuzione di una quota di
utili ai propri soci (art. 8, l. 59/1992). Nelle cooperative è prevista poi la figura del socio sovventore
i cui conferimenti sono rappresentati da azioni trasferibili e il cui trattamento in sede di
distribuzione o di liquidazione degli utili può essere favorito dallo statuto (remunerazione superiore
agli altri soci fino al 2%). Lo stesso trattamento spetta ai possessori delle azioni di partecipazione
cooperative che possono essere emesse per finanziare progetti di sviluppo e investimento
pluriennali. Tali azioni sono offerte anche al pubblico e anchʼesse garantiscono al portatore una
remunerazione maggiorata del 2% rispetto a quella delle quote o delle azioni dei soci della
cooperativa.
    Grazie a queste caratteristiche, le cooperative sociali sono lʼunico soggetto del Terzo settore
che possa accedere direttamente al mercato azionario, almeno da un punto di vista teorico. Per
tutte le organizzazioni senza scopo di lucro e tutte le imprese del mondo non profit che svolgono
attività commerciale o non commerciale, ma che sono accomunate dal divieto di distribuzione
dellʼutile, lʼaccesso diretto al mercato «azionario» di capitale sociale sembra precluso. Per le
associazioni e le fondazioni che non sono costituite in forma societaria o che comunque non
possono ripartire il capitale sociale in quote alienabili e negoziabili, lʼaccesso è negato per
definizione.
   Tuttavia, è possibile ipotizzare una soluzione che porti a una terza tipologia di Ifs, ovvero         la
costituzione di società-veicolo, cioè unʼimpresa di capitali le cui quote o azioni siano in
maggioranza delle Organizzazioni non profit (Onp). In questo modo, la nuova società diventa lo
strumento operativo per le attività economiche promosse dallʼOnp. Per non incorrere nei limiti posti
allʼattività commerciale delle Onlus, il capitale della società potrebbe essere aperto anche alla
partecipazione di altri investitori, fermo restando che opportune previsioni statutarie assicurino alla
Onp il controllo sulla strategia e sulle scelte operative fondamentali. La società- veicolo così
formata avrebbe le caratteristiche per accedere al mercato dei capitali, e quindi rientrare nel
percorso virtuoso che abbiamo identificato per le Ifs.
   Non cʼè dubbio sul fatto che questo tipo di operazioni possa presentare profili di una certa
problematicità per le Onp più piccole: lo sforzo e il costo per mettere in moto un processo di tale
complessità, infatti, si giustificano solo nel caso di iniziative dalla consistente portata economica.
Questo ostacolo potrebbe essere superato attraverso la creazione di consorzi di Onp prossime per
scopo o per natura: così facendo, ciascuna, in proporzione al proprio impegno, potrebbe poi
utilizzare la società-veicolo come strumento per le proprie attività e per lʼapprovvigionamento di
capitale. Né va nascosto il rischio che si creino le condizioni, se le cose non vanno per il verso
giusto, di conflitto tra le Onp partner, che potrebbero riflettersi negativamente sulla governance e,
alla fine, sullʼoperatività della Ifs di cui sono socie. Si tratta di un rischio che va affrontato e gestito
se è vero, come argomenta A. Propersi in questo stesso volume, che occorre pensare a nuovi
canali di finanziamento per il Terzo settore, a fronte di una crisi strutturale delle forme di cui si era
servito fino a tempi recenti.



3.2. Dal lato dellʼofferta di capitale


   Naturalmente, il successo di borsa sociale dipende in misura importante anche dalla volontà
degli investitori di parteciparvi. Quindi, la questione che si pone è se esista unʼofferta di capitale
corrispondente. A questo fine, occorre verificare sia la coerenza degli obiettivi dei potenziali
investitori con quelli del mercato, sia la consistenza delle masse teoricamente necessarie o anche
solo sufficienti per assicurarne lʼefficiente funzionamento.
Con riferimento al primo punto, è utile prendere a riferimento il fenomeno del cosiddetto
investimento responsabile o sostenibile. Si tratta dellʼintegrazione di considerazioni di tipo
ambientale, sociale, di governo societario o etico (in inglese, Environment, Social and
Governance, da cui lʼacronimo ESG, cui a volte si aggiunge la E di Ethics) nelle scelte di
investimento. In altre parole, lʼinvestitore non guarda solo ai fondamentali economici e finanziari,
alle prospettive di rischio e di rendimento atteso e alle altre variabili tipiche, ma prende in esame
anche le politiche e i risultati delle società oggetto di analisi in ordine a una serie di criteri, detti
appunto (e non del tutto correttamente) extra-finanziari. Questi investitori possono essere motivati
da spinte di natura morale (nel senso che non vogliono che i loro denari siano utilizzati per
finanziare attività considerate inaccettabili dal punto di vista etico) o da valutazioni di tipo
opportunistico (nel senso che ritengono le imprese che gestiscono con attenzione le variabili ESG-
E meno esposte a taluni tipi di rischio o più pronte a cogliere le opportunità di un mercato in
cambiamento) o da un bilanciamento delle due. Il ragionamento è del tutto speculare, mutatis
mutandis, a quello che si faceva con riferimento al mercato dei beni e dei servizi. Senza analizzare
qui in modo approfondito le caratteristiche del fenomeno [Landier e Nair, 2008), può bastare dire
che esso è ormai uscito ben oltre la nicchia della testimonianza e si propone come stile di gestione
finanziaria pienamente integrato nel sistema mainstream [Eurosif, 2010]. Per certi versi, tuttavia,
proprio in questo sta il suo limite: così come la corporate social responsibility rappresenta
unʼevoluzione dei modelli capitalistici di gestione dellʼimpresa, ma non ne mette in discussione i
fondamenti, lʼinvestimento responsabile è unʼevoluzione della pratica dellʼinvestimento di cui, però,
non intacca i presupposti. Si tratta cioè di un ampliamento del numero e della qualità delle variabili
da prendere in considerazione nella valutazione della profittabilità futura dei titoli di una società, la
cui importanza relativa dipende dalla misura in cui ciascuna è in grado di influenzarne la
performance. Da questo punto di vista, perciò, non è da questa forma di investimento che ci si può
aspettare una rivoluzione del modo di fare impresa, anche se non cʼè dubbio che essa abbia
fortemente contribuito a rendere lʼeconomia più attenta alle aspettative della società sui temi
ambientali e sociali.
   Per sostenere le Ifs, che invece si candidano a innovare radicalmente i modelli di business,
occorre rifarsi a un concetto più recente e, se è consentito il termine, più «estremo», cioè quello di
impact investment, che comprende ogni forma di investimento profittevole che volutamente generi
un beneficio sociale misurabile. Questa definizione, che guarda soprattutto agli output, cioè ai
risultati, dellʼattività oggetto di investimento, mette in luce tre punti fondamentali, che
rappresentano le caratteristiche distintive rispetto ai modelli correnti di investimento responsabile:
la profittabilità, la volontà degli effetti sociali e la loro misurabilità. Il primo aspetto chiarisce che ci
si muove comunque nella logica della gestione finanziaria e non della filantropia. Quando si diceva
che le Ifs devono operare nel mercato, sʼintendeva, appunto, che del mercato devono rispettare le
regole, una delle quali è che il rischio dellʼinvestitore va remunerato. Ciò non vuol dire che
lʼinteresse dellʼinvestitore sia lʼunico o il principale obiettivo dellʼimpresa, ma che la creazione di un
plusvalore economico non può essere negletta. Il secondo punto è forse il più significativo, nel
senso che segna una chiara discontinuità con le pratiche di corporate social responsibility: infatti,
in un certo senso qualsiasi attività economica genera un effetto sociale, se non altro per il fatto che
crea occupazione, che permette allʼindividuo di partecipare alla soddisfazione dei bisogni della
comunità attraverso la contribuzione fiscale, che si alimenta un indotto di forniture, eccetera. Ma
questi sono, come si diceva, dei sottoprodotti dellʼattività dʼimpresa, non il risultato di un obiettivo
perseguito in modo esplicito. Sullʼimportanza, infine, della misurabilità dellʼimpatto sociale vale la
pena spendere ancora qualche parola.
    Lʼinvestimento «di impatto» è, in un certo senso, la forma più avanzata di investimento
responsabile. Questo non significa, tuttavia, che esso sia riservato a investitori militanti. Per
identificare gli attori dellʼofferta, occorrerà individuare tra gli investitori che si sono dati delle
politiche di gestione finanziaria sostenibile quelli più orientati alla dimensione sociale rispetto a
quella economica, immaginando che, anche in questo caso, ci sia una continuità che lega a un
estremo quelli totalmente speculativi, e allʼaltro quelli totalmente «etici». O meglio, per esprimere il
medesimo concetto in termini diversi, ipotizzando che vi siano soggetti che sono disposti a
orientare la totalità del proprio patrimonio verso un investimento con valenze sociali, altri che lo
sono per una parte più o meno ampia di esso, altri ancora che non lo sono per nulla.
    Dal punto di vista dellʼidentità di questi investitori, entrambe le macrocategorie in cui
tipicamente si segmenta il mercato, quelle degli investitori istituzionali e degli investitori retail3 ,
possono essere teoricamente interessate ad acquisire quote di Ifs. Tra i primi, un ruolo particolare
potrà essere giocato da quelli che hanno essi stessi una natura non profit, come le fondazioni (in
particolare, quelle di origine bancaria) o gli enti religiosi. Da questo punto di vista, rileva il concetto
di mission related o program related investment: si tratta di investimenti che offrono rendimenti
attesi più bassi di quelli di operazioni puramente finanziarie, ma che producono degli effetti

3 Un investitore istituzionale è un operatore economico (società o ente) che effettua considerevoli investimenti in maniera
sistematica e cumulativa, disponendo di ingenti possibilità finanziarie proprie o affidategli; un investitore retail, invece, è
un operatore in beni dʼinvestimento che agisce per proprio conto, un individuo che investe il proprio patrimonio.
coerenti con gli obiettivi dellʼorganizzazione. Così, per esempio, una fondazione per la ricerca
scientifica potrebbe, oltre che investire il proprio patrimonio secondo logiche tradizionali e poi
utilizzare i profitti per finanziare a fondo perduto dei progetti specifici proposti da terzi, investire
direttamente nel capitale di questi enti e sostenerli fornendo loro risorse per una stabile crescita di
lungo periodo. Lʼesito di questa operazione è quindi un dividendo misto, prodotto di una
componente economica e di una componente sociale (data, in questo caso, dallo sviluppo
dellʼorganizzazione finanziata e dalla sua accresciuta capacità di produrre studi di valore). Dal
punto di vista della fondazione, il risultato è comunque positivo o neutro, poiché il patrimonio viene
conservato o, auspicabilmente, incrementato, e si realizza un beneficio in linea con la sua
missione. Quantomeno, verrebbe evitata la contraddizione potenziale (invero abbastanza
probabile, soprattutto nel caso di investimenti passivi in indici generici) per cui lʼinvestimento fatto
secondo logiche puramente finanziarie finisca con lʼaiutare imprese che gestiscano attività i cui
effetti siano contrari agli obiettivi della fondazione.
    Naturalmente, per altri investitori istituzionali che invece abbiano ricevuto dai propri mandanti
un obiettivo di natura puramente finanziaria (comʼè il caso dei fondi pensione, il cui scopo è gestire
il risparmio previdenziale degli aderenti al fine di offrire loro la pensione più lata possibile),
lʼinvestimento in Ifs sarebbe più difficile da giustificare.
    Il vincolo più complesso da gestire per un investitore istituzionale è quello della liquidità dei
titoli delle Ifs, e quindi della possibilità reale di garantirsi strategie di uscita a condizioni non
sfavorevoli in caso di necessità. Il vantaggio dellʼinvestimento in società a grande capitalizzazione
sta anche nel fatto che, al netto delle condizioni generali del mercato, è sempre possibile vendere
la propria partecipazione avendo quasi la certezza che vi sia un acquirente interessato a
subentrare. Questa circostanza potrebbe non verificarsi in una borsa sociale con un limitato
numero di emittenti e di investitori e quindi con un modesto volume di scambi. Il problema, che
certamente esiste, può essere circoscritto, se non eliminato, attraverso una serie di accorgimenti,
come il contenimento della quota di patrimonio investita in titoli a rischio di illiquidità, la
distribuzione dellʼinvestimento su un numero di titoli relativamente ampio, la sottoscrizione di
opzioni di vendita avendo come controparte il primo collocatore (sul ruolo dello sponsor, si veda
oltre), lʼapertura del mercato secondario agli investitori retail.
    Nel campo degli investitori privati retail, famiglie non high net worth, che non possiedono cioè
un patrimonio netto alto, valgono in buona misura le considerazioni svolte sopra circa la crescente
domanda di beni e di servizi ad alto valore sociale aggiunto: se è vero che è in aumento la quota di
consumatori interessati alle componenti ambientali e sociali dei propri acquisti, è probabile che
essi stessi siano disposti a investire una quota, anche relativamente contenuta, dei propri risparmi
nelle società che li producono. Una ulteriore possibilità di attirare investitori individuali verso le Ifs è
la dimensione locale dellʼimpatto che alcune di esse possono produrre. Nel caso di società
concentrate su servizi a valenza territoriale, come per esempio quelli erogati nel settore delle
utilities (elettricità, gas, acqua, telefonia, ecc.), o della sanità, o anche dellʼeducazione e
dellʼanimazione culturale, il fatto di poter beneficiare, direttamente o indirettamente, o comunque di
toccare con mano i risultati generati nella comunità, rappresenta un incentivo al sostegno di queste
imprese. Si può creare un legame virtuoso, alimentato anche in questo caso da un dividendo
misto, il che costituisce unʼinteressante prospettiva di partecipazione e di democrazia economica
reale.
    Sia per lʼuna categoria sia per lʼaltra è difficile azzardare stime quantitative. Dal nostro punto di
vista, gli studi sulla teorica disponibilità degli investitori ad avvicinarsi a forme alternative di
gestione finanziaria (tipicamente basati su interviste) non sono particolarmente affidabili, in quanto
spesso viziati dal rischio di risposte che, non essendo impegnative, vengono date con lʼobiettivo
implicito di compiacere lʼintervistatore e di apparire più politicamente corretti di quanto non si sia in
realtà. Sembra più utile, allo scopo di valutare la sostenibilità di borsa sociale, porre la questione in
termini opposti, cioè domandarsi quanto risparmio sia necessario per assicurare la copertura dei
primi collocamenti e un adeguato numero di scambi nel tempo. Dalle prime valutazioni svolte in
sede di ricerca, si è stimato che il funzionamento di borsa sociale possa reggersi con alcune
decine di Ifs quotate nellʼarco di circa cinque anni dallʼavvio, con un flottante complessivo prossimo
a 200 milioni di euro. Anche negli scenari più pessimistici, questa cifra, che rappresenta una
frazione decimale del risparmio gestito italiano, appare tuttʼaltro che impossibile da raggiungere.
Va peraltro sottolineato che questo risultato non è lʼobiettivo (che sarebbe affatto modesto), bensì
la soglia minima per la sostenibilità della macchina necessaria alla gestione del mercato. Livelli di
scala superiore potrebbero facilmente essere raggiunti se il meccanismo dimostrerà di funzionare
e di produrre i risultati attesi a beneficio di tutti i soggetti che vi partecipano.
    La sollecitazione allʼinvestimento in Ifs può passare attraverso lʼutilizzo di leve diverse nel
mercato istituzionale e retail. Nel primo caso, la questione è, prima di tutto, politica. I problemi
tecnici, come quelli del rischio di underperformance (che avviene quando il rendimento
differenziale di un investimento rispetto a un indice preso a riferimento risulta negativo), o di
illiquidità, possono essere gestiti in un modo o nellʼaltro; quello che però non può mancare è una
scelta a priori che dia una copertura complessiva alle scelte operative. Non perché le tesi
sopraesposte non siano sostenibili dal punto di vista teorico, quanto perché propongono
unʼinnovazione degli schemi logici entro cui ci si è mossi nel passato e quindi richiedono una
esplicita dichiarazione di volontà. Per quanto riguarda i risparmiatori privati, invece, il fattore
determinante sarà probabilmente il ruolo che vorrà giocare la distribuzione. Nel mercato finanziario
italiano, infatti, le scelte di investimento dei piccoli investitori, in un contesto di modesta
educazione finanziaria, sono fortemente orientate dalle reti di vendita (di banche, assicurazioni e
promotori finanziari). Si pone un problema di capacità di questi intermediari di trasferire il valore
innovativo dellʼinvestimento in Ifs e, dallʼaltro, creare un sistema di incentivo che quantomeno non
renda particolarmente penalizzante il collocamento di titoli di Ifs rispetto ad altri strumenti
concorrenti.




4. Il funzionamento di borsa sociale


    Il modello di borsa sociale si configura come un mercato di strumenti finanziari dedicati, in cui
si scambiano prevalentemente partecipazioni (titoli azionari) di Ifs, ma non si esclude la possibilità
che titoli ibridi di quasi-equity e obbligazioni convertibili4 possano essere quotati in un secondo
momento.
    Nel corso dello studio di prefattibilità già citato, alcuni degli esperti coinvolti hanno espresso
delle perplessità al riguardo, ritenendo più facilmente percorribile lʼipotesi di un mercato per titoli di
debito. La preferenza per un mercato azionario risponde a due esigenze: a. la soddisfazione dei
bisogni finanziari più impellenti delle Ifs; b. la prospettiva di una vasta partecipazione di investitori
privati retail.
    A nostro avviso, il solo ricorso al finanziamento con emissioni di titoli di debito non è adeguato
a soddisfare i bisogni finanziari delle Ifs, in quanto richiede il pagamento costante di interessi sul
debito contratto. Questo vincolo può mettere a dura prova le casse di una Impresa a finalità
sociale con limitate capacità finanziarie, inoltre non contribuisce a risolvere il problema strutturale
di sottocapitalizzazione. Occorre sottolineare che il possesso di un titolo di debito non attribuisce



4   Per quasi-equities sʼintendono quegli strumenti finanziari il cui rendimento per colui che li detiene si basa
principalmente sui profitti o sulle perdite dellʼimpresa destinataria, e che non sono garantiti in caso di cattivo andamento
delle imprese; diversamente, lʼobbligazione convertibile è un titolo di debito il cui rimborso può avvenire, a discrezione
del sottoscrittore, attraverso la consegna di titoli di altra specie e di uguale valore.
diritti decisionali o di amministrazione della società, ma è un prestito contratto dalla medesima,
dunque lascerebbe invariata la proprietà riducendo le resistenze che si presentano in caso di
equità.
   In linea teorica, le obbligazioni possono essere emesse da società per azioni e da società a
responsabilità limitata. A differenza del vecchio art. 2486 c.c., infatti, che vietava alla società a
responsabilità limitata lʼemissione di obbligazioni, il nuovo art. 2483 c.c. stabilisce che «se lʼatto
costitutivo lo prevede, la società a responsabilità limitata può emettere titoli di debito […]». La
stessa opportunità di emettere titoli obbligazionari è riconosciuta alle cooperative dallʼart. 2526 che
sancisce che «lʼatto costitutivo può prevedere lʼemissione di strumenti finanziari secondo la
disciplina prevista per le società per azioni e stabilisce i diritti di amministrazione e patrimoniali
attribuiti ai loro possessori e le eventuali condizioni per il trasferimento di tali strumenti». Tuttavia
permane una sostanziale incompatibilità della scala dimensionale richiesta per lʼemissione di
questi strumenti finanziari con lʼistituito dellʼImpresa a finalità sociale. Le obbligazioni potrebbero
essere adeguate solo nei casi di imprese mature che abbiano consolidato il proprio business a
valenza sociale e che siano in grado di garantire il pagamento di interessi e il rimborso del capitale
ricevuto.
   Dal punto di vista degli investitori, questi titoli potrebbero soddisfare esigenze di investitori
sensibili ai temi sociali e ambientali, ma allo stesso tempo essere avversi a profili di rischio troppo
elevati. Tuttavia – ecco il secondo punto – la sottoscrizione di tali titoli è possibile esclusivamente
da parte di investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali
(banche, sim, sicav, ecc.), e cioè da parte di soggetti in grado di compiere unʼeffettiva valutazione
del rischio e della solvibilità della società; successivamente, le obbligazioni possono anche essere
alienate a risparmiatori che non siano investitori professionali, soci o non soci, e anche a
dipendenti della società, tuttavia si sottolinea che chi trasferisce i titoli risponde della solvenza
della società nei confronti degli acquirenti che non siano a loro volta investitori professionali o soci
della società.
   Tutte le altre categorie di enti non profit (diversi dalle società e dalle cooperative) potrebbero
ricorrere a strumenti di finanziamento alternativi, alcuni dei quali, purtroppo, stentano ancora a
prendere piede. Ci riferiamo in particolare ai titoli di solidarietà, un valore mobiliare caratterizzato
dal fatto che i fondi raccolti mediante emissione e offerta al pubblico devono essere destinati
obbligatoriamente ed esclusivamente al finanziamento di Onlus.
   Purtroppo questi titoli non hanno ancora risposto alle esigenze di finanziamento del settore non
profit, e dovranno essere modificati per facilitarne unʼeffettiva applicazione. In attesa di sviluppi in
questa direzione, resta il fatto che non esistono al momento strumenti di debito per Organizzazioni
non profit che possano essere collocati e scambiati su un mercato dedicato.
    Per tornare alle caratteristiche del mercato di borsa sociale e al ruolo dei diversi soggetti
coinvolti, occorre sottolineare che borsa sociale è stata pensata come una Multilateral trading
facility (Mtf), cioè un mercato non regolamentato istituito ai sensi della direttiva MiFid5 .
Lʼespressione «non regolamentato» può trarre in inganno, nel senso che può dare lʼidea di un
mercato lasciato a se stesso; in realtà, la disciplina che lo regola è assai rigorosa e completa;
lʼassenza di regolamentazione riguarda il fatto che                 lʼammissione dei titoli e lʼaccesso a tale
mercato non sono assoggettati alla vigilanza diretta della Consob, pur dovendo essere conformi ai
requisiti minimi da essa stabiliti mediante il proprio regolamento emesso ai sensi dellʼart. 77-bis del
Testo unico della Finanza. Una Mtf è, in larga misura, molto simile a un mercato finanziario
tradizionale, in cui vengono scambiati titoli emessi da società o stati o altri soggetti autorizzati a
farlo.
    Il modello cui si è pensato per borsa sociale è il risultato di una sintesi di altre due Mtf operanti
in Italia, il Mac (Mercato alternativo del capitale) e lʼAim (Alternative Investment Market). Si tratta di
due mercati relativamente simili lʼuno allʼaltro (il primo sviluppato autonomamente dagli operatori
italiani, il secondo importato a seguito della fusione tra Borsa Italiana e London Stock Exchange, la
borsa britannica), entrambi rivolti a piccole e medie imprese. Nessuno dei due, in verità, ha
ottenuto particolare successo, il che dovrebbe far sorgere qualche dubbio sullʼopportunità di
repliche, ma le ragioni del loro parziale fallimento sono legate ad alcuni fattori che non dovrebbero
ripresentarsi nel caso di borsa sociale. In altre parole, non è a causa del modello in sé, ma di altre
circostanze che il progetto non ha funzionato del tutto.
    Borsa sociale, in questo caso, seguendo lʼesempio del Mac, beneficerà del contributo di due
distinte entità: una società di gestione e una società di promozione. La prima è lʼeffettiva
proprietaria del mercato, la controparte degli emittenti quotati e la responsabile ultima nei confronti
delle autorità di vigilanza. La seconda ha il compito di attirare le Ifs e gli investitori verso il mercato,
e collabora alla definizione delle regole del mercato, ponendosi come garante politica della


5 La direttiva 2004/39/CE sui mercati degli strumenti finanziari, conosciuta con lʼacronimo inglese MiFid (Market in
Financial Instruments Directive), è stata recepita nel nostro ordinamento attraverso il d.lgs. 164 del 17/9/2007, che ha
modificato il Testo unico della Finanza, e la successiva normativa secondaria emessa da Consob, la commissione
nazionale per le società e la borsa.
missione di borsa sociale. La ragione per cui si è pensato a questo sistema è che i requisiti fissati
per la società di gestione in termini di capitale, struttura organizzativa, sistemi informativi,
infrastrutture e altro sono particolarmente elevati e quindi costosi. Non si giustifica la creazione di
una entità ad hoc visto il volume atteso di scambi, anche nellʼipotesi più ottimistica. Per converso,
nessuna delle società di gestione attualmente operanti sembra avere la capacità di approcciare un
settore così poco conosciuto e dai contorni ancora così incerti come quello delle Ifs. È sembrato
perciò efficace affiancare a un soggetto che abbia già la struttura adatta alla gestione di una Mtf, e
che sia in grado di svolgere in modo neutrale le funzioni più tecniche, un altro che conosca le
peculiarità degli operatori e sia da essi riconosciuto come credibile e affidabile.
   Il ruolo della società di gestione è in larga misura definito dallʼordinamento e non richiede
particolari commenti in questa sede. Più complesso quello della società di promozione, su cui vale
la pena spendere qualche parola.
   La società di promozione Pro-borsa sociale (Pbs) sarà, come abbiamo detto, il garante di
fronte al vasto mondo dellʼeconomia civile e alla società in generale della genuinità della proposta
politica e del rigore con cui verrà realizzata. Pbs dovrà contribuire incisivamente alla definizione
delle regole di quotazione (listing rules), e prevenire comportamenti opportunistici da parte degli
emittenti e degli investitori, preservando il capitale di reputazione indispensabile per alimentare la
fiducia degli attori coinvolti nel suo funzionamento, indispensabile per la continuità nel tempo
dellʼimpresa. Pbs potrà intervenire nel merito della gestione del mercato indirettamente, per
esempio accreditando i soggetti specializzati nella valutazione e nellʼaccompagnamento delle Ifs
alla quotazione, e quindi verificandone le competenze e la credibilità, stabilendo quali metodologie
debbano essere utilizzate allo scopo. Il problema che Pbs dovrà affrontare e risolvere è, dunque,
quello delle regole che caratterizzano questo mercato come unico e ontologicamente diverso dai
mercati finanziari tradizionali. Per coerenza, Pbs dovrà costituirsi essa stessa come Ifs, ponendosi
lʼobiettivo di sostenibilità sia in termini economici (e quindi la generazione di un plusvalore che
remuneri lʼinvestimento dei soci), sia sociali, e avrà una compagine societaria rappresentativa dei
principali stakeholders: amministrazioni locali (in particolare amministrazioni regionali), fondazioni
di origine bancaria, associazioni di imprese, centrali cooperative, banche e altri operatori finanziari.
   Intorno allʼasse portante costituito dai due soggetti principali, si collocano gli altri attori del
mercato, quali i soggetti che svolgono funzioni di accompagnamento e di garanzia. In particolare,
ai fini del funzionamento di borsa sociale, servirà lʼintervento di un soggetto specializzato che si
faccia garante, di fronte alla comunità degli investitori, della solidità del progetto imprenditoriale, e
di un soggetto che accerti la capacità dellʼimpresa candidata alla quotazione di produrre valore
sociale in misura sufficiente a considerarla Ifs. La figura cui tendere è quella di un esperto con
anche competenze socio-ambientali, quella che in altri contesti è stata chiamata Snomad, cioè
social nominated advisor. A oggi esistono pochissimi soggetti che abbiano queste caratteristiche e
capacità: da un lato ci sono le agenzie di rating sociale, che tendenzialmente non si esprimono
sugli aspetti di natura finanziaria, e dallʼaltro banche, sim e altre organizzazioni simili che,
viceversa, sanno poco o nulla di aspetti sociali e ambientali. Sono evidenti i rimandi alle
caratteristiche della figura del revisore sociale evocata da A. Propersi in questo stesso volume (cfr.
infra) che, sia pure in un contesto diverso e con funzioni differenti, comunque richiama a
competenze e professionalità molto simili. In attesa di un progresso della situazione (che, peraltro,
non dovrebbe tardare ad arrivare), occorre immaginare due percorsi valutativi indipendenti, e
quindi lʼintervento di un soggetto simil-sponsor e di un valutatore sociale. Gli uni e gli altri, in ogni
caso, dovranno essere in qualche modo accreditati da Pbs, al fine di assicurare che abbiano tutte
le competenze e i requisiti necessari. I soggetti accreditati dovranno garantire la trasparenza
informativa nei confronti degli investitori, stimolare lʼattenzione da parte della società al rispetto
delle regole derivanti dallʼessere quotata, massimizzandone i benefici, e – più in generale –
mantenere la qualità e la reputazione del mercato sociale.



1.        La valutazione delle Imprese a finalità sociale


     In fase di ammissione, unʼimpresa candidata dovrà predisporre un documento che riporti le
informazioni utili per gli investitori relative allʼattività della società, agli azionisti, ai dati economico-
finanziari, e soprattutto che riporti la valutazione di responsabilità sociale del modello di gestione e
di efficacia nella creazione di valore sociale, elementi imprescindibili per qualificare unʼimpresa
come Ifs. Ai fini della partecipazione a borsa sociale, e dunque per essere riconosciuta come
Impresa a finalità sociale, unʼimpresa verrà infatti valutata attraverso una due diligence, cioè una
investigazione sullʼaffidabilità economico-sociale.
     È questo un punto nodale del progetto. La creazione di borsa sociale non può prescindere da
una chiara definizione della tipologia di imprese che possono essere quotate e da una rigorosa
valutazione della performance economica e sociale attesa. Se lʼIfs cui si rivolge questo mercato
rappresenta un equilibrio virtuoso tra produzione di valore economico e creazione di valore
sociale, è necessario garantire allʼinvestitore tutte le informazioni per misurarne lʼefficienza e
lʼefficacia con la massima trasparenza.
    Il tema della valutazione è stato affrontato anche da altri in questo volume (si veda il contributo
di I. Colozzi). Nellʼambito del nostro studio di fattibilità, abbiamo a nostra volta impostato un
sistema che è sembrato coerente con le esigenze di un mercato borsistico, sia pure sui generis. I
criteri per regolamentare lʼaccesso alla borsa sociale sono stati identificati da alcune metodologie
di riferimento per la corporate social responsibility. In particolare, il modello di valutazione in
questione è articolato su due livelli di analisi:
    •   unʼanalisi del sistema di gestione, che deve essere in grado soddisfare criteri di
        responsabilità sociale e di efficienza economica;
    •   unʼanalisi della produzione di valore sociale e ambientale, che deve essere coerente con la
        missione e proporzionato alle risorse impiegate.
    Il primo livello è assimilabile a unʼaudit, ovvero a unʼanalisi dei sistemi e dei processi interni
secondo due chiavi di lettura. La prima è lʼassunzione di responsabilità nei confronti di tutti gli attori
interessati allʼattività di impresa (gli stakeholders), la seconda è lʼefficienza economica nella
gestione delle attività. Ogni ambito di indagine viene declinato in più criteri, ciascuno dei quali
articolato in un set di indicatori. I punteggi attribuiti a ogni indicatore vanno a comporsi allʼinterno di
un sistema che produce una media ponderata secondo lʼimportanza dei diversi aspetti ambientali e
sociali nei vari ambiti di attività delle Ifs. Il valore finale che si ottiene per ogni ambito è un
punteggio da 0 a 100. Allʼinterno di questo range sono state identificate quattro classi di qualità.
    Il secondo livello di analisi riguarda la produzione di valore sociale, misurato come il
cambiamento indotto nel contesto di riferimento. Come unʼimpresa for profit viene valutata per la
capacità di generare profitto, così una Ifs viene valutata per il grado di efficacia nel raggiungimento
di un certo scopo dichiarato. La valutazione quantitativa degli impatti che lʼimpresa è in grado di
generare è necessaria a stimare il social return, il ritorno sociale, che è un rendimento aggiuntivo
rispetto al ritorno economico tradizionale. I valori numerici permettono di calcolare degli indici di
ritorno sociale dellʼinvestimento e di riformulare il profilo rischio/rendimento su più dimensioni. La
metodologia di valutazione della performance sociale si ispira alla teoria del cambiamento, ovvero
al modo in cui lʼorganizzazione ha determinato un mutamento nella società. Una Ifs può creare
valore in modo efficiente ed efficace se utilizza al meglio i mezzi di produzione (input) e se genera
dei risultati (output) che determinano impatti positivi per i beneficiari (diretti) e per il resto della
comunità (indiretti).
    Per misurare lʼefficienza del processo, i risultati vengono valutati in rapporto alle risorse
impiegate (tempo, denaro, lavoro, materiali), mediante il calcolo di output/input ratio; per misurare
lʼefficacia dellʼattività di impresa, gli impatti diretti e indiretti vengono rapportati agli obiettivi
generali. Il criterio guida è la coerenza con la missione intesa come lʼidentificazione di un problema
sociale e ambientale cui cercare di porre rimedio mediante lʼapplicazione di strumenti idonei o la
produzione di determinati beni e servizi. I mezzi impiegati, i risultati e gli impatti sono espressi da
indicatori che vengono misurati e riportati a un valore monetario tramite lʼuso di proxy. A titolo di
esempio, una cooperativa sociale che ha come finalità lʼinserimento lavorativo di determinati
soggetti, impiega le risorse misurabili in unità di tempo o costi (affitto sale, materiali, ecc.) per
svolgere dei corsi di riqualificazione professionale; i risultati sono misurati dal numero di
partecipanti ai corsi,   mentre gli impatti sono valutati in termini di posti di lavoro creati per i
beneficiari. Per ottenere un valore monetario dellʼimpatto che indica il valore totale dei benefici
generati, il numero di posti di lavoro viene moltiplicato per il costo unitario del lavoro.
   Lʼespressione degli indicatori in unità monetarie permette il calcolo di indici di rendimento
sociale quali il Social Return on Investment della New Economic Foundation (NEF), espressione
del rapporto tra benefici totali e valore dellʼinvestimento. La performance sociale viene misurata
dallʼandamento di questi indici nel corso degli anni. I valori calcolati per unʼimpresa vengono
confrontati con i valori indice di tutte le altre imprese che operano nel medesimo settore in modo
da ottenere unʼindicazione comparata (benchmarking).




4.2. La sostenibilità economica del mercato


   In termini di sostenibilità economica del mercato e di Pbs, le voci di ricavo e di costo sono
rappresentate dalle quote di ammissione (admission fees), dalle quote annuali (annual fees)
versate dalla società emittente, e dalle quote annuali di accreditamento dei soggetti che affiancano
lʼIfs nel processo di quotazione. I costi attesi sono rappresentati da personale, sede e information
technology, comunicazione e marketing.
   In ordine ai ricavi derivanti dalle admission e dalle annual listing fees, si stima che il numero di
Ifs quotate possa arrivare a circa 70 nel giro di sei anni, periodo entro il quale è previsto il punto di
pareggio di bilancio. Peraltro, il peso relativo dei costi di quotazione sul valore dellʼoperazione
dipende in larga parte dallʼammontare del flottante: qualora lʼIfs decida di mettere sul mercato una
quota poco significativa del proprio capitale, lʼincidenza dei costi fissi sarà maggiore e quindi il
vantaggio rispetto ad altre forme di finanziamento inferiore.
   Questo numero di società ammesse appare sufficiente a garantire la copertura dei costi anche
del gestore del mercato il quale, come detto, avendo già tutte le infrastrutture materiali e
immateriali necessarie, dovrà sostenere solo costi marginali, a parte quelli tecnici e amministrativi
connessi allʼattivazione. Non abbiamo immaginato ricavi per il gestore direttamente derivanti dalle
negoziazioni, che non si prevede saranno troppo frequenti: lʼinvestimento in Ifs non ha obiettivi
speculativi e quindi non si giustificano operazioni intra-day, che durino quindi un giorno soltanto.
Lʼaltra fonte di ricavo per Pbs è rappresentata dalla gestione del meccanismo di accreditamento
dei soggetti specializzati nella valutazione delle imprese candidate alla quotazione. Anche in
questo caso, abbiamo stimato che possano essere interessati a partecipare un numero limitato di
operatori (circa venti nellʼarco dei sei anni oggetto di previsione). Naturalmente, esso è fortemente
correlato al numero di Ifs quotate e alla quota di mercato che riusciranno ad accaparrarsi e a
mantenere i first mover, cioè i pionieri dellʼoperazione. Se il numero di questi soggetti accreditati
fosse inferiore alle aspettative e quindi insufficiente a garantire entrate adeguate, potrebbe essere
adottato un meccanismo che preveda il pagamento a Pbs di una quota variabile in relazione al
numero di attestazioni di conformità rilasciate alle Ifs.




5. Le questioni chiave ancora aperte

   A questo punto della progettazione restano ancora aperte alcune questioni rilevanti che ne
possono condizionare lo sviluppo.
   La prima concerne la natura giuridica delle imprese candidate a diventare Ifs e i relativi vincoli
allʼemissione di titoli (in particolare, di debito) o alla trasferibilità delle quote di capitale. Per le
società di capitale, la questione non si pone, poiché non hanno particolari vincoli, se non quello
della scala dimensionale, che possano limitare il loro accesso al mercato dei capitali. Molto diverso
è il discorso per i soggetti del mondo non profit, a partire dalle cooperative fino ad arrivare alle
Onlus. In questi casi esistono limitazioni di ordine giuridico e culturale che dovranno essere
superate, sia con interventi normativi che con attività di informazione e formazione.
   La figura giuridica dellʼimpresa sociale non fornisce, allo stato attuale, un riferimento utile a
costruire un quadro unitario entro il quale ricondurre le diverse fattispecie di imprese che svolgono
attività a forte valenza sociale. In particolare, per le imprese che si qualificano come «imprese
sociali» vige il divieto assoluto alla distribuzione degli utili che rappresenta un vincolo alla
partecipazione al mercato di capitale poiché tende ad azzerare il valore economico dellʼazione
detenuta da un possibile investitore (il prezzo di unʼazione riflette il valore scontato dei profitti
attesi). Questo non sarebbe un problema se il mercato fosse solo di tipo primario, poiché
lʼesistenza di investitori istituzionali potrebbe garantire lʼacquisto delle azioni di Ifs anche se esse
non garantiscono un utile atteso. Tuttavia, nel caso di un mercato anche secondario, ovvero dove
è possibile rivendere le azioni, il prezzo rifletterà le aspettative sugli utili e dunque il rischio è
lʼazzeramento del loro valore. In queste condizioni lʼexit strategy per lʼinvestitore istituzionale
sarebbe molto complicata, e il mercato risulterebbe del tutto illiquido. Lʼesistenza di un mercato
secondario crea dunque un vincolo (poiché presuppone che le azioni offrano un dividendo) ma
offre anche maggiori opportunità per migliorare il funzionamento del mercato. Lʼapertura agli
investitori retail aumenta la possibilità di rivendere le azioni e offre ai risparmiatori lʼoccasione di
partecipare indirettamente allʼattività di imprese che hanno un forte impatto sociale. Non è da
escludere che possano esserci risparmiatori che, in ragione della dimensione etica
dellʼinvestimento, siano disposti a rinunciare in parte alla remunerazione del capitale investito.
   Collegata alla scelta sul tipo di mercato è la questione della dimensione dei soggetti
partecipanti. Non cʼè dubbio che borsa sociale, per come è stata progettata, possa rappresentare
unʼopportunità solo per soggetti che realizzino un giro dʼaffari di alcuni milioni di euro. Per quelli
che rimangono al di sotto della soglia, il problema delle fonti di finanziamento rimane intatto. A
questo limite è collegata la necessità di pensare ad altri strumenti finanziari che possano
soddisfare la domanda di capitali di Ifs che, per una ragione o per lʼaltra, non possano accedere
alla borsa. In particolare, occorre lavorare alla creazione di veicoli di private equity e di venture
capital sociale.
   In ogni caso, e qui veniamo alla questione più importante per il funzionamento di borsa sociale,
molto dipenderà dal modello di pricing. Se questo rispecchierà lʼapproccio tradizionale che
definisce il prezzo dellʼazione solo in ragione del profilo di ricavi attesi, i problemi di cui sopra non
troveranno facile soluzione. Se, invece, sarà possibile definire e adottare un modello di pricing
innovativo che quantifichi il valore sociale generato, allora il prezzo delle azioni di Ifs rispecchierà il
valore atteso dei ricavi ma anche il valore dei benefici sociali e ambientali che lʼimpresa sarà in
grado di produrre.
   Un corollario del prezzo è rappresentato dal rischio, forse solo teorico, che delle Ifs possano in
realtà rivelarsi molto profittevoli (per esempio per aver trovato una soluzione particolarmente
efficace a un bisogno sociale diffuso). In questa situazione, alcuni ritengono che comunque la
distribuzione di utili debba essere limitata. Esistono solidi argomenti sia a favore che contro lʼidea
del tetto, che vanno ulteriormente investigati.




6. Implicazioni di «policy» e proposte


    La creazione di borsa sociale non richiede, di per sé, alcun intervento di tipo normativo. Il
mercato, infatti, può essere attivato allʼinterno del quadro regolamentare esistente.
Lʼidentificazione delle imprese che possono parteciparvi si basa su una definizione delle loro
caratteristiche che viene assunta dalle stesse in sede di autoregolazione (statuto), e verificata dal
gestore del mercato nellʼambito di un rapporto privatistico. È lecito chiedersi se un intervento del
regolatore pubblico, ancorché non necessario, sia opportuno. A nostro avviso, è più utile che si
lasci il tempo al mercato di elaborare le proprie regole e di sperimentare i propri modelli in
autonomia. Una eventuale disciplina pubblica potrebbe, in fase iniziale, inibire lo sviluppo di
iniziative creative di innovazione sociale, ingessandole prima che abbiano trovato una forma
stabile. Dopo un certo periodo di tempo, invece, una volta definito un assetto in cui gli operatori si
riconoscano e stigmatizzati i rischi di comportamenti opportunistici, una normativa che dia maggior
certezza al quadro venutosi a creare offrirebbe a tutti maggiori garanzie.
    Non vʼè dubbio, tuttavia, che, qualora dovesse maturare in tempi brevi lʼipotesi di una riforma
complessiva del settore, anche attraverso un riscrittura del Libro I del Codice civile, potrebbe aver
senso un intervento organico volto a disciplinare le varie espressioni di impresa sociale che
vengono esercitate o di cui si dibatte, tra cui lʼIfs. In particolare, una riforma di alto profilo dovrebbe
affermare la possibilità di utilizzare lʼistituto delle società di capitali anche per finalità diverse dal
lucro degli azionisti.
    Un intervento che, per quanto di natura molto tecnica e puntuale, potrebbe fare la differenza in
termini di successo della borsa sociale, è la modifica dellʼinterpretazione dellʼAgenzia delle Entrate,
contenuta nella circolare 59/E del 31/10/2007, in base alla quale le Onlus non possono possedere
quote di controllo in società di capitali. Si tratta di una imposizione di discutibile base giuridica (non
si trova accenno alla questione nel d.lgs. 460/97 sulla disciplina fiscale degli enti non commerciali,
che ha istituito le Onlus), fondata sul timore di possibili evasioni fiscali. La norma è coerente con
lʼimpostazione che abbiamo criticato in premessa, secondo cui i mondi for profit e non profit
devono rimanere chiaramente separati tra loro, anche attraverso la diversificazione delle forme
giuridiche degli enti mediante cui si realizza lʼattività. In verità, la natura dellʼattività e la proprietà
del soggetto che la esercita sono questioni distinte. La natura non lucrativa di unʼorganizzazione
non implica necessariamente il rifiuto dello strumento della società commerciale, per perseguire
lʼobiettivo dellʼutilità sociale. È certamente sensato evitare il rischio che una Onlus diventi una
holding finanziaria; ma non si comprende perché una fondazione Onlus che persegua fini di
protezione per lʼambiente, per esempio, non possa gestire unʼarea protetta attraverso una società
controllata per intero o in maggioranza, se questa forma risulta più efficace.
   Un altro dei possibili percorsi a disposizione è una profonda revisione della legge sullʼimpresa
sociale. Un intervento del genere potrebbe sembrare prematuro, dato che il decreto legislativo
155/2006 è in vigore da poco più di quattro anni, ma i risultati prodotti sinora lasciano prefigurare
un elevato rischio di fallimento: il numero di imprese sociali registrate è, a oggi, ridicolmente basso,
cosa che legittima a ritenere che lʼimpostazione adottata non risponda alle aspettative e alle
esigenze degli operatori. Unʼimpostazione diversa richiederebbe peraltro una legge ordinaria,
essendo il decreto n.155 emesso in forza di legge delega (la 188/2005), che ha fissato i principi e i
criteri direttivi. Lʼutilità di un percorso tanto complesso si giustificherebbe con lʼobiettivo di evitare
fraintendimenti tra le definizioni di impresa sociale ai sensi del d.lgs. 155/06 e Impresa a finalità
sociale, «inventata» per la borsa sociale. A ogni buon conto, per aumentare la domanda potenziale
di imprese quotabili, sarebbe auspicabile la sostituzione del divieto assoluto di distribuzione degli
utili per le imprese sociali con un sistema che sia in grado di limitarla. Lʼimposizione di un tetto alla
distribuzione dellʼutile, come previsto per le cooperative sociali, permetterebbe di non stravolgere
la ratio dellʼimpresa sociale, cioè la conservazione di eventuali plusvalori allʼinterno del circuito
aziendale, e di fornire allo stesso tempo lʼincentivo di una remunerazione economica oltre che
sociale.
   Un tema che periodicamente riemerge è quello della disciplina fiscale. Nel caso di specie,
potrebbe aver senso riflettere su una norma che riconosca dei vantaggi sia alle Imprese a finalità
sociale sia agli investitori che si avvicinano al mercato. Una qualche forma di beneficio potrebbe
rappresentare lo stimolo per vincere lʼinerzia iniziale e creare le condizioni per il superamento delle
fasi di sviluppo di borsa sociale. Una volta tagliati i primi traguardi e raggiunta una condizione di
stabilità, incentivi o premi risulterebbero meno giustificabili e peraltro meno necessari.
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  • 1. SOSTENERE CONCRETAMENTE LʼECONOMIA CIVILE ATTRAVERSO LA CREAZIONE DI UN MERCATO DI CAPITALI PER IMPRESE A FINALITÀ SOCIALE Davide Dal Maso, Davide Zanoni 1. Premessa Il presente contributo non ha un carattere scientifico, non sviluppa unʼipotesi teorica, ma dà conto di un progetto in essere, i cui esiti non sono, a tuttʼoggi, scontati. Negli ultimi mesi, infatti, si è lavorato sullʼidea di un mercato finanziario dedicato alle Imprese a finalità sociale (Ifs), con lʼobiettivo di creare uno strumento che consenta lʼincontro tra la domanda e lʼofferta di capitali «responsabili» e quindi offra a imprese con una spiccata vocazione sociale di approvvigionarsi di risorse a condizioni particolari. Il che non significa, come vedremo, delimitare unʼarea protetta per soggetti deboli, ma valorizzare i benefici generati da questo tipo di imprese in tutta la loro complessità. Lʼiniziativa, i cui risultati verranno di seguito descritti, consiste in un progetto di ricerca e sperimentazione che tiene insieme elementi di approfondimento teorico con una fase di intervento concreto [Dal Maso et al., 2009]. In altri termini, si è cercato da un lato di sviluppare il concetto di Ifs, soggetto esistente in nuce nella prassi e del tutto nuovo al nostro ordinamento, e dallʼaltro di definire regole e condizioni per il lancio di un mercato finanziario, chiamato borsa sociale, in cui possano essere scambiati titoli emessi dalle Ifs. Il progetto ha beneficiato finora di un supporto delle regioni Toscana e Lombardia, e ha prodotto uno studio di pre-fattibilità che sta evolvendo in un tentativo di implementazione. Lʼidea di un mercato finanziario dedicato a Ifs nasce da una serie di considerazioni di base, in parte riconducibili allʼevidenza empirica, in parte assunte come presupposti, un poʼ apoditticamente. Un primo elemento è rappresentato dal fatto che la cultura economica e giuridica che ha portato allʼattuale assetto dellʼordinamento propone una netta separazione tra, usando una semplificazione, impresa for profit e impresa non profit, legando il riconoscimento dellʼuna o dellʼaltra vocazione alla natura giuridica dellʼorganizzazione. Da un lato, le società (libro V del
  • 2. Codice civile), il cui obiettivo principale è la creazione di valore economico, dallʼaltro, associazioni, fondazioni e comitati (libro I del Codice civile), che realizzano scopi di varia utilità sociale e per i quali le attività economiche, nella misura in cui vengano ammesse, sono in qualche modo residuali. In altri termini, si determina una relazione necessaria tra i fini e le forme. Lʼidea di una società per azioni senza scopo di lucro viene percepita come eversiva e, nei fatti, si realizza solo in via eccezionale. Il recente decreto sullʼimpresa sociale ha invero aperto una nuova prospettiva, ma imponendo limiti tali, come si vedrà più avanti, da comprometterne le possibilità di successo. Questa impostazione deriva da un approccio teorico che affida la responsabilità della cura dei beni comuni essenzialmente allo stato, che agisce come regolatore dei mercati (dove invece si produce la ricchezza), e come redistributore delle risorse generate appunto da questi e in parte «scremate» attraverso la fiscalità. Solo in tempi recenti, grazie alle elaborazioni teoriche maturate attorno al concetto di sussidiarietà, si è cominciato ad ammettere lʼipotesi che anche soggetti privati, operanti nel mercato, possano collaborare con le istituzioni pubbliche al perseguimento di obiettivi sociali, ma pur sempre nelle forme tipiche della partecipazione sociale, non dellʼimpresa di capitali [sul concetto di economia civile, si veda, tra gli altri, Bruni e Zamagni, 2004]. In questo contesto, la società cooperativa costituisce la «terra di mezzo», in quanto società di persone che sviluppa unʼattività economica e che si configura come soggetto non profit per la limitazione alla distribuzione degli utili. Non è un caso che le varie forme di imprenditorialità sociale si siano finora realizzate proprio attraverso questo istituto. Tuttavia, lʼesistenza della società cooperativa risolve solo in parte i problemi generati dalla rigidità del sistema. Lʼimpresa «classica», peraltro, è diventata oggetto di una riflessione teorica e, soprattutto, laboratorio per un gran numero di esperimenti riconducibili tutti sotto lʼombrello definitorio della «responsabilità sociale dʼimpresa». In questa sede, non vale la pena soffermarsi sui punti di forza e di debolezza di questa proposta culturale [Sacconi, 2005], ma non vi è dubbio sul fatto che essa rappresenti una evoluzione positiva del concetto neoclassico di impresa capitalistica piuttosto che unʼidea di impresa «nuova». Lʼattenzione alla qualità delle relazioni con gli (altri) stakeholders, infatti, si giustifica nella misura in cui garantisca un beneficio per quello principale, cioè lo shareholder. Lo stakeholder non è un fine in sé, ma uno strumento per sostenere, nella migliore delle ipotesi, la continuità dellʼimpresa. In altri termini, allo scopo di perseguire il proprio obiettivo principale nel tempo, cioè il vantaggio economico (e che, secondo alcuni, è addirittura lʼunico obiettivo legittimo), lʼimpresa può avere convenienza a ridurre i margini di profitto che potrebbe altrimenti offrire agli azionisti, e distribuire varie forme di utilità anche agli altri portatori di interesse.
  • 3. Questo perché lavoratori, clienti, o fornitori possono essere maggiormente incentivati a mantenere o incrementare i propri investimenti specifici nellʼorganizzazione, in funzione del vantaggio che ne ricavano. Il beneficio sociale dellʼattività dellʼimpresa for profit, che certamente esiste, e in alcuni casi può arrivare a essere significativo, è un «sottoprodotto» dellʼattività principale, non certo lʼobiettivo primo. Senza voler qui arrivare a conclusioni definitive sulla portata e sul significato della pratica della corporate social responsibility, cioè la sovramenzionata responsabilità sociale dʼimpresa, è possibile affermare che non è dalla sua applicazione, anche nelle forme più avanzate, che nascerà un nuovo tipo di impresa, in grado di proporre un modello di economia alternativa. Di qui la necessità di immaginare forme di imprenditorialità radicalmente diverse da quelle attuali. In questo senso, lʼidea dellʼIfs cerca di coniugare quegli elementi dellʼimpresa di capitale che ne fanno un sistema di produzione straordinariamente efficiente con il portato valoriale dellʼorganizzazione non profit. NellʼIfs, quindi, il rapporto tra mezzi e fini è rovesciato rispetto a quanto accade nellʼimpresa for profit classica: nellʼimpresa capitalista, la funzione obiettivo è rappresentata dal profitto, e il rispetto delle norme giuridiche ed etiche costituisce il vincolo cui è sottoposta; nellʼIfs, accade il contrario: lʼobiettivo è la creazione di valore sociale, lʼequilibrio economico-finanziario è il vincolo. Tuttavia questo modello – ecco lʼelemento di novità –, non è incompatibile con la natura delle società di capitali: è possibile, cioè, pensare a organizzazioni che esercitino unʼattività dʼimpresa attraverso la forma della società di capitali, ma determinino la propria missione nel senso della produzione di valore sociale per la comunità. In altre parole, lʼidea, per certi versi eterodossa, è che anche attraverso la libera iniziativa privata, realizzata nel mercato e non ai suoi margini, si possano produrre beni comuni. Che anche lʼimpresa possa creare benefici sociali, non come sottoprodotto, ma come risultato voluto e perseguito di una missione dichiarata. E che, infine, questa idea sia perfettamente compatibile con le logiche del mercato, della concorrenza e della efficienza gestionale. La recente operazione di quotazione allʼAim Italia – il mercato di Borsa italiana dedicato alle piccole e medie imprese italiane ad alto potenziale di crescita – della società editoriale Vita rappresenta un esempio calzante di come i termini della questione stiano evolvendo. Vita è una società per azioni le cui quote, fino a metà del 2010, erano tutte nelle mani di un gruppo di organizzazioni non profit espressione della società civile. Di fronte alla necessità di provvedere dei capitali per finanziare un progetto di sviluppo, Vita ha deciso di rivolgersi al mercato. Ha raggiunto rapidamente gli obiettivi fissati allʼinizio del collocamento e può ora accingersi agli investimenti che aveva pianificato. La quotazione non ha snaturato la sua missione (il cui perseguimento è garantito
  • 4. dalla larga maggioranza in capo ai soci storici) né, presumibilmente, produrrà delle pressioni da parte degli altri investitori nella direzione di una gestione più aggressiva – visto che la società ha dichiarato che, comunque, non distribuirà dividendi. A ben vedere, anche la più recente produzione normativa in materia cerca di superare quelle che sono state definite le «colonne dʼErcole della cooperazione sociale» [Iris Network, 2010], cioè di contemplare forme di imprenditorialità sociale diverse da quella cooperativa. La legge delega 188/05 e il successivo decreto delegato 155/06 prevedono infatti la possibilità di attribuire la qualifica di impresa sociale a una più vasta gamma di forme giuridiche, comprese quelle commerciali [Randazzo, 2006]. La disciplina, tuttavia, è talmente limitante in termini di oggetto dellʼattività e di vincoli alla gestione da far sembrare questo istituto più unʼevoluzione del modello associativo che dellʼimpresa in senso proprio. Non è un caso che questa riforma abbia prodotto esiti tanto deludenti: sono infatti assai poco numerose le organizzazioni che hanno deciso di rientrare in questo nuovo quadro giuridico. Il legislatore del 2006 sembra quindi aver intuito la necessità di unʼinnovazione, muovendosi nella direzione giusta, ma in modo ancora timido, senza arrivare a proporre un vero salto di qualità. Non è peraltro necessario che sia lo stato a farlo; anzi, lʼesperienza dimostra come sia nei terreni del privato che si realizza lʼinnovazione sociale. Peraltro, come ha argomentato A. Propersi (cfr. il cap. VIII del presente volume) anche in termini di strumenti di governance le organizzazioni del Terzo settore potrebbero mutuare formule e strumenti tipici delle società commerciali. Opportunamente adattate, talune prassi sviluppate nellʼambito delle imprese for profit si possono rivelare utili anche per enti di natura diversa, soprattutto per il governo dei processi di pianificazione strategica e di controllo interno. La domanda che a questo punto potrebbe sorgere è perché occorra ibridare due modelli che finora hanno coesistito, mantenendo ciascuno una chiara riconoscibilità. La risposta può essere ricavata dallʼosservazione del mercato, nel senso dellʼevoluzione della domanda e dellʼofferta di beni e di servizi con un contenuto sociale: negli ultimi anni, la domanda di beni è certamente cresciuta ed è ragionevole ipotizzare che aumenterà ancora. Per converso, questa domanda, reale e potenziale, non viene oggi soddisfatta completamente né potrà esserlo in futuro finché rimarranno inalterate le condizioni attuali. E ciò perché da un lato le imprese for profit classiche soffrono di un deficit di credibilità politica, dallʼaltro le organizzazioni del non profit classico mancano di risorse e di mezzi sufficienti per proporsi come soggetti autorevoli nel mercato.
  • 5. Il problema che rende la proposta di una borsa sociale quasi temeraria è che si vuole creare un mercato per soggetti che (ancora) non esistono, o meglio che ancora non hanno chiara riconoscibilità pur operando con logiche e finalità proprie delle Ifs. Per converso, la convinzione è che ci siano tutte le condizioni per innescare un circolo virtuoso e avviare forme nuove di economia civile. Da questo punto di vista, la creazione del mercato finanziario dedicato può costituire un catalizzatore, cioè un fattore di accelerazione di un processo latente. Nellʼordine, le questioni che si cercherà di affrontare sono: 1. come possano essere concretamente definite quelle che abbiamo chiamato Imprese a finalità sociale, cioè non solo quali caratteristiche debbano avere, ma anche in quali ambiti dovrebbero operare e a quali mercati dovrebbero rivolgersi; 2. quali siano i bisogni finanziari delle Ifs e se e come un mercato borsistico possa soddisfarli, e in quali condizioni; 3. quali possano essere gli investitori disposti a fornire capitali alle Ifs; 4. come dovrebbe realizzarsi lʼincontro della domanda e dellʼofferta di capitali, cioè quali debbano essere le regole di funzionamento del mercato. Prima di entrare nel merito di ciascuna questione, è utile proporre una breve analisi delle iniziative realizzate o in progettazione a livello internazionale che abbiano promosso o cercato di promuovere un mercato di capitali per soggetti simili allʼImpresa a finalità sociale. 2. Uno sguardo al panorama internazionale Lʼidea di un mercato italiano di capitali per Ifs nasce anche da alcune interessanti esperienze in ambito internazionale che hanno come obiettivo la costruzione di mercati finanziari in grado di favorire lʼinvestimento in attività economiche a forte valenza socio-ambientale. Queste esperienze hanno caratteristiche molto diverse fra loro ma possono essere considerate elementi di un unico mercato globale di social capital. Si tratta di piattaforme di scambio on-line o di vere e proprie borse che facilitano il contatto e la transazione tra investitori e Imprese a finalità sociale; lo scambio può avvenire in termini di finanziamento diretto a progetti specifici o tramite lʼacquisto di quote (azioni) di partecipazione al capitale di rischio. Alcune iniziative sono già in una fase avanzata di sviluppo, se non già operative, altre sono ancora a uno stadio embrionale. I progetti operativi attualmente sono di vario tipo e si possono
  • 6. differenziare per tipologia di ritorno garantito agli investitori: nei primi modelli, meno sofisticati, si prevedeva la possibilità di un ritorno esclusivamente sociale, ma in seguito sono nate alcune realtà che permettono di ottenere anche un ritorno economico sul capitale. Tra i primi si annoverano i progetti Bvs&a - Bolsa de valores sociais y ambietais, in Brasile, promosso da Bovespa, la borsa di San Paolo, e SA Social Investment Exchange (Sasix), un progetto dʼinvestimenti in ambito sociale posto in essere dallʼorganizzazione sudafricana GreaterGood South Africa, finalizzati alla raccolta di fondi per il finanziamento di progetti specifici, che hanno in qualche modo innovato il modello tradizionale di filantropia, conferendo maggior rendicontazione e trasparenza ai progetti, condizioni necessarie per attrarre un maggior numero di donatori. I risultati di Bvs&a e di Sasix – rispettivamente di 2,4 milioni di euro e di 1,95 milioni di raccolta – sono stati soddisfacenti, soprattutto considerando che rappresentano unʼidea pionieristica in questo campo. Altri casi interessanti che rientrano in questa tipologia di mercato sono: GiveIndia (in India); HelpArgentina (in Argentina); GlobalGiving (promosso da unʼorganizzazione con sede a Washington, negli Stati Uniti), Conexión Colombia (in Colombia); GreaterGood South Africa (per il Sudafrica), MissionFish (unʼorganizzazione statunitense che, dal 2003, promuove raccolte di fondi attraverso il portale eBay), BetterPlace (una piattaforma tedesca di donazioni on-line); Rang De (promosso da unʼorganizzazione non profit indiana); Wokai (una piattaforma di microfinanza on-line, ideata da unʼéquipe statunitense, nata per promuovere le iniziative delle popolazioni rurali in Cina); GiveMeaning (un portale web di fund raising gestito da una fondazione canadese). Esperienze successive, quali la statunitense Kiva e Gexsi (The Global Exchange for Social Investment), fondata nel Regno Unito, pur simulando in misura inferiore il mercato borsistico, rappresentano un passo in avanti rispetto a Bvs&a e a Sasix, in quanto consentono il ritiro della quota conferita. I risultati maggiori sono stati raggiunti da Kiva, la quale ha raccolto in cinque anni lʼequivalente di 49 milioni di euro. Negli ultimi tempi sono stai sviluppati veri e propri mercati borsistici, alcuni dei quali sono già stati lanciati sul mercato. Ci riferiamo, in particolare, al London Social Stock Exchange Ltd, nel Regno Unito, al Sasix, e al Social Stock Exchange Asia (SSXA), la prima vera e propria esperienza di borsa sociale lanciata sul mercato asiatico. Tali iniziative si differenziano dalle precedenti in quanto non quotano i singoli progetti delle organizzazioni, ma le organizzazioni stesse, permettendo loro lʼacquisto di azioni o quote. Lʼaspetto forse più interessante di tutte queste esperienze è il potenziale di sviluppo insito nella
  • 7. creazione di un mercato unico per capitali e imprese sociali, ovvero in una rete estesa di piattaforme/borse che accresca le opportunità di investimento e i volumi di scambio. È quanto studiato nellʼambito del progetto GSIX (The Global Social Investment Exchange), promosso dal Greater Good South Africa Trust group e sostenuto dalla Fondazione Rockfeller. Il progetto è finalizzato appunto alla definizione di un mercato unitario che rafforzi le iniziative locali e rappresenti un soggetto istituzionale di riferimento. Il quadro di riferimento è dunque molto interessante e dinamico: almeno da un punto di vista «macro», esistono tutti i presupposti per dare piena operatività al mercato italiano ancorandolo ad altri sistemi di scambio. 3. Un mercato di capitali «responsabili»: perché e come Il punto più critico della proposta di una borsa sociale nel contesto nazionale, come accennato, sta nel fatto che non esiste una domanda già esplicitata in termini chiari da parte dei soggetti potenzialmente interessati a partecipare al mercato, ma che piuttosto essa si fondi su una serie di assunti. Occorre quindi analizzare puntualmente questi ultimi per verificarne la fondatezza, e perché, dalla loro solidità, dipende la credibilità complessiva del progetto. La prima serie di questioni afferisce alle organizzazioni che, una volta lanciato il mercato, dovrebbero intervenirvi come emittenti, cioè le Imprese a finalità sociale. 3.1. Dal lato della domanda di capitale Definizione di Impresa a finalità sociale Il progetto di borsa sociale presuppone lʼesistenza di una domanda e di unʼofferta di capitali che possano essere utilizzati per obiettivi di natura mista, al contempo finanziari e sociali. Le due dimensioni non sono in totale contrapposizione: possono essere integrate, attraverso lʼindividuazione di un punto di equilibrio. In verità, ogni attività umana è il risultato di una pluralità di pulsioni: il lavoro, lʼimpresa, lo scambio vengono realizzati certamente per generare un ritorno di tipo economico. Tuttavia, sarebbe sbagliato affermare che questo ritorno sia lʼunico obiettivo di chi li intraprende: sempre, in misura più o meno grande, si ricerca anche una componente sociale, così come può accadere che dalle relazioni interpersonali si generi una qualche forma di utilità pratica oltre alla gratificazione di aspettative di tipo affettivo o, genericamente, sociale. In altre parole, tra la relazione totalmente interessata e quella totalmente disinteressata alla dimensione
  • 8. economica cʼè una serie di possibili gradi intermedi che si sviluppano senza soluzione di continuità. LʼIfs si pone quindi più o meno a metà di questa scala, tra il for profit puro e il non profit puro. È bene rimarcare che, da un punto di vista giuridico, lʼIfs non rappresenta una categoria che si aggiunge alle forme di organizzazione oggi previste dallʼordinamento. Si tratta piuttosto di una qualifica che può essere attribuita a soggetti, più precisamente a società, che decidano di darsi una missione sociale e realizzino unʼattività dʼimpresa avendo come principale obiettivo la generazione di valore sociale e perseguano lʼequilibrio economico e finanziario in quanto presupposto per assicurarne la continuità. Quindi, le Ifs non sono affatto organizzazioni non profit, quanto piuttosto imprese che offrono un dividendo misto, risultante di componenti economiche (profitto calmierato), sociali e ambientali. Naturalmente, il punto è dimostrare lʼesistenza del valore sociale, e definire una metodologia credibile per misurarlo. Come si diceva, esiste un mercato, vasto e crescente, di beni e di servizi a elevato contenuto sociale che gli attuali operatori, sul lato dellʼofferta, non sono in grado di soddisfare. Per dimostrare questa affermazione risulta utile riprendere la definizione di Ifs e approfondirne alcuni aspetti di dettaglio. I mercati per le Imprese a finalità sociale In ordine allʼesistenza, alle dimensioni, e alle caratteristiche di una domanda oggi solo in parte definita, e in larga misura ancora latente, si registrano numerose evidenze empiriche che testimoniano il consolidarsi di una serie di tendenze coerenti tra loro. Esse si esprimono sul piano delle scelte di acquisto, negli stili di vita e negli orientamenti politici e dʼopinione. Questi processi di cambiamento sociale sono accelerati dalla accessibilità alle informazioni e dalla loro rapidità di circolazione, che facilita lʼaumento di consapevolezza da parte dellʼopinione pubblica. Una prima linea è quella secondo cui il concetto di qualità atteso da parte di utenti e consumatori non si limiti alle caratteristiche intrinseche del prodotto-servizio, ma venga esteso sino a ricomprendere anche gli impatti ambientali e sociali del processo condotto per realizzarlo. In altre parole, un «buon» capo di abbigliamento, per esempio, non è solo quello che propone un equo rapporto tra qualità e prezzo, ma quello che, altresì, è stato prodotto nel rispetto delle regole a tutela dellʼambiente, dei diritti dei lavoratori, e così via. Naturalmente, per regole si intendono sia quelle giuridiche sia quelle etiche, con la consapevolezza del valore relativo del loro significato. Di
  • 9. questo fenomeno si sono prontamente accorti numerosi operatori che hanno lanciato nuove iniziative imprenditoriali o ne hanno convertito di esistenti nel campo della salvaguardia ambientale, dellʼagricoltura biologica, dei trasporti e dellʼedilizia sostenibili, delle energie rinnovabili, del riciclo di materiali, del commercio equo e solidale, dei gruppi di acquisto solidali, dellʼeducazione, della cultura, del turismo responsabile, della finanza e degli investimenti sostenibili. Tuttavia, non è solo il campo di attività che determina il carattere «sociale» di unʼimpresa, bensì anche le modalità operative (missione, politiche, sistemi di gestione, ecc.) in base alle quali essa viene esercitata. La finalità sociale può essere propria non solo di unʼorganizzazione che opera, per esempio, nel campo del risparmio energetico, ma anche di una «normale» attività produttiva o commerciale che sia esercitata con lʼobiettivo di generare valore sociale: unʼazienda agricola che operi in unʼarea controllata dalla criminalità organizzata cercando di sottrarsi alle logiche mafiose e offrendo delle opportunità di promozione sociale, per esempio, potrebbe essere un buon esempio di Ifs. Un secondo ambito è quello che si va creando a seguito della riforma dei sistemi di welfare pubblico. Nel nostro paese (lʼesempio vale per tutte le economie avanzate, soprattutto in Europa), il Libro bianco sul futuro del modello sociale. La vita buona nella società attiva1, pubblicato, a maggio 2009, dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, indica tra i principi guida lʼimportanza del ruolo sussidiario della famiglia, dellʼimpresa (sia non profit che for profit) e di tutti i corpi intermedi, dellʼeconomia sociale di mercato, in unʼottica di superamento della rigida distinzione tra pubblico e privato. Partendo dalle tendenze demografiche in atto, il testo considera gli scenari critici che si prospettano per la sostenibilità della spesa sociale nel nostro paese. Si osserva come lʼinvecchiamento della popolazione determinerà un aumento esponenziale della spesa previdenziale e sanitaria, circostanza che richiede di «rivisitare, attraverso la formula della sussidiarietà, quella forma di governance per cui il monopolio statale sulle decisioni di spesa sui servizi sociali ha spesso favorito gli interessi dei fornitori anziché quelli dei destinatari». In questʼottica, lʼattore pubblico « (…) invece di essere il monopolista della erogazione è chiamato a determinare le linee guida degli interventi e assicurare il controllo sulla qualità dei servizi». Nel Libro bianco del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali si arriva a proporre «il superamento della distinzione tra pubblico e privato attraverso il riconoscimento alle formazioni sociali di una soggettività di rilievo pubblico anche nella programmazione dei servizi». Il tema del superamento 1Il Libro bianco è consultabile e scaricabile dal sito del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali al link: http:// www.lavoro.gov.it/NR/rdonlyres/376B2AF8-45BF-40C7-BBF0-F9032F1459D0/0/librobianco.pdf.
  • 10. della distinzione tra ruolo del settore pubblico e di quello privato è ulteriormente ribadito laddove si giudica come un grave errore lʼadozione di una visione del welfare che ne ha interpretato lo sviluppo «sulla contrapposizione tra pubblico e privato, ove ciò che era pubblico veniva assiomaticamente associato a «morale» perché si dava per scontato che fosse finalizzato al bene comune, e il privato a «immorale» proprio per escluderne la valenza a fini sociali». E ancora, nel Libro bianco: «Per farsi carico delle persone e dei loro bisogni si rende necessario, in molti contesti, il coinvolgimento di organizzazioni diverse che cooperino, attraverso la combinazione di diverse capacità e competenze, nella progettazione ed erogazione dei servizi. Si tratta di favorire, in chiave sussidiaria, lo sviluppo di reti di servizio (partecipate da operatori pubblici e privati, profit e non profit) capaci di bilanciare aspetti di competitività e di collaborazione, nella ottica di migliorare efficacia ed efficienza dei servizi. Lʼattore pubblico, da unico erogatore di servizi, diventa ora, mediante i regimi di autorizzazione e accreditamento definiti nella Legge Biagi, il soggetto che favorisce la crescita e lo sviluppo sul territorio del mercato dei servizi». Un ruolo di primo piano viene quindi riconosciuto al Terzo settore «[…] soggetto flessibile e particolarmente adeguato a inserirsi nella nuova organizzazione dei servizi e del lavoro nellʼera post-industriale […]». Sicché «enormi, e in parte non ancora esplorate, sono dunque le potenzialità del Terzo settore, nella rifondazione del nostro sistema sociale […]». In particolare, un ruolo strategico è attribuito anche al mondo cooperativo, «sintesi tra sviluppo imprenditoriale, economico e sociale […]». Insomma, un esplicito richiamo al ruolo dei soggetti che già oggi sono protagonisti dellʼeconomia sociale, e una sollecitazione a quello che il privato – for profit e non profit – dovrà assumere nel welfare sociale di mercato prossimo venturo. Non è irragionevole immaginare, quindi, che si possano delineare significative opportunità per nuovi operatori del sociale. Allʼinterno di questo quadro di riferimento, si apre uno spazio di grande rilevanza, sotto il profilo sia qualitativo che quantitativo, per unʼeconomia civile modernamente sussidiaria, sostenibile e aperta alla sfida dellʼinnovazione sociale [Becchetti, 2010]. Un terzo ambito in cui le Ifs potrebbero operare con successo è quello dei servizi pubblici locali, dalla fornitura di energia elettrica e di gas, alla gestione dei servizi idrici integrati o del ciclo dei rifiuti, ai servizi di trasporto e mobilità, fino alla gestione di infrastrutture. Nel tempo, si è passati da un sistema in cui le amministrazioni pubbliche garantivano questi servizi in prima persona a quello attuale, in cui la gestione è stata trasferita in capo a società di natura privatistica, e la cui proprietà può essere pubblica, privata o mista. In alcuni casi, porzioni più o meno ampie del capitale di queste società sono state cedute a
  • 11. soggetti finanziari o industriali, o addirittura collocate sui mercati, attraverso la quotazione in borsa. È evidente come, se da un lato la trasformazione in società per azioni può aver reso più efficienti le strutture aziendali, agendo sul piano delle procedure e degli stili manageriali, per converso la privatizzazione del capitale (che rappresenta la vera soluzione di continuità) ha finito in molti casi con lʼinfluenzare la missione stessa delle imprese, che è passata dal servizio al cittadino in condizioni di economicità alla creazione di valore per gli azionisti attraverso la fornitura di servizi ai cittadini. Questa situazione conduce inevitabilmente a frizioni tra parti portatrici di interessi divergenti, composte solo grazie al fatto che, gestendo queste società i servizi spesso in condizioni di monopolio naturale o di concorrenza limitata, non hanno dovuto confrontarsi con un contesto realmente competitivo, circostanza che avrebbe esacerbato le contraddizioni. Un esempio emblematico della problematicità di questo stato delle cose è rappresentato dalla polemica scatenatasi qualche tempo fa attorno alla qualità dei servizi di Amsa (lʼAzienda milanese servizi ambientali) in materia di pulizia della città. Come riportato su «Il Corriere della Sera» del 13 novembre 2009: «Per alcuni, politici e tecnici, lʼinizio del decadimento del servizio va fatto risalire a un passaggio preciso: lʼincorporazione di Amsa nel gruppo A2A, nato il primo gennaio 2008 dalla fusione di Aem S.p.a Milano e Asm S.p.a Brescia. Fino a quel momento, ricordano in azienda, lʼinput del comune allʼAmsa (prima con il sindaco Gabriele Albertini e poi allʼinizio del mandato dellʼattuale sindaco Letizia Moratti) era stato di chiudere il bilancio con utili modesti ma di riversare tutte le efficienze realizzate sul servizio. Ora la situazione è diversa: il comune ha un peso ridotto nellʼassetto societario, circa il 27%, e non è difficile immaginare che le indicazioni degli azionisti siano cambiate. Amsa lo scorso anno ha fatto 16 milioni di euro di utili e la previsione per lʼanno in corso è di 21. Fin qui tutto bene, se non fosse che […] la città è sporca». Ancora, dalla stessa fonte: «Gli utili devono essere allʼultimo posto – rincara lʼassessore Maurizio Cadeo, che gestisce i rapporti con lʼazienda Amsa di via Olgettina – prima devono essere garantite qualità, efficienza e flessibilità». Una affermazione del genere tranquillizza certamente i cittadini (in quanto utenti dei servizi di Amsa), ma probabilmente preoccupa o irrita gli altri azionisti, che peraltro rappresentano la maggioranza del capitale di una società quotata in borsa. Appare evidente la contraddizione tra una missione formalmente orientata al servizio alla comunità e una struttura proprietaria che spinge per la massimizzazione del profitto. Il fatto che la situazione richieda un intervento di riforma è testimoniato anche dal successo della raccolta di firme per il referendum sulla cosiddetta privatizzazione dellʼacqua, che ha dimostrato la forte sensibilità dei cittadini su questo fronte. Tuttavia, a ben vedere, da dove nasce il problema? Non tanto dalla natura della società, quanto
  • 12. dalle divergenti aspettative degli azionisti: infatti, non tutti gli investitori, solo perché tali, condividono i medesimi obiettivi; ce ne possono essere alcuni (come la amministrazioni locali) interessati alla continuità dellʼimpresa, altri (come taluni investitori istituzionali) alla crescita di valore del titolo nel lungo periodo, altri ancora (come gli investitori speculativi) al ritorno nel breve termine. Ecco che, allora, la quotazione in un mercato specifico, dedicato a imprese che dichiarino e perseguano una missione innanzitutto sociale, finisce col selezionare gli investitori in base alla natura dei loro obiettivi e riduce la contrapposizione tra interessi. Un investitore con un obiettivo (anche) sociale può accettare lʼidea che unʼazienda di trasporto pubblico locale, per esempio, riduca i propri margini per mantenere attive delle linee poco o per nulla profittevoli, ma che mantengono un legame con una comunità remota, che, senza quel collegamento, rimarrebbe isolata. La questione, come abbiamo già accennato e meglio diremo avanti, riguarda quindi la misurazione del valore sociale di questo servizio, al fine di dimostrare agli azionisti che la loro rinuncia a una parte della componente economica dellʼinvestimento è stata bilanciata dalla produzione di un beneficio per la comunità.
  • 13. Il vantaggio competitivo delle Imprese a finalità sociale Dopo aver fornito una prima definizione di Ifs e dopo aver indicato una serie di ambiti in cui esse potrebbero operare con successo, occorre spiegare perché le Ifs potrebbero riuscire meglio delle imprese for profit tradizionali o delle altre organizzazioni non profit. Su questo argomento, vi sono, allʼinterno di questo volume, altre riflessioni, lucide e calzanti, supportate da argomentazioni che partono da teorie solide (si veda in questo volume, ad esempio, il contributo di I. Colozzi sulla «distintività» come elemento di valorizzazione delle imprese dellʼeconomia civile). Per parte nostra, si ritiene che una possibile risposta sia collegata allʼosservazione di due fattori: la natura dei beni e dei servizi oggetto di scambio, e la scalabilità dei modelli di business a essi collegati. Come si diceva, il carattere sociale delle Ifs non è determinato tanto o solo dal tipo di prodotto/ servizio offerto, quanto più dal fine (cui si collegano intimamente mezzi e risorse) per cui questi vengono realizzati. La medesima attività – per esempio la cura di un anziano – può essere fatta per motivi puramente economici (lo stipendio per la badante, la retta per la casa di riposo) o per motivi non economici, bensì sociali, in senso ampio (la relazione affettiva). Per conseguenza, nel primo caso lʼanziano curato (anche bene, non è questo il punto) diventa il mezzo per un fine altro da lui. Nei due casi, anche la più banale delle operazioni assume un senso e un valore diverso e ciò perché sono in gioco beni relazionali. Questa rappresentazione ovviamente semplifica oltremodo la realtà: le motivazioni possono essere miste (non è detto, per esempio, che la badante o lʼinfermiere della casa di cura siano necessariamente privi di alcun legame affettivo con lʼanziano), ma, in ultima analisi, la prevalenza dellʼuna o dellʼaltra componente finisce col determinare la natura della relazione. Ora, non vʼè dubbio sul fatto che il modello di servizio proposto dal non profit abbia teso a enfatizzare il valore della relazione rispetto a quello del corrispettivo economico e viceversa, per i soggetti for profit. Se lʼobiettivo di unʼimpresa che gestisce una residenza per anziani è quello di ricavare da questa attività il massimo profitto possibile, chi ne ha la responsabilità è portato ad aumentare i ricavi, per esempio cercando di alzare le tariffe o forzando lʼerogazione di prestazioni anche non necessarie, oppure a ridurre i costi, per esempio utilizzando materiali di scarsa qualità o impiegando personale con basse qualifiche, o a contenere i rischi, per esempio evitando di accogliere ospiti con limitata capacità di reddito. Probabilmente, questa tensione finirà con lʼinfluenzare anche la relazione con i dipendenti, che potrebbero trasferire la loro insoddisfazione nel modo in cui, per esempio, si rapportano con i pazienti. E tutto questo senza incorrere in violazioni esplicite di norme di legge o contrattuali.
  • 14. Semplicemente, il manager sarà inevitabilmente portato a privilegiare gli interessi del gruppo cui sente di dover rispondere in prima istanza, cioè gli azionisti. Lʼesperienza peraltro dimostra come, in una situazione del genere, la prevenzione di comportamenti opportunistici sia possibile solo a costo di un sistema di controllo non sempre efficace e comunque molto costoso. Quindi, possiamo affermare che la formula che prevede lʼassenza di scopi di lucro, per definizione, funzioni meglio ai fini della qualità della relazione col beneficiario del servizio. Questa circostanza si realizza peraltro anche in ambiti in cui la componente relazionale è meno evidente: nellʼacquisto di un prodotto alimentare biologico, per esempio, la relazione è quasi esclusivamente commerciale; nondimeno, il grado di fiducia che può ottenere un fornitore che sia animato da obiettivi meramente lucrativi è evidentemente minore rispetto a quello che riesce a garantirsi uno che abbia una forte e dichiarata motivazione intrinseca. Come detto, insomma, lʼimpresa for profit «pura» che si qualifichi come socialmente responsabile è, in generale, meno credibile, perché utilizza la leva sociale come mezzo e non come fine e quindi strumentalizza la relazione con i propri interlocutori. Per converso, proprio questi soggetti portatori di un capitale fiduciario e di reputazione di così grande valore, difettano di mezzi e di risorse per candidarsi a svolgere un ruolo da protagonisti nel mercato. Oggi, il mondo del Terzo settore inteso in senso ampio – dal volontariato alla cooperazione sociale – appare complessivamente inadeguato. Esso è caratterizzato dalla presenza di una moltitudine di operatori, mediamente molto piccoli, poco coordinati tra loro, spesso privi di strumenti manageriali avanzati, dotati di risorse materiali, finanziarie e culturali non allʼaltezza di una sfida che appare fuori dalla loro portata. Questi operatori difendono (per certi versi molto giustamente) il proprio portato identitario, e si dimostrano sospettosi verso forme di contaminazione con gli strumenti dellʼeconomia di mercato. Realizzano una funzione di testimonianza fondamentale, ma sembrano volersi limitare a svolgerla per quel che è, senza cogliere il potenziale di cambiamento che si potrebbe realizzare tentando un salto di scala. Lo stesso Forum nazionale del Terzo Settore, nel Libro verde del Terzo settore. Le sfide dellʼItalia che investe sul futuro, pubblicato a giugno del 2010, stigmatizza la delicata fase di transizione del movimento, e individua alcune importanti prospettive strategiche per uscire da una situazione di empasse politica e organizzativa attraverso una «nuova stagione costituente». La situazione, nel suo complesso, presenta le caratteristiche di un circolo vizioso: si profila lʼopportunità di una domanda ampia e in crescita, che rischia di rimanere insoddisfatta perché quelli che avrebbero le capacità imprenditoriali e le risorse per coglierla mancano della credibilità necessaria e, viceversa, quelli che lʼavrebbero difettano delle prime.
  • 15. Lʼidea dellʼIfs propone, quindi, una sintesi felice del buono dellʼuno e dellʼaltro modello: da un lato, ha la natura giuridica della società commerciale e quindi è adatta allʼesercizio dellʼattività imprenditoriale nella sua forma più limpida, può accedere al mercato dei capitali, si presta a una crescita di scala; dallʼaltro, conserva le motivazioni intrinseche dellʼorganizzazione non profit, essendo la missione orientata non alla massimizzazione del profitto, ma alla creazione di valore sociale. La proposta dellʼIfs non viene formulata «contro» il Terzo settore né «contro» lʼeconomia capitalista: può rappresentare unʼevoluzione per entrambi. Lʼauspicio, infatti, è che non solo possano nascere soggetti del tutto nuovi che si vogliano dare questa struttura, ma anche che operatori che oggi utilizzano le forme tradizionali di organizzazione aziendale vogliano convergere verso il modello dellʼIfs. Da questo punto di vista, borsa sociale si pone un ambizioso obiettivo di civilizzazione del mercato, cioè di trasformazione di meccanismi consolidati verso forme nuove, orientate a fini non egoistici. Oltre a offrire una soluzione per specifici problemi finanziari, il successo di borsa sociale potrebbe avviare un percorso di cambiamento più vasto, contaminando gli «altri» mercati e innescando processi di imitazione orientati a modelli più virtuosi. Si potrà obiettare che le forme attraverso cui lʼeconomia sociale ha operato sino a oggi, tipicamente, quelle dellʼassociazione e della cooperativa, siano per loro natura più democratiche (basandosi sul principio «una testa, un voto»), e quindi riescano meglio a esprimere la componente di promozione della persona umana che è insita nellʼidea di unʼimpresa a finalità sociale. Nelle società di capitali (che si basano, nella migliore delle ipotesi, sul principio «unʼazione, un voto»), invece, il potere di ultima istanza sta nelle mani di chi ha la maggioranza delle quote. In unʼottica di democrazia economica, quindi, il modello delle organizzazioni di persone offrirebbe un quadro più favorevole. Ciò è senzʼaltro vero, però, a ben vedere, più in teoria che in pratica. Anzitutto, lʼesperienza ci dimostra come in realtà le cooperative e le associazioni – sia le piccole sia, per motivi e con modalità diversi, le grandi – possano essere gestite in modo tuttʼaltro che democratico, in più, da un punto di vista fattuale, non esistono ostacoli insuperabili allʼapplicazione di regole democratiche alle società di capitale. La partecipazione degli stakeholders, infatti, dipende più dalle regole autonome dellʼorganizzazione (a partire dallo statuto) che dalle norme dellʼordinamento giuridico generale. Gli stili di gestione e i sistemi di corporate governance2 dipendono solo in parte dagli assetti proprietari, e possono essere anche fortemente 2 È lʼinsieme di regole, relazioni, processi e sistemi aziendali che definiscono la distribuzione dei diritti e delle responsabilità tra i partecipanti (dirigenti, amministratori, azionisti, dipendenti e altre parti interessate) alla vita di una società.
  • 16. orientati in un senso o nellʼaltro, previo lʼaccordo dei soggetti che collaborano alla realizzazione del sistema-impresa. Peraltro, abbiamo affermato pocʼanzi che la qualifica di Ifs rappresenta un attributo delle società di capitale, quindi non tanto un dato che si acquisisce una volta per tutte, in base a una dichiarazione dʼintenti, quanto piuttosto una circostanza la cui sussistenza deve essere continuamente provata, attraverso una serie di dimostrazioni verificabili. Si può naturalmente discutere se lʼidea dellʼIfs così come qui definita sia la migliore possibile, ma occorre anche considerare i rischi del criticarla senza proporre alternative e finendo per non fare alcunché. Lʼevoluzione del mercato, per amore o per forza, avverrà comunque, perché le tendenze sopra delineate sono ormai nelle cose. Il pericolo è che questi nuovi mercati vengano coperti dai soggetti «sbagliati». Già oggi, per fare un esempio, le gare per la fornitura di servizi nel settore socio-sanitario bandite dalla pubblica amministrazione pongono requisiti di partecipazione sempre più stringenti e richiedono i livelli di efficienza gestionale tipici di soggetti che realizzano economie di scala. Le piccole cooperative sociali, che hanno svolto in passato e continuano a svolgere un ruolo di innovazione sociale importante, rischiano di venire tagliate fuori e di vedersi sopraffare da grandi operatori for profit che hanno a disposizione risorse inimmaginabili per loro. Alla fine, anche il favore di cui il Terzo settore ha in qualche modo beneficiato (a volte anche solo in nome del «politicamente corretto») non potrà più garantire condizioni di vantaggio o di privilegio. Occorrerà perciò concorrere nel mercato, con gli strumenti del mercato, ma – e qui risiede il fattore di vantaggio competitivo fondamentale – mantenendo le finalità sociali dellʼimpresa, circostanza che qualifica lʼoperatore e distingue i servizi e i prodotti che offre. I bisogni finanziari delle Ifs e i fattori di resistenza alla quotazione Per le Ifs, così come per qualsiasi tipo di impresa, un buon equilibrio finanziario è dato da un mix di capitale di rischio, di debito a lungo e di debito a breve termine. Ciascuna di queste forme di finanziamento risponde a determinate esigenze dellʼimpresa, che a propria volta dipendono dalla natura della sua attività, dalla fase di sviluppo che sta attraversando e, soprattutto, dai suoi obiettivi strategici. Se è fondato uno dei presupposti di partenza del nostro ragionamento, e cioè che il mercato potenziale delle Ifs non sia una nicchia per operatori politicamente orientati, ma una porzione importante del mainstream, allora la prospettiva da sostenere è una strategia di crescita duratura. Di qui la necessità di dotarsi di provviste consistenti di capitale di rischio. Uno degli effetti dei fenomeni di globalizzazione dei mercati è proprio il premio alle economie di scala; questo non significa che sia auspicabile la nascita di multinazionali del sociale, ma che i
  • 17. fattori che hanno consentito la sopravvivenza delle forme imprenditoriali del non profit fino a oggi (specializzazione, radicamento territoriale, cura delle relazioni locali) non saranno più sufficienti in un quadro di concorrenza allargata, in cui contano anche le dimensioni. Le Ifs, siano essi soggetti del tutto nuovi o risultato della trasformazione di soggetti esistenti (for profit o non profit) dovranno quindi dotarsi di robusti mezzi finanziari propri se vorranno giocare un ruolo da protagonisti nel mercato. Per ragioni diverse, né il credito bancario né il debito, né tantomeno lʼautofinanziamento possono soddisfare efficacemente questo bisogno. In verità, lʼeccessivo ricorso al credito a breve è un problema più generale che riguarda quasi tutte le piccole e medie imprese italiane, che sono mediamente sottocapitalizzate sia rispetto al giro dʼaffari che sviluppano, sia alle esigenze di crescita richieste dal mercato. È di tutta evidenza che il problema dellʼequity stia nel fatto che al possesso delle quote sono collegati i diritti di voto in assemblea, cosa che, ovviamente, ha un impatto sul governo societario. Gli imprenditori italiani, sociali o meno che siano, hanno sempre visto con sospetto la presenza di investitori esterni nel capitale della «propria» impresa. In società in cui non cʼè per nulla o quasi distinzione tra proprietà e gestione, manca la cultura dellʼazione guidata da strategie formalizzate e condivise, ispirata da principi di trasparenza e verificata dallʼapplicazione di regole di accountability (cioè di responsabilità, intesa come rendiconto sulle attività svolte, condivisione e capacità di fornire prestazioni). Questi limiti si ritrovano addirittura accentuati nelle diverse forme di organizzazioni sociali oggi operanti, per il fatto che la nobiltà della missione è stata talvolta utilizzata come alibi per giustificare lʼinefficienza, lʼopacità, il familismo. Per altri versi, nel non profit italiano, i richiami a una gestione più manageriale dellʼorganizzazione sono stati visti come una pericolosa deriva aziendalista, la cui applicazione non poteva che snaturare la missione sociale. In ultima analisi, imprenditori for profit e manager del non profit, per una ragione o per lʼaltra, preferiscono la protezione di una confortante autoreferenzialità ed evitare di realizzare una misura, come lʼaccesso al mercato dei capitali, che invece in molti casi sarebbe salutare per lʼimpresa. Da questo punto di vista, la proposta di una borsa sociale si pone anche come sfida, nella prospettiva di unʼevoluzione del mercato nel senso di una maggiore efficienza e di una maggiore trasparenza. Come detto in precedenza, al momento le Ifs rappresentano più un riferimento a cui tendere che una realtà ben definita, ma esistono tuttavia diversi soggetti caratterizzati da un sistema gestionale responsabile e dallʼesercizio di attività specifiche che potrebbero rientrare in questa definizione, o comunque evolvere verso il modello in questione. Ci riferiamo in particolare a tre tipologie di imprese: Ifs di capitali, Ifs cooperative, e Ifs derivate
  • 18. da Organizzazioni non profit (Onp). Le Ifs di capitali sono società per azioni che possono accedere al mercato delle partecipazioni al capitale solo a seguito di una valutazione rigorosa del modello gestionale e degli impatti socio- ambientali generati dallʼattività. La trasformazione di una impresa tradizionale in una Ifs può apparire un passaggio semplice, come fosse una certificazione, ma in realtà si tratta di una profondo cambiamento della cultura e del modello aziendale. Le azioni emesse da imprese sociali devono avere caratteristiche uniformi e standardizzate e soprattutto non avere formalità di cessione che ne impediscano il trasferimento in modo efficiente e immediato. Le quote di società a responsabilità limitata non sono quotabili, in quanto non sono rappresentate da titoli di credito e potenzialmente sono diverse tra di loro, dato che le caratteristiche vengono decise volta per volta dai soci, e non sono scambiabili liberamente a causa delle formalità richieste per la loro cessione. Una seconda tipologia di Ifs potrebbe derivare dalle cooperative che svolgono attività ad alto valore sociale, e da cooperative sociali di tipo A e B. Anche in questo caso è necessaria una trasformazione molto importante che intacchi la natura stessa del modello cooperativo, ovvero lʼeliminazione dal proprio statuto del divieto alla distribuzione degli utili ai soci. In linea di principio le cooperative sociali, istituite dalla l. 381/1991, sono enti non profit che non hanno come obiettivo la distribuzione del reddito ai soci quanto piuttosto il perseguimento dellʼinteresse generale della comunità attraverso la realizzazione della missione produttiva. Tuttavia, al pari delle cooperative ordinarie, una cooperativa sociale può prevedere entro certi limiti la distribuzione di una quota di utili ai propri soci (art. 8, l. 59/1992). Nelle cooperative è prevista poi la figura del socio sovventore i cui conferimenti sono rappresentati da azioni trasferibili e il cui trattamento in sede di distribuzione o di liquidazione degli utili può essere favorito dallo statuto (remunerazione superiore agli altri soci fino al 2%). Lo stesso trattamento spetta ai possessori delle azioni di partecipazione cooperative che possono essere emesse per finanziare progetti di sviluppo e investimento pluriennali. Tali azioni sono offerte anche al pubblico e anchʼesse garantiscono al portatore una remunerazione maggiorata del 2% rispetto a quella delle quote o delle azioni dei soci della cooperativa. Grazie a queste caratteristiche, le cooperative sociali sono lʼunico soggetto del Terzo settore che possa accedere direttamente al mercato azionario, almeno da un punto di vista teorico. Per tutte le organizzazioni senza scopo di lucro e tutte le imprese del mondo non profit che svolgono attività commerciale o non commerciale, ma che sono accomunate dal divieto di distribuzione dellʼutile, lʼaccesso diretto al mercato «azionario» di capitale sociale sembra precluso. Per le
  • 19. associazioni e le fondazioni che non sono costituite in forma societaria o che comunque non possono ripartire il capitale sociale in quote alienabili e negoziabili, lʼaccesso è negato per definizione. Tuttavia, è possibile ipotizzare una soluzione che porti a una terza tipologia di Ifs, ovvero la costituzione di società-veicolo, cioè unʼimpresa di capitali le cui quote o azioni siano in maggioranza delle Organizzazioni non profit (Onp). In questo modo, la nuova società diventa lo strumento operativo per le attività economiche promosse dallʼOnp. Per non incorrere nei limiti posti allʼattività commerciale delle Onlus, il capitale della società potrebbe essere aperto anche alla partecipazione di altri investitori, fermo restando che opportune previsioni statutarie assicurino alla Onp il controllo sulla strategia e sulle scelte operative fondamentali. La società- veicolo così formata avrebbe le caratteristiche per accedere al mercato dei capitali, e quindi rientrare nel percorso virtuoso che abbiamo identificato per le Ifs. Non cʼè dubbio sul fatto che questo tipo di operazioni possa presentare profili di una certa problematicità per le Onp più piccole: lo sforzo e il costo per mettere in moto un processo di tale complessità, infatti, si giustificano solo nel caso di iniziative dalla consistente portata economica. Questo ostacolo potrebbe essere superato attraverso la creazione di consorzi di Onp prossime per scopo o per natura: così facendo, ciascuna, in proporzione al proprio impegno, potrebbe poi utilizzare la società-veicolo come strumento per le proprie attività e per lʼapprovvigionamento di capitale. Né va nascosto il rischio che si creino le condizioni, se le cose non vanno per il verso giusto, di conflitto tra le Onp partner, che potrebbero riflettersi negativamente sulla governance e, alla fine, sullʼoperatività della Ifs di cui sono socie. Si tratta di un rischio che va affrontato e gestito se è vero, come argomenta A. Propersi in questo stesso volume, che occorre pensare a nuovi canali di finanziamento per il Terzo settore, a fronte di una crisi strutturale delle forme di cui si era servito fino a tempi recenti. 3.2. Dal lato dellʼofferta di capitale Naturalmente, il successo di borsa sociale dipende in misura importante anche dalla volontà degli investitori di parteciparvi. Quindi, la questione che si pone è se esista unʼofferta di capitale corrispondente. A questo fine, occorre verificare sia la coerenza degli obiettivi dei potenziali investitori con quelli del mercato, sia la consistenza delle masse teoricamente necessarie o anche solo sufficienti per assicurarne lʼefficiente funzionamento.
  • 20. Con riferimento al primo punto, è utile prendere a riferimento il fenomeno del cosiddetto investimento responsabile o sostenibile. Si tratta dellʼintegrazione di considerazioni di tipo ambientale, sociale, di governo societario o etico (in inglese, Environment, Social and Governance, da cui lʼacronimo ESG, cui a volte si aggiunge la E di Ethics) nelle scelte di investimento. In altre parole, lʼinvestitore non guarda solo ai fondamentali economici e finanziari, alle prospettive di rischio e di rendimento atteso e alle altre variabili tipiche, ma prende in esame anche le politiche e i risultati delle società oggetto di analisi in ordine a una serie di criteri, detti appunto (e non del tutto correttamente) extra-finanziari. Questi investitori possono essere motivati da spinte di natura morale (nel senso che non vogliono che i loro denari siano utilizzati per finanziare attività considerate inaccettabili dal punto di vista etico) o da valutazioni di tipo opportunistico (nel senso che ritengono le imprese che gestiscono con attenzione le variabili ESG- E meno esposte a taluni tipi di rischio o più pronte a cogliere le opportunità di un mercato in cambiamento) o da un bilanciamento delle due. Il ragionamento è del tutto speculare, mutatis mutandis, a quello che si faceva con riferimento al mercato dei beni e dei servizi. Senza analizzare qui in modo approfondito le caratteristiche del fenomeno [Landier e Nair, 2008), può bastare dire che esso è ormai uscito ben oltre la nicchia della testimonianza e si propone come stile di gestione finanziaria pienamente integrato nel sistema mainstream [Eurosif, 2010]. Per certi versi, tuttavia, proprio in questo sta il suo limite: così come la corporate social responsibility rappresenta unʼevoluzione dei modelli capitalistici di gestione dellʼimpresa, ma non ne mette in discussione i fondamenti, lʼinvestimento responsabile è unʼevoluzione della pratica dellʼinvestimento di cui, però, non intacca i presupposti. Si tratta cioè di un ampliamento del numero e della qualità delle variabili da prendere in considerazione nella valutazione della profittabilità futura dei titoli di una società, la cui importanza relativa dipende dalla misura in cui ciascuna è in grado di influenzarne la performance. Da questo punto di vista, perciò, non è da questa forma di investimento che ci si può aspettare una rivoluzione del modo di fare impresa, anche se non cʼè dubbio che essa abbia fortemente contribuito a rendere lʼeconomia più attenta alle aspettative della società sui temi ambientali e sociali. Per sostenere le Ifs, che invece si candidano a innovare radicalmente i modelli di business, occorre rifarsi a un concetto più recente e, se è consentito il termine, più «estremo», cioè quello di impact investment, che comprende ogni forma di investimento profittevole che volutamente generi un beneficio sociale misurabile. Questa definizione, che guarda soprattutto agli output, cioè ai risultati, dellʼattività oggetto di investimento, mette in luce tre punti fondamentali, che
  • 21. rappresentano le caratteristiche distintive rispetto ai modelli correnti di investimento responsabile: la profittabilità, la volontà degli effetti sociali e la loro misurabilità. Il primo aspetto chiarisce che ci si muove comunque nella logica della gestione finanziaria e non della filantropia. Quando si diceva che le Ifs devono operare nel mercato, sʼintendeva, appunto, che del mercato devono rispettare le regole, una delle quali è che il rischio dellʼinvestitore va remunerato. Ciò non vuol dire che lʼinteresse dellʼinvestitore sia lʼunico o il principale obiettivo dellʼimpresa, ma che la creazione di un plusvalore economico non può essere negletta. Il secondo punto è forse il più significativo, nel senso che segna una chiara discontinuità con le pratiche di corporate social responsibility: infatti, in un certo senso qualsiasi attività economica genera un effetto sociale, se non altro per il fatto che crea occupazione, che permette allʼindividuo di partecipare alla soddisfazione dei bisogni della comunità attraverso la contribuzione fiscale, che si alimenta un indotto di forniture, eccetera. Ma questi sono, come si diceva, dei sottoprodotti dellʼattività dʼimpresa, non il risultato di un obiettivo perseguito in modo esplicito. Sullʼimportanza, infine, della misurabilità dellʼimpatto sociale vale la pena spendere ancora qualche parola. Lʼinvestimento «di impatto» è, in un certo senso, la forma più avanzata di investimento responsabile. Questo non significa, tuttavia, che esso sia riservato a investitori militanti. Per identificare gli attori dellʼofferta, occorrerà individuare tra gli investitori che si sono dati delle politiche di gestione finanziaria sostenibile quelli più orientati alla dimensione sociale rispetto a quella economica, immaginando che, anche in questo caso, ci sia una continuità che lega a un estremo quelli totalmente speculativi, e allʼaltro quelli totalmente «etici». O meglio, per esprimere il medesimo concetto in termini diversi, ipotizzando che vi siano soggetti che sono disposti a orientare la totalità del proprio patrimonio verso un investimento con valenze sociali, altri che lo sono per una parte più o meno ampia di esso, altri ancora che non lo sono per nulla. Dal punto di vista dellʼidentità di questi investitori, entrambe le macrocategorie in cui tipicamente si segmenta il mercato, quelle degli investitori istituzionali e degli investitori retail3 , possono essere teoricamente interessate ad acquisire quote di Ifs. Tra i primi, un ruolo particolare potrà essere giocato da quelli che hanno essi stessi una natura non profit, come le fondazioni (in particolare, quelle di origine bancaria) o gli enti religiosi. Da questo punto di vista, rileva il concetto di mission related o program related investment: si tratta di investimenti che offrono rendimenti attesi più bassi di quelli di operazioni puramente finanziarie, ma che producono degli effetti 3 Un investitore istituzionale è un operatore economico (società o ente) che effettua considerevoli investimenti in maniera sistematica e cumulativa, disponendo di ingenti possibilità finanziarie proprie o affidategli; un investitore retail, invece, è un operatore in beni dʼinvestimento che agisce per proprio conto, un individuo che investe il proprio patrimonio.
  • 22. coerenti con gli obiettivi dellʼorganizzazione. Così, per esempio, una fondazione per la ricerca scientifica potrebbe, oltre che investire il proprio patrimonio secondo logiche tradizionali e poi utilizzare i profitti per finanziare a fondo perduto dei progetti specifici proposti da terzi, investire direttamente nel capitale di questi enti e sostenerli fornendo loro risorse per una stabile crescita di lungo periodo. Lʼesito di questa operazione è quindi un dividendo misto, prodotto di una componente economica e di una componente sociale (data, in questo caso, dallo sviluppo dellʼorganizzazione finanziata e dalla sua accresciuta capacità di produrre studi di valore). Dal punto di vista della fondazione, il risultato è comunque positivo o neutro, poiché il patrimonio viene conservato o, auspicabilmente, incrementato, e si realizza un beneficio in linea con la sua missione. Quantomeno, verrebbe evitata la contraddizione potenziale (invero abbastanza probabile, soprattutto nel caso di investimenti passivi in indici generici) per cui lʼinvestimento fatto secondo logiche puramente finanziarie finisca con lʼaiutare imprese che gestiscano attività i cui effetti siano contrari agli obiettivi della fondazione. Naturalmente, per altri investitori istituzionali che invece abbiano ricevuto dai propri mandanti un obiettivo di natura puramente finanziaria (comʼè il caso dei fondi pensione, il cui scopo è gestire il risparmio previdenziale degli aderenti al fine di offrire loro la pensione più lata possibile), lʼinvestimento in Ifs sarebbe più difficile da giustificare. Il vincolo più complesso da gestire per un investitore istituzionale è quello della liquidità dei titoli delle Ifs, e quindi della possibilità reale di garantirsi strategie di uscita a condizioni non sfavorevoli in caso di necessità. Il vantaggio dellʼinvestimento in società a grande capitalizzazione sta anche nel fatto che, al netto delle condizioni generali del mercato, è sempre possibile vendere la propria partecipazione avendo quasi la certezza che vi sia un acquirente interessato a subentrare. Questa circostanza potrebbe non verificarsi in una borsa sociale con un limitato numero di emittenti e di investitori e quindi con un modesto volume di scambi. Il problema, che certamente esiste, può essere circoscritto, se non eliminato, attraverso una serie di accorgimenti, come il contenimento della quota di patrimonio investita in titoli a rischio di illiquidità, la distribuzione dellʼinvestimento su un numero di titoli relativamente ampio, la sottoscrizione di opzioni di vendita avendo come controparte il primo collocatore (sul ruolo dello sponsor, si veda oltre), lʼapertura del mercato secondario agli investitori retail. Nel campo degli investitori privati retail, famiglie non high net worth, che non possiedono cioè un patrimonio netto alto, valgono in buona misura le considerazioni svolte sopra circa la crescente domanda di beni e di servizi ad alto valore sociale aggiunto: se è vero che è in aumento la quota di
  • 23. consumatori interessati alle componenti ambientali e sociali dei propri acquisti, è probabile che essi stessi siano disposti a investire una quota, anche relativamente contenuta, dei propri risparmi nelle società che li producono. Una ulteriore possibilità di attirare investitori individuali verso le Ifs è la dimensione locale dellʼimpatto che alcune di esse possono produrre. Nel caso di società concentrate su servizi a valenza territoriale, come per esempio quelli erogati nel settore delle utilities (elettricità, gas, acqua, telefonia, ecc.), o della sanità, o anche dellʼeducazione e dellʼanimazione culturale, il fatto di poter beneficiare, direttamente o indirettamente, o comunque di toccare con mano i risultati generati nella comunità, rappresenta un incentivo al sostegno di queste imprese. Si può creare un legame virtuoso, alimentato anche in questo caso da un dividendo misto, il che costituisce unʼinteressante prospettiva di partecipazione e di democrazia economica reale. Sia per lʼuna categoria sia per lʼaltra è difficile azzardare stime quantitative. Dal nostro punto di vista, gli studi sulla teorica disponibilità degli investitori ad avvicinarsi a forme alternative di gestione finanziaria (tipicamente basati su interviste) non sono particolarmente affidabili, in quanto spesso viziati dal rischio di risposte che, non essendo impegnative, vengono date con lʼobiettivo implicito di compiacere lʼintervistatore e di apparire più politicamente corretti di quanto non si sia in realtà. Sembra più utile, allo scopo di valutare la sostenibilità di borsa sociale, porre la questione in termini opposti, cioè domandarsi quanto risparmio sia necessario per assicurare la copertura dei primi collocamenti e un adeguato numero di scambi nel tempo. Dalle prime valutazioni svolte in sede di ricerca, si è stimato che il funzionamento di borsa sociale possa reggersi con alcune decine di Ifs quotate nellʼarco di circa cinque anni dallʼavvio, con un flottante complessivo prossimo a 200 milioni di euro. Anche negli scenari più pessimistici, questa cifra, che rappresenta una frazione decimale del risparmio gestito italiano, appare tuttʼaltro che impossibile da raggiungere. Va peraltro sottolineato che questo risultato non è lʼobiettivo (che sarebbe affatto modesto), bensì la soglia minima per la sostenibilità della macchina necessaria alla gestione del mercato. Livelli di scala superiore potrebbero facilmente essere raggiunti se il meccanismo dimostrerà di funzionare e di produrre i risultati attesi a beneficio di tutti i soggetti che vi partecipano. La sollecitazione allʼinvestimento in Ifs può passare attraverso lʼutilizzo di leve diverse nel mercato istituzionale e retail. Nel primo caso, la questione è, prima di tutto, politica. I problemi tecnici, come quelli del rischio di underperformance (che avviene quando il rendimento differenziale di un investimento rispetto a un indice preso a riferimento risulta negativo), o di illiquidità, possono essere gestiti in un modo o nellʼaltro; quello che però non può mancare è una
  • 24. scelta a priori che dia una copertura complessiva alle scelte operative. Non perché le tesi sopraesposte non siano sostenibili dal punto di vista teorico, quanto perché propongono unʼinnovazione degli schemi logici entro cui ci si è mossi nel passato e quindi richiedono una esplicita dichiarazione di volontà. Per quanto riguarda i risparmiatori privati, invece, il fattore determinante sarà probabilmente il ruolo che vorrà giocare la distribuzione. Nel mercato finanziario italiano, infatti, le scelte di investimento dei piccoli investitori, in un contesto di modesta educazione finanziaria, sono fortemente orientate dalle reti di vendita (di banche, assicurazioni e promotori finanziari). Si pone un problema di capacità di questi intermediari di trasferire il valore innovativo dellʼinvestimento in Ifs e, dallʼaltro, creare un sistema di incentivo che quantomeno non renda particolarmente penalizzante il collocamento di titoli di Ifs rispetto ad altri strumenti concorrenti. 4. Il funzionamento di borsa sociale Il modello di borsa sociale si configura come un mercato di strumenti finanziari dedicati, in cui si scambiano prevalentemente partecipazioni (titoli azionari) di Ifs, ma non si esclude la possibilità che titoli ibridi di quasi-equity e obbligazioni convertibili4 possano essere quotati in un secondo momento. Nel corso dello studio di prefattibilità già citato, alcuni degli esperti coinvolti hanno espresso delle perplessità al riguardo, ritenendo più facilmente percorribile lʼipotesi di un mercato per titoli di debito. La preferenza per un mercato azionario risponde a due esigenze: a. la soddisfazione dei bisogni finanziari più impellenti delle Ifs; b. la prospettiva di una vasta partecipazione di investitori privati retail. A nostro avviso, il solo ricorso al finanziamento con emissioni di titoli di debito non è adeguato a soddisfare i bisogni finanziari delle Ifs, in quanto richiede il pagamento costante di interessi sul debito contratto. Questo vincolo può mettere a dura prova le casse di una Impresa a finalità sociale con limitate capacità finanziarie, inoltre non contribuisce a risolvere il problema strutturale di sottocapitalizzazione. Occorre sottolineare che il possesso di un titolo di debito non attribuisce 4 Per quasi-equities sʼintendono quegli strumenti finanziari il cui rendimento per colui che li detiene si basa principalmente sui profitti o sulle perdite dellʼimpresa destinataria, e che non sono garantiti in caso di cattivo andamento delle imprese; diversamente, lʼobbligazione convertibile è un titolo di debito il cui rimborso può avvenire, a discrezione del sottoscrittore, attraverso la consegna di titoli di altra specie e di uguale valore.
  • 25. diritti decisionali o di amministrazione della società, ma è un prestito contratto dalla medesima, dunque lascerebbe invariata la proprietà riducendo le resistenze che si presentano in caso di equità. In linea teorica, le obbligazioni possono essere emesse da società per azioni e da società a responsabilità limitata. A differenza del vecchio art. 2486 c.c., infatti, che vietava alla società a responsabilità limitata lʼemissione di obbligazioni, il nuovo art. 2483 c.c. stabilisce che «se lʼatto costitutivo lo prevede, la società a responsabilità limitata può emettere titoli di debito […]». La stessa opportunità di emettere titoli obbligazionari è riconosciuta alle cooperative dallʼart. 2526 che sancisce che «lʼatto costitutivo può prevedere lʼemissione di strumenti finanziari secondo la disciplina prevista per le società per azioni e stabilisce i diritti di amministrazione e patrimoniali attribuiti ai loro possessori e le eventuali condizioni per il trasferimento di tali strumenti». Tuttavia permane una sostanziale incompatibilità della scala dimensionale richiesta per lʼemissione di questi strumenti finanziari con lʼistituito dellʼImpresa a finalità sociale. Le obbligazioni potrebbero essere adeguate solo nei casi di imprese mature che abbiano consolidato il proprio business a valenza sociale e che siano in grado di garantire il pagamento di interessi e il rimborso del capitale ricevuto. Dal punto di vista degli investitori, questi titoli potrebbero soddisfare esigenze di investitori sensibili ai temi sociali e ambientali, ma allo stesso tempo essere avversi a profili di rischio troppo elevati. Tuttavia – ecco il secondo punto – la sottoscrizione di tali titoli è possibile esclusivamente da parte di investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali (banche, sim, sicav, ecc.), e cioè da parte di soggetti in grado di compiere unʼeffettiva valutazione del rischio e della solvibilità della società; successivamente, le obbligazioni possono anche essere alienate a risparmiatori che non siano investitori professionali, soci o non soci, e anche a dipendenti della società, tuttavia si sottolinea che chi trasferisce i titoli risponde della solvenza della società nei confronti degli acquirenti che non siano a loro volta investitori professionali o soci della società. Tutte le altre categorie di enti non profit (diversi dalle società e dalle cooperative) potrebbero ricorrere a strumenti di finanziamento alternativi, alcuni dei quali, purtroppo, stentano ancora a prendere piede. Ci riferiamo in particolare ai titoli di solidarietà, un valore mobiliare caratterizzato dal fatto che i fondi raccolti mediante emissione e offerta al pubblico devono essere destinati obbligatoriamente ed esclusivamente al finanziamento di Onlus. Purtroppo questi titoli non hanno ancora risposto alle esigenze di finanziamento del settore non
  • 26. profit, e dovranno essere modificati per facilitarne unʼeffettiva applicazione. In attesa di sviluppi in questa direzione, resta il fatto che non esistono al momento strumenti di debito per Organizzazioni non profit che possano essere collocati e scambiati su un mercato dedicato. Per tornare alle caratteristiche del mercato di borsa sociale e al ruolo dei diversi soggetti coinvolti, occorre sottolineare che borsa sociale è stata pensata come una Multilateral trading facility (Mtf), cioè un mercato non regolamentato istituito ai sensi della direttiva MiFid5 . Lʼespressione «non regolamentato» può trarre in inganno, nel senso che può dare lʼidea di un mercato lasciato a se stesso; in realtà, la disciplina che lo regola è assai rigorosa e completa; lʼassenza di regolamentazione riguarda il fatto che lʼammissione dei titoli e lʼaccesso a tale mercato non sono assoggettati alla vigilanza diretta della Consob, pur dovendo essere conformi ai requisiti minimi da essa stabiliti mediante il proprio regolamento emesso ai sensi dellʼart. 77-bis del Testo unico della Finanza. Una Mtf è, in larga misura, molto simile a un mercato finanziario tradizionale, in cui vengono scambiati titoli emessi da società o stati o altri soggetti autorizzati a farlo. Il modello cui si è pensato per borsa sociale è il risultato di una sintesi di altre due Mtf operanti in Italia, il Mac (Mercato alternativo del capitale) e lʼAim (Alternative Investment Market). Si tratta di due mercati relativamente simili lʼuno allʼaltro (il primo sviluppato autonomamente dagli operatori italiani, il secondo importato a seguito della fusione tra Borsa Italiana e London Stock Exchange, la borsa britannica), entrambi rivolti a piccole e medie imprese. Nessuno dei due, in verità, ha ottenuto particolare successo, il che dovrebbe far sorgere qualche dubbio sullʼopportunità di repliche, ma le ragioni del loro parziale fallimento sono legate ad alcuni fattori che non dovrebbero ripresentarsi nel caso di borsa sociale. In altre parole, non è a causa del modello in sé, ma di altre circostanze che il progetto non ha funzionato del tutto. Borsa sociale, in questo caso, seguendo lʼesempio del Mac, beneficerà del contributo di due distinte entità: una società di gestione e una società di promozione. La prima è lʼeffettiva proprietaria del mercato, la controparte degli emittenti quotati e la responsabile ultima nei confronti delle autorità di vigilanza. La seconda ha il compito di attirare le Ifs e gli investitori verso il mercato, e collabora alla definizione delle regole del mercato, ponendosi come garante politica della 5 La direttiva 2004/39/CE sui mercati degli strumenti finanziari, conosciuta con lʼacronimo inglese MiFid (Market in Financial Instruments Directive), è stata recepita nel nostro ordinamento attraverso il d.lgs. 164 del 17/9/2007, che ha modificato il Testo unico della Finanza, e la successiva normativa secondaria emessa da Consob, la commissione nazionale per le società e la borsa.
  • 27. missione di borsa sociale. La ragione per cui si è pensato a questo sistema è che i requisiti fissati per la società di gestione in termini di capitale, struttura organizzativa, sistemi informativi, infrastrutture e altro sono particolarmente elevati e quindi costosi. Non si giustifica la creazione di una entità ad hoc visto il volume atteso di scambi, anche nellʼipotesi più ottimistica. Per converso, nessuna delle società di gestione attualmente operanti sembra avere la capacità di approcciare un settore così poco conosciuto e dai contorni ancora così incerti come quello delle Ifs. È sembrato perciò efficace affiancare a un soggetto che abbia già la struttura adatta alla gestione di una Mtf, e che sia in grado di svolgere in modo neutrale le funzioni più tecniche, un altro che conosca le peculiarità degli operatori e sia da essi riconosciuto come credibile e affidabile. Il ruolo della società di gestione è in larga misura definito dallʼordinamento e non richiede particolari commenti in questa sede. Più complesso quello della società di promozione, su cui vale la pena spendere qualche parola. La società di promozione Pro-borsa sociale (Pbs) sarà, come abbiamo detto, il garante di fronte al vasto mondo dellʼeconomia civile e alla società in generale della genuinità della proposta politica e del rigore con cui verrà realizzata. Pbs dovrà contribuire incisivamente alla definizione delle regole di quotazione (listing rules), e prevenire comportamenti opportunistici da parte degli emittenti e degli investitori, preservando il capitale di reputazione indispensabile per alimentare la fiducia degli attori coinvolti nel suo funzionamento, indispensabile per la continuità nel tempo dellʼimpresa. Pbs potrà intervenire nel merito della gestione del mercato indirettamente, per esempio accreditando i soggetti specializzati nella valutazione e nellʼaccompagnamento delle Ifs alla quotazione, e quindi verificandone le competenze e la credibilità, stabilendo quali metodologie debbano essere utilizzate allo scopo. Il problema che Pbs dovrà affrontare e risolvere è, dunque, quello delle regole che caratterizzano questo mercato come unico e ontologicamente diverso dai mercati finanziari tradizionali. Per coerenza, Pbs dovrà costituirsi essa stessa come Ifs, ponendosi lʼobiettivo di sostenibilità sia in termini economici (e quindi la generazione di un plusvalore che remuneri lʼinvestimento dei soci), sia sociali, e avrà una compagine societaria rappresentativa dei principali stakeholders: amministrazioni locali (in particolare amministrazioni regionali), fondazioni di origine bancaria, associazioni di imprese, centrali cooperative, banche e altri operatori finanziari. Intorno allʼasse portante costituito dai due soggetti principali, si collocano gli altri attori del mercato, quali i soggetti che svolgono funzioni di accompagnamento e di garanzia. In particolare, ai fini del funzionamento di borsa sociale, servirà lʼintervento di un soggetto specializzato che si faccia garante, di fronte alla comunità degli investitori, della solidità del progetto imprenditoriale, e
  • 28. di un soggetto che accerti la capacità dellʼimpresa candidata alla quotazione di produrre valore sociale in misura sufficiente a considerarla Ifs. La figura cui tendere è quella di un esperto con anche competenze socio-ambientali, quella che in altri contesti è stata chiamata Snomad, cioè social nominated advisor. A oggi esistono pochissimi soggetti che abbiano queste caratteristiche e capacità: da un lato ci sono le agenzie di rating sociale, che tendenzialmente non si esprimono sugli aspetti di natura finanziaria, e dallʼaltro banche, sim e altre organizzazioni simili che, viceversa, sanno poco o nulla di aspetti sociali e ambientali. Sono evidenti i rimandi alle caratteristiche della figura del revisore sociale evocata da A. Propersi in questo stesso volume (cfr. infra) che, sia pure in un contesto diverso e con funzioni differenti, comunque richiama a competenze e professionalità molto simili. In attesa di un progresso della situazione (che, peraltro, non dovrebbe tardare ad arrivare), occorre immaginare due percorsi valutativi indipendenti, e quindi lʼintervento di un soggetto simil-sponsor e di un valutatore sociale. Gli uni e gli altri, in ogni caso, dovranno essere in qualche modo accreditati da Pbs, al fine di assicurare che abbiano tutte le competenze e i requisiti necessari. I soggetti accreditati dovranno garantire la trasparenza informativa nei confronti degli investitori, stimolare lʼattenzione da parte della società al rispetto delle regole derivanti dallʼessere quotata, massimizzandone i benefici, e – più in generale – mantenere la qualità e la reputazione del mercato sociale. 1. La valutazione delle Imprese a finalità sociale In fase di ammissione, unʼimpresa candidata dovrà predisporre un documento che riporti le informazioni utili per gli investitori relative allʼattività della società, agli azionisti, ai dati economico- finanziari, e soprattutto che riporti la valutazione di responsabilità sociale del modello di gestione e di efficacia nella creazione di valore sociale, elementi imprescindibili per qualificare unʼimpresa come Ifs. Ai fini della partecipazione a borsa sociale, e dunque per essere riconosciuta come Impresa a finalità sociale, unʼimpresa verrà infatti valutata attraverso una due diligence, cioè una investigazione sullʼaffidabilità economico-sociale. È questo un punto nodale del progetto. La creazione di borsa sociale non può prescindere da una chiara definizione della tipologia di imprese che possono essere quotate e da una rigorosa valutazione della performance economica e sociale attesa. Se lʼIfs cui si rivolge questo mercato rappresenta un equilibrio virtuoso tra produzione di valore economico e creazione di valore sociale, è necessario garantire allʼinvestitore tutte le informazioni per misurarne lʼefficienza e
  • 29. lʼefficacia con la massima trasparenza. Il tema della valutazione è stato affrontato anche da altri in questo volume (si veda il contributo di I. Colozzi). Nellʼambito del nostro studio di fattibilità, abbiamo a nostra volta impostato un sistema che è sembrato coerente con le esigenze di un mercato borsistico, sia pure sui generis. I criteri per regolamentare lʼaccesso alla borsa sociale sono stati identificati da alcune metodologie di riferimento per la corporate social responsibility. In particolare, il modello di valutazione in questione è articolato su due livelli di analisi: • unʼanalisi del sistema di gestione, che deve essere in grado soddisfare criteri di responsabilità sociale e di efficienza economica; • unʼanalisi della produzione di valore sociale e ambientale, che deve essere coerente con la missione e proporzionato alle risorse impiegate. Il primo livello è assimilabile a unʼaudit, ovvero a unʼanalisi dei sistemi e dei processi interni secondo due chiavi di lettura. La prima è lʼassunzione di responsabilità nei confronti di tutti gli attori interessati allʼattività di impresa (gli stakeholders), la seconda è lʼefficienza economica nella gestione delle attività. Ogni ambito di indagine viene declinato in più criteri, ciascuno dei quali articolato in un set di indicatori. I punteggi attribuiti a ogni indicatore vanno a comporsi allʼinterno di un sistema che produce una media ponderata secondo lʼimportanza dei diversi aspetti ambientali e sociali nei vari ambiti di attività delle Ifs. Il valore finale che si ottiene per ogni ambito è un punteggio da 0 a 100. Allʼinterno di questo range sono state identificate quattro classi di qualità. Il secondo livello di analisi riguarda la produzione di valore sociale, misurato come il cambiamento indotto nel contesto di riferimento. Come unʼimpresa for profit viene valutata per la capacità di generare profitto, così una Ifs viene valutata per il grado di efficacia nel raggiungimento di un certo scopo dichiarato. La valutazione quantitativa degli impatti che lʼimpresa è in grado di generare è necessaria a stimare il social return, il ritorno sociale, che è un rendimento aggiuntivo rispetto al ritorno economico tradizionale. I valori numerici permettono di calcolare degli indici di ritorno sociale dellʼinvestimento e di riformulare il profilo rischio/rendimento su più dimensioni. La metodologia di valutazione della performance sociale si ispira alla teoria del cambiamento, ovvero al modo in cui lʼorganizzazione ha determinato un mutamento nella società. Una Ifs può creare valore in modo efficiente ed efficace se utilizza al meglio i mezzi di produzione (input) e se genera dei risultati (output) che determinano impatti positivi per i beneficiari (diretti) e per il resto della comunità (indiretti). Per misurare lʼefficienza del processo, i risultati vengono valutati in rapporto alle risorse
  • 30. impiegate (tempo, denaro, lavoro, materiali), mediante il calcolo di output/input ratio; per misurare lʼefficacia dellʼattività di impresa, gli impatti diretti e indiretti vengono rapportati agli obiettivi generali. Il criterio guida è la coerenza con la missione intesa come lʼidentificazione di un problema sociale e ambientale cui cercare di porre rimedio mediante lʼapplicazione di strumenti idonei o la produzione di determinati beni e servizi. I mezzi impiegati, i risultati e gli impatti sono espressi da indicatori che vengono misurati e riportati a un valore monetario tramite lʼuso di proxy. A titolo di esempio, una cooperativa sociale che ha come finalità lʼinserimento lavorativo di determinati soggetti, impiega le risorse misurabili in unità di tempo o costi (affitto sale, materiali, ecc.) per svolgere dei corsi di riqualificazione professionale; i risultati sono misurati dal numero di partecipanti ai corsi, mentre gli impatti sono valutati in termini di posti di lavoro creati per i beneficiari. Per ottenere un valore monetario dellʼimpatto che indica il valore totale dei benefici generati, il numero di posti di lavoro viene moltiplicato per il costo unitario del lavoro. Lʼespressione degli indicatori in unità monetarie permette il calcolo di indici di rendimento sociale quali il Social Return on Investment della New Economic Foundation (NEF), espressione del rapporto tra benefici totali e valore dellʼinvestimento. La performance sociale viene misurata dallʼandamento di questi indici nel corso degli anni. I valori calcolati per unʼimpresa vengono confrontati con i valori indice di tutte le altre imprese che operano nel medesimo settore in modo da ottenere unʼindicazione comparata (benchmarking). 4.2. La sostenibilità economica del mercato In termini di sostenibilità economica del mercato e di Pbs, le voci di ricavo e di costo sono rappresentate dalle quote di ammissione (admission fees), dalle quote annuali (annual fees) versate dalla società emittente, e dalle quote annuali di accreditamento dei soggetti che affiancano lʼIfs nel processo di quotazione. I costi attesi sono rappresentati da personale, sede e information technology, comunicazione e marketing. In ordine ai ricavi derivanti dalle admission e dalle annual listing fees, si stima che il numero di Ifs quotate possa arrivare a circa 70 nel giro di sei anni, periodo entro il quale è previsto il punto di pareggio di bilancio. Peraltro, il peso relativo dei costi di quotazione sul valore dellʼoperazione dipende in larga parte dallʼammontare del flottante: qualora lʼIfs decida di mettere sul mercato una quota poco significativa del proprio capitale, lʼincidenza dei costi fissi sarà maggiore e quindi il
  • 31. vantaggio rispetto ad altre forme di finanziamento inferiore. Questo numero di società ammesse appare sufficiente a garantire la copertura dei costi anche del gestore del mercato il quale, come detto, avendo già tutte le infrastrutture materiali e immateriali necessarie, dovrà sostenere solo costi marginali, a parte quelli tecnici e amministrativi connessi allʼattivazione. Non abbiamo immaginato ricavi per il gestore direttamente derivanti dalle negoziazioni, che non si prevede saranno troppo frequenti: lʼinvestimento in Ifs non ha obiettivi speculativi e quindi non si giustificano operazioni intra-day, che durino quindi un giorno soltanto. Lʼaltra fonte di ricavo per Pbs è rappresentata dalla gestione del meccanismo di accreditamento dei soggetti specializzati nella valutazione delle imprese candidate alla quotazione. Anche in questo caso, abbiamo stimato che possano essere interessati a partecipare un numero limitato di operatori (circa venti nellʼarco dei sei anni oggetto di previsione). Naturalmente, esso è fortemente correlato al numero di Ifs quotate e alla quota di mercato che riusciranno ad accaparrarsi e a mantenere i first mover, cioè i pionieri dellʼoperazione. Se il numero di questi soggetti accreditati fosse inferiore alle aspettative e quindi insufficiente a garantire entrate adeguate, potrebbe essere adottato un meccanismo che preveda il pagamento a Pbs di una quota variabile in relazione al numero di attestazioni di conformità rilasciate alle Ifs. 5. Le questioni chiave ancora aperte A questo punto della progettazione restano ancora aperte alcune questioni rilevanti che ne possono condizionare lo sviluppo. La prima concerne la natura giuridica delle imprese candidate a diventare Ifs e i relativi vincoli allʼemissione di titoli (in particolare, di debito) o alla trasferibilità delle quote di capitale. Per le società di capitale, la questione non si pone, poiché non hanno particolari vincoli, se non quello della scala dimensionale, che possano limitare il loro accesso al mercato dei capitali. Molto diverso è il discorso per i soggetti del mondo non profit, a partire dalle cooperative fino ad arrivare alle Onlus. In questi casi esistono limitazioni di ordine giuridico e culturale che dovranno essere superate, sia con interventi normativi che con attività di informazione e formazione. La figura giuridica dellʼimpresa sociale non fornisce, allo stato attuale, un riferimento utile a costruire un quadro unitario entro il quale ricondurre le diverse fattispecie di imprese che svolgono attività a forte valenza sociale. In particolare, per le imprese che si qualificano come «imprese sociali» vige il divieto assoluto alla distribuzione degli utili che rappresenta un vincolo alla
  • 32. partecipazione al mercato di capitale poiché tende ad azzerare il valore economico dellʼazione detenuta da un possibile investitore (il prezzo di unʼazione riflette il valore scontato dei profitti attesi). Questo non sarebbe un problema se il mercato fosse solo di tipo primario, poiché lʼesistenza di investitori istituzionali potrebbe garantire lʼacquisto delle azioni di Ifs anche se esse non garantiscono un utile atteso. Tuttavia, nel caso di un mercato anche secondario, ovvero dove è possibile rivendere le azioni, il prezzo rifletterà le aspettative sugli utili e dunque il rischio è lʼazzeramento del loro valore. In queste condizioni lʼexit strategy per lʼinvestitore istituzionale sarebbe molto complicata, e il mercato risulterebbe del tutto illiquido. Lʼesistenza di un mercato secondario crea dunque un vincolo (poiché presuppone che le azioni offrano un dividendo) ma offre anche maggiori opportunità per migliorare il funzionamento del mercato. Lʼapertura agli investitori retail aumenta la possibilità di rivendere le azioni e offre ai risparmiatori lʼoccasione di partecipare indirettamente allʼattività di imprese che hanno un forte impatto sociale. Non è da escludere che possano esserci risparmiatori che, in ragione della dimensione etica dellʼinvestimento, siano disposti a rinunciare in parte alla remunerazione del capitale investito. Collegata alla scelta sul tipo di mercato è la questione della dimensione dei soggetti partecipanti. Non cʼè dubbio che borsa sociale, per come è stata progettata, possa rappresentare unʼopportunità solo per soggetti che realizzino un giro dʼaffari di alcuni milioni di euro. Per quelli che rimangono al di sotto della soglia, il problema delle fonti di finanziamento rimane intatto. A questo limite è collegata la necessità di pensare ad altri strumenti finanziari che possano soddisfare la domanda di capitali di Ifs che, per una ragione o per lʼaltra, non possano accedere alla borsa. In particolare, occorre lavorare alla creazione di veicoli di private equity e di venture capital sociale. In ogni caso, e qui veniamo alla questione più importante per il funzionamento di borsa sociale, molto dipenderà dal modello di pricing. Se questo rispecchierà lʼapproccio tradizionale che definisce il prezzo dellʼazione solo in ragione del profilo di ricavi attesi, i problemi di cui sopra non troveranno facile soluzione. Se, invece, sarà possibile definire e adottare un modello di pricing innovativo che quantifichi il valore sociale generato, allora il prezzo delle azioni di Ifs rispecchierà il valore atteso dei ricavi ma anche il valore dei benefici sociali e ambientali che lʼimpresa sarà in grado di produrre. Un corollario del prezzo è rappresentato dal rischio, forse solo teorico, che delle Ifs possano in realtà rivelarsi molto profittevoli (per esempio per aver trovato una soluzione particolarmente efficace a un bisogno sociale diffuso). In questa situazione, alcuni ritengono che comunque la
  • 33. distribuzione di utili debba essere limitata. Esistono solidi argomenti sia a favore che contro lʼidea del tetto, che vanno ulteriormente investigati. 6. Implicazioni di «policy» e proposte La creazione di borsa sociale non richiede, di per sé, alcun intervento di tipo normativo. Il mercato, infatti, può essere attivato allʼinterno del quadro regolamentare esistente. Lʼidentificazione delle imprese che possono parteciparvi si basa su una definizione delle loro caratteristiche che viene assunta dalle stesse in sede di autoregolazione (statuto), e verificata dal gestore del mercato nellʼambito di un rapporto privatistico. È lecito chiedersi se un intervento del regolatore pubblico, ancorché non necessario, sia opportuno. A nostro avviso, è più utile che si lasci il tempo al mercato di elaborare le proprie regole e di sperimentare i propri modelli in autonomia. Una eventuale disciplina pubblica potrebbe, in fase iniziale, inibire lo sviluppo di iniziative creative di innovazione sociale, ingessandole prima che abbiano trovato una forma stabile. Dopo un certo periodo di tempo, invece, una volta definito un assetto in cui gli operatori si riconoscano e stigmatizzati i rischi di comportamenti opportunistici, una normativa che dia maggior certezza al quadro venutosi a creare offrirebbe a tutti maggiori garanzie. Non vʼè dubbio, tuttavia, che, qualora dovesse maturare in tempi brevi lʼipotesi di una riforma complessiva del settore, anche attraverso un riscrittura del Libro I del Codice civile, potrebbe aver senso un intervento organico volto a disciplinare le varie espressioni di impresa sociale che vengono esercitate o di cui si dibatte, tra cui lʼIfs. In particolare, una riforma di alto profilo dovrebbe affermare la possibilità di utilizzare lʼistituto delle società di capitali anche per finalità diverse dal lucro degli azionisti. Un intervento che, per quanto di natura molto tecnica e puntuale, potrebbe fare la differenza in termini di successo della borsa sociale, è la modifica dellʼinterpretazione dellʼAgenzia delle Entrate, contenuta nella circolare 59/E del 31/10/2007, in base alla quale le Onlus non possono possedere quote di controllo in società di capitali. Si tratta di una imposizione di discutibile base giuridica (non si trova accenno alla questione nel d.lgs. 460/97 sulla disciplina fiscale degli enti non commerciali, che ha istituito le Onlus), fondata sul timore di possibili evasioni fiscali. La norma è coerente con lʼimpostazione che abbiamo criticato in premessa, secondo cui i mondi for profit e non profit devono rimanere chiaramente separati tra loro, anche attraverso la diversificazione delle forme giuridiche degli enti mediante cui si realizza lʼattività. In verità, la natura dellʼattività e la proprietà
  • 34. del soggetto che la esercita sono questioni distinte. La natura non lucrativa di unʼorganizzazione non implica necessariamente il rifiuto dello strumento della società commerciale, per perseguire lʼobiettivo dellʼutilità sociale. È certamente sensato evitare il rischio che una Onlus diventi una holding finanziaria; ma non si comprende perché una fondazione Onlus che persegua fini di protezione per lʼambiente, per esempio, non possa gestire unʼarea protetta attraverso una società controllata per intero o in maggioranza, se questa forma risulta più efficace. Un altro dei possibili percorsi a disposizione è una profonda revisione della legge sullʼimpresa sociale. Un intervento del genere potrebbe sembrare prematuro, dato che il decreto legislativo 155/2006 è in vigore da poco più di quattro anni, ma i risultati prodotti sinora lasciano prefigurare un elevato rischio di fallimento: il numero di imprese sociali registrate è, a oggi, ridicolmente basso, cosa che legittima a ritenere che lʼimpostazione adottata non risponda alle aspettative e alle esigenze degli operatori. Unʼimpostazione diversa richiederebbe peraltro una legge ordinaria, essendo il decreto n.155 emesso in forza di legge delega (la 188/2005), che ha fissato i principi e i criteri direttivi. Lʼutilità di un percorso tanto complesso si giustificherebbe con lʼobiettivo di evitare fraintendimenti tra le definizioni di impresa sociale ai sensi del d.lgs. 155/06 e Impresa a finalità sociale, «inventata» per la borsa sociale. A ogni buon conto, per aumentare la domanda potenziale di imprese quotabili, sarebbe auspicabile la sostituzione del divieto assoluto di distribuzione degli utili per le imprese sociali con un sistema che sia in grado di limitarla. Lʼimposizione di un tetto alla distribuzione dellʼutile, come previsto per le cooperative sociali, permetterebbe di non stravolgere la ratio dellʼimpresa sociale, cioè la conservazione di eventuali plusvalori allʼinterno del circuito aziendale, e di fornire allo stesso tempo lʼincentivo di una remunerazione economica oltre che sociale. Un tema che periodicamente riemerge è quello della disciplina fiscale. Nel caso di specie, potrebbe aver senso riflettere su una norma che riconosca dei vantaggi sia alle Imprese a finalità sociale sia agli investitori che si avvicinano al mercato. Una qualche forma di beneficio potrebbe rappresentare lo stimolo per vincere lʼinerzia iniziale e creare le condizioni per il superamento delle fasi di sviluppo di borsa sociale. Una volta tagliati i primi traguardi e raggiunta una condizione di stabilità, incentivi o premi risulterebbero meno giustificabili e peraltro meno necessari.